Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
Nel corso del 2014, sollecitata dalla progressione dei giudizi concernenti fatti di grave turbamento dell’ordine pubblico, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta su profili essenziali della disciplina penalistica di tutela dell’ordinamento democratico.
Si segnala qui la decisione assunta nel procedimento cautelare nel quale è stata attribuita una finalità di terrorismo ai protagonisti dei violenti disordini connessi alla realizzazione della linea ferroviaria tra Torino e Lione, con conseguente contestazione dei delitti di attentato previsti dagli artt. 280 e 280 bis c.p. Dopo l’adozione di una norma di espressa definizione della finalità di terrorismo (art. 270 sexies c.p., introdotto ex art. 15, d.l. 27.7.2005, n. 144, come convertito dalla l. 31.7.2005, n. 155), si sono posti numerosi problemi ricostruttivi.
La Suprema Corte ha recepito una interpretazione della fattispecie fortemente ispirata dal principio di offensività, e dunque costruita sulla concreta idoneità della condotta per fini di terrorismo a provocare, secondo una valutazione ex ante, i «macroeventi» indicati dal legislatore, tutti di portata tale da recare in potenza «grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale»: cioè la destabilizzazione delle istituzioni, o lo stato di intimidazione in danno delle popolazioni, o infine la «costrizione» dell’autorità pubblica a compiere o a non compiere determini atti.
Per altro verso, trattando in generale della condotta tipica di attentato, e della sua dimensione soggettiva, la Cassazione ha affermato (così come ormai avviene in prevalenza per il delitto tentato) che il cosiddetto dolo eventuale non è idoneo all’integrazione del fatto punibile (Cass. pen., 15.5.2014, n. 28009).
Nella materia dei delitti contro la p.a., profondamente incisa dalla riforma attuata mediante la l. 6.11.2012, n. 190, si sono registrate, anche nel 2014, controversie ed incertezze applicative. Il culmine è dato dal dibattito sui criteri distintivi tra concussione e indebita induzione a dare o promettere utilità, del quale si riferisce analiticamente in altra parte di quest’opera. Qui si deve segnalare, piuttosto, il problema della qualificazione penalistica della condotta allettatrice tenuta nei confronti di un consulente tecnico designato dal pubblico ministero: la identificazione, cioè, del reato commesso da colui che formuli un’offerta corruttiva affinché il consulente operi in senso favorevole agli interessi del promittente.
La questione è nata in un procedimento concernente un disastro aereo, nel cui ambito doveva stabilirsi tra l’altro se il pilota coinvolto avesse ricevuto un addestramento adeguato. Secondo l’imputazione, un consulente designato all’uopo dal pubblico ministero era stato avvicinato, appunto, con una offerta “corruttiva”, che non era stata accettata e non aveva avuto seguito, in quanto immediatamente riferita dal destinatario al magistrato inquirente.
Non si era consumato, quindi, un delitto di corruzione. D’altro canto, come per altri casi (ad esempio quello delle false dichiarazioni rese al pubblico ministero), si era riscontrata una difficoltà connessa all’adeguamento solo parziale, dopo le profonde innovazioni del rito penale, delle norme sostanziali di tutela del processo: la fattispecie di «intralcio alla giustizia» era parsa comprendere l’ipotesi di una offerta mirata ad ottenere una falsa «perizia» (art. 377 in relazione all’art. 373 c.p.), ma non quella concernente la consulenza tecnica disposta dalla parte pubblica.
Proprio tale opinione aveva indotto le Sezioni Unite della Corte Suprema a sollevare questione di legittimità costituzionale (ord. 27.6.2013, n. 43384).
Questo, in sintesi, il ragionamento: data l’asserita inapplicabilità dell’art. 377 c.p., l’offerta di denaro al consulente designato dal pubblico ministero sarebbe qualificabile come istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.); ne discenderebbe però – con violazione dell’art. 3 Cost. – il paradosso di pene molto più alte (nel minimo addirittura il doppio) rispetto a quelle previste per la proposta corruttiva rivolta al perito nominato dal giudice.
La discriminazione era apparsa alla Corte non giustificata, data la sostanziale analogia di posizione dei destinatari dell’offerta, della condotta corruttiva e delle sue potenziali conseguenze. Un’analoga discriminazione avrebbe segnato il trattamento della fattispecie rispetto all’ipotesi di una proposta corruttiva diretta al consulente tecnico del giudice civile, la quale integra anch’essa il reato di intralcio alla giustizia, a fronte dell’espressa estensione al predetto soggetto processuale delle norme del codice penale relative ai periti (art. 64, co. 1, c.p.c.).
Infine, vi sarebbe stata una sperequazione interna alla stessa ipotesi dell’offerta ad un consulente della parte pubblica nel processo penale, prospettata in base alla distinzione tra condotte tese ad alterare le prospettazioni di fatto dello stesso consulente (qualificabili ex art. 377 in relazione all’art. 371 bis c.p.) e quelle mirate ad ottenere false dichiarazioni a carattere valutativo (da punire appunto a norma dell’art. 322 c.p.).
Dunque era stata sollecitata una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 322 c.p. nella parte in cui prevede una pena superiore a quella dell’art. 377, in relazione all’art. 373 c.p., quando l’istigazione alla corruzione riguardi persona designata consulente tecnico del pubblico ministero.
La questione è stata però dichiarata inammissibile, dalla Corte costituzionale, con la sentenza 10.6.2014, n. 163. Decisiva è risultata proprio la distinzione tra offerta mirata ad indurre rappresentazioni di fatto mendaci e proposta volta a sollecitare false dichiarazioni di scienza ad opera del consulente.
La Cassazione aveva “ammesso” che nel primo caso potrebbe applicarsi l’art. 377 in luogo dell’art. 322 c.p., trattandosi pur sempre di un «consulente tecnico» sollecitato a commettere il delitto di cui all’art. 371 bis c.p. (non configurabile invece a fronte di valutazioni fondate su discipline scientifiche, che non potrebbero definirsi vere o false, ma, al più, corrette od erronee). Ebbene, secondo la Consulta, l’offerta compiuta nel caso di speciemirava anche ad ottenere che fossero prospettate false circostanze di fatto (intorno alla formazione somministrata in favore del pilota), quindi avrebbe dovuto applicarsi proprio la norma evocata, invece, quale tertium comparationis.
La Corte comunque – svelando una comprensibile resistenza all’attuazione di un intervento fortemente “creativo” sul tessuto sanzionatorio pertinente alla materia, di chiara spettanza del legislatore – ha voluto aggiungere che, con l’accoglimento della questione, le incongruenze si sarebbero addirittura moltiplicate. In primo luogo, accettata la premessa di una distinzione tra rappresentazione «storica» e rappresentazione «valutativa» del consulente, nel caso fisiologico della compresenza dei due profili (un esperto accerta sempre i dati di fatto da valutare, ed un mero testimone non è mai designato consulente) dovrebbe concludersi per il concorso di reati (cioè l’intralcio alla giustizia per la componente “testimoniale” e l’istigazione alla corruzione per la componente “peritale”). Per tal via, la maggiore severità del trattamento, rispetto alla sanzione applicabile per il perito, risulterebbe addirittura moltiplicata. D’altra parte, quand’anche si fosse accettata la tesi della irrazionalità di una punizione più severa dell’istigatore rivoltosi al consulente, rispetto a quello che tenti di corrompere un perito, ancora sarebbe rimasta da dimostrare la «necessità costituzionale» di un trattamento paritario: la «falsa testimonianza» resa al pubblico ministero, ad esempio, è punita meno gravemente di quella compiuta innanzi al giudice, e non con identica sanzione.
Tornati gli atti alla Corte di cassazione, le Sezioni Unite hanno preso atto della decisione, definendo il giudizio a quo (ud. 25.9.2014) in base al seguente principio di diritto: «nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza», è configurabile l’ipotesi di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. La soluzione è valsa, con ogni evidenza, a superare i dubbi circa l’illegittimità del più duro trattamento sanzionatorio che si sarebbe connesso all’applicazione dell’art. 322 c.p. Al momento in cui queste note vengono redatte, la motivazione della sentenza non è stata ancora depositata. Resta dunque ancora da vedere se, ed in quale misura, le Sezioni Unite abbiano rivisto l’orientamento che aveva ispirato la rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
La recente riforma della disciplina della filiazione (d.lgs. 28.12.2013, n. 154) ha introdotto diverse novità anche nelle norme penali che riguardano la materia.
In corrispondenza alla previsione di una «responsabilità genitoriale» in luogo della «potestà» di genitore (art. 316 c.c.), l’espressione è stata inserita nel testo di vari articoli del codice penale: 19, co. 1, n. 6 (Pene accessorie: specie), 32, co. 2 (Interdizione legale), 34 (Decadenza dalla responsabilità genitoriale e sospensione dall’esercizio di essa), 98, co. 2 (Minore degli anni diciotto), 111, co. 2 (Determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile), 112, co. 3 (Circostanze aggravanti), 146, co. 2 (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena), 147, co. 3 (Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena), 564, co. 4 (Incesto), 569 (Pena accessoria); 570 (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), 573 (Sottrazione consensuale di minorenne), 574 (Sottrazione di persone incapaci), 574 bis (Sottrazione e trattenimento di minore all’estero), 583 bis, co. 4, n. 1 (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili), 600 septies.2, co. 1, n. 1 (Pene accessorie), 609 nonies, co. 1, n. 1 (Pene accessorie ed altri effetti penali). Nel contempo è stato modificato l’art. 288 c.p.p., la cui rubrica ora recita «Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale».
L’equiparazione dei figli naturali a quelli nati da un rapporto di coniugio, che rappresenta il segno caratterizzante della novella, ha indotto ad eliminare anche i segni linguistici della pregressa discriminazione. La filiazione «illegittima», dunque, è divenuta filiazione «fuori del matrimonio» (art. 540 c.p.), e quella «legittima» è identificata in quanto intervenuta «nel matrimonio» (art. 568 c.p.).
L’ordinamento già evolveva da tempo verso una concezione del rapporto tra genitore e figlio minorenne nel senso d’una responsabilità morale e materiale del primo, più che d’un potere esercitato sul secondo. Una indicazione in tal senso era venuta dalla Consulta, con le sentenze dichiarative della illegittimità di meccanismi «automatici» di privazione a titolo sanzionatorio della potestà genitoriale, proprio ed anche sul presupposto d’una funzione di «servizio» del ruolo genitoriale rispetto agli interessi del minore (sent. 23.01.2013, n. 7 e 23.02.2012, n. 31).La novella comporterà il necessario assestamento di un sistema nel quale la privazione del ruolo giuridico è stata concepita, appunto, come una sanzione,ma rappresenta ormai un esonero da «responsabilità», e perde dunque, o meglio vedemodificarsi, il proprio significato punitivo.
Fondamentali novità si sono registrate, nel corso del 2014, riguardo alla disciplina penalistica dei rapporti tra politica e criminalità mafiosa. Qui interessa in modo particolare la riforma dell’art. 416 ter c.p. (Scambio elettorale politico-mafioso), approvata tra non poche polemiche, ed in effetti seguita, nelle prime applicazioni giurisprudenziali, da valutazioni non del tutto assonanti.
Nel vecchio testo, inserito nel codice penale dall’art.11 ter, d.l. 8.6.1992, n. 306 (come convertito dalla l. 7.8.1992, n. 356), la norma recitava: «la pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416 bis in cambio della erogazione di denaro». Una scrittura particolarmente infelice, e per varie ragioni. Sul piano descrittivo della condotta, il rinvio al co. 3 dell’art. 416 bis valeva ad evocare un soggetto interlocutore ed una metodologia, più che un comportamento concreto: una associazione, cioè che si avvale della forza intimidatrice del vincolo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, tra l’altro, al fine di procurare voti a sé o ad altri. Per altro verso, la norma circoscriveva la punizione al caso, piuttosto raro in natura, del voto «pagato» in denaro, piuttosto che acquisito con l’intimidazione o retribuito con la promessa di benefici non immediatamente monetizzati.
Dall’urgenza della riforma è scaturito il nuovo testo dell’art. 416 ter c.p., introdotto con la l. 17.4.2014, n. 62, del seguente tenore: «chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni» (co. 1); la stessa pena «si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma» (co. 2). Il miglioramento è evidente, poiché la norma concentra l’attenzione rispettivamente sul politico colluso e sul mafioso (e sui rispettivi mediatori) e ne descrive nitidamente la condotta (il primo accetta la promessa del secondo di procurare voti in cambio della promessa o del conferimento di una qualunque utilità). Nondimeno, è rimasto il riferimento sintetico al co. 3 dell’art. 416 bis, non più finalizzato ad indicare la prestazione, quanto piuttosto a descrivere «lemodalità» attraverso le quali l’organizzazione mafiosa si impegna a procurare i voti in favore del proprio interlocutore.
È stata prospettata da più parti (i commenti alla riforma sono già molto numerosi) una incidenza sostanziale del mutamento di funzione (e di tenore letterale) del riferimento al paradigma dell’associazione mafiosa, e la tesi ha trovato rispondenza in una importante pronuncia della Corte di cassazione. Si è affermato, in particolare, che per l’integrazione della «nuova» fattispecie, in questo senso più favorevole di quella preesistente, le modalità di procacciamento dei voti devono costituire oggetto del patto di scambio, in funzione dell’esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso e che quest’ultimo si impegni a farvi ricorso. Diverrebbero dunque irrilevanti (con effetti retroattivi di depenalizzazione) le pattuizioni che non contemplino espressamente le indicate modalità di procacciamento dei voti. In altre parole, occorrerebbe la prova che il politico colluso abbia chiesto ed ottenuto espressa assicurazione che i voti saranno procurati mediante la forza intimidatrice del vincolo associativo e lo sfruttamento della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (Cass. pen., 3.6.2014, n. 36382).
Con una pronuncia sostanzialmente coeva, però, la stessa Corte Suprema ha espresso una valutazione dissonante, se non addirittura contrastante.
Si è notato come la consumazione del reato preceda l’effettiva acquisizione dei suffragi, essendo centrata sulla mera conclusione dell’accordo concernente lo scambio tra voto e denaro o altra utilità. Il compimento di singoli atti di intimidazione e sopraffazione in danno degli elettori, dunque, potrebbe costituire al più l’oggetto di una intenzione del promittente, o del patto eventualmente concluso circa le modalità esecutive dell’accordo,ma non una componente materiale della condotta tipica, rispetto alla quale costituirebbe un post factum, punibile semmai con riguardo a diverse ed ulteriori fattispecie criminose.
Ma la figura incriminatrice non esigerebbe, in realtà, un’articolazione nel senso indicato del negozio illecito, poiché non sarebbe previsto che il soggetto alla ricerca di voti chieda all’interlocutore mafioso specifiche modalità di attuazione della campagna, e ne ottenga la promessa. La qualità «mafiosa» del metodo,connaturata alle caratteristiche «strutturali» del soggetto chiamato ad attuarlo, costituirebbe la ratio della previsione: un reato di pericolo disegnato
in base a consolidate regole di esperienza, che non comprenderebbe affatto né l’attuazione né l’esplicita programmazione di una campagna singolarmente attuata mediante intimidazioni (Cass. pen., 6.5.2014, n. 37374).
Sempre in tema di ordine pubblico, il 2014 della giurisprudenza si è caratterizzato anche per l’esame delle fattispecie più frequentemente evocate da disordini occasionati da moventi politici (cfr. anche supra, § 1). Si segnala qui una decisione mirata, tra l’altro, a delineare le possibili interazioni tra disciplina del concorso di persone (art. 110 c.p.) e reato di devastazione (art. 419 c.p.): un reato cioè privo di formale struttura plurisoggettiva, e tuttavia segnato da un
evento naturalistico di tale portata da coinvolgere quasi necessariamente una pluralità di agenti. La Corte ha ribadito, alla luce dei principi di tassatività ed offensività, e dello stesso significato corrente del termine «devastazione», che il delitto non consiste in un qualunque danneggiamento, per quanto grave, ma in un «fenomeno di primaria grandezza, di diffusa e grave distruzione», tale da recare «turbamento non a persone o gruppi, ma alle condizioni stesse di sicurezza della vita associata, e dunque in modo indiscriminato e su scala estesa».Non è necessario, sulla base del principio di equivalenza degli apporti causali (espresso dagli artt. 41 e 110 c.p.), che ognuno degli agenti «partecipi direttamente e personalmente all’intera attività distruttiva che fonda, nel caso concreto, la devastazione». Occorre, tuttavia, riscontrare una «congruenza tra la portata del comportamento individuale e l’evento di lesione dell’ordine pubblico», poiché sarebbe atipica (cioè non qualificabile come concorso in devastazione) la condotta incapace di influire sulla dimensione complessiva del fatto, e dunque sulla sua natura «devastante». Per l’integrazione del dolo è poi necessario che l’agente non solo voglia il proprio comportamento, ma ne percepisca la confluenza in un contesto che lo rende «concausa di un evento devastante, nel senso tecnico già chiarito del termine» (Cass. pen., 6.5.2014, n. 37367).
Sempre a proposito della giurisprudenza di legittimità in materia di tutela dell’ordine pubblico, va almeno segnalata una decisione delle Sezioni Unite della Cassazione a proposito delle misure personali di prevenzione e della violazione degli obblighi connessi alle medesime. Si è stabilito, in particolare, che il sorvegliato speciale sottoposto all’obbligo o al divieto di soggiorno che non porti con sé, e non esibisca a richiesta di ufficiali ed agenti di polizia di sicurezza la carta di permanenza, risponde della contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., e non dei reati di cui al co. 1 o al co. 2 dell’art. 75, d.lgs. 6.9.2011, n. 159 (Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 32923).
Infine una menzione della giurisprudenza costituzionale, ed in particolare di una decisione che, per vero, assume speciale rilevanza soprattutto nella logica del giudizio incidentale di legittimità delle leggi, posto che si è individuata una «nuova» ipotesi di sindacabilità in malam partem delle norme penali, che si aggiunge alla già dissodata categoria delle «norme penali di favore». In particolare, la Consulta ha dichiarato parzialmente illegittimi l’art. 2268, d.lgs. 15.3.
2010, n. 66 e l’art. 1, d.lgs. 13.12.2010, n. 213. Si tratta di una vicenda assai complessa. In sintesi basterà dire che il Governo, con le disposizioni indicate, aveva «abrogato» tra le altre la norma incriminatrice in materia di associazioni di carattere militare (d.lgs. 14.2.1948, n. 43), pur non essendo compreso un tale intervento nella delega conferita con le norme mirate alla eliminazione delle cd. leggi obsolete.
La Corte ha ritenuto che proprio la riserva di legge prevista dall’art. 25 Cost. (cui normalmente connette il divieto di suoi interventi in malam partem) consenta ed anzi imponga la dichiarazione di illegittimità per interventi depenalizzanti non attuati mediante un valido atto normativo avente forza di legge. In particolare, «la verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene … strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge (…) Si rischierebbe altrimenti (…) di creare zone franche dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di fatto consentito al Governo di effettuare scelte politico-criminali, che la Costituzione riserva al Parlamento» (C. cost., 23.1. 2014, n. 5).
Con il d.lgs. 4.3.2014, n. 24, si è fatta «Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI». La riforma mira a rafforzare la tutela assicurata alle persone vulnerabili, quali «i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare se in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subìto torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere» (art. 1).
Significative le modifiche recate all’art. 600 c.p., che punisce la riduzione o mantenimento in schiavitù.
Nel primo comma, alle ipotesi già contemplate (esercizio di diritti proprietari, soggezione continuativa e costrizione a compiere determinate attività) si sono aggiunte quelle della persona offesa costretta a sottoporsi ad un «prelievo di organi» e del soggetto sfruttato mediante la costrizione a tenere «attività illecite».Nel secondo comma, tra le modalità tipiche di riduzione o mantenimento nello stato di soggezione, è stato inserito l’approfittamento della condizione di «vulnerabilità » del soggetto passivo (oltre alle situazioni, già prima contemplate, di necessità o di inferiorità fisica o psichica). Una nozione di vulnerabilità si rinviene all’art. 2, par. 3, della citata direttiva 2011/36/UE, che evoca una «situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima».
È stata modificata anche la fattispecie di tratta di persone (art. 601 c.p.), con effetti di migliore definizione della condotta, prima delineata mediante la locuzione «commette tratta», attraverso il riferimento al reclutamento, alla introduzione o al trasferimento nel o dal territorio nazionale, al trasporto, alla cessione di autorità sulla persona, o infine all’ospitalità riguardo a soggetti nelle condizioni descritte all’art. 600 c.p. La responsabilità per il delitto previsto al primo comma è estesa anche ai casi nei quali le condotte descritte nella norma sono tenute con modalità diverse da quelle indicate (inganno, violenza, ecc.), qualora riguardino persone minori di età (nuovo co. 2 dell’art. 601 c.p.).
L’aggravamento delle pene per i fatti previsti dai due articoli novellati, in relazione all’età minore delle vittime e ad altri profili di particolare disvalore, è attualmente rimesso alle previsioni dei co. 1, 2, 5, 6 e 7 del nuovo art. 602 ter c.p.
Cambiando parzialmente argomento, va segnalata l’importante sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (depositata il 14.4.2014) a proposito del delitto di prostituzione minorile, ed in particolare della configurabilità del fatto di induzione nei confronti di chi intrattiene rapporti sessuali a pagamento con persone di età minore (Cass. pen., S.U., 19.12.2013, n. 16207/2014).
L’art. 600 bis c.p., dopo la sua introduzione nell’ordinamento (l. 3.8.1998, n. 269), ha subito diverse modifiche, sempre distinguendo, per altro, tra condotte di induzione a prostituirsi (sul modello dell’analoga fattispecie concernente la prostituzione dei maggiorenni) e condotte consistenti in un personale rapporto sessuale intrattenuto con un minore, in cambio di denaro o altra utilità. Attualmente (cioè dopo la riforma introdotta ex art. 4 l. 1.10.2012, n. 172), la norma codicistica sanziona al primo comma chi «recluta o induce (…) favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto». Il comma successivo punisce «chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità».
Contro una piana lettura della fattispecie, che attribuisce al soggetto il quale offra denaro al fine di ottenere per sé una prestazione sessuale la responsabilità meno grave di cui al secondo comma, e non quella prevista per l’induzione, si erano registrate alcune prese di posizione della giurisprudenza, essenzialmente fondate su strategie di maggior tutela dei minori abusati. Le Sezioni Unite hanno negato il fondamento dell’assunto, e delle stesse preoccupazioni che dovrebbero giustificarlo, data anche la previsione di aggravanti per il caso di vittime particolarmente giovani (co. 3 dell’art. 600 bis e co. 5 dell’art. 602 ter c.p.). Nell’ambito di una diffusa trattazione, la Corte ha ricordato la tradizionale esclusione di rilevanza, a titolo di induzione, del comportamento del «cliente» della persona maggiore dedita alla prostituzione. L’induzione, in altre parole, è la spinta verso atti sessuali mercenari a favore di terzi (con l’occasione si è ribadito che «la mera proposta di partecipare ad incontri sessuali a pagamento non costituisce condotta induttiva se non accompagnata da condotte ulteriori consistenti in pressioni fisiche o psicologiche che spingono la persona a prostituirsi superando le resistenze di ordine morale, o di altra natura, che la trattengono dall’attività di prostituzione»). D’altra parte, come s’era già notato in dottrina, la soluzione contraria implicherebbe una sostanziale abrogazione del secondo comma dell’art. 600 bis. Dunque, ed in definitiva, «la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell’art. 600 bis del codice penale».
Nella materia dei delitti contro la persona va ricordata, infine, una importante decisione della Consulta in materia di stalking, con la quale sono stati respinti i dubbi circa una pretesa indeterminatezza della norma incriminatrice (art. 612 bis c.p.), e sono stati offerti preziosi spunti interpretativi circa gli elementi costitutivi della fattispecie (C. cost., 11.06.2014, n. 172).
Riprendendo la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui la capacità descrittiva di una disposizione non va misurata solo in base ai singoli termini utilizzati, ma in relazione al complesso degli elementi costitutivi della fattispecie e della disciplina in cui la medesima fattispecie risulta collocata, la Corte ha posto anzitutto in luce la tipicità acquisita dai concetti di minaccia e molestia, che viene nella specie accentuata dal requisito di «reiterazione», da intendersi quale commissione di «almeno due condotte di minacce o molestia». La condotta è definita, per altro verso, grazie al suo orientamento causale verso uno dei tre eventi alternativi previsti dalla norma, i quali, a loro volta, risultano sufficientemente delineati.
Il «perdurante e grave stato di ansia e di paura» ed il «fondato timore per l’incolumità» sono condizioni psicologiche che possono essere accertate mediante «un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima». Le espressioni utilizzate dal legislatore, ispirate al canone generale dell’offensività, evidenziano l’irrilevanza di turbamenti momentanei o di timori immaginari o fantasiosi («infondati»). Quanto all’alterazione delle abitudini di vita, si tratta secondo la Corte di un cambiamento «dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che
la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria,mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo».
Le Sezioni Unite della Cassazione, con una sentenza del 17.7.2014, sono finalmente intervenute (altre occasioni erano andate perse per ragioni procedurali) su di un tema assai controverso, soprattutto nella pratica giudiziaria: l’individuazione del momento consumativo del delitto di furto nel caso della sottrazione dimerce,mediante occultamento sulla persona o nel bagaglio, all’interno dei supermercati.
La situazione era ormai molto confusa, per effetto di una incerta definizione dei concetti di sottrazione ed impossessamento, e della varietà delle situazioni concrete proposte dalla prassi.
In giurisprudenza si era manifestata, in primo luogo, la tesi che il furto fosse consumato già con l’occultamento dell’oggetto materiale, prima ancora dell’accesso alle casse. Era però maggioritaria l’opinione che dovesse esservi la concreta sottrazione della merce al pagamento, con il passaggio dei banchi predisposti allo scopo. In quest’ambito, un primo orientamento assegnava rilevanza al controllo in concreto esercitato, sulla condotta criminosa, ad opera dei dipendenti del gestore: una sorveglianza attuata fin dal momento della sottrazione implicava che l’agente non avesse acquistato la piena disponibilità della cosa, con conseguente integrazione del solo delitto tentato (a maggior ragione incompiuto in caso di contestazione immediata del fatto, prima ancora dell’accesso alle linee di pagamento); per converso, una sottrazione scoperta solo dopo il passaggio delle casse avrebbe dato luogo ad un reato consumato. Non erano mancate decisioni che equiparavano la presenza sulla merce delle «placche antitaccheggio» alla sorveglianza del personale di controllo, escludendo dunque la consumazione del delitto fino a quando l’oggetto non fosse uscito dal perimetro dell’esercizio commerciale.
Sul versante opposto, altra parte della giurisprudenza aveva negato ogni rilievo alla dinamica del controllo culminato con la contestazione del furto, stabilendo semplicemente che il delitto doveva intendersi consumato (solo) con il superamento delle casse senza l’esibizione della merce occultata.
In questo contesto, l’ordinanza di rimessione del procedimento alle Sezioni Unite aveva posto una questione poi precisata nei seguenti termini formali: «se la condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato, allorché l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse, senza aver pagato la merce prelevata». Al momento delle presenti note è conosciuto soltanto il tenore della decisione assunta dal Collegio, secondo cui il fatto «è qualificabile come furto tentato». È presumibile, dunque, che le Sezioni Unite abbiano considerato decisiva proprio la sorveglianza continuativa, esercitata mediatamente dal proprietario della merce, sulla sorte dell’oggetto sottratto, tale da escludere il compiuto «impossessamento» ad opera dell’agente.
Nel 2014 sono stati numerosi gli interventi legislativi in materia di tutela dell’ambiente, e molti tra essi hanno assunto rilievo indiretto o diretto sul piano penalistico.
Va menzionata anzitutto la nuova previsione di reato della «combustione illecita di rifiuti», attuata con l’introduzione nel d.lgs. 3.4.2006, n. 152, dell’art. 256 bis (art. 3, co. 1, d.lgs. 10.12. 2013, n. 136, convertito con modificazioni dalla l. 6.2.2014, n. 6).
La fattispecie incriminatrice sanziona con una seria pena detentiva (reclusione da due a cinque anni), previa clausola di sussidiarietà («salvo che il fatto costituisca più grave reato»), chiunque appicchi il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata. La pena è ancora più elevata (da tre a sei anni) nel caso che i rifiuti incendiati siano pericolosi.
La previsione è poi arricchita da una serie di misure complementari, tendenti ad aumentare l’efficienza del sistema repressivo, e la sua capacità di favorire la riduzione delle attività illegali ed il recupero dei siti devastati dall’incenerimento abusivo dei rifiuti.
Intanto, il finalismo dello smaltimento mediante incendio implica il sanzionamento penale, in luogo di quello amministrativo, per l’abbandono di rifiuti o la loro immissione in acque superficiali o sotterranee (co. 2 della norma in esame in rapporto al co. 1 dell’art. 255 dello stesso t.u. ambiente). In altri casi il finalismo indicato (o, per usare l’espressione legislativa, la commissione «in funzione» dell’incenerimento illecito) trasforma in delitti, puniti con l’elevata sanzione detentiva della quale si è detto, le contravvenzioni già esistenti riguardo alle attività di gestione di rifiuti non autorizzate (art. 256) ed al traffico di rifiuti (art. 259). La rilevanza delle condotte si ridimensiona (tornando al sanzionamento amministrativo) o resta esclusa quando si tratti di vegetali provenienti da aree verdi o di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato (co. 6 del nuovo art. 256 bis). Sono invece previste aggravanti (co. 3 e 4) per i fatti commessi nell’ambito dell’attività di un’impresa o comunque di un’attività organizzata (co. 3), e per le condotte tenute in territori interessati dalle dichiarazioni di stato di emergenza, riguardo alla smaltimento dei rifiuti, a norma della l. 24.2.1992, n. 225 (tra le quali, com’è noto, proprio le cd. «terre dei fuochi»).
A proposito dei fatti commessi con modalità «organizzate», la disciplina (ancora co. 3) prevede che il responsabile ne risponda «anche sotto l’autonomo profilo dell’omessa vigilanza sull’operato degli autori materiali del delitto comunque riconducibili all’impresa o all’attività» organizzata, e che si applichino le sanzioni previste dall’art. 9, co. 2, d.lgs. 8.6.2001, n. 231. Si tratta di una modifica del decreto-legge attuata in sede di conversione, che appare invero di decrittazione assai difficoltosa. Non si comprende bene se il legislatore abbia inteso introdurre una responsabilità «di posizione» rilevante in termini oggettivi, con tutti i problemi di legittimità costituzionale che ne deriverebbero, o piuttosto una variante colposa dell’illecito, cioè una forma di concorso colposo nell’altrui reato a carattere doloso (dato che, se la «omessa vigilanza» fosse deliberata, si avrebbe tendenzialmente una mera applicazione delle norme ordinarie che regolano il reato pluripersonale).
Nell’un caso e nell’altro, oltretutto, risulta difficile individuare quale sia la sanzione applicabile in aggiunta («altresì») a quelle previste dal d.lgs. n. 231/2001 (a meno che non si ritenga valevole la previsione di pena concernente il fatto doloso).
Infine, misure adottate in chiave specialpreventiva ed a fini di recupero ambientale. Nel primo senso, confisca deimezzi utilizzati per il trasporto dei rifiuti da incendiare (salvo che appartengano a persone estranee al reato) e del suolo utilizzato per la combustione, quando il proprietario abbia concorso nel reato (co. 5). È d’altra parte previsto (co. 1, ultima parte) che i responsabili del delitto debbano provvedere al ripristino dello stato dei luoghi, al risarcimento del danno ambientale e al pagamento, anche in via di regresso, delle spese per la bonifica.
V’è spazio per una mera segnalazione, nel concludere, con riguardo al d.lgs. 4.3.2014, n. 46, di Attuazione della direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento). Il decreto, tra l’altro, ha modificato molte delle previsioni di rilievo penale contenute nel già citato d.lgs. n. 152/2006, tra le quali gli artt. 137, 256, 261 bis, 279 e 296.
Per quanto attiene ai fenomeni di “evasione dell’Iva”, va segnalata una decisione della Corte costituzionale assai rilevante, anche se destinata ad una efficacia per così dire transitoria. Si tratta della sentenza 9.4.2014, n. 80.
Alcuni Tribunali – chiamati ad applicare l’art. 10 ter, d.lgs. 10.3.2000, n. 74, nel testo antecedente alle più recenti riforme J avevano rilevato come il trattamento sanzionatorio previsto per l’omesso versamento dell’imposta, in presenza d’una corretta dichiarazione del dovuto, fosse più severo di quello concernente il caso di dichiarazione omessa od infedele, cui pure si connette l’evasione dell’imposta dissimulata.Nel primo caso la norma incriminatrice stabiliva la rilevanza penale di omissioni per qualunque importo superiore ai 50.000 euro. La mancata presentazione della dichiarazione rilevava invece a partire da una soglia di 77.468,53 euro, che addirittura saliva a 103.291,38 euro per il caso di dichiarazione infedele. Una severità irrazionale, secondo i rimettenti, posto che il disvalore della condotta di chi renda palese il proprio debito, con una corretta dichiarazione, è semmai inferiore a quello di chi, omettendo la dichiarazione o falsificandola, renda più difficoltoso l’accertamento dell’evasione compiuta.
La situazione si è modificata, per vero, a partire dal 2011, allorquando, con l’art. 2, co. 36 vicies semel, d.l. 13.1.2011, n. 138 (aggiunto in sede di conversione dalla l. 14.9.2011, n. 148), sono stati modificati gli artt. 5 e 4 del d.lgs. n. 74/2000: la soglia di punibilità dell’omessa dichiarazione è stata diminuita a 30.000 euro e quella della dichiarazione infedele a 50.000 euro. Dunque, come rileva la Consulta, ad un importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a quello della soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’Iva, rimasta inalterata: «in tal modo, la distonia dianzi evidenziata è venuta meno». Tuttavia, poiché le nuove soglie si applicano ai soli fatti successivi alla novella (si tratta di modifiche peggiorative del trattamento del reo), la sperequazione in danno dei responsabili dell’omesso versamento è rimasta operante per tutti i fatti antecedenti.
La Corte ha deciso dunque di «pareggiare» la soglia di irrilevanza penale della condotta di omesso versamento a quella vigente, nello stesso periodo, per i fatti di dichiarazione infedele. Di qui la dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato art. 10 ter, «nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38».
È stata invece arginata, sempre dalla Consulta, un’altra «spinta» alla parificazione che si manifesta, da qualche anno, riguardo alle omissioni dei versamenti dovuti dagli imprenditori, ed in particolare dai datori di lavoro. Erano state sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1 bis, d.l. 12.9.1983, n. 463, come convertito dalla l. 11.11 1983, n. 638: la norma punisce, senza stabilire soglie minime di rilevanza, l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
Uno dei rimettenti, mosso anche dalla estrema esiguità della violazione sottoposta al suo giudizio (24 euro), aveva posto in luce il diverso trattamento riservato, a colui che non versi le ritenute operate in qualità di sostituto d’imposta, dall’art. 10 bis del citato d.lgs. n. 74/2000: la violazione rileva penalmente solo per un valore superiore ai 50.000 euro.
La questione non era nuova, ed era stata più volte ritenuta infondata in maniera manifesta, sia pure riguardo alla comparazione tra la norma censurata e la precedente fattispecie incriminatrice in materia di ritenute fiscali (C. cost., 11.6.2003, n. 206; C. cost., 7.5.2004, n. 139). È stata riproposta, tra l’altro, mettendo in luce la successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità riguardo alla configurazione del delitto di appropriazione indebita per l’omesso versamento di somme che il datore di lavoro dovrebbe effettuare nell’interesse del dipendente: negando l’integrazione del delitto di cui all’art. 646 c.p., le Sezioni Unite della Cassazione avevano affermato che «la posizione del datore di lavoro-sostituto d’imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua…
le ritenute dei contributi previdenziali, in quanto, in ogni caso, si è in presenza di un “accantonamento” di una somma determinata di denaro finalizzata ad un fine determinato da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite» (Cass. pen., S.U., 27.10.2004, n. 1327/2005; in seguito, Cass. pen., S.U., 25.5.2011, n. 37954).
La Corte costituzionale, con sentenza di infondatezza (non manifesta), ha respinto questo ed altri argomenti (C. cost., 19.5.2014, n. 139), ribadendo che le scelte sanzionatorie del legislatore sono sindacabili solo in quanto manifestamente irragionevoli, e che le norme poste in comparazione, nella specie, riguardano la tutela di interessi diversi, presi in considerazione da diversi precetti costituzionali (artt. 28 e 53 Cost.): le omissioni previdenziali, in particolare, determinano «un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1, 4, 35, 38)». Di contro, la legislazione tributaria tenderebbe «a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi».
La sentenza si segnala, comunque, per un concomitante ed esplicito richiamo al principio di offensività, tale da prospettare anche in materia di previdenza, e sia pure in termini generali, la non punibilità dei cd. «fatti inoffensivi conformi al tipo».