Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
È andata persa l’occasione, nel corso del 2017, per una valutazione di merito della Consulta circa una questione piuttosto discussa in materia di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), e cioè se sia ragionevole che, riguardo a tale reato, la legge non preveda la sospensione del procedimento fino a quando non sia stato definito, in primo grado, il giudizio nel cui ambito siano state rese le dichiarazioni asseritamente mendaci: sospensione invece prevista, com’è noto, per le false informazioni rese al pubblico ministero (art. 371 bis c.p.) o al difensore (art. 371 ter c.p.). Il giudice rimettente aveva sviluppato una serie cospicua di argomenti, mirati ad evidenziare l’asserita incongruenza nella diversa disciplina delle varie fattispecie, prospettando una violazione degli artt. 3, 24, secondo comma, e 111 Cost. Lo stesso giudice, però, ha commesso un errore tanto banale quanto frequente, formulando in modo ancipite il proprio quesito di legittimità costituzionale: prospettando, cioè, un’alternativa tra soluzioni decisorie equivalenti, ciò che, per granitica giurisprudenza della Consulta, comporta l’inammissibilità delle questioni sollevate. Nella specie, in particolare, erano state proposte indifferentemente un’addizione sull’art. 372 c.p. (“nella parte in cui non prevede”) oppure una manipolazione dell’art. 371 bis c.p. (“nella parte in cui non si applica”). Di qui l’esito indicato di manifesta inammissibilità (ord. 26.5.2017, n. 130). Va poi brevemente ricordata, sempre in tema di amministrazione della giustizia, anche un’ulteriore pronuncia della Consulta (C. cost., 26.5.2017, n. 127), che ha stabilito l’infondatezza di una questione che avrebbe comportato, in caso di accoglimento, la depenalizzazione della condotta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.). In breve, il giudice rimettente aveva rilevato come, pur essendo stato delegato a trasformare in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali fosse prevista la sola pena della multa o dell’ammenda (art. 2, co. 2, l. 28.4.2014, n. 67), il Governo abbia escluso dalla depenalizzazione (salve alcune deroghe) le fattispecie contenute nel codice penale, con ciò violando, secondo lo stesso rimettente, i parametri costituzionali pertinenti al meccanismo della delega legislativa. La Corte, pur constatando l’assenza di una indicazione esplicita del Parlamento per la conservazione delle figure codicistiche, ha osservato (in base ad una serie di considerazioni letterali e sistematiche) che l’effettiva volontà del legislatore di comprendere tali figure nell’ambito della depenalizzazione appariva dubbia, ed ha riconosciuto al Governo – sul piano delle regole costituzionali – la possibilità di una interpretazione discrezionale del mandato ricevuto, specie quando la stessa vale a garantire, come nella specie, una miglior razionalità dell’intervento normativo.
Il sistema dei delitti di alterazione di stato (art. 567 c.p.) è stato profondamente inciso da una decisione della Corte costituzionale (C. cost., 21.9.2016, n. 236), rilevante da diversi punti di vista. Va almeno accennato, sul piano generale, che si tratta d’una nuova manifestazione della recente tendenza della Consulta ad amplificare il proprio controllo sulle scelte sanzionatorie del legislatore, in un quadro obiettivamente segnato da anacronismi e disordini sistematici. Sul piano particolare, va registrata una significativa riduzione del quadro edittale delle pene, per giungere alla quale la Corte ha svolto anche rilievi sulla ratio e sulla portata delle incriminazioni.
Brevemente può ricordarsi che lo stato civile di un nuovo nato può essere alterato mediante uno scambio tra infanti (primo comma dell’art. 567) o attraverso false dichiarazioni od attestazioni (secondo comma). Ad onta dell’istintiva considerazione della prima fattispecie come la più grave in assoluto, il legislatore fascista aveva sanzionato ben più gravemente la seconda (reclusione da cinque a quindici anni, a fronte d’una pena compresa fra i tre e i dieci anni per la sostituzione del neonato). La scelta era stata considerata non irragionevole dalla stessa Consulta (ord. 23.3.2007, n. 106), che in poche battute l’aveva giustificata osservando che la condotta del secondo comma ingloberebbe anche un reato di falso, in aggiunta al delitto di alterazione di stato. Il discutibile precedente ha condizionato la Corte, in una certa misura, anche nell’attualità. Nella motivazione della nuova sentenza, infatti, il raffronto della pena comminata dal secondo comma dell’art. 567 c.p. con le sanzioni previste al primo comma è operato al solo fine di palesare un “sintomo” (non il solo) dell’intrinseca sproporzione della pena stessa, senza accedere ad una comparazione diretta e dirimente tra le fattispecie (solo incidentale un riferimento alla “plausibilità” delle critiche concernenti la proporzione addirittura inversa dei livelli sanzionatori rispetto alla gravità effettiva delle due forme di manifestazione del reato).
Nondimeno – attraverso un formale ossequio alla giurisprudenza che considera ammissibili interventi su pene manifestamente irragionevoli quando si fondano sulla comparazione con fattispecie analoghe e punite meno severamente – la Corte è pervenuta all’accoglimento della questione sollevata, “rinvenendo” i valori edittali di riferimento proprio nell’ambito dello stesso art. 567 c.p., ed in particolare nel primo comma della norma.
Di qui il dispositivo della sentenza, che ha “ridotto” (con gli ormai noti effetti ex tunc) la pena per l’alterazione di stato mediante falsità alla reclusione da tre a dieci anni.
Nel campo dei delitti contro l’ordine pubblico v’è da registrare, anzitutto, una novità legislativa. Con il co. 5 dell’art. 1 della l. 23.6.2017, n. 103, sono state aumentate le pene previste per il delitto di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter c.p.), portando il minimo della reclusione da quattro a sei anni, ed il massimo da dieci a dodici. Un intervento molto parziale, per la verità, riguardo ad una disciplina che ha dato adito a numerose controversie interpretative. Venendo al quadro del diritto vivente, può dirsi in primo luogo che la Corte costituzionale, con una recente sentenza (10.5.2017, n. 99), ha confermato l’infondatezza di questioni che periodicamente vengono sollevate riguardo ad alcune misure di contrasto alla criminalità organizzata: una sentenza che si segnala, tra l’altro, per nuove e penetranti riflessioni sul ruolo dell’offensività nell’applicazione delle norme penali. L’art. 30 della l. 13.9.1982, n. 646, prevede che le persone condannate con sentenza definitiva per delitti di criminalità organizzata, o per trasferimento fraudolento di valori, debbano comunicare alla polizia tributaria tutte le variazioni significative nell’entità e nella composizione del loro patrimonio. La stessa prescrizione è dettata riguardo alle persone sottoposte in via definitiva a misure di prevenzione, mediante il disposto dell’art. 80 del d.lgs. 6.9.2011, n. 159. L’omissione dell’adempimento è sanzionata severamente, con pena edittale massima che giunge ai sei anni di reclusione, e ad oltre ventimila euro di multa (rispettivamente, art. 31 della l. n. 646/1982 e art. 76, co. 7, del d.lgs. n. 159/2011). Le disposizioni mirano a garantire che l’Autorità pubblica sia sempre informata delle variazioni patrimoniali riguardanti persone ritenute pericolose. Nondimeno, l’applicazione della pena per il ritardo o l’omissione nella comunicazione è spesso sembrata eccessiva (alla stessa Consulta, e non da oggi) per le transazioni soggette a forme di pubblicità legale, come ad esempio gli acquisti immobiliari, che l’interessato non potrebbe tenere nascoste e che la stessa amministrazione, latamente intesa, conosce non appena effettuate. La questione sottoposta alla Corte muoveva proprio da riflessioni del genere, prospettando dubbi di compatibilità costituzionale in rapporto al principio di offensività (e questioni connesse in tema di uguaglianza, intangibilità della libertà personale, necessaria finalizzazione rieducativa della pena). La Consulta, respingendo le tesi del giudice rimettente, ha utilizzato argomenti già usati nella giurisprudenza di legittimità al fine di giustificare la rilevanza dell’omessa comunicazione di atti soggetti a pubblicità legale: per essere funzionale, l’informazione deve giungere nel più breve tempo possibile all’autorità deputata, e non è concepibile che quest’ultima sia invece chiamata ad un costante monitoraggio di tutte le fonti di pubblicità legale degli atti di rilevanza economica. Ad ogni modo, non sono mancati rilievi critici sull’inerzia del legislatore rispetto al problema, sempre più sensibile nell’epoca della ricerca informatica in archivi digitalizzati, e della possibile realizzazione di flussi automatici di informazioni dagli archivi medesimi verso soggetti predesignati. La Corte ha ribadito, inoltre, che il principio di offensività opera anche sul piano concreto, orientando il giudice nella valutazione del fatto e della sua rilevanza, che può essere esclusa quando la condotta risulta assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva. Una sicura indicazione per la pratica, ove naturalmente la mancanza di un interesse apprezzabile al nascondimento dell’informazione potrà essere valutata anche nella ricerca di elementi sintomatici del dolo. Va detto ancora, restando nel campo delle fattispecie complementari al sistema delle misure di prevenzione, d’una importante pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, produttiva di effetti abroganti rispetto ad una disciplina assai contestata lungo il corso dei decenni (Cass. pen., S.U., 27.4.2017, n. 40076).
Si allude, nel quadro attuale delle previsioni normative (che hanno ripreso, per quanto qui interessa, il dettato delle norme introdotte dalla l. 27.12.1956, n. 1423), all’art. 75, co. 2, del d.lgs. n. 159/2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni connessi alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, imposti ai sensi del precedente art. 8 e comprensivi dell’ordine di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi». Come rilevato dalle stesse Sezioni Unite, la severa sanzione penale (fino a cinque anni di reclusione) è stata applicata, dalla giurisprudenza dominante, quale pena aggiuntiva per la commissione di un qualunque reato, e finanche di taluni illeciti amministrativi. Si riteneva, giungendo di fatto ad una sovrapposizione tra «rispetto delle leggi» ed honeste vivere, che la persona sottoposta alla misura di prevenzione, nel violare una qualunque prescrizione normativa, esprima comunque una pericolosità particolarmente spiccata, così da legittimare il doppio sanzionamento in suo danno. La Cassazione – muovendo dai rilievi critici espressi dalla Grande Camera della C. eur. dir. uomo (C. eur. dir. uomo, 23.2.2017, De Tommaso c. Italia) con riguardo alla compatibilità della disciplina in questione con il principio convenzionale di legalità (e dunque di prevedibilità della sanzione) – ha ritenuto di sfruttare nella sua massima estensione la logica dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Il palese deficit di determinatezza del precetto (con le sue dirette implicazioni in punto di sua conoscibilità e dunque di colpevolezza dell’asserita violazione) non è stato considerato al fine di sollecitare il vaglio di compatibilità costituzionale della disciplina, ma utilizzato quale canone ermeneutico per escludere l’honeste vivere e il “rispetto della legge” dal novero delle prescrizioni la cui violazione è sanzionata dall’art. 75, co. 2, del d.lgs. n. 159/2011. Si è aggiunto per altro dalla Corte che, seppur penalmente irrilevanti, le condotte di violazione dei precetti penali (e forse delle previsioni amministrative: sul punto il tono della decisione appare dubitativo) possono legittimare l’aggravamento delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale.
La legge n. 103/2017, oltre che per il reato di scambio elettorale politico-mafioso (supra, § 3), ha introdotto sensibili inasprimenti del quadro edittale riguardo a diversi delitti contro il patrimonio. In sintesi, per quanto attiene al furto in abitazione o con strappo (art. 624 bis c.p.), al fianco di una più severa quantificazione della multa, si registra l’aumento della durata minima della reclusione, portata da uno a tre anni (da tre a quattro anni per le ipotesi aggravate di cui al terzo comma). Il minimo edittale è stato elevato anche per le varie ipotesi circostanziali di cui all’art. 625 c.p. Riguardo a queste ultime, poi, il legislatore ha voluto ridurre la discrezionalità giudiziale nel giudizio di comparazione con la quasi totalità delle attenuanti (escluse solo le fattispecie degli artt. 98 e 626 bis c.p.): ciò attraverso un meccanismo che esclude anche solo l’equivalenza delle diminuenti, sia pur consentendo che, applicati i valori edittali dell’art. 625 c.p., vengano poi operate le corrispondenti diminuzioni di pena. Interventi in parte analoghi sono stati attuati per il delitto di rapina (art. 628 c.p.): aumento del minimo edittale per la reclusione (da tre a quattro anni), anche relativamente alle ipotesi aggravate di cui al terzo-comma (da quattro anni e sei mesi a cinque anni). È stato poi disciplinato il caso del concorso di più circostanze tra quelle appena citate, o del concorso tra le stesse e le aggravanti comuni di cui all’art. 61 c.p.: in tali ipotesi la pena minima sale ulteriormente, portandosi a sei anni di reclusione. Da ultimo va citato il delitto di estorsione aggravata (secondo comma dell’art. 629 c.p.), per il quale la pena detentiva minima è stata aumentata da sei a sette anni. Per quanto attiene all’evoluzione del diritto giurisprudenziale, merita ancora segnalazione, in questa sede, la decisione con la quale, superando un rinnovato contrasto, le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che il reato di malversazione ai danni dello Stato concorre con quello di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, in ragione dell’autonomia delle due fattispecie, ed alla luce del principio per il quale, fuori dai casi di sussidiarietà previsti dallo stesso legislatore, il concorso di reati può essere escluso solo in presenza di un rapporto di specialità tra fattispecie incriminatrici (Cass. pen., S.U., 23.2.2017, n. 20664). Il massimo Collegio è intervenuto anche sulla vexata quaestio della nozione di destrezza, rilevante ai fini dell’integrazione di una nota aggravante specifica del furto (art. 625, primo comma, n. 4, c.p.). In sostanza, la Corte ha ristretto l’area del fatto tipico, collegando la diminuita capacità di difesa della vittima ad una connotazione di particolare abilità, astuzia od avvedutezza del comportamento tenuto dall’agente, ed escludendo invece l’aggravante quando la sottrazione sia facilitata da situazioni non provocate dall’agente medesimo, e dovute piuttosto alla disattenzione della persona offesa (Cass. pen., S.U., 27.4.2017, n. 34090). Sempre riguardo al furto (ma con implicazioni di più generale portata), le Sezioni Unite si sono occupate anche della nozione di privata dimora (art. 624 bis c.p.), nuovamente orientandosi, tra le difformi soluzioni adottate in giurisprudenza, per una restrizione d’ambito della previsione punitiva. Si è affermato, in particolare, che la dimora privata si connota anzitutto per fatto di ospitare manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne. È necessario, ancora, che il rapporto tra luogo e persona abbia durata apprezzabile, sia segnato da una certa stabilità e non da mera occasionalità. Infine, occorre, che il titolare della dimora abbia la possibilità di inibire l’accesso a terzi negando loro il consenso ad entrarvi. Su queste premesse, ed in base all’assunto che gli esercizi commerciali (di più: i «luoghi di lavoro») sarebbero «accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto», è stata esclusa l’integrazione dell’art. 624 bis nel caso di un furto commesso in orario di chiusura all’interno di un ristorante (Cass. pen., S.U., 23.3.2017, n. 31345). Rilevante infine una recente pronuncia della Corte costituzionale (sent. 17.7.2017, n. 207), a proposito della ricettazione e della speciale diminuente di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p., relativa ai fatti di particolare tenuità. Tale ultima fattispecie si caratterizza per la forte escursione tra minimo e massimo edittale della pena detentiva (da quindici giorni a sei anni), e lo stesso massimo, per altro verso, esclude l’applicazione, anche in casi particolarmente marginali, della nuova causa di non punibilità regolata dall’art. 131 bis c.p., che opera per reati con pena contenuta entro i cinque anni. Considerato che la clausola limitativa della punibilità può essere applicata anche per fatti rilevanti (e comunque puniti con pene minime più severe), la disciplina della ricettazione lieve appare in effetti priva di ragionevolezza, e tale è apparsa al giudice rimettente. La Consulta tuttavia ha preservato i margini di discrezionalità del legislatore, tanto nella determinazione dei valori sanzionatori che nella previsione di cause di esenzione dalla pena, sia pur denunciando, con un monito di tipo generale, una situazione di dubbia ragionevolezza, indotta soprattutto dall’eccessiva variabilità (e quantità) dei valori di pena stabiliti riguardo a fatti che, per definizione, presentano «particolare tenuità».
Nel corso del 2016 le sezioni unite della Corte Suprema (Cass. pen., S.U., 25.2.2016, n. 13682) hanno definito i rapporti tra i reati di guida in stato di intossicazione alcolica e la nuova fattispecie di non punibilità fondata sulla particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.). Il problema nasceva dalla natura meramente omissiva di alcune delle condotte (in particolare, il rifiuto di sottoporsi a controlli), o dall’esistenza di soglie legislative di graduazione della gravità del comportamento (in specie, i vari livelli di intossicazione, che assumono rilievo in punto di qualità e quantità della sanzione). Secondo alcuni, per figure così congegnate non vi sarebbero i margini per l’individuazione giudiziale di comportamenti al tempo stesso “rilevanti” e “particolarmente tenui”.
La Corte ha però replicato che la tenuità deve essere valutata nella prospettiva concorrente della condotta, del danno e della colpevolezza, così da inverare ampi margini discrezionali per il giudice, nonostante i connotati “invariabili” del comportamento incriminato. Dunque, può risultare non punibile ex art. 131 bis c.p. tanto il rifiuto di sottoporsi ai test (art. 186, co. 7, d.lgs. 30.4.1992, n. 285) che il fatto accertato di guida in stato di ebbrezza (co. 2 della stessa norma).
Va richiamata, anche per l’attualità e l’importanza degli effetti che si stanno producendo e si produrranno nell’immediato futuro, una decisione della Corte costituzionale che ha sconvolto il quadro di tutela penale del paesaggio (C. cost., 23.3.2016, n. 56). Il senso della decisione – il cui dispositivo ha eliminato un lungo blocco di testo dall’art. 181, co. 1-bis, del d.lgs. 22.1.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), con una valenza manipolatoria davvero inusitata – può essere ben compreso solo grazie ad una premessa di qualche complessità. La previsione di vincoli paesaggisti fondata sulla corrispondenza di determinati beni a tipologie astratte previste dalla legge, così come regolata dal legislatore del 1985, aveva avuto lo scopo di garantire tutela “integrale” al paesaggio con determinate caratteristiche, prescindendo da vincoli puntualmente fissati dall’autorità amministrativa. Per tale ragione, le violazioni concernenti tali beni erano state sanzionate più gravemente di quelle relative ai beni vincolati a livello provvedimentale, con una scelta che più volte la stessa Consulta aveva considerato ragionevole. Con interventi legislativi di epoca più recente (d.lgs. 29.10.1999, n. 490 e poi d.lgs. n. 42/2004, di introduzione dell’art. 181 del codice nel suo testo originario), il trattamento punitivo delle violazioni era stato temporaneamente parificato, non rilevando più se il vincolo dipendesse dalla conformità del bene ad una delle tipologie di legge oppure dall’adozione di un provvedimento impositivo. Per altro già nel 2004, con la l. 15.12.2004, n. 308, la situazione era stata capovolta, reintroducendo la difformità del trattamento sanzionatorio e però stabilendo una protezione più intensa dei beni vincolati per provvedimento dell’autorità. In ragione del testo correlato dei commi 1 ed 1-bis dell’art. 181, si stabiliva, in particolare, che le condotte concernenti i beni a vincolo puntuale costituivano sempre delitto (punito anche con la reclusione fino a quattro anni), al contrario dei fatti riguardanti beni vincolati per conformità al tipo legale, sanzionati come delitti solo se pertinenti ad interventi edilizi con volumetrie molto rilevanti, ed altrimenti riconducibili alla contravvenzione prevista dal co. 1 (con le ovvie conseguenze in punto di strumenti cautelari, di mezzi di indagine, di durata del termine prescrizionale, ecc.).
Ebbene, con pochissime battute, la Consulta ha considerato irrazionale (“ondivaga”) l’evoluzione della normativa e la sua vigente conformazione, ritenendo (per implicito) costituzionalmente imposta la soluzione del pari trattamento, da realizzare com’è ovvio mediante un allineamento in bonam partem. Individuato un siffatto obiettivo, la Corte ha ingegnosamente individuato una ablazione di testo, che sembra inutile riprodurre qui per intero, incentrata sull’eliminazione, nella previsione concernente il delitto, dello specifico riferimento ai vincoli nascenti da provvedimenti dell’autorità. Per effetto di tale manipolazione, la figura più grave è stata di fatto “ristretta” ai casi di volumetria rilevante, considerando indifferente l’origine del vincolo, e tuttavia portando alla sola dimensione contravvenzionale, proprio per questo, le fattispecie relative ai beni gravati da vincolo puntuale, che in precedenza assumevano caratura delittuosa a prescindere dalle volumetrie realizzate illegalmente. Inoltre (e sebbene non manchino in dottrina dubbi sull’effettività del risultato), con la propria amputazione di testo, ed in particolare con la “degradazione” verso il co. 1 delle violazioni meno gravi sui beni a vincolo provvedimentale, la Corte ha inteso estendere anche a tali violazioni gli istituti della non punibilità per accertamento postumo della compatibilità paesaggistica e della estinzione del reato per ravvedimento operoso, rispettivamente previsti dai commi 1-ter e 1-quinquies dello stesso art. 181, che richiamano appunto il co. 1 per definire il loro ambito di applicazione. Ovviamente, in epoca nella quale la “pena incostituzionale” non è considerata immune neanche in presenza di giudicato, il complesso intervento della Corte sta producendo effetti nei procedimenti in corso, soprattutto (anche se non solo) quanto alla determinazione del termine prescrizionale, con grave caduta dei concreti livelli di tutela del paesaggio. Si tratta poi di stabilire se, ed in quale misura, i giudici dell’esecuzione debbano intervenire sulle pene inflitte per fatti che “illegittimamente” erano stati qualificati come delitti. Nella giurisprudenza di merito si è registrata finanche la decisione di revocare la sentenza di condanna passata in giudicato, al fine di ricalcolare il termine di prescrizione e di rilevare così l’asserita estinzione del reato contravvenzionale.
Una breve segnalazione per una sentenza della Corte costituzionale (21.6.2017, n. 142) che ha disatteso i dubbi di legittimità sollevati riguardo all’apparato sanzionatorio che concerne il cd. favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche nelle sue forme aggravate (art. 12, co. 1 e 1-ter, del d.lgs. 25.7.1998, n. 286). La legge prevede in particolare l’irrogazione di una multa di importo fisso per ciascuna delle persone favorite nell’immigrazione irregolare (15.000 euro, portati a 25.000 nelle ipotesi aggravate di cui al co. 1-ter). Si era sostenuto, dal giudice rimettente, che le “pene fisse” in questione violerebbero i precetti costituzionali in materia di individualizzazione e proporzionalità delle sanzioni penali (artt. 3 e 27 Cost.), anche per il rigore eccessivo delle multe qui comminate rispetto alle pene previste per altre fattispecie, ritenute comparabili. La Corte, come detto, ha risolto il quesito nel senso della infondatezza. È vero, naturalmente, che la giurisprudenza costituzionale ha sempre considerato problematiche le sanzioni non adattabili alle caratteristiche del fatto ed alla persona del suo autore. In primo luogo, e tuttavia, si tratta nella specie non di pene “fisse” ma di pene “proporzionali” (art. 27 c.p.), e dunque di sanzioni che mutano consistenza in proporzione diretta con un aspetto essenziale della manifestazione criminosa, cioè il numero delle persone coinvolte nell’attività illegale, con lesione progressivamente più ampia degli interessi tutelati, che riguardano anche, se non in primo luogo, gli stessi migranti. Quanto al carattere immutabile della multa per il singolo atto di favoreggiamento, la Corte ha ricordato che la comminatoria è abbinata a quella di una pena detentiva variabile, e che già in passato situazioni del genere (ove il fattore modulabile della reclusione si cumula, tra l’altro, agli strumenti “generali” di cui agli artt. 62 bis, 133 bis e 133 ter c.p.) erano state ritenute compatibili coi principi costituzionali (ord. 31.3.2008, n. 91 e 20.11.2002, n. 475). Nell’ottica infine della proporzionalità, il sindacato di ragionevolezza può essere in astratto condotto alla luce dell’inesistenza di tetti massimi dell’addizione (profilo non eccepito nella specie) oppure in ragione della somma fissata per il singolo migrante, che la Corte non ha stimato eccessiva, e comunque non manifestamente irragionevole. La stessa comparazione proposta dal rimettente (riguardo alla pena prevista per l’induzione a migrare a fini di esercizio della prostituzione) è stata ritenuta inidonea a legittimare la sua questione, per i marcati profili di differenza tra le situazioni considerate nelle varie fattispecie.
Novità significative si sono registrate, recentemente, nel flusso della giurisprudenza costituzionale riguardante la disciplina degli stupefacenti. È noto come – all’esito delle modifiche connesse alla sentenza del 25.2.2014, n. 32, ed al successivo d.l. 20.3.2014, n. 36 – il quadro normativo sia segnato da una previsione incriminatrice concernente le “ipotesi lievi”, che prevede la pena massima di quattro anni di reclusione e comprende condotte relative a qualunque tipo di sostanze stupefacenti (art. 73, co. 5, del d.P.R. 9.10.1990, n. 309). La norma riguarda dunque anche le droghe cd. “pesanti”, cui si riferisce in esclusiva il co. 1 dello stesso art. 73, comminando una pena minima di otto anni di reclusione. Esiste così una soluzione di continuità nel cursore che il giudice può utilizzare per le situazioni di confine, che esclude un periodo di ben quattro anni dal novero delle opzioni utili ad assicurare la proporzionalità della risposta punitiva. Con la sent. 13.7.2017, n. 179, la Corte costituzionale ha preso in considerazione i molti dubbi di legittimità indotti dalla situazione indicata: violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, del principio di proporzionalità (anche nei termini fissati all’art. 49 della Carta di Nizza) e di quello di offensività, nonché del divieto convenzionalmente imposto di applicare pene disumane (art. 3 CEDU). Il giudizio della Consulta appare netto, nel senso della incompatibilità con la Costituzione d’un fenomeno di “discrezionalità discontinua” dalle proporzioni così marcate. Tuttavia, secondo la propria costante giurisprudenza, la Corte ha ritenuto che i casi di esercizio irragionevole della discrezionalità legislativa in materia di sanzione possano essere corretti solo in presenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, ad esempio per la presenza di fattispecie analoghe e diversamente sanzionate. La discrezionalità discontinua è illegittima solo quando irragionevole, ed il legislatore non è quindi obbligato a far coincidere, per le ipotesi lievi distinte dalle fattispecie ordinarie, i valori massimi delle prime coi valori minimi delle seconde. La soluzione proposta nel caso di specie dai rimettenti (abbattere il minimo edittale del co. 1 dell’art. 73 a quattro anni) non può quindi considerarsi direttamente imposta dalla Costituzione, e come tale capace di rendere ammissibile un intervento manipolatorio della Corte.
Esito dunque di inammissibilità, con un pressante monito per il legislatore affinché intervenga a razionalizzare il quadro sanzionatorio, reso ancor più significativo dalla parte della motivazione nella quale la Corte ha ricordato i casi nei quali la protratta inerzia legislativa ha condotto infine ad interventi manipolativi da parte della Corte stessa (ad esempio, riguardo alla cd. “revisione europea”). Sul valore minimo della pena comminata dal co. 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 la Consulta è tornata su iniziativa della Corte di cassazione, che ha sollevato una serie di questioni piuttosto particolari, centrate fra l’altro sull’assunto di un “effetto incostituzionale” della già citata sentenza n. 32/2014, la quale, avendo “ripristinato” la disciplina antecedente al d.l. 30.12.2005, n. 272, avrebbe appunto introdotto un valore edittale superiore a quello vigente, in violazione del principio di legalità. Le questioni sono state dichiarate manifestamente inammissibili (ord. 13.7.2017, n. 184). La Consulta ha osservato per un verso che il rimettente mirava, inammissibilmente, ad una censura della decisione n. 32, sebbene le pronunce della Corte costituzionale siano inoppugnabili (terzo comma dell’art. 107 Cost.). Per altro verso, è stata rilevata un’erronea ricostruzione del quadro normativo, essendo l’effetto denunciato dipeso non solo dalla sentenza del 2014, ma dall’intervento normativo d’urgenza attuato con il d.l. n. 36/2014. Prima ancora, tra i molti motivi di inammissibilità, la Consulta ha stimato irrilevante nel giudizio a quo la questione sollevata, e contraddittoria la motivazione spesa a sostegno della sua non manifesta infondatezza.