I segreti e le tecniche degli orefici etruschi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il fasto e la fantasia morfologica e decorativa che caratterizzano le oreficerie etrusche, e la raffinata perizia della loro esecuzione hanno suscitato un vivo interesse in studiosi, collezionisti e artigiani orafi fin dai primi rinvenimenti dei sontuosi corredi funerari delle necropoli dell’Etruria e del Lazio. Le indagini archeometriche e le prove di archeologia sperimentale consentono di ricostruire il ricco bagaglio di conoscenze e di abilità degli orefici etruschi, straordinari professionisti della propria arte.
Nelle fonti letterarie greche e romane la civiltà etrusca è spesso presentata come caratterizzata da un lusso straordinario, e la favolosa ricchezza degli Etruschi è talvolta paragonata a quella di altre genti famose nel mondo antico per la loro tryphé (“ozio lussuoso”) e la loro habrotes (“mollezza”), come gli abitanti della città magnogreca di Sibari.
Se un’opinione non dissimile circa l’opulenza che contraddistingue la cultura materiale di questo popolo è ancora viva e ampiamente diffusa oggi, questo è certo dovuto in buona parte alla raffinatezza e alla fastosità che caratterizzano le oreficerie rinvenute nelle necropoli dell’Etruria e del Lazio, conservate in numerosi musei italiani e stranieri, con particolare riferimento alle impressionanti parures esposte presso il Museo Gregoriano Etrusco e il Museo di Villa Giulia a Roma. In quest’ultimo gli straordinari reperti della collezione costituita a partire dal 1860 dai Castellani, orefici romani di grande notorietà in epoca neoclassica, sono esposti insieme agli ori moderni ispirati all’antico realizzati dal capostipite della famiglia, Fortunato Pio, e dai suoi figli Alessandro e Augusto, a rendere manifesto il fascino esercitato dall’oreficeria etrusca sui moderni artigiani orafi, che hanno cercato di riprodurne le forme e di ricostruirne i procedimenti tecnici: un fascino che permane ancora oggi, come dimostra il ruolo considerevole che i modelli etruschi ricoprono nell’ambito della produzione del gioiello “archeologico”. La grande tradizione dell’oreficeria etrusca nasce in epoca orientalizzante (730-580 a.C. ca.), al termine di un’evoluzione storica, iniziata intorno alla fine del X secolo a.C., che ha condotto la società villanoviana, all’inizio egualitaria (o che quantomeno intendeva presentarsi come tale), a strutturarsi gerarchicamente in classi al cui vertice si colloca un embrione di aristocrazia, che fonda il proprio potere sul possesso della terra, sullo sfruttamento delle risorse minerarie e su fortunati contatti commerciali con il mondo greco e vicino-orientale. Per questi principes, investire il surplus derivante dalle proprie attività economiche in beni suntuari e di prestigio, ostentando le proprie straordinarie ricchezze e imitando il sontuoso modo di vivere in auge presso le corti della Ionia asiatica e del Vicino Oriente, significa poter contare su una potente arma di persuasione sui ceti subalterni, essenziale per rafforzare il proprio prestigio e conseguentemente per conservare il potere all’interno della comunità.
L’Etruria, terra ricca di metalli, non ha giacimenti auriferi: il metallo nobile viene dunque importato, probabilmente dal Vicino Oriente, da dove giunge, già dalla metà dell’VIII secolo a.C., anche una ricca varietà di oggetti pregiati di manifattura fenicia, egizia, cipriota, assira, in bronzo, faïence, pasta vitrea, oro e avorio: manufatti che vengono tesaurizzati prima di essere deposti all’interno delle tombe, che per questi aristoi costituiscono i luoghi simbolici dell’autocoscienza della gens. All’interno dei monumenti funerari, centri ideologici della cura e dell’attenzione dei ceti aristocratici, la deposizione di manufatti in oro è altresì connessa al concetto di perpetuità della memoria dei defunti e di saldezza del vincolo tra le vecchie e le nuove generazioni, in virtù delle caratteristiche di incorruttibilità del metallo nobile. Insieme ai manufatti allotri, che costituiscono sia degli status symbol che dei modelli da imitare, numerosi devono essere anche gli artigiani stranieri che giungono, sia dal Vicino Oriente (soprattutto a seguito del crollo dell’impero assiro) che dalla Grecia, per stabilirsi in Etruria: tra questi, anche orefici di elevata specializzazione, che recano con sé saperi e tecniche raffinate e di lunga tradizione, attratti dalle possibilità di lavoro offerte da committenti, come le élite etrusche, desiderosi di ostentare oggetti che non siano soltanto realizzati con materiali di pregio, ma che presentino anche fogge complesse, raffinate e sempre nuove, e decorazioni ispirate al bagaglio iconografico vicino-orientale, intessuto di allusioni e di rimandi all’ideologia aristocratica.
Questi orefici specializzati impiantano in Etruria botteghe che diventano palestre per gli artigiani locali, luoghi quanto mai propizi alla sperimentazione e all’evoluzione tecnologica, incentivate altresì dalla forte competitività che caratterizza i rapporti tra le diverse gentes aristocratiche etrusche e i centri del loro potere: ed è per questo che è possibile attribuire alle diverse città dell’Etruria (in particolare a Cerveteri e a Vetulonia) produzioni orafe caratterizzate non solo da un elevato grado di specializzazione, ma anche da stili e tecniche decorative peculiari. È così che tecniche elaborate specificamente per sfruttare e valorizzare la lucentezza e la duttilità, che costituiscono le doti più apprezzate del metallo nobile, quali la filigrana e la granulazione (in uso in Mesopotamia almeno dalla metà del III millennio a.C.), si affermano in Etruria nel corso dell’epoca orientalizzante ad opera di orefici specializzati, affiancando e in parte sostituendo le tecniche di derivazione toreutica, utilizzate (forse da bronzisti che occasionalmente si cimentano nell’attività orafa) già in età villanoviana per la produzione e la decorazione di ancor rari manufatti in oro, prevalentemente ornamenti personali come fibule di varie fogge, spirali fermatrecce e armille.
La realizzazione di fili aurei è preliminare ad una serie di applicazioni, dalla produzione di collane e di catene fino alla loro saldatura su una superficie in modo da comporre motivi ornamentali anche piuttosto complessi (filigrana). Nell’antichità non è ancora conosciuta la filiera, robusta piastra metallica traforata, utilizzata per la produzione di fili non prima dell’alto Medioevo: gli orefici etruschi utilizzano generalmente una procedura che prevede la torcitura di strette lamine d’oro, compresse per rotolatura tra due superfici lisce e pesanti (ad esempio due lastre di pietra): sui fili prodotti con questa tecnica sono spesso leggibili dei solchi ad andamento elicoidale.
Dal VI secolo a.C. si afferma in Etruria l’uso della godronatura, già nota in Anatolia dal II millennio a.C. e in seguito ampiamente utilizzata nell’oreficeria greca di età classica ed ellenistica: questa tecnica, che consiste nella compressione del filo aureo sotto una piastra a scanalature longitudinali disposte ad intervalli regolari, consente di ottenere fili con profilo “a perlina” o “a rocchetto”, altamente decorativi. La tecnica che forse meglio caratterizza l’oreficeria etrusca, quella più raffinata e spettacolare, nonché quella che più a lungo ha tenuto viva la curiosità di orafi e di archeologi, dando origine ad una lunga serie di sperimentazioni al fine di carpirne il segreto, è certo quella della granulazione: una sfida “dalle difficoltà quasi insormontabili”, come la definisce nei suoi scritti il già citato Alessandro Castellani, che dedica una parte consistente della propria attività al tentativo di ricostruire il procedimento, caduto sostanzialmente in disuso con l’età moderna. Affascinato dall’abilità degli orefici etruschi fin dal 1836, anno dell’apertura della tomba Regolini-Galassi di Cerveteri, con il suo ricchissimo corredo di oreficerie, Castellani intensifica le proprie ricerche, iniziate insieme al padre, dal 1868, quando si associa con il valente orefice napoletano Giacinto Melillo: i due giungeranno a realizzare gioielli decorati a granulazione con estrema finezza, e ad avanzare nella conoscenza della tecnica, ma non sembra siano mai riusciti a ricostruire e ad applicare l’intero procedimento. La granulazione consiste nell’applicazione di minute sfere d’oro sulla superficie da decorare, disponendole a costituire file dritte o curvilinee oppure a campire ampi elementi ornamentali o figurativi precedentemente delineati, formando dunque disegni anche abbastanza complessi. Questa tecnica risulta piuttosto avanzata tecnologicamente già intorno alla metà del III millennio a.C., quando viene impiegata in alcuni gioielli rinvenuti nei tesori A e B di Troia, ed è ampiamente diffusa tra II e I millennio a.C. nell’oreficeria vicino-orientale, in quella micenea, in quella egizia e in quella fenicia: ma sono gli orefici etruschi a sfruttarne pienamente le raffinate potenzialità ornamentali, con un virtuosismo che raggiunge il proprio apice nella granulazione a pulviscolo, probabilmente messa a punto nelle botteghe orafe di Vetulonia: una variante in cui trovano applicazione sferette di dimensioni estremamente minute (fino a due decimi di millimetro di diametro!) per campire ampie superfici che assumono così un aspetto vellutato e opaco, a dar vita ad un suggestivo contrasto cromatico e luministico sul fondo lucido del gioiello.
La conduzione di studi archeometrici sui gioielli antichi, affiancata da prove di archeologia sperimentale, ha consentito di ricostruire la tecnica con un buon margine di precisione, soprattutto per quel che concerne uno degli aspetti ritenuti più problematici del procedimento, ovvero la modalità di saldatura delle sferette sulla superficie. I granuli d’oro sono ottenuti fondendo frammenti di metallo (forse soprattutto frammenti di filo) frammisti a cenere o a carbone di legna all’interno di crogiuoli in argilla refrattaria: il metallo liquefatto, in virtù della forza di tensione superficiale, assume forma sferica, mentre la cenere tiene le sferette separate tra loro, impedendone l’agglomerazione. Una volta raffreddati, i granuli vengono setacciati e selezionati in base alle dimensioni; sono poi applicati alle superfici da decorare, preventivamente spalmate con una soluzione composta da un sale di rame (come la malachite, la cuprite o il solfato di rame) polverizzato e diluito in acqua e da un collante di origine vegetale (ad esempio resina o colla di pesce).
Sottoponendo l’oggetto ad una temperatura superiore agli 890°C, il collante brucia senza lasciare residui, mentre nei punti di contatto tra le sferette e il supporto si crea uno strato sottilissimo in una lega bassofondente oro-rame: è questa saldatura, detta colloidale, che garantisce la resistenza della decorazione e che mantiene i grani ben distinti, conferendo alle partiture ornamentali una nitidezza che sarebbe impossibile ottenere utilizzando una colla, in cui le sferette affonderebbero in una massa amorfa. La filigrana e la granulazione sono utilizzate dagli orefici etruschi in combinazione con tecniche di origine toreutica, tra cui lo stampaggio (che consiste nell’impressione su una lamina d’oro di una matrice con elementi decorativi a rilievo, o più raramente incusi), lo sbalzo (che produce motivi a rilievo sulla superficie di un manufatto in lamina per battitura dal retro con un martello a testa smussata), la cesellatura (che dà luogo a raffinati disegni incisi) o l’intarsio, che prevede l’inserimento in cavità predisposte sulla superficie di frammenti di pietre dure, coralli o altro, con esiti spettacolari in età orientalizzante attraverso l’impiego dell’ambra che giunge in Etruria dal Baltico, per esempio in sontuosi pettorali, come quello che ornava la veste della defunta inumata all’interno della tomba Galeassi di Palestrina e attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma.
Nel periodo orientalizzante si afferma presso la ricca clientela etrusca un ampio ventaglio tipologico di ornamenti personali in oro, particolarmente ricco per gli oggetti di pertinenza femminile: la donna in questo periodo è del resto concepita come una sorta di agalma, e risulta la principale destinataria dei beni di lusso, sia quelli allotri provenienti dai traffici transmarini o derivanti dalle politiche di dono e di scambio spesso legate al matrimonio, sia quelli di produzione locale. Le ricche parures femminili rinvenute in tombe celeberrime come la già ricordata Regolini Galassi di Cerveteri risultano costituite da collane, armille e orecchini, pettorali, fibule e brattee auree sbalzate destinate ad essere cucite sulle vesti e sulle cinture, aghi crinali e fermatrecce; alcuni di questi oggetti sono caratterizzati da proporzioni sovradimensionate, che ne rendono pressoché impossibile un utilizzo pratico, come l’enorme fibula a disco dalla tomba appena citata, e si configurano quindi esclusivamente come eloquenti marcatori dell’elevato status sociale della defunta.
I modelli sono talvolta evoluzioni di forme già attestate in ambito villanoviano, come il tipo di medaglione a bulla in lamina d’oro (forma destinata ad essere conservata a lungo, per essere poi adottata nell’oreficeria di età romana, dove permarrà fino al IV secolo), più spesso riprese e rielaborazioni di monili di foggia orientale; le decorazioni rielaborano il repertorio iconografico orientalizzante, riprendendo i motivi della potnia e del despotes theron (la “signora” e il “signore degli animali”), teorie di animali reali o fantastici, figure femminili con scettri e flabelli e motivi fitomorfi, tra i quali prevale il fiore di loto. Gli ornamenti di pertinenza maschile si riducono essenzialmente ai grandi affibbiagli per mantello e alle fibule, delle fogge più svariate, tra le quali prevalgono per decorativismo i modelli ad arco serpeggiante con ricca decorazione zoomorfa plastica e superfici campite a granulazione, di cui costituisce un esempio insigne la cosiddetta Fibula Corsini, rinvenuta nella tomba 41 della necropoli della Banditella a Marsiliana d’Albegna, ma certamente da ricondurre ad una bottega orafa etrusco-meridionale, forse ceretana, la stessa cui sono da attribuire alcune delle oreficerie più sontuose tra quelle rinvenute a Palestrina e a Cerveteri. Non meno ricche sono le oreficerie prodotte in Etruria nel corso dell’età arcaica, quando si diffonde uno stile di vita ispirato a quello del mondo ionico, improntato anch’esso all’opulenza, anche se caratterizzato da un gusto più raffinato e meno fastoso.
Prodotto caratteristico dell’epoca è l’orecchino “a bauletto”, ottenuto con una lamina aurea ricurva decorata con varie tecniche (filigrana, granulazione, sbalzo) spesso con motivi fitomorfi. Diffusi sono anche gli orecchini a disco, che riecheggiano modelli di origine lidia diffusi sia nella Grecia orientale che nella Grecia propria, oltre che nelle città magnogreche. Ai decenni centrali del VI secolo a.C. risale l’introduzione degli anelli digitali, tra i quali particolarmente diffusi risultano i modelli con castone ovale, del tipo detto a cartouche, decorato a sbalzo, ad incisione o ad intaglio, derivanti dagli anelli a cartiglio egizi, imitati in area fenicio-cipriota e diffusi anche nella Grecia orientale: nei castoni sono riprodotte teorie di animali reali e fantastici tratte dal repertorio orientalizzante, ma anche soggetti narrativi o scene tratte dal mito.
Verso la fine del secolo si diffondono anche gli anelli a verghetta con gemma a scarabeo girevole: un modello che continuerà ad essere diffuso fino all’età ellenistica, epoca che vede una nuova fioritura nelle produzioni orafe etrusche all’interno di una più generale ripresa delle attività artigianali, da ricondurre almeno in parte all’affermazione, soprattutto nelle città dell’Etruria meridionale, di una nuova aristocrazia terriera bramosa di lussuosi status symbol, e al cui servizio si mettono numerosi artigiani che giungono in Etruria dalla Grecia. Nell’ambito della produzione orafa, tra la fine del IV e il III secolo a.C. tornano in auge tecniche ornamentali cadute un po’ in disuso nel corso del V secolo a.C., come la filigrana e soprattutto la granulazione, che giunge in questo periodo ad una straordinaria raffinatezza. Tra gli ornamenti in oro più in voga in quest’epoca vanno ricordati almeno i sontuosi diademi funerari con foglie applicate sul supporto desinente ai lati in elementi figurati a stampo; gli orecchini, del vistoso tipo “a grappolo” come quelli indossati da Velia nel celebre ritratto dipinto nella tomba dell’Orco I di Tarquinia, o del tipo ad anello tortile, derivante da prototipi greci o magnogreci, spesso con protome satiresca o negroide talvolta realizzata in ambra; e infine le ricche collane, con vaghi in oro alternati ad elementi in pasta vitrea e a pendenti lavorati a sbalzo.