Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
Dopo una lunga gestazione ha visto la luce, di recente, un intervento di riforma nel settore dei delitti contro l’attività giudiziaria, attuato mediante la l. 11.7.2016, n. 133 «Introduzione nel codice penale del reato di frode in processo penale e depistaggio».
Il provvedimento ha modificato, in primo luogo, l’art. 375 c.p., finora deputato alla previsione di aggravanti con riguardo alle tradizionali figure di intralcio alla giustizia. La norma punisce oggi (con clausola di sussidiarietà) l’agente pubblico che, con il fine di ostacolare o di sviare un’indagine o un processo penale, manipoli artificiosamente le tracce materiali del reato, o si rifiuti di fornire le informazioni richieste dagli inquirenti o dal giudice, o ancora ne fornisca di false.
La nuova disciplina si applica anche nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che abbiano cessato di esercitare le relative funzioni, ed anche quando le condotte siano tenute in riferimento ad indagini e processi innanzi alla Corte penale internazionale, per i crimini definiti dallo Statuto della Corte medesima.
Le pene edittali aumentano, fino a livelli molto severi, se la manipolazione riguardi una prova documentale o materiale del reato, oppure quando la condotta sia tenuta nell’ambito di procedimenti per reati di particolare gravità, puntualmente elencati nella previsione aggravante. Tra l’altro, le circostanze in questione (commi 2 e 3 della norma novellata) non possono risultare subvalenti rispetto ad eventuali attenuanti, escluse quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p., ed esclusa inoltre quella prevista al comma 4 dello stesso art. 375 c.p. (infra). Inoltre, quando ricorre l’aggravante prevista dal comma 3 (quella cioè costruita intorno alla rilevanza dei delitti il cui accertamento viene ostacolato), il termine di prescrizione del reato è raddoppiato, grazie all’inclusione della fattispecie nell’elenco di cui al comma 6 dell’art. 157 c.p.
Sempre a proposito di circostanze speciali, va aggiunto che la novella è stata l’occasione per innovare la disciplina dei delitti contro l’attività giudiziaria che abbiano prodotto conseguenze di rilevante gravità. Anzitutto, le previsioni del “vecchio” art. 375 sono state riversate in un nuovo art. 383 bis c.p., che reca la rubrica «circostanze aggravanti per il caso di condanna», e modula gli aumenti di pena (con un generale inasprimento) in base all’entità della sanzione inflitta nel procedimento interessato dalla condotta decettiva (la previsione riguarda, oltreché il novello art. 375 c.p., anche i fatti puniti dagli artt. 371 bis, 371 ter, 372, 373 e 374 c.p.). Non basta. Il nuovo art. 384 ter c.p. introduce una previsione aggravante per i fatti di cui agli artt. 371 bis, 371 ter, 372, 374 e 378, quando commessi al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale in relazione ai numerosi e gravi delitti elencati nella medesima previsione, escludendo tra l’altro la sospensione prevista nei casi di false informazioni al pubblico ministero o al difensore.
Un marcato rigore sanzionatorio, che il legislatore ha inteso moderare solo in cambio del ravvedimento operoso dell’agente. Per quanto in particolare concerne la nuova fattispecie di frode in processo penale e depistaggio, il comma 4 del nuovo art. 375 c.p. prevede una rilevante diminuzione dei valori di pena (dalla metà a due terzi) nei confronti di colui che si adopera per ripristinare lo stato delle tracce alterate e per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero collabora concretamente alla ricostruzione del fatto oggetto di inquinamento processuale ed all’individuazione dei relativi autori. La circostanza, come accennato, può prevalere sulle aggravanti specifiche previste dallo stesso art. 375 c.p. Un meccanismo analogo di diminuzione della pena, fondato sugli stessi fattori di ravvedimento, è previsto dal comma 2 dell’art. 384 ter c.p. quanto ai reati elencati nel comma precedente.
La premialità diviene massima in rapporto alla condotta indicata alla lettera b) del comma 1 dell’art. 375 (reticenza o mendacio dell’agente pubblico richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale): mediante l’inclusione della fattispecie nell’elenco dell’art. 376 c.p., il legislatore ha disposto la non punibilità del fatto, quando l’agente, nell’ambito del procedimento inquinato e non oltre la chiusura del dibattimento, ritratta il falso e manifesta il vero.
Nel corso del 2016 il legislatore ha dato attuazione alla Direttiva 2014/62/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, sulla protezione dell’euro e di altre monete, mediante il diritto penale, contro la falsificazione.
Con il d.lgs. 21.6.2016, n. 125, destinato appunto all’attuazione della Direttiva, sono stati aggiunti, anzitutto, due commi all’art. 453 c.p. Il primo (comma 2 della norma novellata) commina la pena già prevista per le ipotesi tradizionali di contraffazione nei confronti di chi, detenendo legalmente strumenti e materiali per la produzione autorizzata di moneta, ne abusa per produrre quantitativi di monete in eccesso rispetto alle prescrizioni. Il terzo ed ultimo comma dell’art. 453 c.p. chiarisce che le relative incriminazioni riguardano anche, sia pur con pena diminuita, le monete non aventi ancora corso legale, quando sia già stabilita la data di decorrenza del corso medesimo.
È stato anche modificato l’art. 461 c.p. Per effetto della novella, la fabbricazione ed il commercio di strumenti per la produzione di moneta può riguardare ormai anche dati informatici, oltre che programmi, e non è più necessario che gli strumenti in questione siano destinati «esclusivamente» alla contraffazione o alterazione di monete, valori di bollo o carta filigranata.
Tra le novità del 2016, nell’ambito del sistema di tutela penale dei beni primari della persona, è compresa anche una sensibile innovazione a proposito del cd. “caporalato”. Tale espressione è generalmente utilizzata per indicare fatti di intermediazione illecita nel collocamento della mano d’opera, cui quasi sempre si connettono fenomeni di sfruttamento, anche brutale e disumano, delle persone che prestano lavoro in condizioni di estremo bisogno.
Dopo la risalente e blanda disciplina penalistica inserita nella normativa sul collocamento, il fenomeno ha trovato adeguata rilevanza nella previsione di una specifica figura delittuosa, non casualmente inserita tra i reati contro la persona (art. 603 bis c.p., come introdotto ex art. 12 del d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14.9.2011, n. 148). Sebbene si trattasse di norme recenti, il legislatore ha ritenuto necessario un nuovo intervento, attuato con la l. 29.10.2016, n. 199 («Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo»).
È stato anzitutto riformato il testo del già citato art. 603 bis, con modifiche che implicano, in sostanza, un sensibile ampliamento del novero delle condotte punibili. Nella sua forma base, il nuovo reato prescinde completamente dalla connotazione violenta, minacciosa o intimidatoria dell’attività di reclutamento o di assunzione diretta dei lavoratori, ed è integrato sol che sussistano l’approfittamento dello stato di bisogno e condizioni tali da qualificare il rapporto nel senso dello sfruttamento. Condizioni, queste ultime, che potranno considerarsi integrate in un numero più elevato di casi, grazie ad interventi sulla struttura linguistica della norma che elenca i pertinenti indici legali (nuovo terzo comma): basse retribuzioni ed eccessiva durata della prestazione devono oggi essere “reiterate”, e non più “sistematiche”; le violazioni della normativa in materia di sicurezza ed igiene del lavoro rilevano in se stesse, e non solo quando espongono a pericolo i lavoratori; altrettanto vale per il ricorso a metodi di sorveglianza ed a condizioni alloggiative degradanti, che non dovranno più essere “particolarmente” squalificati.
Va poi considerato che il ricorso alla violenza ed alla minaccia non ha perso rilevanza, costituendo piuttosto, ai sensi del nuovo secondo comma della disposizione, una fattispecie aggravante, che eleva la sanzione detentiva fino a cinque anni per il minimo (un anno per l’ipotesi base) e ad otto anni per il massimo (contro i sei anni dell’ipotesi base), oltre alla multa massima di 2.000 euro per ogni lavoratore reclutato od assunto. Altre aggravanti specifiche restano disciplinate dall’ultimo comma dell’art. 603 bis, in assonanza con la previsione già esistente (numero od età minore dei lavoratori, o loro esposizione a grave pericolo).
A riprova d’una rinnovata e più allarmata valutazione di gravità sociale del fenomeno, il legislatore ha poi introdotto disposizioni tipiche del contrasto alla criminalità organizzata, tanto sul versante dell’accertamento dei reati, tanto su quello della disincentivazione mediante draconiane misure a carattere patrimoniale.
Nel primo verso si segnala una tipica “attenuante di collaborazione” (nuovo art. 603 bis, co. 1, c.p.), che riserva una diminuzione della pena da un terzo a due terzi a favore di chi, rendendo dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. La previsione esclude l’applicazione dell’analoga disciplina prevista all’art. 600 septies, co. 1, c.p., ed è assistita dallo “strumento” di revisione regolato dall’art. 16 septies del d.l. 15.1.1991, n. 8, che vanifica i vantaggi di pena conseguiti con dichiarazioni false o reticenti.
Sul piano patrimoniale, il legislatore della novella ha fatto ampio ricorso allo strumento della confisca. Anzitutto (nuovo art. 603 bis, co. 2, c.p.) è stata resa obbligatoria, tanto per il caso di condanna che per il caso di applicazione della pena su richiesta (e salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno), la confisca delle cose che siano servite o siano state destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscano il prezzo, il prodotto o il profitto, sempre che non appartengano a persona estranea al reato. E non basta perché, per le ipotesi in cui non sia possibile apprendere i beni direttamente coinvolti nel fatto, il legislatore ha imposto la cd. “confisca per equivalente”, riguardo a qualunque bene si rinvenga nella disponibilità dell’interessato, anche se mantenuta indirettamente o per interposta persona.
Di più ancora: il delitto previsto dall’art. 603 bis, grazie all’art. 5 della legge in commento, è stato inserito nel catalogo, ormai lungo, dei reati cui si applica la disciplina dell’art. 12 sexies del d.l. 8.6.1992, n. 306 (convertito con mod. dalla l. 7.8.1992, n. 356), con la conseguenza che, sempre nel caso di condanna o di patteggiamento, va sempre disposta anche la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.
A tutto ciò si aggiunga, sempre sul piano del diritto sostanziale, che l’art. 6 della legge – modificando l’art. 25 quinquies, co.1, lett. a), del d.lgs. 8.6. 2001, n. 231 – ha inserito il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nel novero delle fattispecie che, sulla base delle note condizioni, comportano la responsabilità da reato degli enti.
Resta da dire che analoga severità ha ispirato gli interventi legislativi sul piano processuale, con la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza (art. 4) e di una nuova fattispecie di cautela reale, destinata all’applicazione in luogo del sequestro, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale (art. 3). In sintesi, ricorrendo le condizioni per una misura cautelare preventiva, il giudice dovrà disporre «il controllo giudiziario dell’azienda presso cui è stato commesso il reato», nominando uno o più amministratori che affianchino l’imprenditore con poteri autorizzatori, e che riferiscano periodicamente all’Autorità giudiziaria circa nuove ed eventuali irregolarità, oltre che sull’andamento dell’impresa.
Sulla spinta dell’obbligo di trasporre nell’ordinamento nazionale norme giuridiche penali imposte dal diritto dell’Unione (nella specie, la Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale), il legislatore del 2016 ha introdotto una nuova previsione nel sistema dei reati espressivi di odio e discriminazione. Si tratta della cd. «aggravante di negazionismo» (l. 1.6.2016, n. 115, recante «Modifica all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale»).
Com’è noto, la l. n. 654/1975, nata a sua volta dall’esigenza di adempiere ad obblighi assunti dall’Italia in campo internazionale (nella specie, aderendo alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, fatta a New York il 7 marzo 1966), ha disposto all’art. 3 il sanzionamento penale della propaganda per idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o della commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (e della mera istigazione a commetterli), o ancora della violenza o provocazione alla violenza per motivi analoghi. La stessa norma punisce ogni forma di associazione al fine di incitare alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Dopo la Decisione quadro del 2008, si trattava di rendere punibili anche «l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra», in relazione agli artt. 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale ed all’art. 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, se «dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro» (lett. c) e d), co. 1, dell’art. 1 della Decisione).
Nell’art. 3 della l. n. 654/1975 è stato quindi inserito il nuovo comma 3-bis, al fine dichiarato di dare (pur tardiva) attuazione della Decisione. La disposizione stabilisce che una pena detentiva (più grave di quella prevista nei commi precedenti) si applichi «se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232».
Come si vede, la previsione pare atteggiarsi a circostanza aggravante, rinviando ai commi precedenti dell’art. 3 per la delimitazione delle condotte punibili, alle cui connotazioni offensive deve aggiungersi il concreto pericolo di diffusione delle idee negazioniste. Sembra evidente il tentativo del legislatore di evitare l’incriminazione della mera negazione dei genocidi cui si riferiscono le fonti richiamate, in consonanza non indiscutibile con le prescrizioni provenienti dall’Unione e, comunque, con risultati tecnici da più parti commentati in senso critico.
Nel 2016 le Sezioni Unite penali della Cassazione (sent. 31.3.2016, n. 15427) hanno esaminato una questione di dettaglio, e però molto rilevante nella pratica, relativamente alla prescrizione dei reati edilizi, ed in particolare del reato di cui all’art. 44, co. 1, lett. b), del d.P.R. 6.6.2001, n. 380.
Com’è noto l’art. 36 del Testo unico appena citato consente all’autore dell’abuso, se l’intervento risulta conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, di richiedere un permesso in sanatoria, previa pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione, computato nei modi previsti dalla legge. Il permesso si intende rifiutato in caso di silenzio della competente Autorità comunale al sessantesimo giorno dalla presentazione della domanda. Se invece il permesso è concesso, il reato si estingue. Nella pendenza del procedimento amministrativo, la «azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa» (art. 45 del t.u. edil.), il che si traduce, in caso di pendenza del giudizio, nella sospensione anche officiosa del dibattimento.
A tale ultimo proposito, la pratica ha posto diversi problemi. Se, in primo luogo, della sospensione del processo motivata dalla presentazione della richiesta di permesso in sanatoria debba tenersi conto a fini di computo della decorrenza del termine prescrizionale. Se, nel caso di risposta affermativa, la durata della sospensione di tale ultimo termine debba corrispondere per intero a quella del processo, anche quando la stessa sia stata disposta oltre il termine per la presentazione della domanda (o per un tempo più lungo di quello che determina il silenzio rigetto della medesima).
Ai quesiti è stata fornita, dalle Sezioni Unite, una risposta piuttosto articolata. Confermando orientamenti maturati riguardo ai casi di condono edilizio, la Corte ha stabilito che la sospensione officiosa del procedimento implica una previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge per il rilascio del permesso in sanatoria. Di conseguenza, nei casi di “plateale” carenza dei presupposti in questione, la sospensione non andrà disposta, e soprattutto, «se disposta comunque dal giudice, autonomamente e senza richiesta di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei termini di prescrizione». Ovvio che, nel caso contrario (nel caso cioè di ricorrenza almeno apparente delle condizioni utili al conseguimento del permesso e di conseguente sospensione officiosa), il termine prescrizionale resta invece sospeso.
Diversa è stata ritenuta, tuttavia, la disciplina dei casi in cui la sospensione risulti disposta su istanza della difesa, sia pure in rapporto alla proposizione od alla pendenza della domanda di permesso.
A tale ultimo proposito, la Corte ha ribadito, per un verso, che la sospensione non è illegittima quando disposta, su richiesta appunto della parte, dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 36 o per un periodo eccedente quello necessario alla formazione del silenzio rigetto, poiché quest’ultimo vale a garantire per il richiedente la possibilità di un celere ricorso al giudice, ma non preclude la possibilità che l’Amministrazione rilasci, nel prosieguo del procedimento, il provvedimento sollecitato. Per altro verso, si è ritenuto applicabile ai casi in questione l’orientamento maturato in termini generali sulla durata della sospensione del termine prescrizionale, che va computata per intero anche quando la corrispondente durata del rinvio sollecitato dalla parte sia stata fissata dal giudice discrezionalmente, avuto riguardo alle esigenze organizzative dell’ufficio giudiziario, ai diritti e alle facoltà delle parti coinvolte nel processo e ai principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione (così già Cass. pen., S.U., 18.12.2014, n. 4909, dep. il 2.2.2015). Di conseguenza, la sospensione del corso della prescrizione a norma dell’art. 159, co.1, n. 3, c.p., quando la sospensione del procedimento sia richiesta dall’imputato o del suo difensore, opera anche oltre il termine previsto per la formazione del silenzio rifiuto ex art. 36 del t.u. edil.
La materia degli stupefacenti è ancora segnata da tensioni, sulla spinta della nota sentenza della C. cost., 25.2.2014, n. 32 e dei connessi assestamenti di matrice normativa e giurisprudenziale.
Intanto, va segnalata una nuova decisione di illegittimità concernente norme introdotte nel d.P.R. 9.10.1990, n. 309, in sede di conversione del d.l. 30.12.2005, n. 272, mediante la l. 21.2.2006, n. 49. La precedente sentenza aveva travolto gli artt. 4 bis e 4 vicies ter della legge, riconoscendo l’eterogeneità delle relative disposizioni rispetto al contenuto, alla finalità ed alla ratio complessiva dell’originario decreto-legge. La stessa logica ha condotto la Consulta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 quater del provvedimento di conversione. È stato eliminato, di conseguenza, l’intero art. 75 bis del t.u. stupefacenti. Con esso è caduto il sottosistema delle misure di prevenzione connesse a reati di narcotraffico, compresa la norma che interessava il diritto penale sostanziale (comma 7), sanzionando con l’arresto da tre a diciotto mesi colui che contravvenisse alle prescrizioni imposte con il provvedimento di prevenzione (sentenza 6.5.2016, n. 94).
La giurisprudenza ha proseguito, nel frattempo, la propria riflessione sulle conseguenze dirette ed indirette del parziale “ripristino” del sistema sanzionatorio antecedente alla sentenza n. 32/2014. Tra quelle dirette, ancora primeggia la questione dei provvedimenti già passati in giudicato all’epoca della decisione, da considerarsi “illegali”, in punto di quantificazione della pena, per l’effetto demolitorio ex tunc prodotto dalla dichiarazione di illegittimità.
Già nel corso del 2014, le Sezioni Unite penali della Cassazione avevano stabilito la necessità che il giudice dell’esecuzione provveda ad una rimodulazione della pena, relativamente alle droghe “leggere”, secondo gli ordinari criteri di quantificazione ed in rapporto ai nuovi valori edittali (sent. 29.5.2014, n. 42858). Lo stesso principio, mutatis mutandis, era stato stabilito l’anno seguente con riguardo alle pene applicate su richiesta ex art. 444 c.p.p. (Cass. pen., 26.2.2015, n. 37107). La giurisprudenza successiva sta sviluppando il quadro conseguente.
Intanto, lo scioglimento del giudicato riguarda solo la quantificazione della pena esigibile, ed il giudice dell’esecuzione non può quindi intervenire su decisioni relative a sanzioni già completamente eseguite (da ultimo, Cass. pen., 12.1.2016, n. 15362). Si ritiene, inoltre, che l’intervento in executivis non si estenda alla durata delle pene accessorie inflitte nel giudizio di cognizione, purché applicate in misura compatibile con i valori della sanzione principale, così come ridefinita dallo stesso giudice dell’esecuzione (Cass. pen, 10.2.2016, n. 26557).
Soprattutto, la giurisprudenza manifesta la tendenza a precludere ogni possibilità di ridefinizione del fatto nei suoi profili storici. Se resta stabilito che non si impongono proporzioni aritmetiche tra la pena già inflitta e quella da rimodulare nell’ambito dei diversi parametri edittali (da ultimo, Cass. pen., 9.2.2016, n. 6850), è vero anche che non si ammette alcun «potere di rivisitazione del fatto» (Cass. pen., 18.3.2015, n. 9220, dep. 7.3.2016, e che dunque i criteri dell’art. 133 c.p. andranno utilizzati in riferimento al reato così come ricostruito e ritenuto dal giudice della cognizione.
Venendo ad un’altra questione connessa alla sentenza n. 32/2014, si deve segnalare il rifiuto, sostanzialmente definitivo, che la Corte costituzionale ha opposto ai tentativi di reintrodurre, per mezzo di una sua sentenza manipolativa, pene edittali differenziate per i fatti di lieve entità, a seconda che riguardino droghe “pesanti” o “leggere” (sent. 11.2.2016, n. 23).
È noto, al proposito, come la fattispecie della lieve entità (co. 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990) abbia mantenuto la propria struttura unitaria pur dopo che la reviviscenza dell’originaria disciplina ha reintrodotto, per le ipotesi base di narcotraffico, il trattamento differenziale incentrato sulla natura delle sostanze interessate. La situazione non è mutata nonostante un recente intervento del legislatore sulla relativa previsione (d.l. 20.3.2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla l. 16.5.2014, n. 79).
A molti, però, è parso contraddittorio che, ben distinte ormai le fattispecie per le condotte di “ordinario” narcotraffico, con la connessa mitigazione del trattamento quanto al commercio delle droghe “leggere”, la distinzione si perda proprio nel caso che concorrano ulteriori fattori di “attenuazione” del fatto punibile. Di qui, tra l’altro, ripetute questioni di legittimità costituzionale.
La Consulta, come accennato, ha respinto i dubbi sulla compatibilità costituzionale della disciplina, sia pure attraverso una pronuncia di inammissibilità “sostanziale” (cioè dichiarata per la pertinenza dell’intervento richiesto dal rimettente alla discrezionalità legislativa). Si è affermato, dalla Corte, che l’ipotesi lieve costituisce ormai un’autonoma ipotesi di reato, e non una figura circostanziale delle incriminazioni di base (nello stesso senso la giurisprudenza ormai costante della Cassazione). Ciò non comporta, per altro, l’irragionevolezza della scelta di conservarne la struttura unitaria, ed anzi l’autonomia delle varie incriminazioni attenua le pretese ragioni di simmetria nella distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”. D’altro canto, mediante l’ampio spettro istituito tra massimo e minimo edittale per i fatti di lieve entità, la legge consente una ragionevole discriminazione in concreto tra le diverse situazioni regolate, e dunque, in sostanza, assicura i principi di uguaglianza e proporzionalità.
A proposito di droghe “leggere”, va detto anche delle discussioni concernenti la coltivazione delle piante che le producono. La Consulta, di recente, ha stabilito che l’incriminazione della condotta, anche quando finalizzata al consumo personale dell’agente, non contrasta col dettato costituzionale (sent. 20.5.2016, n. 109). I rimettenti avevano prospettato la violazione dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e offensività. La Corte ha negato l’effettiva analogia tra coltivazione ed acquisto presso terzi della droga destinata al proprio consumo, perché la prima, a differenza del secondo, incrementa la massa dello stupefacente in circolazione e dunque il rischio per la salute collettiva. Dunque nessuna violazione dei principi evocati dal rimettente, ed in particolare dell’obbligo per il legislatore di incriminare solo condotte capaci, sul piano astratto, di offendere un bene giuridico riconoscibile. Del resto – ha osservato la Consulta – resta al giudice il potere ed il dovere di verificare, nei singoli procedimenti, l’offensività in concreto della condotta perseguita.
Sennonché – a tale proposito – la situazione è tutt’altro che chiara. Sono ancora sporadici i tentativi della giurisprudenza di merito per un recupero della destinazione all’uso personale come fattore di esclusione dell’offesa tipica. Per altro verso, si registra al momento un radicale contrasto circa la coltivazione di piante non ancora mature per l’estrazione di sostanze stupefacenti. Secondo una parte della giurisprudenza, il fatto che l’agente ancora non disponga della droga è irrilevante, poiché la condotta incriminata è proprio quella della coltivazione, che tale si definisce anche riguardo alle fasi precoci di sviluppo della pianta (tra le ultime, Cass. pen., 10.2.2016,
n. 10169; Cass. pen., 10.5.2016, n. 25057). Sul versante opposto si sostiene che, per l’integrazione del delitto, non sarebbe sufficiente l’accertamento della conformità delle piante coltivate al tipo botanico previsto e della loro attitudine futura a produrre sostanza stupefacente. Mancherebbe infatti l’offensività in concreto se dalle piante medesime, data l’insufficiente maturazione, ancora non fosse ricavabile sostanza capace di produrre, nell’immediato, un effetto stupefacente (tra le ultime, Cass. pen., 21.10.2015, n. 2618/16; Cass. pen., 17.2.2016, n. 8058).
Da ultimo – e sempre a proposito dei reati di narcotraffico – va almeno ricordata la sentenza della C. cost. 7.4.2016, n. 74: illegittimo il comma 4 dell’art. 69 c.p., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata (art. 99, co. 4, c.p.) della circostanza attenuante di cui all’art. 73, co. 7, del d.P.R. n. 309/1990. Si tratta della previsione per la quale tutte le pene previste nella stessa norma, che sanziona la detenzione illegale di stupefacenti e le connesse fattispecie di cessione e traffico, sono sensibilmente diminuite (dalla metà a due terzi) nei confronti di chi assume atteggiamenti collaborativi, ed in particolare «si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
Il divieto di prevalenza era stato introdotto con la l. 5.12.2005, n. 251, nell’ambito della più generale strategia di contenimento della discrezionalità giudiziale in punto di applicazione degli aumenti di pena per i delinquenti recidivi. Un “automatismo sanzionatorio” fondato su una presunzione sfavorevole al segnale di riduzione della pericolosità connesso all’atteggiamento di collaborazione, che la Corte ha ritenuto irragionevole così come già avvenuto per casi analoghi (sentenze 15.11.2012, n. 251, 18.4.2014, nn. 105 e 106).