I segni del tempo: teorie e storie della Terra
La fase storica che va dalla ricezione della scienza newtoniana al diffondersi del pensiero illuminista nel corso del Settecento e poi, nel secolo successivo, dall’assimilazione del positivismo al costituirsi di una comunità scientifica nazionale ha visto l’affermazione di novità radicali nella concezione del dinamismo terrestre, della storicità della natura e del posto che le società umane hanno occupato in essa. Le controversie innescate dalla pubblicazione, nel 1859, di On the origin of species di Charles R. Darwin possono essere considerate l’approdo inevitabile di tale processo e, per il nostro Paese, ne confermano il carattere di rivolgimento profondo e contrastato. Ne daremo un resoconto in quattro fasi, secondo una periodizzazione che tiene conto di importanti cesure della storia politica e nel contempo si adatta al ritmo delle trasformazioni interne alle scienze. Per ciascuna fase si tenterà di delineare gli apporti più significativi forniti da gruppi di ricercatori attivi in Italia seguendo il dispiegarsi delle principali tradizioni scientifiche regionali ed evidenziando i rapporti di collaborazione esistenti sia tra di esse, sia con gli studiosi di altri Paesi.
Prima, però, di avviare la ricostruzione di tali vicende appare indispensabile una riflessione sui campi disciplinari che hanno avuto come oggetto i fenomeni della dinamica terrestre e la storia fisica del pianeta. Fino alla fine del 18° sec., infatti, non è esistita alcuna disciplina unitaria corrispondente a ciò che nei primi due decenni dell’Ottocento iniziò a chiamarsi geologia. Benché il termine sia stato impiegato consapevolmente da Ulisse Aldrovandi fin dal 1603, per secoli lo studio dei fenomeni della crosta terrestre è stato di pertinenza di discipline distinte quali la mineralogia, la geografia fisica e la meteorologia, discipline che costituivano altrettante articolazioni interne della storia naturale e della filosofia naturale. Inoltre, fin dal Rinascimento le trasformazioni subite dalla superficie terrestre, dalla creazione allo stato attuale, erano state oggetto di studio anche da parte di discipline storico-erudite come la storia sacra, la storia profana e la cronologia. Un ulteriore, rilevante apporto conoscitivo era costituito dal sapere elaborato da minatori, metallurghi e ingegneri minerari.
Durante gli ultimi decenni del Settecento, attraverso una complessa interazione fra queste quattro componenti – storico-naturale, fisico-meccanica, storico-erudita e pratico-applicativa – cui si aggiunse una profonda trasformazione della sensibilità estetica nei confronti del paesaggio, iniziò a costituirsi un ambito disciplinare unitario che ebbe come obiettivo quello di dare un’interpretazione coerente delle strutture e dei fenomeni della crosta terrestre. Tale processo, che portò alla nascita di una scienza geologica autonoma anche sul piano istituzionale, giunse a compimento intorno agli anni Venti dell’Ottocento. All’interno di essa, le indagini dei ricercatori si orientarono verso due obiettivi distinti ma interdipendenti: da un lato, la ricerca di spiegazioni geodinamiche dell’attuale funzionamento della ‘macchina della Terra’, dall’altro, la formulazione di narrazioni geostoriche, ossia di ricostruzioni dettagliate dei mutamenti geomorfologici avvenuti nel più remoto passato, sulla base di testimonianze affidabili – rocce, fossili, manufatti – interpretate con metodi appropriati. Questo intrinseco carattere storico dell’indagine geologica spiega la persistenza di un dialogo con le scienze storiche propriamente dette anche in un periodo come l’Ottocento, caratterizzato da una crescente specializzazione dei saperi.
Nella prima metà del secolo si realizzò nella penisola l’assimilazione dei principali contenuti teorici e metodologici del pensiero di Isaac Newton. Ciò non poteva avvenire senza un laborioso confronto sia con le tradizioni scientifiche preesistenti (quelle rinascimentale, baconiana e galileiana), sia con i sistemi di René Descartes, Pierre Gassendi e Gottfried Wilhelm von Leibniz. La tradizione galileiana, in particolare, costituiva un’eredità difficile «non solo per la valenza ideologico-culturale che essa aveva assunto nell’intricato rapporto tra intellettuali e potere ecclesiastico, ma soprattutto per le diverse interpretazioni metodologiche, tutte in varia misura rifacentesi al prestigioso nome di Galileo» (Ferrone 1982, p. 129).
Senza ombra di dubbio, per le scienze della Terra fu fondamentale il contributo dell’anatomista e geopaleontologo danese Nicola Stenone (Niels Stenseen, 1638-1686), uno dei protagonisti dell’Accademia del Cimento. Oltre a fornire elementi decisivi per la soluzione del problema dell’origine dei fossili, Stenone ha avuto il merito di formulare alcuni principi basilari dell’inferenza in geologia nel De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669), un’opera che per densità teorica ha pochi eguali nella storia del pensiero scientifico.
All’esperienza del Cimento è legata anche la figura del napoletano Giovanni Alfonso Borelli, allievo di Benedetto Castelli e galileiano tra i più coerenti, il cui contributo alle scienze della Terra, benché non comparabile con quello di Stenone, conobbe una significativa risonanza internazionale. Lasciata Firenze nel 1667 e passato per Napoli dove entrò in contatto con l’Accademia degli Investiganti, Borelli si stabilì infine a Messina dove rimase fino al 1674. Il risultato più rilevante della sua permanenza in Sicilia è costituito dall’indagine condotta sull’eruzione dell’Etna del 1669 da cui derivò l’Historia et meteorologia incendii Aetnaei (1670). In tale opera egli applica modelli meccanici, tratti dalla balistica e dall’idrodinamica, per spiegare il fenomeno delle eruzioni esplosive e il moto delle correnti laviche.
Ulteriore espressione della vivacità dell’ambiente scientifico messinese è la figura del pittore e naturalista Agostino Scilla (1629-1700). La sua opera più importante, La vana speculazione disingannata dal senso (1670), contiene una conferma dell’ipotesi stenoniana dell’origine organica dei fossili marini e una discussione dei processi di fossilizzazione in cui prevale un’impostazione empiristica e critica.
Il secondo ambito regionale in cui la lezione galileiana poté radicarsi è quello emiliano, in particolare Modena e Bologna. Una figura chiave è quella del modenese Geminiano Montanari (1633-1687) che fu docente di matematiche a Bologna dal 1664 fino al 1678, anno in cui si trasferì a Padova. Il suo insegnamento costituì, accanto alla scuola medico-biologica di Marcello Malpighi, la seconda grande scuola scientifica bolognese dell’epoca. Alla tradizione emiliana si ricollegano direttamente le indagini idrogeologiche di Bernardino Ramazzini (1633-1714) culminate nella pubblicazione del De fontium mutinensium admiranda scaturigine (1691) in cui si studiano le falde acquifere della pianura padana. Il trattato di Ramazzini, tradotto a Londra nel 1697, rivela non soltanto una conoscenza approfondita del dibattito cinque-seicentesco sulle teorie della Terra, ma anche la consapevolezza dell’importanza di un’indagine fisica sulla struttura e sulle funzioni del ‘corpo’ della Terra, in analogia con le ricerche anatomiche di Domenico Guglielmini e di altri esponenti della tradizione iatromeccanica.
Prima di riprendere il filo dei due principali approdi settecenteschi del galileismo – Bologna e Padova – si deve menzionare l’interesse per i fenomeni del mondo sotterraneo presente negli ambienti scientifici napoletani e romani. Nella capitale del Regno meridionale si era costituita, per iniziativa del medico e filosofo naturale Tommaso Cornelio (1614-1684), l’Accademia degli Investiganti. Proprio la predilezione degli Investiganti per un approccio empirico e qualitativo ne orientò lo studio verso alcuni fenomeni peculiari dell’area campana e flegrea. Studiosi come Leonardo di Capua si dedicarono allo studio delle esalazioni vulcaniche chiamate mofete sviluppando una chimica attenta alle nuove idee corpuscolariste di Robert Boyle.
Quanto alla Roma di fine secolo, non si può trascurare il fatto che presso il Collegio romano aveva operato a lungo il grande erudito e scienziato gesuita Athanasius Kircher (1602-1680), autore di quel Mundus subterraneus (1665) che va considerato il testo più influente nell’ambito delle scienze della Terra apparso tra i Principia di Descartes e il Prodromus di Stenone. Ma la realtà romana di fine secolo fu ricca di fermenti e di novità. Il grande antiquario e astronomo Francesco Bianchini (1662-1729), allievo di Montanari a Padova ed esponente dell’Accademia fisico-matematica di Giovanni Giustino Ciampini, nel suo capolavoro di erudizione storica La istoria universale provata con monumenti e figurata coi simboli degli antichi (1697) cercò di datare con precisione il Diluvio biblico studiando l’alternanza di colate laviche e strati sedimentari visibile nella stratigrafia vesuviana. Si ricordi infine la pubblicazione, avvenuta nel 1717 a cura di Giovanni Maria Lancisi e Pietro Assalti, della Metallotheca di Michele Mercati (1541-1593), archiatra pontificio e grande collezionista di lapides.
Nel primo Settecento, la lezione di Montanari e Ramazzini ci riporta innanzitutto a Bologna. Il rinnovamento della cultura scientifica bolognese raggiunse l’apice nel 1714 con l’inaugurazione dell’Istituto delle scienze, l’organismo scientifico di maggior prestigio del Settecento italiano. All’Istituto fecero riferimento studiosi come Iacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766), Giuseppe Monti (1682-1752) e l’erudito riminese Giovanni Bianchi (1693-1775). Gli studi di costoro sulle microfaune fossili degli Appennini raggiunsero livelli di assoluto valore, pur rimanendo legati a un quadro teorico favorevole all’idea di un diluvio generale. Lo studioso bolognese che conseguì maggiore notorietà in Europa fu Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), autore di un’opera fondamentale per il progresso dell’oceanografia, l’Histoire physique de la mer (1725), e di un influente trattato geografico-fisico intitolato Danubius pannonicus mysicus (1726). Le indagini di storia naturale del mare, dei laghi e dei fiumi che furono intraprese da Marsili devono essere inserite in un più ampio e innovativo progetto di studio mirante alla realizzazione di un trattato sulla ‘organica struttura’ della Terra.
La seconda direttrice della disseminazione settecentesca del galileismo è costituita da quanti, come Montanari e Guglielmini, giunsero all’insegnamento universitario nello Studio di Padova. La figura centrale a tale proposito è quella di Antonio Vallisneri, allievo diretto di Malpighi a Bologna dal 1682 al 1685. Ben prima di ottenere la docenza a Padova, Vallisneri era approdato a un quadro di riferimento meccanicistico e corpuscolarista temperato da un solido induttivismo e da una cultura antidogmatica fondata sulla consapevolezza dei limiti del sapere del suo tempo. La successiva, lunga permanenza nella Repubblica lo portò ad avvicinarsi al finalismo di Leibniz, ma ciò che appare peculiare della sua fisionomia di studioso è la costante rivendicazione della libertas philosophandi contro ogni dogmatismo e autoritarismo culturale (Generali 2007). Glielo consentiva, tra l’altro, un tessuto di fonti e di relazioni straordinariamente ricco, come dimostrano i suoi rapporti con Antonio Magliabechi, Benedetto Bacchini e il massimo allievo di questi Ludovico Antonio Muratori.
Chiamato alla cattedra di medicina pratica dell’Università di Padova nell’agosto del 1700, Vallisneri senior diventò ben presto una figura chiave per le scienze della Terra, non meno che per la cultura medico-naturalistica. Egli fu autore di due classici della geologia e della paleontologia il cui contenuto ebbe ampia circolazione europea. Nella Lezione accademica intorno all’origine delle fontane (1715, 17262) argomentò a favore dell’origine meteorica delle sorgenti, confutando l’ipotesi cartesiana che esse provengano dal mare e che le montagne agiscano da filtri desalinizzatori.
Nel De’ corpi marini, che su’ monti si trovano (1721, 17282) si preoccupò soprattutto di demolire le ipotesi tradizionali sull’origine dei fossili; in primo luogo, l’ipotesi che i «semi» degli animali marini siano trasportati dal mare alle montagne per mezzo di vapori sotterranei, si sviluppino e muoiano nel sottosuolo per poi essere pietrificati in situ. In secondo luogo, demolì l’idea che all’interno delle rocce esistessero delle «virtù plastiche» in grado di generare spontaneamente oggetti simili ai viventi. Se, dunque, gli oggetti fossili erano i resti litificati di organismi vissuti in passato era necessario spiegarne i processi di formazione. A tal proposito Vallisneri espresse posizioni nettamente avverse alle teorie diluvialiste e catastrofiste di Thomas Burnet (1681) e di John Woodward (1695) sostenendo che una serie di inondazioni parziali del tutto simili a quelle odierne, accompagnate dal recesso dei mari, erano sufficienti a spiegare il fenomeno. Sull’enorme estensione temporale necessaria al compiersi di tali processi, egli rimase comprensibilmente prudente. In questo atteggiamento, osservativo e sperimentale, è forse possibile cogliere il suo contributo più duraturo: era il metodo ‘linceo’ – «filosofare con gli occhi e con la mano» – che si riassume nella pratica dell’‘autopsia’ realizzata mediante il ricorso sistematico al viaggio scientifico e alle collezioni. Tuttavia, grazie a una vastissima e qualificata rete epistolare le sue posizioni più franche in materia di fisica terrestre poterono circolare anche fuori dall’Italia.
Di quest’ampia rete di contatti facevano parte esponenti di prestigio del contesto culturale veronese come Scipione Maffei (1675-1755), erudito, letterato e collezionista di fama europea. L’amicizia sorta tra i due fin dal 1707 diede un forte impulso agli interessi di Maffei per la filosofia naturale. In quest’ambito, tuttavia, gli studi di Maffei si fecero più continui dopo il 1736 in virtù della collaborazione con Jean-François Séguier (1703-1784), il botanico e antiquario di Nîmes al quale, tra l’altro, si attribuisce il merito di aver avviato agli studi naturalistici i fratelli Giovanni e Pietro Arduino.
La cultura scientifica veronese poteva vantare una cospicua tradizione nell’ambito delle scienze della Terra. Dall’ipotesi antidiluvialista di Girolamo Fracastoro messa in circolazione da Saraina nel 1540, al dialogo di Valerio Faenzi sulle teorie orogenetiche antiche e rinascimentali apparso nel 1561, l’interesse per le implicazioni filosofiche del fenomeno dei ‘petrefatti’, in particolare quelli del giacimento di Bolca, si era trasmesso a letterati veronesi come Ottavio Alecchi e il già citato Bianchini. L’ambiente veronese dei primi decenni del Settecento è ricco di figure minori, come Giovanni Giacomo Spada, Girolamo Fantasti e Gregorio Piccoli, in grado non solo di dar vita a un fenomeno collezionistico di grande rilievo, ma anche di discutere le posizioni di Burnet, Louis Bourguet, Johann Jacob Scheuchzer e John Woodward in merito al Diluvio universale.
Dalle pagine del trattato Della formazione dei fulmini (1747) di Maffei venne un sostanziale appoggio alle ipotesi geologiche del sacerdote friulano Anton Lazzaro Moro (1687-1764), autore di una delle più originali teorie della Terra apparse in Europa nella prima metà del Settecento. Pubblicato a Venezia nel 1740 e tradotto in tedesco nel 1751 e nel 1765, il De’ crostacei e degli altri marini corpi che si trovano su’ monti è la conferma dell’avvenuta ricezione delle tesi metodologiche di Newton. A tale proposito occorre ricordare che i problemi derivanti dal copernicanesimo implicito nel sistema del mondo dello scienziato britannico furono superati solo dopo la salita al soglio pontificio di Benedetto XIV (1740). Per gli studiosi dei fenomeni geomorfologici questo, da un lato, significò una sostanziale conferma di alcune acquisizioni galileiane: il copernicanesimo, il metodo sperimentale, una teoria corpuscolare della materia. Dall’altro, avviò il confronto con alcuni aspetti del newtonianesimo: la concezione finalistica del cosmo, il nesso tra fisica e teologia, una cronologia del mondo ridotta a poche migliaia di anni. In tal senso, il De’ crostacei di Moro è anche la dimostrazione della persistente autorevolezza di Vallisneri, ben visibile nel rifiuto delle tesi diluvialiste e nella consapevolezza di dover abbandonare i tempi brevi della cronologia tradizionale che Newton – al pari di Stenone, Robert Hooke, Bianchini e Giambattista Vico – aveva difeso.
Nel De’ crostacei, Moro propose un meccanismo in grado di spiegare il fenomeno della genesi dei monti e la presenza, al loro interno, di spoglie fossilizzate degli antichi organismi. L’orogenesi passiva proposta da Descartes (collasso della crosta superficiale) e più ancora da Stenone (erosione delle valli) non lo soddisfaceva. A suo giudizio, la recente emersione di isole vulcaniche nell’Egeo era un indizio convincente del ruolo fondamentale svolto dalle forze sotterranee nell’edificazione non soltanto dei «monti ignivomi», ma di tutte le catene montuose. Su questa base egli formulò l’ipotesi secondo la quale a una spinta verso l’alto esercitata dal nucleo incandescente della Terra, tale da innalzare i monti al di sopra del livello originario, corrisponde, nel punto opposto della crosta, una depressione che genera un bacino in cui le acque si accumulano raggiungendo profondità assai maggiori di quelle originarie.
Sul piano geodinamico, la novità più importante era la tesi della flessibilità verticale della crosta, ma pochi diedero risalto a questo aspetto. Piuttosto, l’antidiluvialismo di Moro suscitò accese reazioni poiché «attorno al Diluvio giostravano le residue possibilità di continuare ad opporre la lettera della Scrittura all’avanzata del pensiero critico» (Dal Prete 2008, p. 276). L’avvocato e polemista veneziano Giuseppe Antonio Costantini espresse il proprio fermo rifiuto pubblicando La verità del diluvio universale (1747) in cui ribadì il canone cronologico e diluvialista ortodosso confermato da Bianchini nel 1697. Nel 1749, invece, il carmelitano lombardo Giuseppe Cirillo Generelli discusse favorevolmente le tesi di Moro. In generale, gli studiosi più competenti manifestarono perplessità sullo scarso peso attribuito da Moro ai fenomeni di sedimentazione e dunque evitarono di esprimere un convinto sostegno al suo sistema.
Il trattato di Moro non era il sorprendente exploit di un naturalista isolato. La continuità della tradizione inaugurata da Vallisneri senior era stata assicurata dal figlio Antonio il quale era riuscito nel 1734 a imporre la propria persona ai Riformatori dello Studio patavino come successore del padre. L’operazione fu resa possibile dalla cessione della prestigiosa collezione naturalistica del genitore che andò a costituire il nucleo originario del Museo pubblico di storia naturale. In tal modo, pur non possedendo una statura scientifica comparabile a quella del suo predecessore, egli diventò il punto di riferimento di alcuni giovani naturalisti destinati a carriere accademiche di prestigio. Il medico padovano Vitaliano Donati (1717-1762), assistente di Giovanni Poleni e autore di un’opera tradotta in tedesco e in francese intitolata Della storia naturale marina dell’Adriatico (1750), diventò nel 1751 professore di botanica dell’Università di Torino. Nel circolo vallisneriano si formò anche Domenico Vandelli (1735-1816), il quale sarà chiamato nel 1764 all’Università di Lisbona. Infine, anche il giovane Lazzaro Spallanzani frequentò Vallisneri junior prima di diventare professore di storia naturale a Pavia nel 1769.
L’esponente della tradizione veneta che maggiormente contribuì all’avanzamento delle scienze della Terra è il veronese Giovanni Arduino, la cui formazione scientifica ebbe una forte impronta pratica e tecnologica. Negli anni Trenta e Quaranta apprese i fondamenti del mestiere di tecnico minerario frequentando le miniere di Chiusa (Bressanone). Fin dalla giovinezza, tuttavia, egli intese inserire le sue conoscenze in un quadro conoscitivo alimentato dai classici della mineralogia nordeuropea, ma anche dai dibattiti suscitati dalle teorie della Terra. A rafforzare le sue competenze giovò senz’altro la parentesi toscana che lo vide impegnato, dal 1753 al 1757, nell’area senese di Montieri. Ciò fornì l’occasione per avviare una proficua relazione con il «Plinio toscano», il fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783), autore di un’opera in sei volumi, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana (6 voll., 1751-1754) in cui si riportavano i risultati di prolungate esplorazioni della morfologia regionale.
Targioni Tozzetti era il punto di arrivo di una tradizione cui è opportuno accennare brevemente. Nelle pratiche di indagine sul campo egli era stato preceduto dal botanico e naturalista Pier Antonio Micheli (1679-1737), esponente di una comunità scientifica da cui, nel 1713, era sorta la Società botanica fiorentina, un sodalizio che si ispirava all’insegnamento di Francesco Redi e all’Accademia del Cimento. Il filo rosso di quella tradizione venne rafforzato nel 1753 con la fondazione, a Firenze, dell’Accademia dei Georgofili. Non si dimentichi, poi, che gli studiosi toscani furono entusiasti promotori dello studio delle antichità etrusche. Dopo la pubblicazione del De Etruria regali di Thomas Dempster (1726), a cura di Filippo Buonarroti, si costituirono a Cortona l’Accademia etrusca (1727) e, a Firenze, l’Accademia colombaria (1735). La scoperta dell’Italia preromana offrì un contributo fondamentale alla cultura storico-antiquaria europea e innescò una moda, l’etruscheria, che, data la natura prevalentemente non linguistica dei reperti, ebbe il merito di diffondere metodi autoptici e forme di rappresentazione visiva del tutto simili a quelli impiegati nella storia naturale.
Certo, per la formazione intellettuale di Arduino fu più direttamente rilevante il suo rapporto con l’Accademia dei Fisiocritici di Siena. Fin dagli anni Cinquanta, Arduino entrò in contatto con alcuni suoi esponenti come Giuseppe Baldassarri (1705-1785), e a essa egli stesso fu ascritto nel 1760. I rapporti con gli studiosi senesi e fiorentini, oltre a rafforzare alcune sue convinzioni sull’importanza dei ‘fuochi’ vulcanici per la trasformazione della morfologia, lo indirizzarono verso un’integrazione fra la metodologia chimico- mineralogica appresa in Tirolo e l’approccio stratigrafico stenoniano. Gli esiti di tale maturazione si conobbero con la pubblicazione, nel 1760, delle Due lettere sopra varie sue osservazioni naturali indirizzate a Vallisneri in cui Arduino avanzò la celebre classificazione delle montagne in quattro «ordini generali», teoria che ebbe ampia circolazione europea soprattutto grazie a una traduzione tedesca apparsa nel 1778. Secondo il geologo veronese, i monti si distinguono per collocazione e antichità di formazione (le masse dei più antichi sono generalmente più profonde), per composizione litologica e coesione delle masse (i più antichi sono cristallini e più compatti), per contenuto paleontologico (i fossili compaiono nei monti secondari). Quanto alle modalità di formazione degli strati, Arduino propendeva per una spiegazione in termini di sedimentazione ordinaria, mostrando però un’inedita consapevolezza dell’efficacia dell’agente igneo nel modificarne la regolarità (Vaccari 1993). Ciò si ricollega, nell’opera di Arduino, a significativi riferimenti al pensiero di Leibniz, le cui posizioni metafisiche ben si adattavano alle esigenze di un’indagine razionale ma ortodossa sulla genesi della Terra. Esse, infatti, offrivano una valida alternativa sia alle implicazioni epicuree del meccanicismo cartesiano, sia alle posizioni creazioniste di Boyle e di Newton in materia di formazione del mondo (Rossi 1979).
La predilezione per l’osservazione diretta dei fenomeni, associata alla diffidenza nei confronti dei sistemi del mondo erano, almeno in parte, una reazione al proliferare di ipotesi tanto ingegnose quanto premature. Intorno alla metà del secolo, infatti, gli studiosi avevano dovuto misurarsi con almeno tre autorevoli pronunciamenti in merito alla genesi del pianeta. Nel 1748 era apparso il Telliamed di Benoît de Maillet in cui si affacciavano ipotesi eternaliste e libertine di straordinaria suggestione. Nel 1749 aveva visto la luce la versione integrale della Protogaea di Leibniz in cui si riproponeva, in una prospettiva finalistica, il modello genetico cartesiano basato sul progressivo raffreddamento di un corpo stellare. Infine, sempre nel 1749 aveva visto la luce l’influente Histoire et théorie de la Terre di George-Louis Leclerc conte di Buffon in cui il grande naturalista parigino, dopo aver esaminato tutte le principali ipotesi geogoniche apparse dal Rinascimento in poi, vi aveva avanzato una propria teoria della Terra non meno problematica delle precedenti. A questo si aggiunga che tra la fine degli anni Quaranta e i primi Sessanta stava prendendo forma una nuova science de l’homme, l’antropologia fisica, che, associata all’etnologia, poneva le basi metodologiche di una considerazione naturalistica dell’uomo. La nuova disciplina si riprometteva di esplorare i complessi rapporti tra il mondo morale dell’uomo, la sua corporeità e le influenze esterne provenienti dal clima, dall’alimentazione, dall’educazione. In questo ambito, le opere di Étienne Bonnot de Condillac, Buffon e Johann Friedrich Blumenbach, ma anche il metodo tassonomico di Linneo, propugnavano, pur tra oscillazioni e ripensamenti, una visione della specie umana tendenzialmente assimilata alle specie animali.
Nel contesto veneto degli anni Sessanta, queste e altre sollecitazioni furono prontamente raccolte da un vivace gruppo di studiosi che ruotavano attorno ad Arduino e avevano rapporti con l’università tramite Vallisneri junior, Melchiorre Cesarotti e altri docenti di orientamento favorevole ai ‘moderni’. Anche a seguito della costituzione di accademie di agricoltura presso i principali centri della terraferma veneta, la storia naturale conobbe una straordinaria fioritura coinvolgendo un’intellettualità socialmente eterogenea, composta di dilettanti laici e religiosi. Tra di essi, si segnalò l’abate Alberto Fortis, le cui prime memorie scientifiche apparse nel «Giornale d’Italia spettante alla scienza naturale» svilupparono alcune intuizioni di Arduino soprattutto in relazione al ruolo costruttivo degli agenti vulcanici. Egli, tuttavia, non negava l’importanza dell’azione delle acque sia nel sedimentare gli strati, che nell’erodere le piattaforme emerse. Al pari di Arduino, Fortis considerava il fuoco e l’acqua in egual misura responsabili di un’incessante trasformazione che assomiglia molto al ciclo idrogeologico modernamente inteso.
L’intensa attività di esplorazione e di riflessione condotta da questo gruppo si tradusse in importanti contributi teorici. Arduino pubblicò il Saggio fisico-mineralogico di lythogonia e orognosia (1774) e la non meno apprezzata Raccolta di memorie chimico-mineralogiche (1775). La nomina del naturalista e antiquario John Strange (1732-1799) ad ambasciatore britannico presso la Repubblica di Venezia (1773) costituì un ulteriore fattore di rafforzamento degli studi intrapresi dal gruppo che faceva capo ad Arduino e Vallisneri. Tipico rappresentante di una tradizione in cui topografia, antichità civili e antichità naturali erano parte di un’unica impresa conoscitiva, Strange si avvalse del sostegno di grandi aristocratici come John Stuart, conte di Bute, e Frederick Augustus Hervey, conte di Bristol, per finanziare indagini sistematiche sui basalti colonnari presenti nelle Prealpi venete. Ne scaturirono due monografie, il De’ monti colonnari (1778) dello stesso Strange e la memoria Della valle vulcanico-marina di Roncà (1778) di Fortis, che ebbero ampia circolazione internazionale.
Il rilievo assunto dalle discussioni sulla natura e il significato dei vulcani estinti rinvia necessariamente all’ambito napoletano. Se si fa eccezione per le testimonianze relative alla formazione improvvisa del Monte Nuovo (1538), per gli accenni contenuti nella Historia naturale (1599) di Ferrante Imperato e le centinaia di scritti occasionali suscitati dall’eruzione del Vesuvio del 1631, un salto qualitativo degli studi si verificò per merito di esponenti dell’Accademia degli Investiganti. Tra di essi, oltre a Leonardo di Capua, autore delle Lezioni intorno alla natura delle mofete (1683), si ricordi Lucantonio Porzio, cui si devono le Lettere e discorsi accademici (1711). In seguito, svariate indagini sulla storia naturale del Vesuvio furono prodotte da studiosi come Domenico Bottoni (1692), Antonio Bulifon (1694, 1701), Gaspare Paragallo (1705), Giacinto Gimma (1730) e Francesco Serao (1738).
Importanti novità si verificarono durante il regno illuminato di Carlo di Borbone. Risale al 1738 la sensazionale scoperta di Ercolano, cui seguirono altre straordinarie scoperte archeologiche sia nell’area vesuviana sia in quella flegrea. Nel 1755 il sovrano istituì l’Accademia ercolanense allo scopo di valorizzare l’immenso patrimonio proveniente dalle città sepolte. Sull’importanza di tali scoperte per le scienze storiche e per la nascita del gusto neoclassico non è il caso di insistere. Tra i principali referenti del sovrano all’interno dell’Accademia vi era il somasco Giovanni Maria Della Torre (1710-1782), il più autorevole ‘fisico’ attivo a Napoli nel medio Settecento. Egli pubblicò nel 1755 la sua principale opera vulcanologica, la Storia e fenomeni del Vesuvio, in cui dalla ricostruzione della genesi storica del vulcano ricavò una teoria orogenetica ben fondata dal punto di vista empirico, ma saldamente legata a presupposti scritturali e creazionisti. Negli anni Cinquanta e Sessanta pubblicarono i loro studi Giuseppe Maria Mecatti, Ferdinando Galiani, Gaetano D’Amato e Gaetano de Bottis, una serie di contributi in cui non ci si limitava a descrivere avvenimenti e circostanze, ma si tentava una spiegazione coerente dei fenomeni attingendo alla letteratura scientifica più aggiornata.
Nei due decenni successivi, a favorire la diffusione internazionale della letteratura vulcanologica napoletana giovò la lunga permanenza nel Regno dell’aristocratico e connoisseur britannico William Hamilton (1730-1803) che, in qualità di British resident, fu per trent’anni un protagonista della vita intellettuale della capitale. Oltre a essere uno dei maggiori collezionisti e antiquari del suo tempo, egli andò interessandosi sempre più alle attività del Vesuvio. Pur non disponendo di un’adeguata formazione scientifica, l’esperienza diretta e la frequentazione dei naturalisti fecero di lui uno dei maggiori vulcanologi europei. Le convinzioni a cui giunse trovarono espressione in Campi Phlegraei. Observations on the volcanos of the Two Sicilies (1776-1779), opera in due volumi in-folio corredata da trentadue splendide gouaches del pittore Peter Fabris. In aperto contrasto con quanto aveva sostenuto Buffon, Hamilton sostenne che i vulcani non erano fenomeni superficiali e distruttivi, bensì agenti primari e costruttivi della morfologia. Nonostante la cautela con cui fu avanzata, tale tesi può essere considerata una delle più chiare formulazioni del vulcanismo.
Al di là delle novità teoriche, l’attività di Hamilton è significativa sul piano del metodo di ricerca. L’ambasciatore britannico a Napoli, al pari del suo omologo a Venezia, appare un tipico rappresentante di un approccio che è stato denominato antiquario-naturalistico, caratterizzato dall’integrazione tra indagine geomineralogica e indagine antiquario-erudita. Lo scopo di tale integrazione era ricostruire la storia globale di un oggetto, un sito o un’area, facendo ricorso sia ai resti materiali, sia agli indizi presenti nel linguaggio e nel folklore. Gli studiosi che condividevano tale approccio come Niccolò Carletti, Gaetano D’Ancora, Ciro Saverio Minervini, Domenico Tata, Antonio Minasi e Giuseppe Maria Giovene ebbero interlocutori autorevoli tra gli studiosi e i viaggiatori stranieri, e questi ne fecero conoscere le opere recensendole nei giornali eruditi (Toscano 2009).
Ad accrescere le ragioni di interesse per i fenomeni del Regno meridionale giunsero, nel 1783, i devastanti terremoti in Calabria, eventi non meno distruttivi del terremoto di Lisbona del 1755 che aveva mobilitato le menti migliori del tempo, da Voltaire a Immanuel Kant. Una commissione di esperti inviata per predisporre gli aiuti svolse un’approfondita indagine conoscitiva i cui risultati furono pubblicati da Giovanni Vivenzio nella Istoria e teoria de’ tremuoti in generale ed in particolare di quelli della Calabria, e di Messina (1783). Tale opera diede inizio a una riflessione che dal piano delle ipotesi sul meccanismo generatore dei sismi si estese a quello delle implicazioni sociali e culturali delle catastrofi fisiche. Per questa via, la riflessione antropologica di scienziati sociali come Francesco Saverio Salfi e Francesco Mario Pagano si saldò con le istanze di cambiamento di alcuni settori dell’intellettualità napoletana. Il terremoto politico avvenuto in Francia nel 1789 avrebbe rafforzato tale tendenza in un contesto in cui il riformismo dei sovrani si era da tempo arenato cedendo il passo a politiche di conservazione se non apertamente repressive.
Alla fine degli anni Ottanta, nuove idee si affacciarono alla ribalta della scienza europea ed ebbero significativi riflessi anche in ambito italiano. In particolare, un numero crescente di studiosi che si ispiravano alle teorie del mineralogista tedesco Abraham Gottlob Werner (1749-1817) si dedicò allo studio dei vulcani, ma per ribadire il ruolo preponderante dell’acqua (nettunismo) non solo nella sedimentazione delle rocce secondarie, ma anche nella cristallizzazione delle rocce più antiche. I vulcani tornavano a essere considerati agenti geodinamici marginali e con ciò il patrimonio di conoscenze elaborato da Arduino, Fortis e Hamilton veniva messo radicalmente in discussione. Tra l’altro, alcuni giovani mineralisti napoletani come Giuseppe Melograni, Carmine Antonio Lippi e Matteo Tondi, inviati in viaggio di istruzione tra il 1789 e il 1796, frequentarono le lezioni di Werner a Freiberg e ne adottarono le posizioni. Tuttavia, la chiamata di un autorevole sostenitore della tradizione vulcanista come Scipione Breislak (1750-1826) alla cattedra di mineralogia della Scuola reale degli artiglieri di Napoli impedì che il nettunismo prevalesse anche nella regione vulcanica per eccellenza. Soprattutto la sua Topografia fisica della Campania (1798), grazie alle traduzioni francese e tedesca, costituì in Europa un efficace baluardo contro il dilagare delle idee nettuniste.
Il testo che più di altri rispecchia la vivacità di un dibattito cui nessun addetto ai lavori poteva sottrarsi è il resoconto del viaggio compiuto nel 1788 da Spallanzani in Italia meridionale, Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino (1792-1797), opera tradotta in tutte le principali lingue europee. Le posizioni di Spallanzani in merito alla controversia tra vulcanisti e nettunisti furono nel complesso improntate alla cautela empirica e osservativa. Su posizioni più nette si collocò il barnabita milanese Ermenegildo Pini (1739-1825), dal 1773 docente di storia naturale presso il Collegio di S. Alessandro e curatore del Museo naturalistico. A seguito di un viaggio nel Regno di Napoli effettuato nel 1792, Pini pubblicò un articolato resoconto dal quale emerge che lo studio diretto della mineralogia vulcanica non ne aveva modificato le convinzioni nettuniste e diluvialiste, che nel suo caso avevano chiare implicazioni religioso-dottrinali.
Ad accrescere la domanda di conoscenza in ambito geologico contribuì, nel secondo Settecento, la speranza di individuare consistenti risorse minerarie. Ciò spinse i sovrani, soprattutto nella Lombardia austriaca, nel Regno di Sardegna e, in seguito, nel Granducato di Toscana, a impiegare, oltre a esperti stranieri, anche mineralogisti di lingua italiana. Nel 1776 fu chiamato a Pavia il naturalista Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788) che aveva acquisito esperienza specifica dapprima quale docente di metallurgia e chimica presso le miniere di Idria in Slovenia, poi, alla cattedra di mineralogia e metallurgia presso la famosa Accademia mineraria di Schemnitz in Slovacchia. A Milano, Pini fu nominato nel 1782 delegato alle miniere e pubblicò estesamente sulle miniere e sui metodi di estrazione dei metalli. Nel Regno sabaudo, già Vitaliano Donati, nel 1751, era stato invitato a compiere un viaggio mineralogico nelle Alpi della Savoia e della Valle d’Aosta. La fondazione, nel 1757, dell’Accademia delle scienze di Torino consentì di riunire un gruppo di studiosi – in genere militari – competenti nel settore minerario tra i quali vi erano Antonio Benedetto Nicolis di Robilant (1724-1801), direttore generale delle miniere, Giuseppe Angelo Saluzzo (1734-1810) e Carlo Lodovico Morozzo (1744-1804).
Nel complesso, tali attività ebbero una certa importanza per il consolidamento di cattedre e carriere, ma non sembra che dal contesto italiano di quegli anni siano scaturite novità teoriche di rilievo. Ben diversa appare la situazione nel settore della paleontologia. Nel Granducato di Toscana, il ruolo dominante di Felice Fontana, dal 1775 direttore del Museo di fisica e storia naturale di Firenze, non impedì ad altri ricercatori di sviluppare iniziative assai significative. Le personalità di maggior rilievo furono l’abate Ambrogio Soldani (1736-1808), professore di matematiche all’Università di Siena e segretario perpetuo dell’Accademia dei Fisiocritici, e il senese Giorgio Santi (1746-1822) chiamato nel 1782 alla cattedra di botanica, storia naturale e chimica dell’Università di Pisa. Il primo ebbe fama internazionale quale studioso delle microfaune fossili. Il secondo, dopo aver studiato a Montpellier e Parigi, agevolò l’assimilazione della fisica lavoisieriana e portò avanti la tradizione targioniana del viaggio naturalistico sviluppando l’interesse per le risorse minerarie del monte Amiata. Ebbe come allievo quel Gaetano Savi che garantirà la continuità della tradizione pisana attraverso il figlio Paolo.
Un’apprezzabile ricezione internazionale ebbero le attività di ricerca svolte in ambito paleontologico dagli studiosi veneti. La ricchezza di alcuni giacimenti fossiliferi dell’area veronese, tra tutti la ‘pesciaia’ di Bolca, era nota dal Cinquecento; ma la nuova prospettiva introdotta da Les époques de la nature (1778) di Buffon permise di rivalutare quei reperti considerandoli in una luce inedita. La rivoluzionaria novità contenuta ne Les époques consisteva, in sostanza, nella trasformazione della geologia in una scienza storica a tutti gli effetti. Il saggio del 1778, infatti, oltre a dilatare la cronologia fino a 75.000 anni, procedeva alla ricostruzione documentata delle grandi tappe della storia della Terra. Nella settima e ultima epoca Buffon inseriva la comparsa dell’umanità e ne descriveva i primi passi sulla via della civilizzazione. A partire da Les époques, gli studiosi non si limitarono più a proporre un meccanismo di funzionamento dinamico – cioè astorico – del pianeta, né si accontentarono di delineare una sorta di embriologia deterministica o provvidenzialistica della Terra. Per essi diventò prioritaria la ricostruzione di una sequenza direzionale di epoche in ciascuna delle quali la biosfera aveva assunto caratteristiche irripetibili. Dalla storia naturale come descrizione atemporale di entità persistenti o processi ciclici e predeterminati, si era passati alla storia della natura come successione di ambienti e faune, una successione caratterizzata da mutamenti irreversibili e contingenti. Tale fondamentale trasformazione si deve in misura significativa all’assunzione da parte dei naturalisti di metodi e prospettive formulati entro la cultura storica e antiquariale dei due decenni precedenti (Rudwick 2005; Ciancio 2009). L’apporto della tradizione filologica ed erudita italiana va però valutato senza ricorrere a facili generalizzazioni. Il ruolo di Vico, decisivo per la formulazione di una «scienza nuova» della storia, improntata a criteri profondamente innovativi rispetto a quelli codificati dalla tradizione religiosa, non sembra aver inciso direttamente sulla scoperta della storicità della natura e del nesso tra natura e cultura (Rossi 1979, pp. 130-35).
Tra i meglio attrezzati per cogliere il significato profondo dell’opera di Buffon, Fortis pubblicò nel corso degli anni Ottanta vari contributi tra cui uno studio del sito di Romagnano (Verona) nel quale erano stati individuati ossami di pachidermi. Dalle modalità di giacitura dei reperti Fortis giunse alla conclusione che le antiche popolazioni del luogo, «di poco superiori agli Orangutanghi ed ai Ponghi nella maniera di vivere», avessero la consuetudine di seppellire le carcasse dei pachidermi per ragioni religiose o civili. Quanto all’epoca dell’inumazione, essa doveva essersi verificata in tempi remotissimi, precedenti «non solo i lumi della rivelazione, e la Storia, ma eziandio forse la tradizione e le favole emblematiche» (A. Fortis, Delle ossa d’elefanti e d’altre curiosità naturali, 1786, pp. 48-51). Si tratta di una delle prime rivendicazioni documentate dell’esistenza di uomini che, in tempi preistorici, avrebbero convissuto con specie ora scomparse.
La natura controversa dei reperti che avrebbero dovuto dimostrare l’antichità della specie umana suggerì però di dedicarsi soprattutto alla storia delle specie animali di cui si conoscevano ricchi giacimenti fossili. Tra il 1793 e il 1795, i fenomeni geodinamici all’origine della litificazione dei pesci tropicali di Bolca generò una disputa tra Fortis, Giovanni Serafino Volta e il romano Domenico Testa che evidenziò quanto l’ipotesi diluviale fosse ancora diffusa tra i non addetti ai lavori. Tuttavia, il risultato più ragguardevole della paleontologia veronese di fine secolo si deve all’attività instancabile del conte Bartolomeo Giuliari coadiuvato in ambito scientifico da Volta. Dalla loro collaborazione scaturì la monumentale Ittiolitologia veronese, apparsa in due volumi in-folio nel 1796 e nel 1809. Non è da escludere che la bellezza delle grandi tavole incise dall’artista Giuseppe Dall’Acqua abbia suggerito agli occupanti francesi di ‘trasferire’ al Museum d’histoire naturelle di Parigi il principale nucleo di reperti costituito dalla raccolta del conte Giambattista Gazola.
Per comprendere il valore del contributo degli studiosi italiani è necessario accennare a quanto accadeva a Parigi nei primi anni del nuovo secolo. La novità più rilevante venne ancora una volta dalla paleontologia. Applicando le conoscenze di anatomia comparata allo studio dei fossili, il giovane naturalista Georges Cuvier fu in grado di restituire la fisionomia dei grandi mammiferi estinti partendo da pochi frammenti ossei e, in seguito, di ricostruire intere faune scomparse. Egli dimostrò, inoltre, che nel più remoto passato si era verificata una serie di immani catastrofi e che queste avevano provocato altrettante estinzioni di massa. Negli stessi anni, Jean-Baptiste de Lamarck migliorò la classificazione degli invertebrati marini e ne studiò la distribuzione negli strati del bacino di Parigi. A seguito di tali indagini si comprese che alcuni strati erano univocamente caratterizzati dal loro contenuto fossile. Partendo dal presupposto che le specie non possono ripresentarsi identiche dopo essersi estinte, si poteva dedurre che strati anche di diversa composizione litologica, ma con un identico contenuto fossile (fossile-guida), si erano sedimentati nella stessa epoca. In tal modo, colonne stratigrafiche di aree anche molto distanti tra loro nelle quali era presente uno stesso fossile-guida potevano essere correlate cronologicamente.
Tale scoperta costituiva il più importante strumento euristico messo a disposizione dei geologi dalla comparsa del Prodromus di Stenone. Il nuovo metodo fu canonizzato nella monografia di Cuvier e Alexandre Brongniart sulle faune del bacino di Parigi (1811) e da quel momento la geologia storica iniziò a trasformarsi da litostratigrafica in biostratigrafica. Come scrisse Cuvier nel 1812, il geologo poteva essere considerato un nuovo tipo di archeologo: i fossili erano per lui le «medaglie» (monete) della storia della natura poiché, al pari delle monete antiche, consentivano di datare senza ambiguità lo strato in cui erano state rinvenute. Nella realtà, il metodo biostratigrafico presentava talvolta delle anomalie, e questo ne rallentò l’affermazione soprattutto in ambienti scientifici come quelli italiani in cui, oltre a essere più radicato il metodo dell’analisi litologica degli strati, maggiori erano le incertezze nell’identificazione dei fossili.
Infine, non si può non ricordare che nella Parigi di inizio secolo fecero la loro comparsa le tesi trasformiste di Lamarck e che furono accolte anche da alcuni studiosi italiani presenti nella capitale francese. Fortis, sfidando le posizioni antitrasformiste di Cuvier e appoggiandosi alle teorie fisiologiche degli Idéologues, sostenne con franchezza, nei Mémoires pour servir à l’histoire naturelle de l’Italie (1802), la tesi della derivazione dell’uomo da scimmie antropomorfe. Un allievo di Lamarck, il naturalista piemontese Franco Andrea Bonelli (1784-1830), docente di zoologia all’Università di Torino dal 1811, se ne fece promotore in patria cosicché l’idea di una modificazione progressiva delle specie si diffuse nel contesto subalpino nonostante l’apparente vittoria delle tesi fissiste. Si può senz’altro ipotizzare che la circolazione delle idee di Bonelli e dei suoi allievi abbia preparato la ricomparsa in Italia del trasformismo biologico, sia pure nella forma della sintesi darwiniana.
Dunque, durante e dopo il cosiddetto triennio giacobino (1797-1799), l’esilio in Francia degli studiosi italiani accusati di simpatie filorivoluzionarie rappresentò una preziosa occasione per avere accesso alla comunità scientifica parigina. L’assestamento seguito alla vittoria di Napoleone a Marengo ne consentì il rientro e, pur nel continuo mutare dei confini e della dislocazione dei napoleonidi, pose le basi per il costituirsi di una comunità scientifica nazionale. Per quel che riguarda le scienze della Terra e della natura, il principale effetto di tali avvenimenti fu l’emergere di Milano quale nuova capitale delle scienze naturali. Nella città lombarda, le indagini a carattere naturalistico e geologico gravitarono attorno al Consiglio delle miniere del Regno Italico, un organismo istituito nel 1808 e soppresso nel 1814. Vi furono coinvolti quasi tutti i principali naturalisti residenti in Italia settentrionale. Dalle loro attività di studio nacque il Museo reale di storia naturale (1808-1816), un istituto che raggiunse notorietà internazionale anche a seguito dell’acquisizione della collezione paleontologica del piacentino Giuseppe Cortesi contenente gli scheletri dei grandi mammiferi del Pliocene. Al Consiglio delle miniere furono chiamati alcuni esponenti di prestigio della stagione teresiana e giuseppina come Pini e Carlo Amoretti (1741-1816). Vi furono coinvolti, in qualità di ispettori o collaboratori, i tre maggiori geologi italiani dell’epoca, Giambattista Brocchi (1772-1826), Breislak e Giuseppe Marzari-Pencati (1779-1836).
A essi si devono i principali contributi della scienza italiana alla geologia del primo Ottocento. Brocchi pubblicò nel 1814 la Conchiologia fossile subapennina, uno studio accurato della paleostratigrafia delle colline situate tra l’Appennino e l’Adriatico. Pur non avendo una traduzione, tale opera ebbe grande risonanza internazionale e dimostrò che anche in Italia erano praticati i più avanzati metodi di studio stratigrafico. Essa contiene pure un’originale teoria della senescenza ed estinzione delle specie in base alla quale a ogni specie vivente sarebbe assegnata, al pari degli individui, una durata temporale delimitata trascorsa la quale le forze riproduttive si esauriscono determinandone la totale scomparsa. Tale ipotesi sarà presa in seria considerazione da Darwin alla fine degli anni Trenta nell’ambito delle sue prime riflessioni sui meccanismi di speciazione consegnate ai famosi Notebooks on transmutation (Pancaldi 1983).
Non meno innovative le posizioni sostenute dal ‘giacobino’ Breislak che, rientrato dall’esilio parigino dopo aver abbandonato per tempo la Repubblica romana, si era stabilito a Milano con l’incarico di ispettore dei nitri e delle polveri attribuitogli in virtù delle sue competenze in campo chimico-mineralogico. I prevalenti interessi vulcanologici e geodinamici lo videro a lungo impegnato nella polemica contro il nettunismo dominante, in difesa delle teorie plutoniste dello scozzese James Hutton. Ne scaturirono vari interventi tra cui ebbe notevole fortuna l’Introduzione alla geologia (1811) tradotta in francese nel 1812, ampliata nel 1818 con il titolo di Institutions géologiques e ribattezzata nel 1822 con il nuovo titolo di Traité sur la structure extérieure du globe.
Il contributo scientifico del naturalista vicentino Marzari-Pencati può essere ricondotto all’ultima fase dell’estenuante disputa tra nettunisti e vulcanisti. Vissuto a Parigi tra il 1802 e il 1805, vi aveva frequentato le lezioni di Lamarck, Cuvier, René-Just Haüy, Tondi e Barthélemy Faujas de Saint-Fond. Nel 1807 fu chiamato a collaborare alla statistica mineralogica del Regno italico e, nel 1812, fu nominato ispettore del Consiglio delle miniere per i dipartimenti veneti. In tale veste poté proseguire lo studio della stratigrafia del Tirolo meridionale, analizzando la complessa struttura geognostica dell’area dolomitica. Nel 1819 pubblicò i Cenni geologici e mineralogici sulle Provincie Venete e sul Tirolo, un breve trattato in cui dimostrava, sulla base di osservazioni compiute nei dintorni di Predazzo, l’insostenibilità della stratigrafia litologica di Werner. Ne scaturì un’accesa controversia che vide coinvolti, tra il 1819 e il 1823, alcuni dei geologi più autorevoli del tempo tra cui Alexander von Humboldt, Leopold von Buch e Breislak.
Nei primi tre decenni dell’Ottocento, a Napoli gli studiosi operarono gravati da serie difficoltà operative e diffidenze istituzionali. Segnali forti di una nuova sollecitudine nei loro confronti erano venuti dall’amministrazione francese, ma dopo il 1815 l’atteggiamento dei Borboni non fu altrettanto favorevole. Tra i protagonisti di questa fase è necessario ricordare il mineralogista Teodoro Monticelli (1759-1843) cui si deve, in collaborazione con Nicola Covelli, il Prodromo della mineralogia vesuviana (1825). Il prestigioso incarico di segretario dell’Accademia delle scienze di Napoli e la disponibilità di una straordinaria collezione di minerali vesuviani fecero di lui il principale punto di riferimento per gli scienziati che giungevano a Napoli. Nel frattempo, l’autorevole Tondi (1772-1835), un allievo di Haüy che si era affermato a Parigi come aggiunto alla cattedra di mineralogia al Museum d’histoire naturelle, aveva accettato l’insegnamento di mineralogia e metallurgia all’Università di Napoli e poté iniziare a formare una nuova generazione di studiosi che verrà alla ribalta negli anni Trenta. Vi è però un ulteriore aspetto della cultura napoletana di quegli anni che merita di essere segnalato: la capacità di mantenere vivo il dialogo tra le scienze della Terra e le scienze dell’antichità. Lo confermano le iniziative di Andrea De Jorio (1769-1851), una delle figure emergenti nel campo dell’archeologia classica. A lui si devono scavi e ricerche sulle antichità flegree in cui si integrano efficacemente competenze storico-erudite e conoscenza aggiornata delle teorie geodinamiche e delle pratiche stratigrafiche. Questo caso dimostra, come altri che si potrebbero citare, che i metodi più avanzati della geologia iniziavano a diventare parte integrante del bagaglio dell’archeologo.
Intorno al 1830, la situazione delle scienze della Terra in Italia poteva apparire tutto sommato favorevole. Da un lato, la varietà dei fenomeni geodinamici presenti nella penisola esercitava ancora un notevole richiamo sugli studiosi stranieri; dall’altro, il prestigio della tradizione geologica italiana era stato consacrato da Charles Lyell nel primo volume dei Principles of geology (1830). In realtà, l’immagine gloriosa del passato contrastava con il crescere del divario – organizzativo, finanziario, culturale – rispetto agli altri Paesi, un divario che la frammentazione politica contribuiva ad aggravare. A ciò si tentò di rimediare organizzando i congressi annuali degli scienziati italiani (1839-1847), nel corso dei quali i geologi pianificarono la classificazione dei ‘suoli’ italiani al fine di realizzare una moderna carta geologica del Paese. All’interno di tale progetto, il coordinamento dei metodi di indagine, della nomenclatura e persino delle convenzioni cartografiche assumeva un significato pratico oltre che politico. Questo spiega, al di là del coinvolgimento di molti geologi nel moto risorgimentale, l’affiorare di un contrasto di fondo tra geologi accademici e ingegneri minerari che si ripresenterà nei decenni successivi all’unificazione.
Sul piano teorico, i geologi italiani di metà Ottocento non manifestarono lo stesso grado di originalità dei loro predecessori. I dubbi e le perplessità suscitati dall’accumularsi di continue novità determinarono una proliferazione di studi locali e specialistici nei quali si privilegiava un approccio descrittivo e sistematico. Inoltre, tali studi furono a lungo condotti utilizzando come riferimento le colonne stratigrafiche elaborate dai colleghi francesi, fondate sulle dottrine mineralogiche di scuola werneriana anziché sui più avanzati metodi biostratigrafici adottati in Gran Bretagna. Per quanto riguarda le concezioni geodinamiche, i più si adeguarono al modello dominante basato sull’ipotesi di un graduale raffreddamento e conseguente contrazione del nucleo incandescente del pianeta, un processo che si riteneva fosse all’origine delle dislocazioni verticali della crosta (orogenesi). Su questioni ‘sensibili’ come l’origine della vita e la trasmutazione delle specie, i naturalisti si mantennero, in genere, oltremodo prudenti. Sul piano metodologico, solo a metà degli anni Cinquanta i geologi italiani iniziarono ad abbandonare i modelli catastrofisti proposti negli anni Trenta da von Buch e Léonce Élie de Beaumont per adottare l’uniformismo di Lyell secondo il quale gli agenti e le dinamiche del presente fornivano la chiave di lettura corretta dei fenomeni del passato. Nel Regno delle Due Sicilie, la salita al trono di Ferdinando II nel 1830 sembrò avviare una nuova stagione nei rapporti tra la monarchia e il mondo della cultura. Per quanto riguarda le scienze della Terra, l’anziano Monticelli continuò a essere una figura di riferimento, ma una nuova generazione iniziò ad affacciarsi sulla scena. Tra i suoi esponenti vi erano l’astronomo Ernesto Capocci (1798-1864) e due allievi di Tondi, Leopoldo Pilla e Arcangelo Scacchi (1810-1893), studiosi di ottima levatura, aperti al confronto su scala nazionale e internazionale. L’inaugurazione dell’Osservatorio vesuviano nel settembre 1845 e la convocazione a Napoli, in quello stesso mese, della VII Adunanza degli scienziati italiani costituirono l’apice di un periodo favorevole per la scienza partenopea e l’inizio di un ulteriore tormentato quindicennio che culminerà nella crisi finale del Regno borbonico. Durante tale periodo si segnalarono il mineralogista Guglielmo Guiscardi (1821-1885) e il sismologo Luigi Palmieri (1807-1897).
Gli esponenti di maggior spicco della tradizione toscana confermarono la predilezione per un sapere capace di tradursi in vantaggi collettivi rinnovando gli stretti rapporti di collaborazione con il governo granducale. Nel 1816, il direttore del Museo di fisica di Firenze Girolamo de’ Bardi diede impulso agli studi mineralogici anche in risposta alla recente acquisizione dell’Isola d’Elba. Nel 1833, il nuovo direttore Vincenzio Antinori ottenne il ripristino del Liceo di fisica e affidò a Filippo Nesti (1780-1849) la cattedra di mineralogia e geologia. Tuttavia, il principale centro di promozione delle scienze della Terra fu la cattedra di storia naturale e mineralogia dell’Università di Pisa retta da Paolo Savi (1798-1871) a partire dal 1823. Nel 1841, a seguito dello sdoppiamento della cattedra, Savi preferì optare per la cattedra di zoologia lasciando quella di geologia al napoletano Pilla.
Allievo di Tondi e Covelli, Pilla si era specializzato in vulcanologia vesuviana convertendosi nel 1841 alla teoria dei crateri di sollevamento di von Buch. Una serie di incarichi ministeriali in ambito estrattivo lo misero in luce presso il sovrano toscano che sperava nella scoperta di importanti giacimenti carboniferi nei territori granducali. La scuola pisana, che era stata fin dagli esordi fortemente interessata alle risorse minerarie, intensificò tale indirizzo al punto che le discussioni stratigrafiche che si svolsero al suo interno furono condizionate in misura rilevante dalla speranza di individuare nuovi giacimenti. Il risultato più significativo delle ricerche di Pilla è il Saggio comparativo dei terreni che compongono il suolo d’Italia (1845), in cui propose un’originale suddivisione dei terreni secondari e terziari che ottenne l’approvazione dell’Académie des sciences di Parigi.
La morte di Pilla sui campi di Curtatone e Montanara interruppe un’ascesa che sembrava dover proiettare il geologo campano sulla ribalta della stratigrafia europea. Gli subentrò nel 1849 il padovano Giuseppe Meneghini (1811-1889), un naturalista che, pur privo di esperienza nel settore, di collezioni adeguate e persino di opere di riferimento, si dedicò con ottimi risultati allo studio delle faune paleozoiche della Sardegna. Egli realizzò una vera svolta teorica che consisteva nell’abbandono del tradizionale riferimento alla geologia francese per avvicinarsi ai metodi biostratigrafici di quella britannica. Alla sua scuola si formarono autorevoli cattedratici tra cui Giovanni Capellini, Luigi Bombicci, Antonio d’Achiardi e Arturo Issel. Il suo primo allievo Igino Cocchi (1827-1913), durante un soggiorno a Parigi e Londra tra il 1854 e il 1857, tentò di riannodare i legami con esponenti di prestigio della comunità internazionale. Nonostante la buona accoglienza ricevuta, la rete di contatti creata in quegli anni non fu sviluppata sul piano istituzionale. Né Cocchi né Meneghini – ma questo vale per la maggior parte dei loro colleghi – avvertirono la necessità di diventare parte integrante della comunità scientifica europea. Ciò è stato attribuito, da un lato, a una certa dose di isolazionismo e revanchismo legato alla costituzione del nuovo Stato nazionale; dall’altro, all’emergere di nuovi temi scientifici che seppero catturare l’attenzione del pubblico, in particolare le controversie legate alla ‘discendenza’ dell’uomo e alle implicazioni politico-religiose di tale ipotesi (Corsi 2008).
Per ragioni di affinità culturale – l’originario riferimento alla scienza francese, i preminenti interessi minerari – i pisani furono spesso in relazione con esponenti della tradizione sardo-piemontese e ligure come Giacinto Provana di Collegno (1793-1856), Alessandro Ferrero della Marmora (1789-1863), Lorenzo Nicolò Pareto (1800-1865) e Angelo Sismonda (1807-1878). A Torino, peraltro, approdò nel 1848 il milanese Filippo De Filippi (1814-1867), un naturalista che negli anni Trenta aveva compiuto promettenti studi zoologici e geologici negli ambienti del nascente Museo civico di Milano. A Torino egli si occupò di temi – come la riproduzione degli animali – che lo indussero ad affrontare la questione della variabilità delle specie e a superare gradualmente il fissismo. Nel 1864, nella lezione pubblica intitolata L’uomo e le scimie, De Filippi non solo si schierò a favore dell’evoluzione darwiniana ma, richiamandosi al pensiero di Thomas Huxley, sostenne che l’evidente somiglianza anatomica tra l’uomo e le scimmie antropomorfe era la prova di una comune origine. Tuttavia, per ragioni religiose ribadì la distinzione e la superiorità del «regno umano» rispetto a quello animale.
Più prudenti sul piano teorico gli studiosi attivi nel Lombardo-Veneto. Nella ex Repubblica di Venezia alcuni studiosi di indubbio valore si dedicarono alla stratigrafia regionale. Tra i tanti si distinsero il conte Niccolò Da Rio (1765-1845), autore di una pregevole Orittologia euganea (1836), e il naturalista Tomaso Antonio Catullo (1782-1870), docente di mineralogia, geologia e zoologia a Padova dal 1829. Catullo si era segnalato con il Saggio di zoologia fossile delle Province venete (1827), in cui applicò ai terreni secondari del Veneto il metodo biostratigrafico di Brongniart. A completare il quadro di una scuola veneta molto attiva, ma priva di un’apprezzabile proiezione internazionale, si ricordino le figure di Lodovico Pasini (1804-1870), Achille De Zigno (1813-1892) e Abramo Bartolomeo Massalongo (1824-1860). A quest’ultimo si deve il Saggio fotografico di alcuni animali e piante fossili dell’Agro veronese (1859), una delle prime monografie paleontologiche in cui si fece un uso sistematico della fotografia.
A Milano, dopo la chiusura del Consiglio delle miniere e la dispersione delle sue collezioni, le scienze naturali impiegarono almeno due decenni a ritrovare slancio investigativo e nuove forme associative. Al pari di numerose altre realtà municipali, fu il progetto di costituzione del Museo civico di storia naturale a catalizzare le energie degli studiosi. Il Museo, fondato nel 1838 per iniziativa di naturalisti come Giorgio Jan, Carlo Porro, Giuseppe Balsamo Crivelli ed Emilio Cornalia, fu inaugurato ufficialmente nel 1844 in occasione del Sesto congresso degli scienziati italiani. Nel decennio successivo sarà il geologo e prete rosminista Antonio Stoppani (1824-1891), formatosi anch’egli negli ambienti del Museo, a ridare slancio alle indagini stratigrafiche pubblicando opere come gli Studi geologici e paleontologici della Lombardia (1857) e la Paléontologie lombarde (1858-1860). Tuttavia, proprio l’evoluzione degli interessi di Stoppani verso la divulgazione scientifica e la difesa del concordismo in materia di rapporti tra scienza e sacra scrittura dimostra come, dopo il 1860, tali argomenti abbiano assorbito in misura crescente le energie degli studiosi italiani.
Per certi versi, si può ricondurre a tali tendenze della cultura nazionale anche la rapida ascesa della paletnologia, una disciplina che aveva mosso i primi passi in Francia negli anni Trenta. A Giuseppe Scarabelli (1820-1905), un geologo imolese che era stato allievo di Pilla, si attribuisce la prima attestazione del paleolitico in Italia (1850). Tuttavia il decollo della disciplina avvenne tra il 1860 e 1863 quando Bartolomeo Gastaldi e Stoppani, in collaborazione con Edouard Desor e Gabriel de Mortillet, scoprirono gli insediamenti palafitticoli dei laghi lombardi. Senza entrare nel merito di tali scoperte, quel che importa osservare è, da un lato, la persistente comunanza di persone e di metodi tra geologia, archeologia e paletnologia; dall’altro, il progressivo coinvolgimento dei geologi in questioni che ne favorirono l’allontanamento dagli indirizzi più promettenti della ricerca. Alla luce di tali sviluppi, la tesi sostenuta da Stoppani nel 1861 di una «preminenza» degli italiani negli studi geologici non sembra corrispondere in alcun modo alla realtà di quegli anni.
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