Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
Nel corso del 2011 si sono registrate due rilevanti pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione in materia di tutela della pubblica amministrazione. In febbraio è stata depositata una decisione occasionata dal contrasto che si era determinato, di recente, circa la qualificazione giuridica delle ipotesi in cui un soggetto, attraverso la falsa attestazione delle proprie condizioni di reddito, consegue indebitamente l’esenzione dal contributo per le spese sanitarie (Cass. pen., S.U., 25.2.2011, n. 7537). Tale esenzione costituisce un profitto, cui corrisponde per l’amministrazione il danno consistente nella mancata esazione del contributo al momento della prestazione sanitaria. Secondo la giurisprudenza prevalente, le condotte in questione andavano qualificate nel senso della truffa aggravata in danno dello Stato (art. 640, co. 1, n. 1, c.p.), dovendosi escludere, di contro, l’integrazione della figura speciale della truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) o del delitto previsto dall’art. 316 ter c.p., cioè la indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. In sostanza, si negava la possibilità di classificare come indebita erogazione la mera rinuncia alla riscossione di una somma (da ultimo, Cass. pen., 27.4.2010, n. 32578). In senso contrario, una decisione secondo cui sarebbe riconducibile al concetto di erogazione (nella particolare specie della prestazione assistenziale) anche l’esenzione dal pagamento del cd. ticket (Cass. pen., 17.9.2008, n. 41383). Proprio tale soluzione è stata avallata dalle Sezioni Unite: la nozione di «contributo » va intesa «quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante» e «tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro». L’applicazione dell’art. 316 ter c.p. sarebbe legittimata, per altro verso, dalla mancanza di un errore del soggetto passivo quale causa efficiente della prestazione, posto che l’amministrazione, nei casi in esame, prende atto della certificazione del richiedente, lasciando impregiudicata la possibilità di verifica circa la ricorrenza effettiva dei presupposti dell’esenzione (ove invece l’errore vi fosse, sarebbe in effetti integrato il reato di truffa aggravata). Le Sezioni Unite hanno anche stabilito che «il reato di cui all’art. 316 ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall’art. 483 c.p., in quanto l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce un elemento essenziale per la sua configurazione». Nel corso del 2011 è stata depositata anche la sentenza (delle stesse Sezioni Unite) concernente la condotta del custode-proprietario di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo che faccia indebitamente uso del veicolo stesso. A determinate condizioni, il fatto può configurare il reato di sottrazione di cosa sottoposta a sequestro (art. 334 c.p.). Viene evocato, tuttavia, anche l’illecito amministrativo di cui al co. 4 dell’art. 213 c.d.s., che sanziona ogni fatto di circolazione abusiva del veicolo sottoposto a sequestro. Si tratta allora di stabilire se, quando vi siano tutti gli elementi costitutivi del reato, ricorra un concorso del medesimo con l’illecito amministrativo. In tal senso, in effetti, era orientata la giurisprudenza dominante. Secondo un altro orientamento, però, la disposizione amministrativa si troverebbe in rapporto di specialità con quella penale e sarebbe, dunque, a norma dell’art. 9 della l. 24.11.1981, n. 689, la sola applicabile. La soluzione è stata avallata dalle sezioni unite, nel contesto di una approfondita disamina dei criteri generali per l’identificazione del rapporto di specialità tra norme (Principio di specialità e concorso apparente di norme). Secondo la Corte, sussistendo nel caso in esame tanto una specialità per aggiunta che una per specificazione e considerando anche che la norma amministrativa è stata dettata per ultima (a segnalare l’intenzione legislativa di una regolazione specifica del particolare fatto di sottrazione), la condotta del custode che utilizzi la vettura in sequestro integra solo un illecito amministrativo (Cass. pen., S.U., 21.1.2011, n. 1963).
Ad oltre sei anni dalla l. 20.7.2004, n. 189, che ha inserito nel codice penale il nuovo titolo IX bis («Dei delitti contro il sentimento per gli animali»: artt. 544 bis-544 sexies), si registrano in materia due rilevanti novità normative. La prima è rappresentata dalla l. 4.11.2010, n. 201, con la quale il nostro Paese ha ratificato, con enorme ritardo, la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13.11.1987. Per quanto riguarda le disposizioni penali, l’art. 3 inasprisce il trattamento sanzionatorio dei due principali delitti contro il sentimento per gli animali, introdotti dalla citata l. n. 189/2004: l’uccisione e il maltrattamento di animali. La pena per il delitto di uccisione di animali (art. 544 bis c.p.) viene elevata tanto nel minimo quanto nel massimo: in luogo della reclusione da tre a diciotto mesi è ora comminata la reclusione da quattro mesi a due anni. Quanto al delitto di maltrattamento di animali (art. 544 ter c.p.), viene elevato il massimo edittale della pena della reclusione – non più pari ad un anno, bensì a diciotto mesi – e viene al contempo elevata, nel minimo e nel massimo, la pena alternativa della multa, non più da 3 mila a 15 mila euro, bensì da 5 mila a 30 mila euro. L’art. 4 della medesima legge introduce poi – senza peraltro collocarlo nel codice penale – il nuovo delitto di traffico illecito di animali da compagnia, punito con le pene congiunte della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 3 mila a 15 mila euro (è prevista una circostanza aggravante per l’ipotesi in cui gli animali oggetto del traffico illecito abbiano un’età accertata inferiore a dodici settimane, oppure provengano da zone sottoposte a misure restrittive di polizia veterinaria adottate per contrastare la diffusione di malattie trasmissibili; sono altresì previste la confisca obbligatoria dell’animale e, quali pene accessorie, la sospensione o, in caso di recidiva, l’interdizione dall’esercizio dell’attività di trasporto, commercio o allevamento degli animali). La seconda novità è rappresentata dal d.lgs. 7.7.2011, n. 121 che, in attuazione di una direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente (2008/99/CE), ha inserito nel codice penale una nuova contravvenzione, collocata all’art. 727 bis, che punisce con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda fino a 4 mila euro chiunque, «fuori dai casi consentiti, uccide, cattura o detiene esemplari appartenenti a una specie animale selvatica protetta ». La nozione di «specie animali selvatiche protette» è oggetto di una definizione, contenuta nel nuovo art. 733 bis, co. 2: per tali «si intendono quelle indicate nell’allegato IV della direttiva 92/43/CE e nell’allegato I della direttiva 2009/147/CE». Per espressa previsione legislativa la norma incriminatrice non si applica: a) nei casi in cui il fatto riguardi una quantità trascurabile di esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie; b) se il fatto costituisce più grave reato (è ad esempio il caso del delitto di uccisione di animali ex art. 544 bis c.p., punito, come si è detto, con la reclusione da quattro mesi a due anni, ovvero delle fattispecie venatorie di cui all’art. 30, co. 1, lett. b, della l. n. 157/1992). La nuova contravvenzione è stata inserita dall’art. 2 del d.lgs. n. 121/2011 nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, che si estende dunque per la prima volta ai reati in materia di animali (cfr. il nuovo art. 25 undecies, co. 1, lett. a, del d.lgs. n. 231/2001). Da segnalare, infine, che nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche ex d.lgs. n. 231/2001 è stata altresì inserita la nuova contravvenzione di cui all’art. 733 bis c.p., anch’essa introdotta dal d.lgs. n. 121/2011, che punisce con le pene congiunte dell’arresto (fino a diciotto mesi) e dell’ammenda (non inferiore a 3 mila euro) la distruzione o il deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto.
L’art. 12 del d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. nella l. 14.9.2011, n. 148 (cd. manovra economica bis), ha inserito nel codice penale, tra i delitti contro la personalità individuale, un nuovo art. 603 bis c.p., che configura il delitto di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», volto a reprimere il fenomeno del cd. caporalato. La nuova disposizione punisce, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori». Il co. 2 dell’art. 603 bis c.p. precisa che «costituisce indice di sfruttamento» del lavoro «la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze: 1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti». La pena per il nuovo delitto è la reclusione da cinque a otto anni, congiunta alla multa da mille a duemila euro per ciascun lavoratore reclutato; pena che deve essere aumentata da un terzo alla metà in presenza di una delle seguenti circostanze: 1) se il numero di lavoratori reclutati è superiore a tre; 2) se uno o più dei soggetti reclutati sono minori in età non lavorativa; 3) se il fatto è stato commesso esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. Nel nuovo art. 603 ter c.p. sono inoltre state previste delle pene accessorie: a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonché b) il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti; c) l’esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell’Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento; esclusione che è aumentata a cinque anni quando il fatto è commesso da soggetto al quale sia stata applicata la recidiva ai sensi dell’art. 99, co. 2, n. 1) e 3), c.p. Tali pene accessorie, per espressa previsione dell’art. 603 ter c.p., si applicano anche in caso di condanna per il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.), limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto prestazioni lavorative.
Va segnalata anzitutto una novità legislativa in materia di usura. Com’è noto, secondo l’art. 644, co. 3, c.p., «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari». Al compito provvede il co. 4 dell’art. 2 della l. 7.3.1996, n. 108, il quale indicava la soglia degli interessi usurari, avuto riguardo alla media dei tassi risultanti dalla più recente rilevazione trimestrale a cura del Ministero dell’economia, con valore «aumentato della metà». Il criterio è stato modificato dall’art. 8, co. 5, lett. d), del d.l. 13.5.2011, n. 70, convertito nella l. 12.7.2011, n. 106. È ora stabilito che, a partire dal tasso medio, venga operato l’aumento di un quarto e però si aggiunga alla risultante «un margine di ulteriori quattro punti percentuali». Con un correttivo: che «la differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali». È opportuno ricordare come, ai sensi dell’art. 1 del d.l. 29.12.2000, n. 394, convertito nella l. 28.2.2001, n. 24, la verifica del carattere usurario dei tassi, a fini penali, debba aver riguardo al momento «in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualsiasi titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento». Un cenno, sempre in materia di tutela penale del patrimonio, meritano almeno due provvedimenti giurisdizionali. Il primo concerne la sentenza con cui la Consulta ha di nuovo «respinto» gli attacchi all’apparato sanzionatorio dell’art. 630 c.p., che per il sequestro di persona a scopo di estorsione prevede un minimo edittale (venticinque anni) superiore al valore massimo stabilito, in via generale, quanto alla reclusione per un solo reato (art. 23 c.p.). Il rimettente, nella prospettiva dell’art. 3 Cost., aveva istituito una comparazione con il trattamento del sequestro di ostaggi (di cui all’art. 3, co. 1, l. 26.11.1985, n. 718). In questo caso, la pena, pure fissata al minimo in venticinque anni, può essere fortemente abbattuta per le ipotesi di «lieve entità». La questione sollevata, dunque, mirava ad una manipolazione additiva dell’art. 630 c.p., che introducesse un’analoga previsione attenuante. Questione infondata, secondo la Consulta (C. cost., 22.7.2011, n. 240), date le sensibili differenze strutturali tra le fattispecie poste in comparazione (soprattutto con riguardo al fine perseguito dall’agente). Questione comunque rimasta impregiudicata, per espressa precisazione della Corte, quanto al raffronto con ulteriori fattispecie (ad esempio, l’art. 289 bis, ove le pene per il sequestro a fini di terrorismo possono trovare mitigazione grazie all’art. 311 c.p.). Infine, una decisione delle sezioni unite della Cassazione. Si trattava di stabilire se commetta il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che, gravato per una qualunque ragione dell’obbligo di versare a terzi una quota della retribuzione dovuta al dipendente, non effettui la prestazione e dunque trattenga la somma corrispondente. Il problema consiste, ovviamente, nella possibilità di considerare altrui il denaro posto ad oggetto dell’obbligazione retributiva. Dopo una decisione delle stesse sezioni unite, che aveva escluso il delitto di cui all’art. 646 c.p. per l’omesso versamento di contributi previdenziali (Cass. pen., S.U., 27.10.2004, n. 1327/05), è rimasta controversa l’analoga questione riguardo a somme destinate a terzi per effetto di obblighi contrattualmente assunti. V’è stata dunque un’argomentata ordinanza di rimessione al massimo Collegio (Cass. pen., 18.2.2011, n. 9858). E le Sezioni Unite hanno generalizzato la soluzione negativa, escludendo, anche per il caso di specie (un’obbligazione nascente dal mutuo contratto da un lavoratore con un istituto finanziario), la ricorrenza del delitto di appropriazione indebita (Cass. pen., S.U., 25.5.2011, n. 37954).
La novità più rilevante tra quelle registrate nel 2011 riguarda la nuova disciplina dei cd. precursori delle droghe, cioè delle sostanze che possono essere utilizzate per la produzione di stupefacenti, ora elencate (secondo tre diverse classificazioni) in allegato al Regolamento CE n. 273/2004 (come sostituito ed integrato dal Regolamento CE n. 111/2005). Esercitando la delega conferita con l’art. 45 della l. 4.6.2010, n. 96, al fine di adeguare la legislazione nazionale a quella comunitaria, il d.lgs. 24.3.2011, n. 50 ha sistemato ed in parte innovato la materia. In precedenza, la disciplina dei precursori era data dall’art. 70 e dall’art. 73, co. 2 bis, del d.P.R. 9.10.1990, n. 309, che prevedevano sanzioni penali per la produzione o il commercio illegali delle sostanze e per la violazione degli obblighi di comunicazione gravanti sugli operatori. Va ricordato, per inciso, che i rapporti tra le norme indicate avevano determinato qualche disorientamento applicativo, per la parziale coincidenza delle relative previsioni. Le incertezze appena evocate sono state in parte eliminate dal legislatore delegato attraverso l’abrogazione del citato co. 2 bis dell’art. 73 e l’unificazione delle norme amministrative e penali sui precursori, nell’ambito di un art. 70 completamente novellato. La norma contiene anzitutto alcune definizioni ed essenzialmente rinvia, per l’identificazione delle sostanze, al già citato allegato (I) del regolamento comunitario in materia, così superando l’elenco originariamente annesso al t.u. del 1990, secondo le direttive (ormai inattuali) del relativo art. 14. Sono considerati precursori di droghe anche le miscele e i prodotti naturali contenenti le sostanze elencate nel suddetto allegato. Non altrettanto i preparati (anzitutto i farmaci) che, a loro volta, contengano precursori, alla condizione che le sostanze controllate non possano essere estratte per l’utilizzazione «con mezzi di facile applicazione o economici». Dopo aver fissato le ulteriori nozioni di «operatore» e di «immissione sul mercato», il novellato art. 70 disciplina tale ultima attività, ovvero anche la semplice detenzione dei precursori di categoria 1, prevedendo la necessità di una licenza (ad efficacia solo triennale), tranne che per le farmacie. I soggetti che svolgono le attività di immissione sul mercato, importazione od esportazione dei precursori di categoria 2 devono registrarsi presso il Ministero della sanità, al pari di coloro che esportino sostanze classificate in categoria 3, oltre una soglia minima fissata nel pertinente Regolamento comunitario. Inoltre, va detto, in termini del tutto generali, che le attività di importazione ed esportazione devono essere autorizzate, anche per i soggetti titolari di licenza, secondo una disciplina piuttosto articolata. Il complesso delle disposizioni indicate è assistito da sanzioni penali. L’illecita immissione sul mercato di precursori di categoria 1 – nonché la detenzione, l’importazione o l’esportazione degli stessi senza licenza – integra infatti il delitto previsto nel co. 4 del nuovo art. 70 ed è punita con la reclusione da quattro a sedici anni e con la multa da 15 mila a 150 mila euro. Lo stesso comma prevede altresì un’aggravante a effetto speciale per l’ipotesi che l’autore del fatto sia titolare di licenza o autorizzazione rilasciata per sostanze diverse o sia soggetto registrato per le attività relative ai precursori di categoria 2 o 3. I medesimi comportamenti, ad eccezione della detenzione, integrano l’elemento materiale del meno grave delitto previsto dal co. 6 della norma novellata, qualora vengano posti in essere in assenza della prescritta registrazione. Anche in questo caso, è prevista un’aggravante speciale per il caso che il fatto sia commesso da un soggetto titolare di una licenza o di una registrazione per altre tipologie di precursori. Ulteriori ipotesi delittuose sono configurate nel co. 10 dell’art. 70, relativamente a condotte di esportazione od importazione in assenza di autorizzazione, laddove richiesta, anch’esse diversamente sanzionate (attraverso richiami quoad poenam ai co. 4 e 6) a seconda della classificazione del precursore interessato. La novella ha infine introdotto tre ipotesi contravvenzionali (due delle quali condizionate da una clausola di riserva espressa per il caso che il fatto costituisca un più grave reato), punite tutte in maniera alternativa con l’arresto o con l’ammenda. La prima, prevista dal co. 11 dell’art. 70, riguarda la violazione dell’obbligo di fornire i precursori di categoria 1, nell’ambito dell’Unione europea, soltanto ad operatori in possesso di licenza per l’utilizzo delle medesime sostanze. La seconda (co. 16) concerne l’inadempimento degli obblighi di comunicazione previsti dal comma precedente in relazione alle singole operazioni di importazione, esportazione e transito verso paesi extracomunitari o di commercio con paesi comunitari di precursori di categoria 1 e 2, ovvero anche di precursori di categoria 3, qualora tali operazioni siano soggette ad autorizzazione. Infine (co. 17), viene introdotta una fattispecie di impedimento od ostacolo allo svolgimento delle attività di vigilanza, controllo ed ispezione attribuite al Ministero della salute. Vanno anche segnalati, per chiudere, gli «assestamenti» riguardanti norme di carattere generale, sostanziali o processuali, in materia di stupefacenti. La novella ha integrato il catalogo dei reati-fine che possono dar luogo all’associazione per il narcotraffico prevista dall’art. 74 del citato d.P.R. n. 309/1990, includendovi i delitti previsti dai co. 4, 6 e 10 dell’art. 70, purché non abbiano ad oggetto i precursori di categoria 3. L’oggetto materiale dei nuovi reati va sottoposto a confisca obbligatoria e a distruzione, ove possibile, secondo il disposto e con le modalità di cui ai co. 4 e 5 dell’art. 87 del t.u. Infine, i delitti poco sopra menzionati sono stati inseriti nel novero dei fatti per i quali – a norma dell’art. 9, co. 6, del l. 16.3.2006, n. 146 (come modificato dalla l. 13.8.2010, n. 136) – la polizia giudiziaria e le autorità doganali possono, in caso di necessità, differire od omettere gli atti di propria competenza. Sul piano del diritto giurisprudenziale, il 2011 si segnala soprattutto per l’emersione (o la riemersione) di radicali contrasti su questioni di grande rilievo pratico. In primo luogo, si è riaperta la discussione circa la rilevanza penale del cd. uso di gruppo, cioè delle condotte di detenzione e cessione attuate dal singolo al fine di consentire un’assunzione collettiva e contestuale di sostanza stupefacente. Dopo una risalente presa di posizione delle Sezioni Unite, secondo cui le fattispecie in discorso dovevano considerarsi penalmente indifferenti (Cass. pen., S.U., 28.5.1997, n. 4), è intervenuta, com’è noto, una riforma della norma incriminatrice, la quale attualmente sanziona condotte pertinenti a sostanze «destinate ad un uso non esclusivamente personale» (art. 73, co. 1 bis, del d.P.R. n. 309/1990, come introdotto ex art. 4 bis del d.l. 30.12.2005, n. 272, convertito nella l. 21.2.2006, n. 49). Dalla nuova formulazione una parte della giurisprudenza ha dedotto che, ormai, anche le cessioni (programmate o effettuate) per il cd. uso di gruppo sarebbero penalmente sanzionate, non essendo lo stupefacente definibile come cosa destinata esclusivamente al consumo dell’agente (Cass. pen., 6.5.2009, n. 23574; Cass. pen., 13.1.2011, n. 7971). In senso contrario, e richiamando la giurisprudenza (a Sezioni Unite) antecedente alla riforma, altra decisione ha stabilito la perdurante irrilevanza delle condotte in esame. L’espressione utilizzata dal legislatore, specie alla luce dei lavori preparatori della riforma, non sarebbe stringente al punto da imporre un ribaltamento della soluzione precedentemente adottata. Il principio del favor rei, in condizioni siffatte, indurrebbe a considerare penalmente lecito, appunto, l’acquisto e la cessione per uso collettivo (Cass. pen., 26.1.2011, n. 8366). Nel tentativo di approssimare la fattispecie al concetto di uso personale, la Corte ha stabilito comunque condizioni assai rigide per la valutazione di irrilevanza. Dovrebbe in particolare risultare accertata, in positivo, la destinazione della droga al consumo anche personale dell’agente. Dovrebbe parimenti essere accertata la previa volontà di un gruppo di persone identificate di consumare lo stupefacente collettivamente, in luogo e tempi determinati. In sostanza, la compattezza del gruppo, nella composizione, nelle intenzioni e nei comportamenti, sarebbe condizione necessaria e utile ad una qualifica dell’uso come «esclusivamente personale». Altro tema al centro di una serrata controversia è quello dei criteri per definire quella «ingente quantità» che comporta, a norma del co. 2 dell’art. 80 del t.u., un rilevante aggravamento di pena per l’illecita detenzione di stupefacenti. Può ricordarsi come, dopo una certa affermazione della tesi che dovessero considerarsi ingenti le quantità di droga capaci di «saturare» il mercato per un periodo significativo, le sezioni unite della Cassazione avessero ripudiato il criterio, essenzialmente in forza della sua indeterminatezza e della sua base congetturale, proponendo per altro un’alternativa complessa e non del tutto lineare (Cass. pen., S.U., 21.9.2000, n. 17). Veniva in sostanza evocato un parametro assoluto, riferito a materiale che «sia oggettivamente di notevole quantità, molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo che, per essere riferito a quantità, rimane sostanzialmente indeterminabile, vale a dire ampliabile all’infinito ». La Corte non aveva potuto rinunciare del tutto ad un criterio relazionale, richiedendo che «la quantità di sostanza tossica … superi notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera e, per questo, è in grado di formarsi una esperienza fondata sul dato reale presente nella comunità nella quale vive». Insomma: quantità rilevante in assoluto e comunque eccezionale rispetto a quella tipica delle transazioni normalmente condotte nel territorio di pertinenza. La vaghezza della formula normativa, e per la verità delle stesse soluzioni giurisprudenziali, ha impedito che negli anni successivi vi fosse un’adeguata riduzione ad unità dei criteri applicati nei singoli giudizi. Anche per questo è emersa una «corrente» decisa a conseguire lo scopo, pur a prezzo dell’opinabilità, piuttosto palese, delle giustificazioni e delle stesse soluzioni adottate. Si è affermato, in sintesi, che dovranno «di regola» considerarsi ingenti quantitativi di droghe «pesanti» (eroina e cocaina) che, al lordo delle sostanze da taglio (presenti in misura «media» a seconda del tipo di stupefacente), pesino almeno due chilogrammi. Il peso minimo per l’integrazione dell’aggravante dovrebbe innalzarsi a cinquanta chilogrammi per le droghe «leggere», cioè essenzialmente l’hashish e la marijuana (Cass. pen., 26.5.2010, n. 20120; Cass. pen., 26.5.2010, n. 20119; Cass. pen., 26.11.2010, n. 42027; Cass. pen., 14.1.2011, n. 12404). La conclusione è sorretta dall’asserita necessità di una considerazione «globale» del mercato (cui normalmente si riferiscono le condotte in esame), della quale, nella propria condizione di giudice nazionale, la stessa Cassazione avrebbe nei fatti l’effettiva contezza. L’orientamento è stato aspramente contestato. Trascurando per brevità diverse recenti sentenze riconducibili (non senza varietà di accenti) ai dicta delle sezioni unite, va segnalata una decisione ove il criterio «quantitativo» di cui si è detto è stato puntualmente sottoposto a critica (Cass. pen., 1.2.2011, n. 9927). Un’inammissibile discrezionalità giudiziale si sarebbe sostituita a quella che il legislatore ha già esercitato, rinunciando scientemente alla fissazione di soglie quantitative. D’altra parte, il superamento delle incertezze indotte dalla formula normativa sarebbe solo apparente, restando la soluzione proposta meramente orientativa («di regola») e soprattutto fondata su fattori indeterminati come un preteso livello «medio» di principio attivo del materiale preso in considerazione. Il deficit di tassatività dell’indicazione legislativa andrebbe piuttosto ridotto, traendo elementi di specificazione dal contesto normativo in cui si cala la relativa disposizione. Dunque, il quantitativo dovrebbe essere «oggettivamente eccezionale», tale da consentire la preparazione di un elevatissimo numero di dosi, così da porre in grave pericolo la salute pubblica.
In quest’ambito, un evento di rilievo, nel corso del 2011, è stato la decisione della Consulta a proposito del reato di omesso versamento dell’IVA dovuta per il 2005. L’art. 10 ter del d.lgs. 10.3.2000, n. 74 è entrato in vigore nel luglio del 2006. Posto che la legge (in particolare l’art. 6, co. 2, della l. 29.12.1990, n. 405) fissa al 27 dicembre di ogni anno il termine per versare l’imposta relativa all’anno precedente, i contribuenti hanno avuto a disposizione, con riguardo appunto al 2005, solo cinque mesi circa, invece che i dodici a disposizione dall’anno successivo. Di qui ripetute censure per una pretesa violazione dell’art. 3 Cost. La Consulta, entrando nel merito, ha dichiarato manifestamente infondata la relativa questione. Il «fluire del tempo» non è un fattore irrilevante nella disciplina dei fenomeni giuridici. D’altra parte, il termine messo a disposizione dei contribuenti non è stato irragionevolmente breve neppure per il primo anno di applicazione della disciplina, trattandosi comunque di circa cinque mesi. Da ultimo, il minor disvalore connesso alle maggiori difficoltà nel tempestivo adempimento dell’obbligazione tributaria potranno essere valutate, caso per caso, nella determinazione in concreto della sanzione (C. cost., 21.7.2011, n. 224). Un solo cenno, per chiudere l’argomento tributario, alla decisione delle sezioni unite, depositata nel corso del 2011, a proposito dei rapporti tra i delitti di frode fiscale e la fattispecie di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, co. 2, n. 1, c.p.). Era discusso, in particolare, se potesse darsi concorso tra gli illeciti tributari e quello comune di truffa. Con una decisione rilevante anche sul piano generale, in materia di specialità e concorso apparente tra norme (Principio di specialità e concorso apparente di norme), la Corte di cassazione ha identificato un rapporto di specialità, appunto, tra le fattispecie di frode fiscale (artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74/2000) ed il citato delitto di truffa ai danni dello Stato. Si è ritenuto, in particolare, che qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore nell’ambito delineato dalla normativa speciale, salvo naturalmente che ne derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni. Si è aggiunto come le norme tributarie, che riguardano anche le frodi in materia di IVA, valgano non solo a presidiare gli interessi finanziari dello Stato, ma anche quelli dell’Unione europea, assicurando per detti interessi i medesimi strumenti di tutela, secondo il principio di assimilazione attualmente fissato all’art. 325 TFUE (Cass. pen., S.U., 19.1.2011, n. 1235).
Tra le leggi penali complementari pubblicate nel 2011, non contemplate in altre voci della presente opera, si segnalano le due seguenti. In materia di sicurezza dei giocattoli per bambini di età inferiore ai quattordici anni, il d.lgs. 11.4.2001, n. 54, emanato in attuazione della direttiva 2009/48/CE, ha introdotto due nuove figure contravvenzionali. La prima (art. 32, co. 1) punisce con l’arresto fino a un anno e con l’ammenda da 10 mila a 50 mila euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il fabbricante o l’importatore che immette sul mercato giocattoli privi dei requisiti di progettazione e di fabbricazione previsti dal medesimo d.lgs. La seconda (art. 32, co. 2) punisce invece con l’arresto da sei mesi a un anno e l’ammenda da 10 mila a 50 mila euro – salvo che il fatto costituisca più grave reato – il fabbricante, l’importatore o il distributore che non ottempera ai provvedimenti dell’autorità di vigilanza del mercato, emanati ai sensi del d.lgs. medesimo, che vietano l’immissione sul mercato o la circolazione sul territorio nazionale dei giocattoli, ordinandone il ritiro o il richiamo allorché si accerti che possono pregiudicare la sicurezza o la salute delle persone. In tema di etichettatura e qualità dei prodotti agroalimentari, infine, la l. 3.2.2011, n. 4 ha depenalizzato (art. 6) gli illeciti in materia di produzione e commercio dei mangimi, previsti dagli artt. 22 e 23 della l. n. 281/1963, e, al fine di rafforzare la prevenzione e la repressione degli illeciti in materia agroalimentare, ha esteso la composizione delle sezioni di polizia giudiziaria agli ufficiali ed agenti del Corpo forestale dello Stato (art. 4, co. 7, modificativo dell’art. 5 disp. att. c.p.p.).