Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
Nel corso del 2015 è proseguita la riflessione della giurisprudenza con riguardo all’attuale fisionomia dei reati di terrorismo ed eversione, in esito alla lunga serie degli interventi legislativi nella materia. Si segnala, in particolare, una decisione utile a puntualizzare alcuni decisivi aspetti del sistema di tutela penale contro fenomeni mirati allo scardinamento dell’ordine costituzionale interno (Cass. pen., 30.4.2015, n. 34782).
La Corte di cassazione ha escluso, in primo luogo, che l’assimilazione istituita tra finalità «terroristiche» e finalità di «eversione» abbia determinato un assorbimento delle seconde nelle prime. Premesso che ogni riferimento all’eversione dell’ordine democratico (artt. 270 bis e 280 c.p.) corrisponde alla nozione di «eversione dell’ordinamento costituzionale» (art. 11 della l. 29.5.1982, n. 304), sono state ribadite l’autonomia e l’equivalenza del fine di spargere il terrore e di quello eversivo, che possono sussistere singolarmente o congiuntamente in ogni caso concreto. L’assunto è valso ad interrompere sul nascere un percorso che, muovendo dalla rilevanza ormai asseritamente esclusiva del “metodo terroristico” nell’economia delle fattispecie criminose, avrebbe dovuto condurre ad escludere l’integrazione del delitto di cui all’art. 280 c.p. per condotte finalizzate politicamente, ma non segnate dal “metodo”indicato. È sufficiente, al contrario, che le condotte in questione siano mirate al sovvertimento dell’ordine costituzionale dello Stato, a prescindere dalla qualificazione del “metodo” (rectius, del fine) come terroristico.
Quanto alla descrizione tipica delle finalità in questione, la Corte ha richiamato, riguardo al fenomeno terroristico, la specifica indicazione promanante dall’art. 270 sexies c.p., e l’analisi compiutane in altra recente sentenza della Corte medesima (15.5.2014, n. 28009). In riferimento all’eversione dell’ordinamento costituzionale, la giurisprudenza aveva già evocato «quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale secondo la Costituzione, come ad esempio il principio del metodo democratico ovvero le garanzie dei diritti inviolabili, sia del singolo, che delle formazioni sociali», e dunque il «sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente ovvero … l’uso di ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione, nella disarticolazione delle strutture dello Stato o, ancora, nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano. In sostanza, ogni azione, violenta o non violenta, che mira a ledere tali principi è finalizzata alla eversione dell’ordine democratico» (Cass. pen., 17.9.2008, n. 39504).
Verificando nel caso di specie la dimensione “terroristica” del fatto in contestazione, la Corte ha escluso che la relativa nozione legale esiga il carattere indiscriminato del rischio di offesa per i beni della vita, dell’incolumità o del patrimonio altrui. Ha escluso, in altre parole, che i reati di terrorismo debbano essere necessariamente rivolti in danno di vittime indifferenziate per numero e per specifica identità. È vero piuttosto il contrario, come del resto si desume dalla lettera dello stesso art. 280 c.p., che più volte si riferisce al vulnus determinato per una sola e singola persona. Semplicemente, la vittima «viene colpita nel contesto del perseguimento di uno dei due scopi, ciascuno dei quali va oltre la persona colpita e in qualche modo ne prescinde». Né varrebbe, per giungere all’opposto risultato ermeneutico, il riferimento al carattere macroscopico degli eventi posti sullo sfondo della fattispecie (nel linguaggio dell’art. 270 sexies c.p., un danno grave per il Paese intero o per una organizzazione internazionale, recato per gli scopi indicati nella stessa norma). Ferma restando la consistenza necessariamente “oggettivabile” del rischio creato dalla condotta, il fine terroristico ben può essere perseguito mediante attacchi personalizzati, in forza del valore simbolico della funzione sociale assolta dal soggetto passivo, o per il fatto stesso della sua appartenenza alla collettività. Il legislatore, in altre parole, avrebbe inteso apprestare una tutela penalistica qualificata anche per i singoli cittadini, quando il pregiudizio ai loro diritti viene recato nella logica del terrorismo o dell’eversione.
Quanto alla dimensione obiettiva del delitto di attentato, necessaria per la sua stessa tipizzazione, la Corte ha ribadito che la fattispecie concreta deve assumere una «propria consistenza», «in termini sia di offensività che di consapevolezza (rappresentazione e volizione) dell’agente, in modo da escludere comunque la configurabilità di tali finalità quando l’intento dell’agente risulti, anche per ragioni oggettive, palesemente inconsistente o velleitario».
Va segnalata, anche per il notevole sforzo argomentativo, una recente decisione della Suprema Corte (sentenza 21.4.2015, n. 34147), che ha riproposto, adottando una soluzione affermativa ampiamente minoritaria, il tema della estensione al convivente more uxorio delle cause di non punibilità previste, da alcune norme del codice penale, in favore dei «prossimi congiunti» (comma 4 dell’art. 307 c.p.) di un soggetto a vario titolo coinvolto nell’illecito.
Si trattava, nella specie, dell’ipotesi disciplinata all’art. 384 c.p., il cui primo comma esclude la punibilità relativamente a diversi delitti contro l’amministrazione della giustizia, quando si tratti, appunto, di fatti commessi al fine di salvare un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
La Corte non ha certo dissimulato il fatto che l’opinione dominante esclude l’applicazione della norma in questione sulla base di un rapporto di convivenza non fondato sul matrimonio (ex multis, Cass. pen., 22.10.2010, n. 41139; nel senso contrario, isolatamente, Cass. pen., 22.1.2004, n. 22398), come pure esclude che possano considerarsi non punibili, ex art. 649, co. 1, c.p., i delitti contro il patrimonio commessi in danno del convivente (Cass. pen., 13.10.2009, n. 44047; in senso contrario solo Cass. pen., 21.5.2009, n. 32190). Si è ricordato, inoltre, come la posizione negativa abbia trovato conferma, e probabilmente forza risolutiva, nelle ripetute pronunce con le quali la Corte costituzionale, muovendo dall’assunto dell’inapplicabilità delle norme di favore, ha escluso che la disciplina contrasti con il principio di uguaglianza e con altri parametri costituzionali (per l’art. 384 c.p. si vedano le sentenze 18.11.1986, n. 237, 18.1.1996, n. 8 e 8.5.2009, n. 140, nonché le ordinanze 22.6.1989, n. 352 e 20.4.2004, n. 121; per l’art. 649 c.p., ove per altro la non punibilità attiene a fatti commessi contro il prossimo congiunto, si vedano le sentenze 7.4.1988, e 25.7.2000, n. 352, nonché l’ordinanza 20.12.1988, n. 1122).
Si è ricordato però, nel motivare la decisione di segno favorevole all’accusato, che proprio la Consulta aveva evocato l’art. 2 Cost. quale strumento per la tutela, anche nell’ambito della formazione sociale integrata dalla cosiddetta famiglia di fatto, dei diritti fondamentali della persona. D’altra parte – ha proseguito la Cassazione – le spinte provenienti dall’evoluzione del costume hanno implicato fenomeni di equiparazione del convivente al coniuge, a livello interpretativo (ad esempio, quando si discute del reato di maltrattamenti in famiglia) ed anche a livello normativo (come per le novellate figure di violenza sessuale o riguardo al cd. reato di stalking), così dando vita ad un quadro del tutto irrazionale. Compito dell’interprete sarebbe dunque quello di riportare il sistema a ragionevolezza, negando che la Costituzione consenta o addirittura imponga, sotto il profilo che interessa, un trattamento differenziale tra convivente e coniuge.
Del resto l’applicazione al convivente delle cause di non punibilità sarebbe imposta anche dalla regola dell’interpretazione “convenzionalmente orientata”, al fine di evitare che il diritto nazionale entri in collisione con le norme sovranazionali di tutela dei diritti, ed in particolare con l’art. 8 CEDU, secondo il quale «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza». Si è notato, in particolare, come la giurisprudenza di Strasburgo abbia più volte riconosciuto che la tutela convenzionale si estende alla famiglia di fatto (sentenze 13.6.1979, Marckx c. Belgio e 13.12.2007, Emonet c. Svizzera). La violazione del precetto posto dalla Convenzione sarebbe, nel caso di trattamento differenziale del convivente sul piano della punibilità per fatti concernenti le dinamiche intrafamiliari, di «solare evidenza».
Anche al fine di evitare una violazione del primo comma dell’art. 117 Cost., che com’è noto impegna l’ordinamento nazionale alla conformazione rispetto al diritto sovranazionale che non contrasti con la stessa Carta costituzionale, dovrebbe quindi nuovamente concludersi per l’applicabilità dell’art. 384 c.p. a persone che convivano more uxorio con il soggetto favorito mediante la condotta pur lesiva dell’interesse ad una corretta amministrazione della giustizia.
L’importanza sempre maggiore che l’informatica assume nella vita quotidiana, sia per la gestione di dati e documenti, sia per la loro comunicazione attraverso la rete, implica la continua insorgenza di questioni interpretative, che spesso nascono dallo iato tra l’evoluzione delle tecnologie e la capacità di adattamento del sistema normativo.
Il fenomeno è particolarmente vistoso sul piano processuale (le tecniche intrusive sono praticabili e praticate, spesso, a fini di indagine), ma non manca di manifestarsi anche per temi del diritto penale sostanziale (rilevanti anch’essi, naturalmente, nella dimensione procedurale).
Si è sviluppato un dibattito, in particolare, riguardo al locus commissi delicti per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.), che la giurisprudenza aveva inizialmente identificato nel luogo di posizionamento del server di allocazione fisica dei dati violati mediante l’accesso abusivo (Cass. pen., 27.5.2013, n. 40303). Di recente, però, le Sezioni Unite hanno accreditato la soluzione contraria, riferendo il tempo ed il luogo del reato al momento in cui, ed alla sede presso la quale, utilizzando una postazione collegata alla rete, l’agente compie le operazioni informatiche necessarie al collegamento con il server preso di mira ed al superamento delle barriere frapposte all’ingresso di estranei (sent. 26.3.2015, n. 17325).
Per vero, come si desume anche dalla sua collocazione (nel capo dedicato ai delitti contro l’inviolabilità del domicilio), la legge ha identificato una nozione di domicilio informatico che era parso naturale riferire, appunto, alla sede di residenza “fisica” dei dati. La Corte ha inteso valorizzare, però, la dimensione virtuale del fenomeno, notando come la violazione riguardi un «sistema informatico»: «il concetto di azione penalmente rilevante subisce nella realtà virtuale una accentuata modificazione fino a sfumare in impulsi elettronici; l’input rivolto al computer da un atto umano consapevole e volontario si traduce in un trasferimento … della volontà dall’operatore all’elaboratore elettronico, il quale procede automaticamente alle operazioni … l’azione telematica viene realizzata attraverso una connessione tra sistemi informatici distanti tra loro, cosicché gli effetti della condotta possono esplicarsi in un luogo diverso da quello in cui l’agente si trova; inoltre, l’operatore, sfruttando le reti di trasporto delle informazioni, è in grado di interagire contemporaneamente sia sul computer di partenza sia su quello di destinazione». Insomma, le risorse informatiche sarebbero “delocalizzate” verso una dimensione virtuale che coinvolge non solo il server, spesso costituito da strutture di cloud computing prive di ogni connessione spaziale con la persona offesa, ma la stessa strumentazione utilizzata per l’accesso: e l’uno e l’altra, oltretutto, possono ormai spostarsi agevolmente nello spazio fisico, grazie ai dispositivi portatili. Le Sezioni Unite ne hanno dedotto che la banca dati cui si riferisce l’incriminazione «è “ubiquitaria”, “circolare” o “diffusa” sul territorio, nonché contestualmente compresente e consultabile in condizioni di parità presso tutte le postazioni remote autorizzate all’accesso». Sarebbe dunque arbitraria una «scomposizione» tra le singole componenti dell’architettura della rete, «dovendo tutto il sistema essere inteso come un complesso inscindibile nel quale le postazioni remote non costituiscono soltanto strumenti passivi di accesso o di interrogazione, ma essi stessi formano parte integrante di un complesso meccanismo, che è strutturato in modo da esaltare la funzione di immissione e di estrazione dei dati da parte del client». Dunque l’”accesso” andrebbe identificato con l’”introduzione” nel sistema, che del resto rappresenta l’unica condotta umana, posta a monte di una sequenza di scambi completamente automatica (cioè gestita da software). Luogo del fatto è quello in cui in cui «l’operatore materialmente digita la password di accesso o esegue la procedura di login, che determina il superamento delle misure di sicurezza apposte dal titolare del sistema, in tal modo realizzando l’accesso alla banca dati». Con la precisazione che, ove il server non risponda o non validi le credenziali, il reato si fermerà alla soglia del tentativo punibile. E con l’ulteriore assunto che il criterio varrebbe anche per i casi di lecita introduzione nel sistema, poiché anche la condotta di indebito “trattenimento” è comunque gestita attraverso il terminale di accesso.
L’arresto delle Sezioni Unite ha già trovato conferma in decisioni successive (ad esempio, Cass. pen., 30.6.2015, n. 27825).
Si può aggiungere come si scorgano profili di assonanza tra la soluzione adottata e quella accreditata, dalla stessa Corte di cassazione, quanto al tempo ed al luogo di consumazione delle truffe attuate sollecitando l’accredito elettronico di fondi in favore di carte ricaricabili. Secondo una recente decisione, infatti, occorre aver riguardo al momento ed alla sede in cui la persona offesa interagisce con il sistema per effettuare l’accredito. In questo caso la Corte si è fondata sull’assunto che l’operazione determinerebbe l’immediata disponibilità del profitto in capo all’agente, e la contestuale deminutio patrimoniale per il soggetto passivo del reato (Cass. pen., 13.3.2015, n. 25230).
Il 16.12.2014, con il n. 52117, è stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione a proposito del momento in cui si consuma il delitto di furto mediante sottrazione di merce esposta all’interno di un supermercato.
Il dispositivo della decisione (deliberata il 17.7.2014) era già noto grazie alle informazioni provvisorie: la Corte ha ritenuto che il monitoraggio della condotta finalizzata al furto, attuato dall’avente diritto mediante apparati di rilevazione automatica del movimento della merce ovvero attraverso la diretta osservazione del personale addetto alla sorveglianza, unitamente all’intervento che ne consegue prima che l’agente acquisti la disponibilità assoluta ed incontrollata della cosa sottratta, impediscano la consumazione del delitto, e ne impongano la qualificazione come tentativo.
Nell’economia della motivazione sembra assegnato un rilievo paritario ai due fattori di “disturbo” della situazione possessoria dell’agente, cioè la sorveglianza visiva o telematica della condotta e la sua interruzione prima che lo stesso agente, pur avendo valicato le casse del supermercato, possa allontanarsi dall’esercizio commerciale. Se ne potrebbe dedurre che anche il primo elemento sia stato ritenuto essenziale al fine di escludere la consumazione, dal che potrebbe scaturire qualche dubbio circa la qualificazione del fatto quando la sottrazione della merce sia invece scoperta solo casualmente, e dopo che il reo abbia già superato la barriera delle casse.
Nel senso del mero tentativo sembra deporre il riferimento della sentenza al principio di offensività, tutto incentrato sulla perdita concreta ed effettiva, da parte dell’avente diritto, del controllo materiale sul bene. Analogo senso potrebbe assegnarsi all’argomento che la Corte ha voluto opporre al rilievo – frequente nella giurisprudenza di segno contrario – che il recupero attuato dai preposti alla sicurezza dopo il passaggio delle casse ben potrebbe essere considerato quale mera attività post delictum: si tratterebbe di una petizione di principio, che presuppone ciò che dovrebbe dimostrare, e cioè che il passaggio della barriera valga a segnare, appunto, il momento consumativo del reato. Dall’argomento potrebbe dedursi che la Corte ha inteso assegnare alla “sorveglianza” precedente, spesso in concreto decisiva per il controllo dopo i varchi, un rilievo solo strumentale, senza farne una condizione indispensabile per la continuità della situazione possessoria dell’avente diritto. Va aggiunto, però, come parte della giurisprudenza accreditata dalle Sezioni Unite avesse considerato decisiva, al fine di escludere la consumazione del delitto, proprio la continuità dell’azione di sorveglianza esercitata sull’agente, tale da consentire l’interruzione «in ogni momento» della condotta criminosa (ad esempio, Cass. pen., 20.12.2010, n. 7042, dep. 23.2.2011; Cass. pen., 12.6.2013, n. 2151, dep. 17.1.2014).
Nel corso del 2015 si è riscontrato un certo attivismo giurisprudenziale intorno alle figure di reato, previste dal Codice della strada, che si incentrano sulla conduzione di veicoli in stato di alterazione psichica (per effetto dell’assunzione di alcool o stupefacenti).
Anzitutto può segnalarsi la decisione che consolida un orientamento già in sostanza affermato, e soprattutto lo enuncia direttamente: il reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186 c.d.s.) sussiste anche quando viene condotto un veicolo privo di motore, per la cui utilizzazione non è richiesta una patente, ed in particolare quando viene guidata una bicicletta (Cass. pen., 2.2.2015, n. 4893). Il principio era già stato affermato, anche per implicito, nelle numerose occasioni in cui s’era trattato di stabilire se l’accertamento della condotta in questione comportasse o non l’applicazione della sanzione accessoria della sospensione della patente. Al proposito, dopo qualche discussione, si era imposta la soluzione negativa adottata dalle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 30.1.2002, n. 12316; da ultimo, nello stesso senso, Cass. pen., 29.3.2013, n. 19413). In ogni caso, il problema della sanzione accessoria aveva ragion d’essere solo perché la conduzione del velocipede vale ad integrare, appunto, il fatto tipico punito dalla legge. La nuova decisione della Corte ha provveduto a ribadire l’assunto, negando tra l’altro che le condotte di guida concernenti un mezzo non motorizzato debbano considerarsi prive, in astratto, del connotato di offensività.
Altro tema discusso, finanche sul piano della legittimità costituzionale, riguarda proprio la sospensione della patente di guida quale sanzione amministrativa accessoria, che si aggiunge alle pene principali.
La legge prevede che, nei casi di intossicazione alcolica più grave, la sospensione abbia una durata compresa tra uno e due anni, ma immediatamente aggiunge che il tempo della sospensione deve essere raddoppiato quando il veicolo condotto in stato di ebbrezza appartiene ad una persona estranea al reato (non dunque al reo, e neppure ad un terzo cui possa addebitarsi, in qualunque modo, la condotta pericolosa del reo medesimo). La ratio della previsione
– salvo forse un qualche profilo di deplorazione per il soggetto che abusa del mezzo altrui – è comunemente ricostruita evocando la disposizione “parallela” secondo la quale, se il veicolo appartiene a persona estranea al reato, non può esserne disposta la confisca. In sostanza, il raddoppio della sospensione dovrebbe mantenere alto il valore deterrente della minaccia di pena, che sarebbe indebolito, altrimenti, dalla consapevolezza della insuscettibilità di confisca del mezzo guidato in stato di ebbrezza (si veda il comma 2, lettera c, dell’art. 186 c.d.s.).
La maggior durata del provvedimento sospensivo esplica i suoi effetti anche quando il giudice della cognizione abbia sostituito la sanzione principale con quella del lavoro di pubblica utilità, ed il condannato abbia effettuato con diligenza la prestazione richiestagli. In questo caso (comma 9-bis del citato art. 186), la legge prevede che il giudice dell’esecuzione dichiari estinto il reato, revochi la confisca eventualmente disposta, e riduca della metà la durata della sospensione della patente di guida. Naturalmente, operando in termini percentuali, l’abbattimento della sanzione non esclude che il valore “finale” della pena sospensiva sia doppio rispetto a quello che sarebbe stato in caso di concomitante confisca del mezzo.
Ora, l’effetto in questione si conserva sebbene la legge preveda anche la revoca della confisca del veicolo. In altre parole, se in fase cognitiva le posizioni del conducente proprietario e del conducente non proprietario sono perequate (il secondo non subisce la confisca ma sconta una sospensione raddoppiata), alla fine del lavoro di pubblica utilità il primo dei due soggetti si trova avvantaggiato rispetto al secondo: senza raddoppio della sospensione, ma anche senza confisca.
Su questo presupposto, e sull’assunto che – a parità di condotta criminosa – la discriminazione sarebbe ingiustificata, era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale, mirata ad ottenere che l’abbattimento di durata della sospensione per il conducente non proprietario fosse attuato senza tener conto dell’iniziale raddoppio. La Consulta ha però dichiarato infondata la questione (C. cost., 9.10.2015, n. 198), In sintesi, si è notato come neppure il rimettente avesse posto in discussione la ragionevolezza (recte: la non manifesta irragionevolezza) della diversificazione iniziale del trattamento sanzionatorio. Una volta divenute esecutive le pene differenziate, l’applicazione di una disciplina premiale con effetti riduttivi non potrebbe che considerarle nel loro concreto assetto. Paradossalmente, l’accoglimento della questione avrebbe comportato un regime più favorevole per il conducente non proprietario (cioè una riduzione del 75%, invece che del 50%, della sanzione sospensiva inflittagli), senza effettiva giustificazione, trattandosi di “premiare”, nel suo caso come in quello del conducente proprietario, condotte del tutto corrispondenti (cioè la corretta esecuzione del lavoro di pubblica utilità).
La previsione di raddoppio della durata della sospensione è stata oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (sentenza deliberata il 29.10.2015).
Era insorto un contrasto sull’applicabilità del meccanismo al caso in cui la persona richiesta di un controllo sul tasso alcolico nel sangue abbia opposto un rifiuto all’autorità procedente. Per comprensibili ragioni, la legge (comma 7 dell’art. 186 c.d.s.) rapporta tale condotta a quella del conducente per il quale sia stato accertato il più alto dei livelli di intossicazione. Il trattamento sanzionatorio, però, è determinato in modo almeno parzialmente autonomo. Il conducente è infatti «punito con le pene di cui al comma 2, lettera c)», ma, per la durata della sospensione della patente, i valori edittali sono stabiliti direttamente («da sei mesi a due anni»), con un parziale ritorno alla tecnica del rinvio riguardo alla confisca (da disporre «con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione»).
L’autonomia della previsione sanzionatoria, specie riguardo alla sospensione della patente, aveva indotto parte della giurisprudenza ad escludere che, riguardo al conducente non proprietario che rifiuti i test alcolimetrici, possa essere disposto il raddoppio di durata (Cass. pen., 24.3.2015, n. 15188). Era stato affermato, tuttavia, anche l’opposto principio, valorizzando il rinvio che comunque è operato, nella norma in questione, alla lettera c) del predente comma 2: un rinvio cui si è attribuito carattere formale (o dinamico), per effetto del quale, alla luce della complessa sequenza degli interventi di riforma succedutisi nel tempo, la norma avrebbe recepito anche la disposizione concernente il bilanciamento tra confisca e durata della sospensione (Cass. pen., 16.10.2014, n. 46390).
Al momento è noto solo il tenore della decisione assunta dalle Sezioni Unite, che hanno accreditato la tesi negativa circa l’applicabilità della previsione di raddoppio.
Lo stesso vale per un’altra decisione deliberata dal massimo Collegio di legittimità il 29.10.2015, sempre con riguardo ai rapporti tra la fattispecie del rifiuto di sottoporsi al controllo alcolimetrico e quella della guida in stato di ebbrezza.
Anche in questo caso il problema è nato dall’infelice attuazione della tecnica del rinvio ad opera del legislatore. Si è già visto come il comma 7 dell’art. 186 richiami la lett. c) del comma 2 per il trattamento sanzionatorio. Ora va aggiunto che il comma 2-bis, riferendosi proprio alle «sanzioni di cui al comma 2 del presente articolo», delinea un’aggravante per il caso che «il conducente in stato di ebbrezza [provochi] un incidente stradale». Si tratta allora di stabilire se l’aggravante riguardi la sola ed accertata condotta della guida in condizioni di ubriachezza o debba essere applicata anche quando il conducente, dopo l’incidente, abbia rifiutato di sottoporsi al controllo alcolimetrico.
Non stupisce che, sulla questione, si fosse determinato un ulteriore contrasto di giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, l’aggravante non sarebbe applicabile per il fatto delineato al comma 7, anche per ragioni letterali: come si è visto, ed infatti, la previsione circostanziale si riferisce all’incidente provocato da un «conducente in stato di ebbrezza», e non semplicemente ad un soggetto che abbia impedito la relativa verifica (ex multis, Cass. pen., 9.5.2014, n. 22687). Sul fronte opposto si notava, in sostanza, come il comma 7 richiami in generale le pene previste in chiusura del comma 2, e come tutte tali pene siano richiamate, al fine di incrementarle, dal successivo comma 2-bis (da ultimo, Cass. pen., 26.9.2014, n. 43845).
Come accennato, è noto al momento il solo dispositivo della decisione assunta dalle Sezioni Unite, che hanno escluso l’applicabilità della circostanza al reato previsto dal comma 7 dell’art. 186 c.d.s.
Sempre in tema di sospensione della patente per la guida in stato di ebbrezza va segnalata, infine, una prima decisione circa la disciplina della misura nel caso che il reato si estingua grazie all’esito favorevole della messa alla prova, introdotta, anche per le persone maggiori di età, con la l. 28.4.2014, n. 67.
La Suprema Corte (sent. 17.9.2015, n. 40069), anzitutto, ha confermato che la sanzione accessoria deve comunque trovare applicazione, stante il chiaro disposto dell’art. 168 ter c.p., introdotto dalla stessa l. n. 67/2014. Si è pure affermato, tuttavia, che l’irrogazione della pena sospensiva spetta nei casi in esame al prefetto, e non al giudice penale. Sarebbe infatti applicabile il comma 3 dell’art. 224 c.d.s., ove in effetti è stabilito che, quando si determina l’estinzione del reato per causa diversa dalla morte del reo, sia il prefetto ad accertare i presupposti per l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ed eventualmente a provvedere di conseguenza.
La Corte ha escluso, in particolare, che la competenza attribuita al giudice penale dall’art. 186 c.d.s., nel contesto per molti versi analogo della condanna a prestare lavoro di pubblica utilità e dell’estinzione del reato nel caso di positiva prestazione ad opera del condannato, possa estendersi all’ipotesi della messa alla prova. Quest’ultima non presuppone l’accertamento della responsabilità e men che meno la condanna dell’interessato, a differenza di quanto non sia nella peculiare ipotesi delineata al comma 9-bis del citato art. 186. Non vi sarebbe dunque ragione di derogare alla regola generale posta, per l’appunto, dall’art. 224 del c.d.s.
La Corte ha pure incidentalmente osservato che, nonostante il mancato accertamento della responsabilità, il soggetto messo alla prova con esito favorevole non può valersi della riduzione della metà quanto alla durata della sospensione della patente, che invece è prevista, a parità dell’effetto di estinzione del reato, per il caso di sperimentazione positiva del lavoro di pubblica utilità. La scelta del legislatore, pur destando «qualche perplessità», non sarebbe tuttavia manifestamente irragionevole, dato che la maggior durata della sanzione amministrativa sarebbe compensata dalla possibilità per l’interessato di sottrarsi alla condanna ed alla stessa celebrazione del processo penale.
Dunque il giudice che pronuncia sentenza di intervenuta estinzione del reato ex art. 168 ter, co. 2, c.p., per esito favorevole della messa alla prova, non può e non deve disporre la sospensione della patente di guida, che verrà eventualmente applicata dal prefetto competente (da informarsi mediante comunicazione di cancelleria della sentenza passata in giudicato), previa verifica di ricorrenza dei relativi presupposti.