Vedi I singoli reati dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016 - 2017 - 2018 - 2019
I singoli reati
Nel corso del 2013, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute su alcuni aspetti della disciplina del crimine organizzato transnazionale, regolati dalla l. 16.3.2006, n. 146 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli adottati in materia dall’ONU, rispettivamente, nel 2000 e nel 2001).
L’art. 4 della citata legge, com’è noto, prevede un generale aggravamento delle sanzioni (da un terzo alla metà) per «i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato». Forti incertezze si erano registrate, tra l’altro, a proposito dell’applicabilità della fattispecie ai delitti associativi, per l’evidente rischio di una sostanziale duplicazione del trattamento sanzionatorio. La Suprema Corte, muovendo dall’assunto che la norma comprende qualsiasi delitto rispondente alle caratteristiche indicate, senza alcuna esclusione, ha stabilito che anche le pene previste per i reati associativi devono essere aumentate, sempreché ricorrano gli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Si è aggiunto però, ad evitare l’eventualità di un bis in idem sanzionatorio, che vale la conclusione contraria per i casi in cui il «gruppo criminale organizzato», cui si riferisce l’art. 4 della l. n. 146/2006, «coincida» con l’associazione a delinquere. Il presupposto logico della presa di posizione consiste nella mera possibilità di una coincidenza, nei singoli casi concreti, tra l’organizzazione rilevante per la fattispecie associativa ed il «gruppo criminale» indicato nella figura circostanziale. Dunque l’una e l’altra figura divergono sul piano astratto. Si è ritenuto, anche alla luce di quanto indicato nella già citata convenzione delle Nazioni unite (cd. convenzione di Palermo), che il gruppo transnazionale si identifica in forza della stabilità dei rapporti fra gli adepti, di un minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli, della non occasionalità o estemporaneità della organizzazione stessa, della sua costituzione in vista anche di un solo reato e per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro genere. Dunque il gruppo in questione sarebbe un quid pluris rispetto al mero concorso di persone, ma si distinguerebbe anche dal tipo associativo, che richiede un’articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, con la pianificazione di una serie indeterminata di reati (Cass. pen., S.U., 31.1.2013, n. 18374).
È genericamente riferibile (anche) al tema dell’ordine pubblico la riforma attuata riguardo alla somministrazione di bevande alcooliche a minori o ad infermi di mente. In particolare, con il co. 3-ter del d.l. 13.9.2012, n. 158 (conv., con mod., dalla l. 8.11. 2012, n. 189) è stata introdotta una nuova fattispecie nel corpo dell’art. 689 c.p., il quale di conseguenza punisce, al co. 2, la condotta di chi somministra alcool ai soggetti «protetti» mediante distributori automatici che non consentano l’identificazione del fruitore attraverso dispositivi di lettura ottica dei documenti, e sempre che l’accesso al macchinario non sia subordinato a controlli anagrafici compiuti da personale dedicato. Il citato d.l. n. 158/2012 ha anche introdotto, sempre nel testo dell’art. 689 c.p., nuove sanzioni amministrative per l’esercente che violi più volte il divieto di somministrazione, ed in particolare una pena pecuniaria e la sospensione dell’attività commerciale per la durata di tre mesi.
Novità ancora più recenti si sono registrate in occasione del provvedimento adottato d’urgenza riguardo alle cd. violenze di genere (d.l. 14.8.2013, n. 93), e delle modifiche recate in sede di conversione (l. 15.10.2013, n. 119). Non si tratta propriamente di interventi sulle norme a tutela dell’ordine pubblico, visto che attengono all’art. 260 c.p. od alle contravvenzioni di polizia, ma la ratio legis chiaramente consiste nella prevenzione o nella repressione di condotte lesive dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Anzitutto, l’art. 7, co. 3-bis, del citato d.l. n. 93/2013 ha aggiunto un nuovo ed ultimo comma all’art. 260 c.p., estendendo l’incriminazione per condotte di introduzione clandestina «agli immobili adibiti a sedi di ufficio o di reparto o a deposito di materiali dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, l’accesso ai quali sia vietato per ragioni di sicurezza pubblica». Analoga estensione è stata operata riguardo al reato di ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato, mediante l’inserimento ex novo di un secondo comma nel testo dell’art. 682 c.p. È da ricordare come, in forza dell’art. 19, co. 2, della l. 12.11.2011, n. 183, sia punito a norma dell’art. 682 c.p. anche chi compia accesso abusivo, od ostacoli l’altrui accesso autorizzato, nelle aree e nei cantieri allestiti nella Val di Susa per la realizzazione delle linea ferroviaria tra Torino e Lione.
Nel campo dei delitti contro la famiglia vanno segnalati, anzitutto, i prevedibili (e previsti) sviluppi del principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 23.2.2012, n. 31, a proposito della sanzione accessoria della perdita della potestà genitoriale (art. 569 c.p.) in rapporto al delitto di alterazione di stato (art. 567, co. 2, c.p.).
Com’è noto, la Consulta aveva rimosso l’automatismo nell’applicazione della pena accessoria, suscettibile di recare danno, in singoli casi concreti, all’interesse del minore. Poiché tale interesse, anche in base agli strumenti sovranazionali di tutela, deve costituire il criterio guida per stabilire se disporre la perdita della potestà, l’art. 569 c.p. era stato dichiarato illegittimo nella parte in cui stabiliva che, in caso di condanna del genitore per il delitto di alterazione di stato mediante falso, fosse senz’altro applicata la sanzione accessoria, «così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto».
Il sindacato della Corte circa la ragionevolezza della scelta sanzionatoria era stato accuratamente ritagliato sulla fattispecie contestata nel giudizio a quo, ma era subito parsa chiara la “diffusività” del principio. Ed infatti, con la sentenza 23.1.2013, n. 7, è sopravvenuta una nuova dichiarazione di illegittimità dell’art. 569 c.p., stavolta riguardo all’automatismo imposto per il caso di condanna in ordine al delitto di soppressione di stato (art. 566 c.p.). Alla base della decisione, la ribadita convinzione che debba consentirsi al giudice di valutare, caso per caso, se al minore vittima del fatto convenga di più che la potestà del genitore venga rimossa o, piuttosto, la soluzione contraria. Ciò alla luce dei principi di uguaglianza e ragionevolezza ma anche, per la prima volta, in base alla ritenuta (ed autonoma) violazione del primo comma dell’art. 117 Cost., in rapporto tra l’altro all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (fatta a New York il 20.1.1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27.5.1991, n. 176) ed all’art. 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli (adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25.1.1996, ratificata e resa esecutiva con l. 20.3.2003, n. 77). I parametri sovranazionali concernenti la tutela dei minori erano stati evocati anche nella sentenza del 2012, ma sono divenuti decisivi nell’economia del nuovo provvedimento. A significare tanto che i residui automatismi nella specifica materia ben difficilmente reggeranno ad un futuro vaglio di legittimità, tanto, e però, che la peculiarità della sanzione ha esercitato una ruolo rilevantissimo nell’economia delle decisioni manipolatorie, della quale potrebbe sentirsi la mancanza nel più generale discorso, pure già avviato, circa la compatibilità con la Costituzione del regime di applicazione «automatica» delle pene accessorie.
In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), o meglio di omessa corresponsione del cd. assegno divorzile (art. 12 sexies della l. 1.12.1970, n. 898), va registrato un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione che, nei suoi effetti pratici, equivale quasi ad una riforma pro reo. La specifica norma incriminatrice che assiste l’obbligo del coniuge economicamente più forte, in caso di scioglimento del matrimonio, di corrispondere un assegno all’altro coniuge, e l’obbligo per i genitori divorziati di versare un contributo per il mantenimento dei figli, non contiene un’autonoma previsione di pena, ma stabilisce l’applicazione delle sanzioni «previste dall’art. 570 del codice penale». Sennonché la norma codicistica consta di due commi, che secondo l’orientamento oggi prevalente configurano due diversi reati, oltretutto segnati da un diverso regime di procedibilità, e comunque prevedono pene diverse (l’alternativa tra multa e reclusione, istituita al co. 1, si risolve in applicazione congiunta nei casi di cui al co. 2). Ebbene, la giurisprudenza aveva ritenuto, fino al ribaltamento odierno, che il rinvio quoad poenam dovesse intendersi riferito alla più severa delle due previsioni sanzionatorie, sulla base di vari argomenti (tra i quali la pretesa analogia tra gli effetti dell’inadempimento dei doveri del coniuge divorziato e la privazione dei mezzi di sussistenza cui allude il co 2. dell’art. 570). Le Sezioni Unite hanno accreditato la soluzione opposta, e meno rigorosa, con una motivazione articolata, che muove, tra l’altro, dal disconoscimento della pretesa analogia tra l’obbligo di mantenimento, tipico della normativa speciale, e la carenza dei mezzi necessari alla sussistenza, che deriva dalla condotta sanzionata dal codice. Quest’ultima – si è specificato – presuppone uno stato di bisogno, nel senso che la condotta illecita deve privare la persona offesa di quanto necessario per la stessa sua sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con quello alimentare, che richiedono prestazioni di portata più ampia.
Con l’occasione, la Corte ha anche ribadito che il rinvio contenuto nell’art. 12 sexies riguarda unicamente il trattamento sanzionatorio della condotta in esso delineata, con la conseguenza che non si estende al reato “divorzile” il regime di procedibilità a querela che segna, invece, la fattispecie di cui al co. 1 dell’art. 570 c.p. (Cass. pen., S.U., 31.1.2013, n. 23866).
In ultimo va ricordato come il già citato d.l. n. 93/2013, e la successiva legge di conversione, abbiano introdotto qualche novità anche nel novero dei delitti contro la famiglia. Si è modificato, in particolare, l’assetto delle circostanze concernenti il reato di maltrattamenti.
Per un verso la nuova aggravante comune del fatto commesso in presenza o in danno di persona minore degli anni diciotto od in stato di gravidanza è stata espressamente riferita anche al delitto previsto dall’art. 572 (art. 61, n. 11-quinquies, c.p.). Per altro verso, e correlativamente, la citata legge di conversione ha abrogato il co. 2 della norma in materia di maltrattamenti, che originariamente si riferiva ai fatti commessi in danno di minori infraquattordicenni, e che lo stesso d.l. n. 93/2013 aveva esteso, sia elevando fino ai diciotto anni l’età del minore coinvolto, sia conferendo rilevanza aggravante alla mera presenza di quest’ultimo quale spettatore di fatti commessi in danno di altri.
Nel corso del 2013 sono intervenute numerose e significative modifiche del quadro normativo concernente i delitti contro la persona. Già con il d.l. 1.7.2013, n. 78 (conv. dalla l. 9.8.2013, n. 94) – nel contesto di rilevanti interventi in materia processuale e di ordinamento penitenziario – si è registrata la modificazione del trattamento sanzionatorio del reato di atti persecutori: il massimo edittale della pena prevista dal co. 1 dell’art. 612 bis c.p. è stato elevato dai quattro ai cinque anni di reclusione (art. 1 bis del decreto, aggiunto in sede di conversione). L’intervento di maggiore impatto, comunque, è stato realizzato nell’ultimo scorcio dell’anno, con l’art. 1 del citato d.l. n. 93/2013, anche per effetto delle rilevanti modifiche apportate in sede di conversione.
Per un primo verso è stata ulteriormente manipolata la disciplina del cd. stalking. Dal nuovo testo della lettera a) del co. 2 dell’art. 612 bis discende che le pene sono aggravate anche quando il rapporto affettivo o coniugale tra l’agente e la vittima sia tuttora in atto, oltre che nei casi di relazioni esaurite. La previsione aggravante è poi stata estesa ai fatti commessi mediante «strumenti informatici o telematici». È mutato anche il regime di procedibilità per il reato in questione, sempre punibile a querela, con la differenza che la successiva remissione può essere solo processuale, ed è comunque preclusa quando i fatti siano compiuti con minacce reiterate, gravi o attuate nei modi indicati all’art. 339 c.p. (nuovo testo della lett. b del co. 2 dell’art. 612 bis).
A proposito di minacce, la pena massima per il reato di cui al co. 1 dell’art. 612 c.p. è stata elevata fino a 1032 euro.
È poi significativamente mutato il quadro delle aggravanti speciali per il delitto di violenza sessuale. Per il fatto commesso dall’ascendente, dal genitore adottivo o dal tutore, l’età della vittima è stata elevata dai sedici ai diciotto anni: è il nuovo testo del n. 5 del co. 1 dell’art. 609 ter c.p. Con l’inserimento dei nn. 5-ter e 5-quater il trattamento aggravato è stato esteso alle violenze portate nei confronti del coniuge o di persona legata all’agente da relazione affettiva, anche quando siano intervenuti separazione o divorzio, ed anche quando non vi sia convivenza. Inoltre, è aggravato il fatto commesso nei confronti di una donna in gravidanza.
Da ultimo, si segnala che i delitti di maltrattamenti, violenza sessuale aggravata ed atti persecutori commessi in danno di un minorenne, o dell’altro genitore di un minorenne, sono stati inclusi nel novero dei reati per i quali è prescritta comunicazione al tribunale per i minorenni, anche al fine dell’adozione di provvedimenti a tutela del minore ed in tema di potestà genitoriale (nuovi co. 1 e 2 dell’art. 609 decies c.p., con la precisazione che il secondo è stato inserito ex novo, senza modificare il precedente co. 2).
Inoltre, la prescrizione che le istituzioni pubbliche informino e sostengano le persone offese con riferimento alle misure in favore delle vittime (co. 1 dell’art. 11 del d.l. 23.2.2009, n. 11) è stata estesa, oltre che allo stalking, ai reati di riduzione in schiavitù e di tratta di esseri umani, nonché ai reati sessuali, anche specificamente concernenti i fanciulli.
L’intervento urgente occasionato dalle violenze di genere (d.l. n. 93/2013, già più volte menzionato) ha inciso anche su diversi aspetti della disciplina dei reati contro il patrimonio (artt. 7 e 8 del decreto, come modificati in sede di conversione).
In primo luogo, le aggravanti speciali della rapina: con la modifica del n. 3-bis del co. 3 dell’art. 628 c.p., l’inasprimento della pena si estende ai fatti commessi «in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa»; inoltre, mediante il nuovo n. 3-quinquies del citato co. 3, è aggravata anche la rapina commessa in danno di persona ultrasessantacinquenne.
Con l’inserimento di un n. 7-bis nel co. 1 dell’art. 625 c.p., in secondo luogo, è stata istituita una nuova aggravante speciale del furto, relativamente ai fatti commessi «su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica».
I furti aggravati ai sensi della nuova norma, unitamente alle rapine aggravate ex art. 628, co. 3, ed alle estorsioni aggravate ex art. 629, co. 2, c.p., sono inseriti in una previsione circostanziale introdotta in chiusura del co. 1 dell’art. 648 c.p.: la pena per il delitto di ricettazione sarà aggravata, appunto, quando il delitto presupposto sia rappresentato da una delle condotte appena citate.
Infine una novità introdotta, con l’art. 9 del d.l. n. 93/2013, in tema di frode informatica. Dopo il co. 2 dell’art. 640 ter c.p. è stata inserita una fattispecie circostanziale, che prevede la pena della reclusione da due a sei anni, oltre che la multa, quando il fatto sia commesso con sostituzione della identità digitale in danno di uno o più soggetti. A norma del comma successivo, anche in presenza di tale aggravante il reato è procedibile d’ufficio anziché a querela di parte.
Tornando al furto, ed in particolare al furto di armi, va segnalata una decisione della Corte costituzionale che ha messo in chiaro il senso, non facilmente percepibile, della relativa disciplina. L’art. 4, co. 1, l. 8.8.1977, n. 533, prevede un aggravamento di pena nel caso di sottrazioni attuate presso armerie o comunque in locali specificamente adibiti alla custodia delle armi. Le pene vanno poi ulteriormente aumentate, tra l’altro, nei casi di cui all’art. 624 bis c.p. (co. 3 del citato art. 4), e dunque mediante introduzione in un edificio destinato in tutto o in parte a privata dimora. Si tratta allora di stabilire come sia possibile che un furto in armeria o in un luogo destinato alla custodia delle armi si risolva, al tempo stesso, in un «furto in abitazione». La risposta al quesito, data dalla prevalente dottrina, è che si può immaginare un luogo di abitazione o privata dimora che sia deputato alla custodia di armi (ad esempio, una stanza dedicata presso l’abitazione di un collezionista). Comunque, l’agente può ben violare luoghi di privata dimora anche per entrare in una armeria (ad esempio se questa si trova in un edificio destinato anche ad abitazione, ed il ladro attraversa l’edificio per introdurvisi). V’è oltretutto una tendenza giurisprudenziale a comprendere nel concetto fissato nell’art. 624 bis c.p. qualunque luogo per l’accesso al quale l’avente diritto può introdurre criteri selettivi. Più si consolida tale tendenza, maggiori divengono le possibilità di una concomitante integrazione delle fattispecie. Il che varrebbe a maggior ragione (e fino ad evocare conflitti tra le due previsioni) quando si affermasse l’indirizzo secondo cui anche gli esercizi commerciali, e dunque le stesse armerie, dovrebbero essere considerati luoghi di «privata dimora» ai sensi dell’art. 624 bis c.p.
La questione di legittimità era stata sollevata in esito ad un diverso percorso ricostruttivo, in base al quale si sosteneva che le pene previste al co. 3 dell’art. 4 sarebbero applicabili a qualunque furto d’arma commesso in «abitazione» (cioè, anche fuori da un’armeria o comunque da un luogo deputato alla custodia): del quadro sanzionatorio così risultante (ad esempio, furto in armeria punito meno di quello in abitazione) venivano denunciate le incoerenze. La Consulta, però, ha ribadito che tutte le previsioni sanzionatorie dell’art. 4 si riferiscono a furti commessi in armerie o siti equivalenti, e che dunque l’ulteriore aggravamento di pena del comma 3 si determina solo quando concorrano la speciale qualificazione del locus commissi delicti e la concomitante violazione di un luogo destinato a privata dimora (C. cost., 13.6.2013, n. 140).
Un’ultima notazione, sempre in tema di furto aggravato. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno ricostruito la nozione di mezzo fraudolento rilevante a norma dell’art. 625, co. 1, n. 2, c.p. L’aggravante è integrata quando la condotta dell’agente risulta marcatamente efficiente ed insidiosa, così da sorprendere la contraria volontà del detentore della cosa sottratta e da vanificare le misure apprestate a difesa del possesso. In base a tale nozione, l’integrazione della circostanza è stata esclusa riguardo ai tipici furti in supermercato, ove l’autore del fatto si limita a nascondere la merce sulla persona o in una borsa, ponendo in essere un mezzo esecutivo inidoneo a vulnerare apprezzabilmente le difese predisposte a tutela della proprietà. Nell’occasione la Corte ha anche stabilito che la querela per i furti in questione può essere validamente proposta dal direttore del supermercato, sebbene non si tratti del proprietario della cosa sottratta, sempreché gli sia riconosciuto l’autonomo potere di custodire, gestire ed alienare la merce (Cass. pen., S.U., 18.7.2013, n. 40354).
Nel corso del 2013 il Governo si è avvalso della delega conferitagli con la legge comunitaria del 2010 (l. 14.12.2011, n. 217) allo scopo di dare attuazione ad alcuni regolamenti dell’Unione europea, pertinenti alla tutela dell’ambiente. Con i relativi decreti sono state introdotte diverse nuove fattispecie criminose, mirate ad assicurare (insieme a sanzioni amministrative ancor più numerose) l’osservanza delle principali prescrizioni comunitarie.
All’art. 2 del d.lgs. 5.3.2013, n. 25, si punisce con le pene alternative dell’arresto o dell’ammenda la violazione dell’art. 1 del regolamento (CE) n. 1102/2008, relativo alla gestione ecocompatibile del mercurio metallico, ed in particolare l’esportazione del metallo dal territorio dell’Unione. Le pene anzidette sono previste congiuntamente, all’art. 3 del decreto, per diverse violazioni dell’art. 3 del regolamento, che attengono essenzialmente allo stoccaggio del mercurio.
Con il d.lgs. 5.3.2013, n. 26, sono state introdotte sanzioni penali di presidio delle prescrizioni di vari regolamenti dell’Unione, attinenti al trattamento di taluni gas fluorurati ad effetto serra, ed in particolare del regolamento (CE) n. 842/2006: così, in particolare, all’art. 8 del decreto, riguardo a fatti di trattamento dell’esafluoruro di zolfo (pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda). Costituisce reato contravvenzionale a pena alternativa anche l’immissione in commercio di prodotti e apparecchiature che contengano gas fluorurati ad effetto serra elencati nell’allegato II del regolamento sopra citato (art. 9 del decreto). Come per il provvedimento precedente, si riscontra la concomitante previsione da parte del legislatore delegato di numerosi illeciti amministrativi, sanzionati «salvo che il fatto costituisca reato».
La recente decisione della Suprema Corte in un celeberrimo procedimento per frode fiscale (Cass. pen., 1.8.2013, n. 35729) si segnala per la soluzione di un rilevante quesito in tema di pene accessorie per alcuni dei più gravi reati tributari. Com’è noto il co. 2 dell’art. 12 del d.lgs. 10.3.2000, n. 74, stabilisce che la condanna per taluno dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 8 dello stesso decreto (rispettivamente, i reati di dichiarazione fraudolenta mediante documenti formati per operazioni inesistenti, di analoga dichiarazione mediante altri artifici, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) comporta, tra l’altro, l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni (salvo che ricorrano le circostanze previste dai precedenti artt. 2, co. 3, e 8, co. 3). La previsione prescinde dalla durata delle pene principali inflitte in occasione della medesima condanna. D’altra parte, il co. 1 dell’art. 29 c.p. impone l’applicazione della stessa sanzione accessoria, per la durata fissa di cinque anni, ogni volta che sia irrogata la pena della reclusione in misura pari o superiore a tre anni. Si tratta si stabilire, dunque, in che termini quantitativi l’interdizione debba essere applicata quando intervenga una condanna alla reclusione non inferiore al triennio per uno dei reati tributari indicati all’art. 12 del d.lgs. n. 74/2000.
Il giudice di merito, nel procedimento in questione, aveva stabilito la prevalenza della (più severa) norma di carattere generale, sul rilievo che la soluzione corrisponderebbe alla logica del sistema: il legislatore avrebbe dato dei reati tributari una valutazione di particolare gravità, specie in rapporto all’opportunità del futuro esercizio di pubblici uffici, tanto da disporre l’interdizione anche a fronte di condanne a pene detentive lievi; sarebbe dunque contraddittoria una soluzione che, con riferimento a pene ultratriennali, implicasse un trattamento dei delitti tributari più blando che per ogni altro reato. La Cassazione ha respinto la tesi, attribuendo alla previsione del citato art. 12 carattere di specialità rispetto al disposto della norma codicistica, sulla base tra l’altro di rilievi storici (cioè pertinenti ai lavori preparatori della legge di delegazione), di rilievi sistematici (la riconosciuta “specialità” del sistema sanzionatorio in materia fiscale), di rilievi testuali (l’assenza di una clausola di salvezza per il disposto dell’art. 29 c.p., la deroga stabilita all’art. 16 c.p. per le disposizioni codicistiche concorrenti con leggi speciali, ecc.).
Una volta stabilito il principio, la Corte ha dovuto risolvere un problema ulteriore, cioè quello della quantificazione della durata concreta della sanzione interdittiva entro i limiti edittali indicati dalla norma applicabile. E, su questo piano, si è radicato un preesistente contrasto di giurisprudenza. Secondo una prima tesi, infatti, la sanzione accessoria comminata con l’indicazione di valori minimi e massimi di durata non potrebbe considerarsi «espressamente determinata», con la conseguenza che dovrebbe essere applicata, a norma dell’art. 37 c.p., in misura corrispondente a quella della pena principale (da ultimo, Cass. pen., 1.2.2011, n. 22067). Per il contrario indirizzo, la fissazione di valori edittali varrebbe invece a rendere «determinata» la durata della pena, e per il giudice si tratterebbe semplicemente di commisurarla al caso concreto, secondo i criteri indicati all’art. 133 c.p. (Cass. pen., 15.10.2008, n. 42889).
La Corte, nell’occasione, si è schierata con il secondo orientamento, e, ritenendo di non poter provvedere direttamente, ha parzialmente annullato con rinvio la sentenza impugnata, affinché i giudici di merito potessero discrezionalmente fissare, nell’ambito dei valori edittali e secondo i criteri dell’art. 133 c.p., la durata della misura interdittiva da applicare nel caso di specie.
Molte novità vanno segnalate riguardo al lavoro di pubblica utilità quale sanzione sostitutiva per la guida in stato di intossicazione da sostanze alcoliche o stupefacenti.
Può brevemente ricordarsi, anzitutto, come la Consulta avesse recentemente stabilito, soffocando una nascente controversia, che la sanzione in discorso è applicabile anche nei confronti dei cd. “guidatori a rischio”, cioè appartenenti alle categorie focalizzate dal nuovo art. 186 bis del codice della strada: conducenti di età inferiore ai ventuno anni, neo-patentati ed esercenti professionali dell’attività di trasporto di persone o cose (C. cost., 27.6.2012, n. 167). La Corte è poi tornata tre volte sul tema della sanzione sostitutiva per i reati concernenti la circolazione stradale.
In una prima occasione era stata eccepita, sul presupposto che la sostituzione non sia consentita in fase esecutiva, la pretesa illegittimità della relativa preclusione. La Corte ha confermato che la determinazione della pena spetta solo al giudice della cognizione, salvi gli eccezionali interventi specificamente indicati dalla legge, ma ha negato il fondamento delle ragioni “equitative” addotte dal rimettente per un’estensione del potere di sostituzione a favore del giudice dell’esecuzione. Significativa in particolare – anche data qualche incertezza registrata, sull’argomento, presso la giurisprudenza di legittimità – la risposta al rilievo per il quale l’imputato, pur ammessa la conoscenza da parte sua della possibilità di un trattamento sanzionatorio alternativo, potrebbe trovarsi in difficoltà nel reperire ed ottenere, in tempo utile, la disponibilità di soggetti abilitati ad offrirgli un lavoro di pubblica utilità. La Corte ha infatti chiarito come non sia necessaria alcuna richiesta dell’imputato o del suo difensore per l’applicazione della pena sostitutiva, ed in particolare come spetti al giudice l’individuazione e l’organizzazione della prestazione lavorativa (C. cost., 15.3.2013, n. 43; in senso parzialmente contrario, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., 7.7.2011, n. 31145; conforme, da ultimo, Cass. pen., 15.3.2013, n. 15563).
La domanda difensiva è certamente necessaria, invece, quando l’imputato intende avvalersi della nuova possibilità introdotta da un’ulteriore decisione della Consulta. La norma “generale” sul lavoro di pubblica utilità, richiamata dalle previsioni sanzionatorie del codice della strada, stabilisce che le prestazioni siano effettuate nel territorio della provincia di residenza dell’interessato. La Corte – rilevando una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, e dell’art. 27, co. 3, Cost., riguardo alla necessaria finalizzazione rieducativa della pena – ha dichiarato illegittimo l’art. 54, co. 3, del d.lgs. 28.8.2000, n. 274, nella parte in cui non prevede che, «se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità fuori dall’ambito della provincia in cui risiede» (C. cost., 5.7.2013, n. 179). Il riferimento al «condannato» è dovuto alla natura dei due giudizi nel cui contesto erano state proposte le questioni di costituzionalità: si trattava, appunto, di due procedimenti di esecuzione, aventi ad oggetto la richiesta di persone giudicate per il reato di guida in stato di intossicazione alcolica o da stupefacenti, le cui vicende di vita rendevano di fatto insopportabilmente onerosa l’esecuzione della prestazione di pubblica utilità nel luogo fissato dal giudice della cognizione. Si pone fin d’ora il quesito se, stante il tenore letterale della “norma” additiva introdotta dalla Consulta, possa considerarsi ammessa, anche per il giudice della cognizione, una localizzazione del luogo della prestazione di pubblica utilità fuori dell’ambito territoriale della provincia di residenza dell’interessato. La soluzione negativa non avrebbe molto senso, ma vi sono argomenti letterali e sistematici che rendono evidentemente difficoltosa quella positiva. Sembra già chiara, per converso, la necessità di precise indicazioni difensive sulla prestazione “extraprovinciale”, dato il carattere derogatorio del caso rispetto alla disciplina generale, ed ancora una volta alla luce del dato letterale che segna la “norma” regolatrice.
Ancor più recente una terza deliberazione della Consulta, la quale ha ritenuto manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, co. 9-bis, c.d.s., nella parte in cui preclude l’applicazione della pena sostitutiva quando l’agente abbia provocato un incidente stradale. Si è ritenuta non manifestamente irragionevole la scelta compiuta dal legislatore, in ragione della maggior gravità dei fatti culminati in un sinistro, e considerato che per gli incidenti di scarso rilievo la pena può essere comunque graduata grazie all’escursione dei valori edittali previsti per la relativa fattispecie aggravante (C. cost., 24.10.2013, n. 247).