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I singoli reati
Nel campo dei delitti contro la pubblica amministrazione, il 2012, culminato con la legge di riforma che ha interessato soprattutto i delitti in tema di corruzione e concussione, è stato segnato da alcuni rilevanti approdi interpretativi della giurisprudenza.
Due provvedimenti della Consulta, in particolare, hanno riguardato l’utilizzazione abusiva, ad opera dei custodi designati, di veicoli sottoposti a sequestro amministrativo per gravi infrazioni al codice della strada. Una prima decisione di inammissibilità, assunta «su base interpretativa», ha favorito il chiarimento delle varie possibili qualificazioni giuridiche (C. cost., 4.11.2011, n. 287). Il primo comma dell’art. 334 c.p. concerne la «sottrazione» commessa dal custode a favore del proprietario del bene sequestrato, mentre il secondo sanziona il fatto del proprietario che sia anche custode. Un paio di anni orsono la Suprema Corte aveva stabilito che sussiste un rapporto di specialità tra la norma amministrativa che sanziona qualunque ipotesi di «circolazione abusiva» dei veicoli in sequestro (art. 213, co. 4, c.d.s.) e le citate fattispecie del codice penale, di talché, secondo il principio espresso all’art. 9 l. 24.11.1989, n. 689, deve applicarsi solo la sanzione amministrativa (Cass. pen., S.U., 28.11.2010, n. 1963/2011). Con la sua più recente decisione, la Consulta ha sostanzialmente avallato l’assunto, e da qui si è mossa per suggerire l’esistenza di un analogo rapporto di specialità tra la norma del c.d.s. e la fattispecie di peculato (art. 314 c.p.), astrattamente configurabile a carico del custode non proprietario che commetta il fatto nell’interesse proprio, e non del proprietario medesimo. Il giudizio di inammissibilità della questione, che mirava ad estendere l’ipotesi del peculato d’uso ai casi di omessa restituzione della cosa per fatto incolpevole, è dipeso dalla prospettata irrilevanza penalistica del fatto contestato nel giudizio a quo.
Particolarmente interessante, ed a sua volta risolta in una dichiarazione di inammissibilità «su base interpretativa», la seconda decisione in materia (C. cost., 7.3.2012, n. 58). L’art. 335 c.p. introduce una responsabilità colposa per delitto riguardo al custode che favorisca la sottrazione della cosa in sequestro. Dopo l’affermarsi della tesi circa l’irrilevanza penalistica dei fatti dolosi commessi dai custodi di veicoli in sequestro, la previsione aveva obiettivamente assunto una connotazione paradossale. La Consulta ha «suggerito» che anche i fatti colposi che agevolino la «circolazione abusiva» di un mezzo sarebbero punibili solo con sanzioni amministrative, in forza del già citato principio di prevalenza della norma amministrativa speciale sulla fattispecie penale a carattere generale. Gli illeciti amministrativi sono puniti indifferentemente a titolo di dolo o di colpa (art. 3 l. n. 689/1981), e pertanto risulterebbe perfettamente concepibile un concorso colposo del custode nel fatto doloso commesso dal responsabile della circolazione abusiva del veicolo (art. 5 l. n. 689/1981). Recuperata l’unità della fattispecie concreta, e la sua qualificazione ex art. 213, co. 4, c.d.s., non resterebbe che constatarne, appunto, la relazione di specialità con il corrispondente illecito penale.
Occorre far cenno, cambiando argomento, alla decisione delle Sezioni Unite intervenuta su un risalente contrasto, relativo al delitto di abusivo esercizio di una professione (art. 348 c.p.), e sostanzialmente incentrato sulla rilevanza (o non) del compimento di attività non riservate in esclusiva ai titolari di una abilitazione, ma «caratteristiche» della relativa professione. Nella specie, si discuteva delle attività di gestione contabile e fiscale poste in essere da soggetti non abilitati quali ragionieri, periti commerciali o commercialisti.
Sul piano generale, si è stabilito che il reato sussiste quando vengano compiuti atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica della stessa, sempre che ricorrano modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. Nello specifico, alla luce delle disposizioni contenute nei d.P.R. 27.10.1953, nn. 1067 e 1068, è stato escluso che – per quanto svolte in modo continuativo, organizzato e retribuito, così da generare l’apparenza d’una attività svolta da soggetto regolarmente iscritto ad un albo professionale – rilevino ex art. 348 c.p. le condotte di gestione contabile e fiscale tenute da persone non abilitate, con la specificazione che le condotte indicate invece rilevano, dato il diverso assetto delle attribuzioni tipiche delle professioni, quando tenute nella vigenza del d.lgs. 28.6.2005, n. 139 (Cass. pen., S.U., 15.12.2011, n. 11545/2012).
Con la l. 1.10.2012, n. 172, il Parlamento italiano ha finalmente autorizzato la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. La legge, al fine di adeguare l’ordinamento interno, ha modificato o introdotto numerose norme di diritto penale sostanziale e processuale. Tra le prime, molte riguardano reati contro la famiglia e la persona, di cui si dirà più avanti. Alcune disposizioni, però, innovano il quadro dei delitti contro l’ordine pubblico.
In primo luogo è istituito (art. 4, co. 1, lett. b) un nuovo delitto di Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (art. 414 bis c.p.). È posto in essere, sempre che il fatto non costituisca un più grave reato, da chiunque istighi pubblicamente a commettere delitti (analiticamente elencati) in materia di pornografia minorile, di abuso sessuale su minori e di violenza sessuale. Pena prevista è la reclusione da un anno a sei mesi a sei anni, che si applica (co. 2) anche nei confronti di chi faccia pubblica apologia dei delitti appena citati. Il terzo comma del nuovo art. 414 bis c.p. stabilisce che non possano essere invocate, quali scusanti delle condotte, «ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume».
La legge in questione ha poi introdotto (con l’art. 4, co. 1, lett. c) una nuova fattispecie aggravante per il delitto di associazione per delinquere. Nell’art. 416 c.p. è stato infatti inserito un ultimo comma che prevede un severo incremento di pena quando l’associazione sia costituita al fine di commettere delitti di pedopornografia e di violenza o abuso sessuale (partitamente elencati) in danno di persone minori degli anni diciotto. La sanzione varia tra i quattro e gli otto anni di reclusione per i promotori ed i capi dell’organizzazione, mentre i partecipi sono puniti con la reclusione da due a sei anni.
Con la l. n. 172/2012, della quale si è detto nel paragrafo che precede, è stato integralmente novellato il testo dell’art. 572 c.p. La novità più rilevante emerge già dalla rubrica della previsione riformata, che si riferisce a Maltrattamenti contro familiari e conviventi.
In effetti, nel testo del primo comma, l’ambito di applicazione della disciplina risulta esteso ad ogni specie di aggregazione in un rapporto di convivenza: è punito chiunque maltratti «una persona della famiglia o comunque convivente», e l’espressione pare trascendere il fenomeno delle cd. famiglie di fatto, per investire anche forme di aggregazione non emulative del rapporto familiare (comunità religiose o terapeutiche, ecc.), purché naturalmente diano vita a fenomeni di vita in comune (con caratteristiche – deve ritenersi – di pur minima stabilità, data anche la natura di reato abituale della fattispecie in discorso). Quanto ai soggetti passivi, la nuova norma, eliminato l’originario e specifico riferimento ai minori di quattordici anni, continua a comprendere i soggetti affidati ad altri per ragioni educative, di vigilanza o di addestramento professionale. L’età minore degli anni quattordici, nelle ipotesi in questione come per il caso di soggetti maltrattati nell’ambito d’un rapporto di convivenza, costituisce, in forza del secondo comma del novellato art. 572 c.p., fattore di aggravamento della pena (già elevata, per l’ipotesi base, fino a due anni di reclusione per il minimo ed a sei anni per il massimo).
Sensibili incrementi del quadro sanzionatorio sono stati introdotti anche, con il terzo comma, quando il fatto di maltrattamento è seguito da un evento aggravante: la pena massima sale a nove anni nel caso di lesioni personali gravi, ed a ventiquattro anni nel caso di morte del soggetto passivo.
Ulteriori novità nella disciplina dei delitti contro la famiglia sono intervenute per effetto della parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 569 c.p., intervenuta con la sentenza C. cost., 23.2.2012, n. 31. La norma – che prevede per i delitti contro lo stato di famiglia la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale – è stata oggetto di una resezione molto mirata, che ha travolto la misura solo riguardo alla più grave delle due fattispecie di alterazione di stato (art. 567, co. 2, c.p.), e nella sola parte in cui conseguiva «di diritto» all’affermazione di responsabilità, cioè precludendo «al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto». In sostanza, l’ennesima recente presa di posizione della Consulta contro gli «automatismi sanzionatori», e più in generale contro le norme che implicano la restrizione di diritti fondamentali sulla base di presunzioni assolute non riconducibili all’id quod plerumque accidit (possono citarsi genericamente, qui, sia le sentenze sulle norme processuali in tema di custodia in carcere, sia la decisione “sostanziale” sulla preclusione delle attenuanti generiche in danno del recidivo).
Il primo snodo del ragionamento seguito dalla Corte attiene alla mutata percezione, nella società come nell’ordinamento giuridico, della potestà genitoriale. La motivazione della sentenza è ricca di riferimenti alle fonti, sovranazionali ed interne, che disciplinano la materia. Da un lato emerge come la potestà genitoriale sia considerata non più quale prerogativa dell’adulto ma, piuttosto, quale posizione di servizio nell’interesse del minore, il quale va accompagnato, possibilmente nell’ambito della famiglia naturale, lungo tutto il suo percorso di crescita. Per altro verso, l’interesse del minore nel caso concreto deve essere il criterio di decisione prevalente in ogni fattispecie che riguardi la potestà parentale. Esattamente quel che non consente una decadenza «automatica», che scarica su di un soggetto incolpevole gli effetti di un intervento punitivo diretto ad un soggetto diverso, anche quando la prosecuzione del rapporto genitoriale corrisponderebbe al suo interesse.
La ratio della decisione sembra suscettibile di estensione, quanto meno, rispetto ad altre ipotesi di applicazione «obbligatoria» della pena accessoria. Ed infatti, con ord. 7.6.2012, n. 23167, la Suprema Corte ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine allo stesso art. 569 c.p., nella parte in cui fa conseguire «di diritto» (e non secondo una valutazione estesa all’interesse del minore nel caso concreto) la decadenza della potestà genitoriale alla condanna per il delitto di soppressione di stato (art. 566, co. 2, c.p.).
La già citata l. n. 172/2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ha tra l’altro operato una importante riforma del Titolo XII del Libro II del codice penale.
In particolare, nell’ambito dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale vanno segnalate:
a) una modifica dell’art. 576, n. 5, c.p., che estende le ipotesi di omicidio punito con l’ergastolo ai casi di realizzazione del fatto in occasione della commissione dei delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), nonché di prostituzione e pornografia minorile (artt. 600 bis e 600 ter c.p.);
b) l’inasprimento del trattamento sanzionatorio delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583 bis c.p.), per le quali sono state previste nuove pene accessorie in caso di condanna o di patteggiamento, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore. Si tratta, rispettivamente, della decadenza dall’esercizio della potestà di genitore e dell’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno.
Quanto ai delitti contro la personalità individuale si segnalano:
a) la riformulazione, in senso estensivo del penalmente rilevante, delle fattispecie di prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.) e di pornografia minorile (art. 600 ter c.p.; viene tra l’altro attribuito rilievo al fatto di chi assiste a esibizioni o spettacoli pornografici in cui siano coinvolti minori). In relazione a tale ultima figura delittuosa va peraltro segnalata l’introduzione di una definizione legale del concetto di «pornografia minorile»: per tale deve intendersi «ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali»;
b) la ridefinizione del trattamento sanzionatorio dei delitti contro la personalità individuale (nonché dei delitti sessuali commessi a danno di minori), attuata mediante la previsione di nuove circostanze aggravanti e attenuanti (abrogazione dell’art. 600 sexies c.p.; introduzione del nuovo art. 600 septies.1 c.p.; riformulazione dell’art. 602 ter c.p.), nonché la modifica della disciplina della confisca (riformulazione dell’art. 600 septies c.p.) e delle pene accessorie (abrogazione dell’art. 602 bis c.p.; nuovo art. 600 septies.2 c.p.);
c) l’introduzione, nel nuovo art. 602 quater c.p., di un’inedita disposizione in tema di ignoranza dell’età della persona offesa, armonica con il principio di colpevolezza, ai sensi della quale, quando i delitti contro la personalità individuale (artt. 600 ss. c.p.) sono commessi in danno di un minore degli anni diciotto, «il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile».
Oggetto di riforma sono infine, tra i delitti contro la libertà personale, i “reati sessuali”. Si segnalano:
a) la riformulazione delle fattispecie di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.: sostituito il secondo comma) e di corruzione di minorenne (sostituito l’art. 609 quinquies c.p.);
b) l’introduzione dell’inedita figura dell’adescamento di minorenni nell’art. 609 undecies c.p., che punisce con la reclusione da uno a tre anni, se il fatto non costituisce più grave reato, «chiunque, allo scopo di commettere i reati di cui agli articoli 600, 600 bis, 600 ter e 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, adesca un minore di anni sedici». Una definizione legale, contenuta nella stessa norma incriminatrice, stabilisce che «per adescamento si intende qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione»;
c) una pluralità di modifiche della disciplina dei reati sessuali relative all’ipotesi della commissione del fatto all’estero (novellato l’art. 604 c.p.), alla previsione della comunicazione al tribunale per i minorenni (riformato art. 609 decies c.p.) e alle pene accessorie (riformulato l’art. 609 novies c.p.). Da segnalare altresì (sempre nel novellato art. 609 novies c.p.) la previsione di nuove misure di sicurezza personali. La condanna per i delitti previsti dall’art. 600 bis, co. 2, dall’art. 609 bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 609 ter, dagli artt. 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, nelle ipotesi aggravate di cui al terzo comma del medesimo articolo, comporta, dopo l’esecuzione della pena e per una durata minima di un anno, l’applicazione delle seguenti «misure di sicurezza personali»: 1) l’eventuale imposizione di restrizione dei movimenti e della libera circolazione, nonché il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati abitualmente da minori; 2) il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori; 3) l’obbligo di tenere informati gli organi di polizia sulla propria residenza e sugli eventuali spostamenti. Si prevede, introducendo una nuova norma incriminatrice, che chiunque non osserva le disposizioni relative alle anzidette misure di sicurezza è punito con la reclusione fino a tre anni.
Da ultimo, in relazione alla nota disciplina dell’ignoranza dell’età della persona offesa, va segnalato – e indubbiamente salutato con favore – l’espresso rilievo attribuito alla «ignoranza inevitabile», che è fatta salva. Il legislatore, riformulando l’art. 609 sexies c.p., ha così recepito le indicazioni della Corte costituzionale (C. cost., 24.7.2007, n. 322) e, finalmente, adeguato la disposizione al principio di colpevolezza (art. 27, co. 1, Cost.).
Nell’ambito dei delitti contro il patrimonio vanno segnalate anzitutto due novità normative, che riguardano l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i delitti di estorsione e di “frode in assicurazione”. La l. 27.1.2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi di sovraindebitamento) ha tra l’altro riformato, a decorrere dal 29 febbraio 2012, il trattamento sanzionatorio del delitto di estorsione (art. 629 c.p.), incrementando la misura della pena pecuniaria comminata dalla legge in aggiunta alla pena detentiva (rimasta invece invariata). La multa è stata sostanzialmente raddoppiata per l’ipotesi base di cui al primo comma dell’art. 629 c.p. (non più multa da 516 a 2.065 euro, bensì multa da 1.000 a 4.000 euro), e quintuplicata per l’ipotesi aggravata di cui al secondo comma dello stesso articolo (non più multa da 1.032 e 3.098 euro, bensì multa da 5.000 a 15.000 euro). Si tratta naturalmente di modifiche che, per il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole al reo (art. 25, co. 2, Cost.), non hanno effetto in relazione ai fatti antecedentemente commessi.
Una seconda riforma ha poi interessato il delitto di fraudolento danneggiamento di beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona (art. 642 c.p.). Il d.l. 24.1.2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito con modificazioni dalla l. 24.3.2012, n. 27, ha infatti inasprito la pena della reclusione, aumentando tanto il minimo quanto il massimo edittale: non più reclusione da sei mesi a quattro anni, bensì reclusione da uno a cinque anni. Anche in questo caso, vale di pena di ricordarlo, opera il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole al reo.
Va ancora segnalato che nell’ultimo anno alcune tra le principali figure comprese tra i delitti contro il patrimonio sono state oggetto di pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (per una pronuncia della Corte costituzionale – sent. 23.3.2012, n. 68 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice del sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 c.p., per contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità, v. Scelte sanzionatorie del legislatore e sindacato di legittimità).
In tema di rapina, anzitutto, le S.U. hanno affrontato un’annosa questione, che da tempo divide dottrina e giurisprudenza: «se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità» (il caso venuto in rilievo è quello di due uomini, introdottisi in un appartamento per realizzare un furto, fallito per l’inaspettato rientro nell’abitazione della proprietaria, nei cui confronti gli stessi hanno adoperano violenza e minaccia per guadagnare la fuga e l’impunità). Come è noto, la rapina impropria (art. 628, co. 2, c.p.) si configura allorché l’agente usa la violenza o la minaccia non già come mezzo per impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (come nella rapina propria), bensì, «immediatamente dopo la sottrazione», come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per procurare a sé o ad altri l’impunità. Nella rapina propria, dunque, la violenza e la minaccia sono precedenti o concomitanti rispetto alla sottrazione; nella rapina impropria sono invece successive rispetto ad essa.
Da tempo, in relazione alla questione sottoposta alle S.U., le rispettive posizioni della dottrina e della giurisprudenza sono contrapposte: la dottrina maggioritaria nega la configurabilità del tentativo di rapina impropria, mentre la giurisprudenza maggioritaria l’ammette. Solo in anni recenti (a partire da Cass. pen., 12.7.1999, n. 3796) si è fatto strada, nella giurisprudenza di legittimità, un orientamento minoritario concorde con la posizione della dottrina maggioritaria, e proprio l’affermazione di un simile orientamento ha occasionato la rimessione della questione alle Sezioni Unite, le quali però, con una sentenza recentemente depositata (Cass. pen., S.U., 19.4.2012, n. 34952), hanno ribadito l’orientamento maggioritario della giurisprudenza. La Corte ha infatti ritenuto la configurabilità del tentativo di rapina impropria, anche in difetto della sottrazione della cosa mobile altrui, allorché l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della res, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità. Contrariamente a quanto sostenuto dalla tesi avversa, infatti, la lettera della legge («dopo aver sottratto …») non precluderebbe la configurabilità del tentativo in caso di mancata sottrazione della res, poiché si limiterebbe a sottolineare, nel contesto di un reato complesso come la rapina, il «nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere», cioè delle aggressioni al patrimonio e alla persona. D’altra parte, sempre secondo le Sezioni Unite, proprio la lettera della legge deporrebbe a favore della configurabilità del tentativo. La finalità di assicurarsi il possesso è infatti posta in alternativa a quella di procurarsi l’impunità: quest’ultima finalità, dunque, potrebbe sussistere «anche senza previa sottrazione». Il concetto di “sottrazione” («dopo la sottrazione») abbraccerebbe infatti «tutte le fasi in cui essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del tentativo di impossessamento a quello finale dell’impossessamento della cosa che ne è oggetto». D’altra parte, nota ancora la Corte, alla tesi della configurabilità del tentativo non può nemmeno opporsi la natura di presupposto della condotta, e non già di elemento costitutivo del fatto, propria della condotta di sottrazione: la sottrazione, unitamente alla violenza o alla minaccia (finalisticamente orientate al possesso o all’impunità) rappresenta, nell’ambito del reato complesso (e a formazione progressiva) di rapina, la condotta incriminata. Viene poi invocato il principio – invero non pacifico – secondo cui si avrebbe tentativo di reato complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell’una né dell’altra condotta, sia quando (come nel caso che ci occupa) sia stata raggiunta la consumazione dell’una (violenza/minaccia) e non dell’altra (sottrazione della cosa altrui). D’altra parte, ed infine, le S.U. osservano come il particolare disvalore della rapina impropria dipenda dal legame strutturale e, in particolare finalistico, tra le offese al patrimonio e alla persona; legame che non viene meno anche se l’offesa al patrimonio non sia compiutamente realizzata, perché l’agente ha posto in essere un mero tentativo di sottrazione.
A proposito dell’estorsione (art. 629 c.p.), le S.U. hanno invece affrontato la seguente questione: «se per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, sia necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento in cui si realizzano la violenza o la minaccia, oppure sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepisca che la violenza o la minaccia provengano da più persone». Secondo un primo indirizzo, la predetta circostanza richiederebbe necessariamente la presenza simultanea di almeno due persone nel luogo e nel momento in cui si realizza l’azione di violenza o di minaccia; secondo un diverso e maggioritario indirizzo – formatosi in tema di estorsione “a distanza”, per mezzo del telefono o per lettera –, l’aggravante in questione sarebbe invece ravvisabile quando il soggetto passivo abbia avuto la “sensazione” o la “percezione” o la “conoscenza” che l’azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la simultanea presenza delle stesse. La Corte ha risolto il contrasto giurisprudenziale pronunciandosi a favore della tesi fino a quel momento minoritaria in giurisprudenza: «per integrare l’aggravante speciale delle ‘più persone riunite’ nel delitto di estorsione è necessaria la contemporanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia, poiché a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, e quella logico sistematica» (Cass. pen., S.U., 29.3.2012, n. 21837).
Va altresì segnalato – questa volta in tema di truffa (art. 640 c.p.) – un interessante principio affermato dalle S.U. in una sentenza depositata nel gennaio del 2012 (Cass. pen., S.U., 29.9.2011, n. 155/2012). La questione controversa riguardava i termini processuali, e non il delitto di truffa; ciò non ha peraltro impedito alla Corte, nell’esaminare il ricorso sottopostole, di prendere posizione anche in materia di truffa e, in particolare, relativamente al requisito dell’atto di disposizione patrimoniale. Le S.U., conformemente a un’affermazione da tempo diffusa in dottrina e in giurisprudenza, riconoscono che si tratta di un “requisito implicito”, che apparentemente – si sottolinea – «evoca categorie civilistiche»; tuttavia, «nulla nella formulazione della norma consente di restringere l’ambito della ‘collaborazione carpita mediante inganno’ ad un atto di disposizione da intendersi nell’accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all’inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l’ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l’integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell’errore in cui è caduto per fatto dell’agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima. Se, insomma, il senso riposto dell’atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un’azione che viene svolta all’interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, «il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall’errore indotto da una condotta artificiosa». E in relazione al caso sottoposto al suo giudizio la Corte ha concluso che «non può per conseguenza in linea teorica escludersi che tale atto volontario consista nella dazione di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere eseguire un ordine del giudice conforme a legge».
Da segnalare ancora, in tema di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), una pronuncia con la quale le Sezioni Unite hanno affermato che non integra il reato di cui all’art. 646 c.p., ma solo un illecito civile, la condotta del datore di lavoro il quale, incaricato dal lavoratore di cedere una quota della sua retribuzione a un terzo creditore (nella specie, un istituto finanziario) per estinguere un mutuo, ometta di versare le relative rate (Cass. pen., S.U., 25.5.2011, n. 37954). La Corte, con una pronuncia interessante per la delimitazione del concetto di “altruità” del denaro o della cosa mobile oggetto della condotta di appropriazione indebita, argomenta la soluzione accolta osservando come «in relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista – ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo – la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell’assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall’art. 36 Cost.; sicché non v’è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita».
Da ultimo, va segnalata anche solo con un accenno un’interessante sentenza delle Sezioni Unite in tema di ricettazione (art. 648 c.p.), che ha affrontato la seguente questione: «se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata» (Cass. pen., S.U., 19.1.2012, n. 22225). La Corte ha dato al quesito risposta negativa: l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata risponde infatti dell’illecito amministrativo previsto dal d.l. 14.3.2005, n. 35, conv. nella l. 14.5. 2005, n. 80, nella versione modificata dalla l. 23.7.2009, n. 99, e non già di ricettazione o di “incauto acquisto” (art. 712 c.p.), attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati, alla luce del rapporto di specialità.
Un inasprimento del trattamento sanzionatorio dei reati informatici è stato operato – in maniera tanto inusuale quanto inopportuna – modificando la disposizione generale sulla confisca, di cui all’art. 240 c.p. A ciò ha provveduto la l. 15.2.2012, n. 12 (Norme in materia di misure per il contrasto ai fenomeni di criminalità informatica), che ha inserito un nuovo numero 1-bis) nell’art. 240, co. 2, c.p. e, con esso, nuove ipotesi di confisca obbligatoria «dei beni o degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione» dei seguenti reati: accesso abusivo a un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.); detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici (art. 615 quater c.p.); diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico (art. 615 quinquies c.p.); intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617 quater c.p.); installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire od interrompere comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617 quinquies c.p.); falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617 sexies c.p.); le varie ipotesi di danneggiamento di informazioni, dati, programmi informatici, ovvero di sistemi informatici o telematici (artt. 635 bis-635 quinquies c.p.); frode informatica (artt. 640 ter e 640 quinquies c.p.).
La confisca di cui si tratta riguarda anche i reati – non propriamente informatici – di installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617 bis c.p.) e di falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617 ter c.p.).
Il riformulato terzo comma dell’art. 240 c.p. fa poi salva l’ipotesi che lo strumento informatico o telematico appartenga a persona estranea al reato e prevede che la confisca obbligatoria dei beni e degli strumenti informatici o telematici si applichi anche nel caso di patteggiamento.
Se con l’espressione “reati fallimentari” si arriva a comprendere l’apparato sanzionatorio che circonda in genere le procedure di gestione del debito, allora il 2012 ha registrato novità particolarmente rilevanti. Buona parte di esse è il frutto dell’intenzione, almeno concorrente, di contrastare il fenomeno dell’usura, creando soluzioni “alternative” per coloro che necessitano di credito. Non a caso, la nuova procedura per le crisi da sovraindebitamento è stata introdotta con la l. 27.1.2012, n. 3, destinata appunto, in primo luogo, a dettare misure contro l’usura e l’estorsione.
La procedura concerne situazioni di perdurante squilibrio tra patrimonio prontamente liquidabile e obbligazioni assunte, nonché di incapacità definitiva di adempiere regolarmente alle obbligazioni stesse. Viene attivata dall’interessato, si fonda su un accordo con i creditori, e coinvolge un organismo di composizione della crisi che opera, con varie funzioni, a supporto del giudice. La disciplina è stata profondamente incisa, a pochi mesi dalla sua approvazione, mediante il d.l. 18.10.2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del paese), tra l’altro riguardo alla previsione di un «piano del consumatore» in favore delle persone fisiche che abbiano assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Inoltre, quale alternativa alla proposta di composizione, il debitore è ammesso ad una peculiare procedura di liquidazione di tutti i suoi beni. Va aggiunto che le funzioni assegnate agli organismi di composizione della crisi possono essere assicurate anche da notai o da professionisti in possesso dei requisiti per la nomina a curatore fallimentare.
Le norme di presidio penale della regolarità delle procedure si rivolgono per un verso al debitore, e per l’altro ai soggetti investiti delle funzioni di composizione. Nell’impianto originario della legge erano descritte (al co. 1 dell’art 19), quanto al debitore, condotte per la gran parte riconducibili alle figure generali del diritto penale fallimentare: forme di dissimulazione o simulazione dell’attivo o del passivo, falsificazione o distruzione di documenti, pagamenti preferenziali, aggravamento del debito; era configurata anche una fattispecie di violazione “intenzionale” dei contenuti dell’accordo. La pena prevista, per ciascuna delle violazioni, consisteva nella reclusione da sei mesi a due anni e nella multa da 1.000 a 50.000 euro. Per i membri dell'organismo di composizione erano sanzionati i falsi nelle attestazioni di competenza, oppure il rifiuto o l’omissione di atti con pregiudizio ai creditori (co. 3), mediante pene comprese tra uno e tre anni per la reclusione, e tra 1.000 e 50.000 euro per la multa.
La riforma dell’ottobre 2012 ha sostanzialmente soppresso l’art. 19, trasferendo le norme di sanzionamento penale nel novellato art. 16 della stessa l. n. 3/2012. Riguardo al co. 1, per le condotte riferibili al debitore, si segnalano soprattutto la nuova previsione circa l’omessa indicazione di beni nell’inventario pertinente alla procedura di liquidazione, e la violazione intenzionale del «piano del consumatore». Nei co. 2 e 3 si registra, oltreché l’adeguamento delle fattispecie alla nuova strutture delle procedure, l’estensione della responsabilità dei componenti degli organismi di composizione ai professionisti cui possono essere assegnate le medesime funzioni. I valori edittali delle sanzioni previste per i due gruppi fondamentali di condotte sono rimasti invariati.
Vi sono stati anche, nel corso dell’ultimo anno, interventi normativi specificamente riguardanti il sistema dei reati fallimentari. Un effetto indiretto si collega alla riforma attuata, sempre mediante la l. n. 3/2012, dell’art. 14 della l. 7.3.1996, n. 108, concernente l’erogazione di mutui, attraverso un apposito «fondo di solidarietà», agli imprenditori vittime di usura. La novella (con un nuovo comma 2-bis del citato art. 14) ha esteso la possibilità di accesso anche agli imprenditori dichiarati falliti, escludendone però coloro i quali abbiano riportato condanne definitive per reati fallimentari (oltre che per ulteriori delitti). L’affermazione di responsabilità per fatti previsti dal titolo VI della legge fallimentare, in sostanza, produce tra gli altri l’effetto del divieto di accesso ai fondi pubblici anti-usura.
Infine, nell’ambito delle misure adottate per favorire la continuità aziendale (d.l. 22.6.2012, n. 83, conv., con modificazioni, nella l. 7.8.2012, n. 134), sono stati attuati ulteriori interventi riguardo alle disposizioni penali della legge fallimentare. Il primo tra essi (lett. l-bis del comma 1 dell’art. 33) ha ristretto l’ambito di applicazione delle fattispecie di bancarotta, attraverso la modifica dell’art. 217 bis: l’incriminazione resta esclusa anche in relazione ai pagamenti ed alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice nel contesto della nuova procedura disciplinata dall’art. 182 quinquies della stessa legge fallimentare. In secondo luogo va segnalata la fattispecie incriminatrice dell’art. 236 bis (introdotta ex art. 33, co. 1, lett. l, del citato d.l. n. 83/2012). È punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro (pene aumentate per fatti commessi con fine di ingiusto profitto, o produttivi di danno per i creditori), il professionista che ometta informazioni rilevanti, o fornisca false attestazioni, nelle relazioni finalizzate a stabilire se debbano essere revocati atti a titolo oneroso, o nelle relazioni previste dalle procedure di concordato preventivo o di accordo per la ristrutturazione del debito.
Oltre a quanto già si è detto in materia di sequestro amministrativo di veicoli (supra, § 1), vanno segnalate alcune ulteriori novità.
Il 19 gennaio 2013, secondo il disposto dell’art. 28 d.lgs. 18.4.2011, n. 59, entreranno in vigore gran parte delle modifiche recate dallo stesso decreto al codice della strada. Tra queste, il testo completamente novellato (ex art. 3) dell’art. 116 c.d.s., che regola la cruciale materia della patente di guida e contiene, per quanto più interessa, la norma di sanzionamento penale per la condotta di chi conduca veicoli senza aver conseguito la necessaria abilitazione.
Al momento, il co. 13 del citato art. 116 prevede l’irrogazione dell’ammenda (fino a 9.032 euro) e, «nell’ipotesi di reiterazione del reato nel biennio», la pena congiunta dell’arresto fino ad un anno. Per l’ipotesi della reiterazione, il co. 18 prevede inoltre la sanzione accessoria della confisca amministrativa del veicolo. Il co. 15 della disposizione novellata collega l’applicazione della pena congiunta (rimasta invariata) al caso di «recidiva nel biennio», e parallelamente, al co. 17, la confisca è prescritta per il caso di «recidiva delle violazioni».
Va segnalata, cambiando argomento, la soluzione di un rilevante problema interpretativo in tema di sanzioni per la guida in stato di ebbrezza. Com’è noto, con l’introduzione dell’art. 186 bis c.d.s., il legislatore ha specificamente regolato la condotta di soggetti “particolari” (giovani infraventunenni, o conducenti professionali di mezzi a motore). La disposizione si specializza rispetto a quella dell’art. 186, che riguarda chiunque conduca veicoli sotto l’influenza dell’alcool. La norma generale prevede, al co. 9-bis, la possibilità di sostituire la pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità. Ma la disposizione concernente i conducenti “speciali”, pur stabilendo espressamente (al co. 6) l’applicabilità di diverse previsioni dell’art. 186, non richiama quella concernente la sanzione sostitutiva. Di qui l’assunto che, nel caso appunto delle categorie speciali di conducenti, non potrebbe essere disposto il lavoro di pubblica utilità in luogo della pena detentiva e pecuniaria. Preclusione tanto più sorprendente considerando che, nel caso di guida in stato di intossicazione da sostanze stupefacenti, la misura sostitutiva può essere applicata senza alcuna distinzione tra categorie di conducenti (co. 8-bis dell’art. 187).
Sulla presunta discriminazione è stato sollecitato l’intervento della Consulta, la quale, però, ha negato la premessa interpretativa della questione, accreditando la tesi per la quale, anche in caso di guida in stato di ebbrezza ad opera di un conducente “speciale”, sarebbe applicabile la sanzione sostitutiva. Il risultato è stato ottenuto, in estrema sintesi, costruendo la previsione dell’art. 186 bis (ed in particolare il co. 3) quale circostanza aggravante dell’ordinaria figura di guida in stato di ebbrezza, cosicché tutte le previsioni sanzionatorie concernenti l’ipotesi base, a prescindere dall’omissione dello specifico richiamo ad alcune tra esse, sarebbero applicabili in caso di reato circostanziato (C. cost., 27.6.2012, n. 167).
Va ricordato, per concludere, un importante (ed innovativo) arresto della Cassazione a proposito della confisca prevista per il veicolo condotto in stato di ebbrezza. È stato escluso, in particolare, che il provvedimento possa essere adottato (e dunque che possa essere disposto in vista del provvedimento stesso, il sequestro preventivo) quando il mezzo sia condotto in locazione finanziaria, sempreché il concedente, e cioè il proprietario del bene, possa considerarsi estraneo al reato (Cass. pen., S.U., 19.1.2012, n. 14484).
Il contributo è dovuto alla riflessione congiunta degli Autori. I §§ 4, 5 e 6 sono stati redatti da Gian Luigi Gatta; i §§ 1, 2, 3, 7 e 8 da Guglielmo Leo.