I siti della Magna Grecia: un panorama esemplificativo. Le subcolonie
di Ernesto De Miro
Città greca (gr. Ἀκράγας; lat. Agragas, Agragentum, Agrigentum) della Sicilia sud-occidentale, che si ergeva su un altipiano dai bordi rocciosi tra i due corsi fluviali dell’Akragas a est e dell’Hypsas a ovest, confluenti nella pianura alluvionale ai piedi della collina sino alla foce dell’Akragas (San Leone).
La città non conobbe uno sviluppo per successivi ampliamenti, ma il contorno roccioso dell’altipiano si impone unitario per chiarezza di tracciato con le due colline della Rupe Atenea e del colle di Girgenti al limite settentrionale, a cui si saldano i costoni orientale e occidentale di un quadrilatero chiuso a sud dalla bassa collina dei Templi; all’interno di tale perimetro di 12 km circa la città accrebbe la sua potenza nel corso dei secoli. Punto di partenza per la conoscenza della topografia della città greca è un passo di Polibio (IX, 27), che fissa in maniera perspicua il suo perimetro. Lo sviluppo storico e monumentale della città può essere così ripartito: a) 580 - fine VI sec. a.C.; b) ventennio della tirannide degli Emmenidi (488-471 a.C.); c) periodo della libertà e della democrazia, che dopo una prima incerta forma oligarchica si protrasse sino alla distruzione cartaginese nel 406 a.C.; d) ricostruzione timoleontea nella seconda metà del IV sec. a.C. e periodo ellenistico; e) età romana imperiale.
La fondazione di A., posta da Tucidide (VI, 4, 4) 108 anni dopo quella della madrepatria Gela (quindi verso il 580 a.C. ca.), tende, nei più recenti studi, a essere inserita nelle rotte che muovevano dall’Egeo verso il Mediterraneo occidentale, per cui la collaborazione rodia all’elemento espansionistico geloo inteso al consolidamento della chora appare interessata ad appoggi lungo la costa meridionale della Sicilia; i corredi funerari, rinvenuti nella necropoli alla foce del fiume Akragas, con ceramica mesocorinzia e piatti rodii, possono ben riferirsi a un insediamento portuale che negli anni 580-575 a.C. si era attestato sulla costa a controllo degli interessi rodii lungo la rotta mediterranea. Che tale insediamento fosse contemporaneo alla città sulla collina si ricava dalle poche sepolture arcaiche di contrada Pezzino con materiale meso- tardocorinzio e comunque di prima metà del VI sec. a.C. Difficile è poter delineare un quadro della situazione topografico-monumentale della città nella prima metà del VI sec. a.C., vale a dire nei decenni successivi alla sua fondazione e sotto la tirannide di Falaride.
La città doveva essere munita di fortificazioni, come sembra dedursi anche dal passo di Polieno (V, 1, 1) relativo alle vicende falaridee. La cinta muraria correva lungo il contorno roccioso dell’altipiano per un perimetro di 12 km circa, in parte tagliata nella roccia, in parte con strutture riportate in conci squadrati, imponendosi per chiarezza di tracciato e per unità di concezione tecnica. Nelle mura si aprono varie porte (ne sono state riconosciute nove), sempre in corrispondenza di un valloncello e di una depressione naturale. Un’area, quella della città falaridea, probabilmente ancora articolata in modeste strutture edilizie e in kleroi da coltivare, ma di cui già si erano delineati gli elementi costitutivi che si svilupperanno negli anni successivi con la frequentazione sacra della collina.
Verso la metà del VI sec. a.C. e nei decenni successivi l’area sacra prende consistenza con la costruzione nella parte mediana della collina di un tempio lungo e stretto (31,54 x 10,35 m), noto come il “tempietto di Villa Aurea” e databile intorno al 540-530 a.C., interferente con la strada di arroccamento che, pertanto, con le mura di fortificazione si colloca in un periodo antecedente; nel settore occidentale, con la costruzione di altari circolari e di due temene, l’uno a pianta quadrata, l’altro a pianta complessa articolata; con un sacello a semplice vano trasversale di tradizione cretese e di un altro bipartito; e, a ridosso della porta V, con un singolare tempietto tripartito con vano annesso su uno dei lati lunghi, non allineato ancora al tracciato delle strade. All’estremità ovest del crinale, sul terrazzo che si affaccia sulla valletta della Colimbetra, separato dal restante santuario ctonio da un muro di temenos, sono altre costruzioni sacre: un oikos a pianta trasversale (successivamente modificato), donari di vario tipo e, ancora più a ovest, superata la Colimbetra, un tempietto bipartito, rispettato e compreso nella successiva erezione del tempio detto “di Vulcano”.
Verso la fine del VI sec. a.C. la città si organizzò su un piano regolare di larghe strade (plateiai) incrociate da stenopòi, come indicano i saggi stratigrafici effettuati nell’area del quartiere ellenistico-romano; si determinarono arterie di rilevante importanza, come la plateia est-ovest che collegava la porta II con la porta V, a nord della collina sacra, e lo stenopòs III che collegava la collina sacra con l’area dell’abitato, in quel tempo monumentalizzato con l’erezione del primo grande tempio (quello detto “di Eracle”). Lo stesso settore occidentale della collina, che aveva accolto la più arcaica frequentazione cultuale, ricevette una preordinata sistemazione con carattere monumentale: il grande piazzale lastronato venne limitato a est e a nord, gli edifici vennero inseriti in una trama urbana su cui si allineò, nel 480 a.C., l’impianto del maestoso tempio di Zeus Olimpio. L’abitato arcaico di A. è ancora tutto da definire, opponendosi alla sua acquisizione l’estesa sovrapposizione dell’impianto ellenistico-romano. Tuttavia, l’organizzazione di un quartiere di case allineate a schiera e in parte ricavate nella roccia (a quota 192 m), deviando dalla trama urbana che dalla fine del VI sec. a.C. ha tessuto l’assetto urbanistico della città, viene ritenuta anteriore a quest’ultimo.
Lo stesso dicasi per la città del periodo della tirannide, per cui i dati archeologici vengono dalle costruzioni sacre e dalle necropoli. Tre templi peripteri si possono citare sulla collina sacra e un quarto, in antis, sulle pendici orientali dell’acropoli. Già in fase pre-emmenidica e protoemmenidica, nei pressi della porta IV venne eretto il tempio di Eracle, così identificato sulla base di un passo di Cicerone (Verr., IV, 93) che ricorda un tempio di questa divinità presso l’agorà, la cui collocazione sulla base di un passo di Livio (XXVI, 40, 8, 9) è posta proprio nell’area a nord dell’edificio. Nella sua struttura formale presenta una commistione di vecchio e di nuovo, costruito con calcare locale, di stile dorico, esastilo e periptero, di pianta allungata con 6 x 15 colonne; lo stilobate misura 67,04 x 25,29 m; si coglie il tentativo di una scansione uniforme degli interassi delle colonne, alte 10,07 m. La cella, di dimensioni lunghe e strette, con pronao e opistodomo (47,67 x 13,9 m), è inserita già con una ricerca di rapporto con la peristasi. Oltre alla trabeazione della peristasi, sono stati rinvenuti elementi di una seconda trabeazione minore, che poteva aver trovato posto sopra la facciata della cella. Completava il profilo del tetto un’alta sima calcarea decorata con teste di leoni, nello stile della prima metà del V sec. a.C. A est del tempio sono i resti di un altare monumentale.
Gli altri templi, di Zeus Olimpio, quello detto “dei Dioscuri” e il tempio di Demetra, appaiono direttamente collegati alla politica teroniana. Il tempio di Zeus Olimpio è il più grande tempio dorico dell’Occidente, con soluzioni architettoniche originali. La sua costruzione, iniziata nel 480 a.C. dopo la vittoriosa battaglia di Imera, secondo la testimonianza di Diodoro Siculo (XIII, 82) e di Polibio (IX, 27), non venne terminata. L’immenso edificio è collocato su un basamento grandioso (56,3 x 113,45 m di base), su cui si erge un crepidoma di cinque gradini. Al posto della peristasi con colonnato aperto è un muro di recinzione, scandito dalla pseudoperistasi di mezze colonne (7 x 14; interasse 8 m), a cui corrispondono i pilastri rettangolari della parte interna. Le mezze colonne hanno un diametro inferiore di 4,05 m e la loro altezza originaria doveva superare i 18 m. I capitelli si compongono di echino ornato di quadruplice collarino e di abaco con tre lastroni sovrapposti. Due sono i problemi relativi alla pseudoperistasi: l’accesso, che non può trovarsi al centro dato il numero dispari delle mezze colonne, e la struttura e la posizione dei telamoni, che dovevano trovarsi all’esterno dell’edificio al centro di ciascun intercolumnio, con funzione statico-decorativa e con soluzioni architettoniche su cui si è variamente esercitata la critica degli studiosi. La cella presenta la normale pianta tripartita, ma i lati lunghi non sono continui, bensì intervallati da una serie di 12 piloni quadrangolari distanziati di 4 m. Sulla fronte orientale del tempio si trova il rettangolo dell’altare monumentale (54,5 x 17,5 m), con gradinata di accesso.
Il tempio detto “dei Dioscuri”, nell’area sacra alle divinità ctonie, e quello attiguo e parallelo a sud si configurano come la monumentalizzazione del santuario dedicato a Demetra e Kore, il cui culto per la sua natura sembra essere stato particolarmente favorito dalle tirannidi agrigentine. Del primo, il cui elevato è in pessime condizioni, è rimasta la nota ricostruzione parziale con le quattro colonne dell’angolo nord-ovest eseguita nell’Ottocento dalla Commissione delle Antichità della Sicilia. Da quanto rimane, il tempio si configura come dorico, risulta periptero esastilo con 13 colonne sui lati lunghi; in età ellenistica la sima e il geison furono oggetto di restauri, così come accadde per l’altare del tempio gemello, di cui rimane, spoglia dei blocchi, solo l’incassata platea di fondazione nella roccia. Un altro edificio sacro alle divinità ctonie è il tempio detto “di Demetra”, sulle pendici orientali della Rupe Atenea; anche con esso si monumentalizzava il culto ctonio sulle pendici dell’acropoli, legata nella tradizione alla sorte stessa delle tirannidi sin dai tempi di Falaride, a cui significativi elementi accomunano le vicende della signoria teroniana.
Il tempio, fondato su una robusta graticola di filari di conci paralleli ai lati lunghi, è di ordine dorico, con semplice cella preceduta da un pronao (10,3 x 30 m) con due colonne fra le ante. I muri perimetrali, conservati per un’altezza di 9 m circa, sono completati e incorporati nella chiesetta medievale di S. Biagio. Due altari rotondi sono disposti lungo il lato nord, tra l’edificio e la parete rocciosa, e il bothros del maggiore di essi ha restituito materiale votivo, in particolare lucerne a più beccucci, convenzionalmente dette kernoi. Ben poco l’archeologia consente di aggiungere alle scarse tessere che le fonti ci hanno consegnato per ricostruire il quadro del governo interno teroniano. Delle opere pubbliche si conserva il ricordo (Diod. Sic., XI, 25) della creazione, affidata all’architetto Feace, degli acquedotti, che si è cercato negli studi di identificare nella rete di ipogei e di canali sotterranei che attraversano il sottosuolo della città per buona parte della sua estensione. I dati più significativi dell’archeologia vengono dalla vasta e ricca necropoli, che si estende nei terreni a sud della città. La società del periodo emmenidico, come di quello immediatamente successivo, appare articolata in varie componenti. Si verifica infatti la presenza in A. della migliore produzione di ceramica attica. Aree di cava vennero sistemate per accogliere tombe monumentali. La tipologia sociale in questo periodo appare varia. L’impianto urbano dovette trovare allora la propria definizione nel sistema ippodameo. La storia di A. dalla fine della tirannide emmenide (470 a.C.) alla distruzione cartaginese del 406 a.C. è segnata dalla riacquistata libertà, ma anche da forme di un’incerta e zoppicante democrazia, da cui la mitica storica non sembra risparmiare nemmeno la figura di Empedocle. In questo periodo, che conobbe un certo immobilismo politico e ideologico, vennero eretti nel settore orientale della collina sacra due templi che, esaurite le forze creative, rientrano in pieno nell’ambito del classicismo, uniformandosi alla canonizzazione peloponnesiaca. Il tempio detto “di Giunone”, sull’elevato margine orientale della piattaforma rocciosa, si impone per chiarezza riflessa: peristasi di 6 x 13 colonne; rapporto 4:9 delle misure dello stilobate (16,91 x 38,1 m), naòs grande 3 x 9 interassi, esattamente inserito e raccordato alla peristasi; rapporto tra diametro e intercolumnio fissato in 4:5, altezza delle colonne 4,6 volte il diametro inferiore, vicina al rapporto di Olimpia; contrazione angolare semplice, tipica della madrepatria. Sembrano mancare però quegli accorgimenti tecnico-ottici che rendono vibranti gli elementi del modello peloponnesiaco. Davanti alla facciata orientale del tempio, a margine del dirupo, era l’altare monumentale (29,8 x 5,25 m), che si completa con una scalinata di dieci gradini che doveva condurre al ripiano dei sacrifici.
Assai simile il tempio detto “della Concordia”: lo stesso numero di 6 x 13 colonne (16,92 x 39,42 m); lo stesso collegamento assiale della cella con la peristasi (corridoio sui lati brevi profondo 1,5 interassi e corridoi laterali profondi 1 interasse). Tuttavia il tempio, costruito quasi una generazione più tardi, presenta dettagli proporzionali che si risolvono in un’esattezza consumata nel taglio della pietra, nelle proporzioni dello stilobate raccordato con l’interasse unitario, nella doppia contrazione angolare: vertice di perfezione e al tempo stesso inaridimento della fresca vitalità del tempio dorico. La conservazione di questo tempio (a parte i non pochi restauri succedutisi in due secoli) si deve alla trasformazione in basilica cristiana agli inizi del VII secolo. Agli ultimi decenni del V sec. a.C. vengono generalmente assegnati, all’estremità occidentale della collina, il tempio detto “di Vulcano”, un periptero di 6 x 13 colonne di cui si conserva ben poco, sorto sui resti del sacello arcaico; e il tempio di Asclepio, citato da Polibio (I, 18) a proposito dell’assedio romano del 262 a.C.; quest’ultimo, su massiccia e dilatata piattaforma, è un tempietto in antis (21,7 x 10,7 m), composto di pronao e di cella con pseudo-opistodomo, assorbito nella parete di fondo con l’effetto decorativo di due mezze colonne fra robusti pilastri angolari.
Intorno al 440 a.C. si collocherebbe il tempio di Atena, identificato nel periptero (6 x 13 colonne) inglobato nella chiesa medievale di S. Maria dei Greci sul colle di Girgenti. Questa altura, che fa da pendant all’acropoli della Rupe Atenea legata alle sorti delle due tirannidi agrigentine, può essere stata scelta nel nuovo regime repubblicano della classe “aristocratica” sopravvissuta alla tirannide. Della popolazione di A. nella seconda metà del V sec. a.C., la critica moderna considera fantastica la cifra di 800.000 unità, assegnata sulla base di una lezione corrotta del passo di Diogene Laerzio (VIII, 63), mentre si accetta la cifra di 20.000 cittadini (Timeo, in FGrHist, 566 F 26). Poco sappiamo della storia e dei monumenti di A. nella prima metà del IV sec. a.C., nel periodo in cui la scena siciliana fu occupata dalla Siracusa dei Dionisi. Soltanto al tempo di Timoleonte (344- 338 a.C.) e di Agatocle (317-289 a.C.) le fonti danno notizie interessanti. Timoleonte, nell’opera di ricostruzione della grecità isolana, ripopolò Gela e A., quest’ultima con coloni venuti da Elea (di Lucania), i quali, guidati da Megillo e da Feristo, si aggiunsero alla vecchia popolazione (Plut., Timol., XXXV, 2). La città consolidò la forma costituzionale democratica. L’indagine archeologica, in effetti, coglie una ripresa e una rivitalizzazione di A. a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. nella ricostruzione delle mura, nell’impianto urbano, nella frequentazione della collina sacra, nella monumentalizzazione di edifici pubblici civili, nella necropoli. È molto probabile che la sistemazione urbanistica della città, pur risalendo alla fine del VI sec. a.C. nell’organizzazione di alcune strade e di alcuni isolati, si sia definita meglio nell’articolazione topografica e funzionale proprio in questo periodo di rinascita e, attraverso l’età ellenistica, si sia conservata nell’assetto di età romana imperiale. L’impianto urbano si articolava su cinque ampi terrazzi: sul primo si estendeva l’agorà inferiore, identificata anche sulla base delle fonti (Cic., Verr., II, 4, 93-94; Liv., XXVI, 40) nell’area immediatamente a nord della collina dei Templi, attraversata dalla plateia che collegava la porta V e il complesso sacro ai quartieri orientali in direzione della porta II. Il secondo terrazzo è caratterizzato dalla presenza del gymnasium con portico lungo 200 m circa e con sedili di pietra iscritti. Sul terrazzo mediano sono stati individuati il quartiere residenziale e gli edifici pubblici politico-amministrativi nell’agorà superiore; i due terrazzi più elevati (quarto e quinto), infine, erano destinati a più modesti quartieri di abitazione e di attività artigianali.
L’impianto urbano risultava scandito dall’incrocio ortogonale di sei plateiai est-ovest con stenopòi nord-sud creando una maglia di isolati di forma allungata, larghi 35 m e di lunghezza variabile (280-300 m ca.). Tra gli assi viari si distingueva per ampiezza (largh. 11,5 m), divenendo poi il decumanus maximus della città romana, l’arteria che serviva il quartiere residenziale e l’area pubblica di località San Nicola. Qui il poggetto omonimo (125 m) occupava una posizione centrale nel tessuto dell’organizzazione urbana. Sede di un santuario arcaico, fu interessato a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. dalla costruzione, sui pendii meridionale e settentrionale, rispettivamente dell’ekklesiasterion e del bouleuterion. L’ekklesiasterion è ricavato in gran parte nel banco di roccia a dolce declivio, previa una notevole opera di sbancamento e di regolarizzazione. La cavea, che poteva contenere 3000 persone, ha forma di un semicerchio le cui estremità sono continuate sino a ottenere tre quarti dell’intera circonferenza (diam. massimo 48 m, diam. minimo 15,6 m); i 20 gradini, ricavati nella roccia (a eccezione delle estremità), sono di tecnica molto semplice. Un portico sormontava la parte alta della cavea, segnando il nesso struttivo e funzionale con il santuario retrostante. Il terminus ante quem dell’abbandono dell’ekklesiasterion è segnato dalla sovrapposizione del tempietto prostilo (cd. “oratorio di Falaride”) intorno al II-I sec. a.C. Sul versante nord del poggetto, ai piedi del costone roccioso, su un terrazzo argilloso si trova il bouleuterion, anch’esso in un’area già interessata da edifici sacri di età arcaica e classica.
A partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. si diede avvio a un’operazione di trasformazione della zona, che sostituì gli edifici sacri con edifici pubblici civili, con particolare attenzione all’aspetto monumentale nonché alla funzione dell’insieme urbano. Su un terrazzo sostenuto da un poderoso sistema di strutture murarie si erge il bouleuterion, che risulta di una gradinata di sei ordini di sedili di pietra e di una proedria in basso, attraversati da quattro scalette radiali; la cavea, che poteva contenere 300 persone, è aperta a est verso un’area porticata ed è inserita in una struttura rettangolare di 20,15 x 12,5 m con quattro colonne a sostegno del tetto. La parte alta della città verso l’acropoli e l’acropoli stessa modificarono in parte il loro carattere e la loro destinazione e si organizzarono ad accogliere quartieri e impianti artigianali. La sommità della Rupe Atenea (l’acropoli), che era stata particolarmente fortificata alla fine del V sec. a.C. prima dell’assedio cartaginese, divenne sede di un complesso artigianale nel corso del IV sec. a.C. In particolare, è stato scoperto un oleificio costituito da un edificio rettangolare con frantoio e vasca, distrutto nel III sec. a.C. probabilmente al tempo della prima guerra punica. Sulle pendici sud-orientali della Rupe si installò un quartiere destinato ad abitazioni e ad attività artigianali, di cui è stato parzialmente definito un isolato con caratteri struttivi punici (tecnica “a telaio”), disposto in senso nord-sud, secondo lo schema urbanistico regolare, e delimitato da due stenopòi.
L’opera sacra più significativa di età ellenistica ha riguardato l’area gravitante intorno al tempio di Asclepio, nella piana a sud della collina, in prossimità di un’ansa del fiume Akragas. I risultati delle ricerche più recenti indicano come il tempio stesso facesse parte di un vasto complesso monumentale, tipico degli Asklepieia, con un ampio perimetro del muro di temenos, un portico in direzione est-ovest, colonnato sulla fronte, vani pavimentati, una grande cisterna e ben 28 ambienti lungo il perimetro del temenos, possibilmente da identificare con le strutture dell’abaton e dell’hestiatorion, caratteristiche di tali santuari. Nel II-I sec. a.C., su un terrazzo di battuto arenario che ricoprì gli avanzi del precedente ekklesiasterion, venne eretto un tempietto su podio alto 1,6 m, formato di cella (6 x 5,3 m) e di pronao (profondo 2,4 m), prostilo con quattro colonne di ordine ionico non conservate e con altare quadrato sull’asse frontale. La tecnica perfettamente classica a conci squadrati e isodomi e le derivazioni formali microasiatiche smorzano il carattere romano del monumento, trasformato in “oratorio” nel Medioevo in relazione con la vicina chiesa di S. Nicola; esso sembra avere monumentalizzato gli avanzi di un modesto santuario ctonio già esistente a ridosso dell’ekklesiasterion.
La città di età romana muove, sul piano politico, dalla resa del 262 a.C. (e, ancora meglio, da quella definitiva del 210 a.C.). Essa si dispiega soprattutto nel periodo imperiale dal I al IV sec. d.C., con particolari manifestazioni di prosperità nel II-III sec. d.C. L’estensione e il tracciato della città romana non sembrano molto diversi da quelli greci; le mura, anche se non più in uso, continuarono a segnare il perimetro urbano, come indicano le aree occupate dalle necropoli nella zona esterna a sud della collina dei Templi, la cui linea fu oltrepassata dalle mura verso l’interno solo in età paleocristiana e bizantina. Le colline che delimitavano a nord la città greca, compresa l’acropoli, dovettero essere abbandonate, dal momento che nessun avanzo scende oltre il III sec. a.C., e la città si estese nella valle vera e propria limitata a meridione dalla collina sacra. Nessun grande santuario è da attribuire al periodo romano. Un tempio su podio nell’area di un triportico, databile nei primi decenni del I sec. d.C., è stato recentemente scoperto a nord del bouleuterion. I templi greci, danneggiati, furono restaurati e continuarono a funzionare, in particolare il tempio di Eracle (il cui naòs fu strutturato con una triplice cella da cui proviene una statua di Esculapio di età romana) e i templi di Giunone, della Concordia e di Asclepio, che ricevettero sulla fronte un’ampia rampa di accesso addossata al crepidoma.
La parte pubblica della città continuò a insistere sull’area intermedia compresa tra la collina dei Templi e il poggetto di San Nicola ed è probabile che il foro si trovasse in corrispondenza dell’agorà greca; il ginnasio continuò a funzionare e fu probabilmente ingrandito con nuove dedicazioni. Una larga estensione del terreno urbano continuò a essere occupata dall’abitato, ricalcando la maglia ippodamea della città greca, con sei decumani orientati 10° circa sopra l’est. Rimangono cospicui avanzi della massicciata stradale in opus spicatum di cotto e numerosi cardines (5 m), che ripercorrono gli stenopòi di epoca greca. Gli isolati, allungati e tagliati trasversalmente da ambitus di drenaggio, comprendono case di vario tipo: dall’abitazione ellenistica con ampio peristilio si passa al tipo con corte centrale e porticus fenestrata del II-III sec. d.C., in una tenace conservazione delle caratteristiche struttive e costruttive ellenistiche. I pavimenti sono diversi per tecnica e per stile: dal tipo semplice del signino e del tessellato si passa ai complessi policromi geometrici, fitomorfi e zoomorfi del II-III sec. d.C., con influenze africane, ma anche italiche. Del periodo romano rimangono necropoli con tombe monumentali distribuite nel vasto pianoro a sud della collina dei Templi. Notevole esempio è la cosiddetta “tomba di Terone”, ricostruibile con cuspide sommitale, podio quadrangolare e cella superiore con semicolonne, finte porte, architrave e fregio con metope e triglifi. Gli scavi dell’abitato (il quartiere ellenistico-romano in contrada San Nicola) forniscono elementi per quanto riguarda il periodo di maggiore splendore, a cui non è estranea la produzione dello zolfo, e pongono nel V-VII sec. d.C. i limiti estremi di vita della città antica.
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di Adele Anna Amadio
Città (gr. Ἀγκών; lat. Ancona) fondata dai Siracusani nel 387 a.C., in sostituzione dell’emporio di Numana ormai in declino, sulle pendici nord-occidentali del Monte Conero (Strab., V, 241), dove la costa forma un arco naturale che ha dato il nome al sito (in greco: “gomito”), in un’area che ha rivelato anche le tracce di un insediamento del Bronzo Antico.
A. passò sotto il dominio romano nel 286 a.C. Occupata da Cesare all’inizio della guerra civile (Caes., Bell. civ., I, 11), dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) vi furono inviate due legioni di suoi veterani e dopo quella di Azio (31 a.C.) fu sottoposta a una nuova deduzione triumvirale e iscritta alla tribù Lemonia. Sede di fiorenti commerci, in particolare quelli della porpora e del vino, in epoca imperiale A. divenne il porto principale per i traffici con la Dalmazia. Fece quindi parte della V regio augustea e Traiano vi costruì un nuovo porto, protetto da un molo artificiale. Scarse sono le notizie per l’età tardoimperiale: A. partecipò alle guerre gotiche (535-553 d.C.), ma con la riconquista bizantina e la costituzione dell’Esarcato di Ravenna entrò a far parte della Pentapoli marittima (584 d.C. ca.). La fase preistorica è testimoniata dai ritrovamenti di piazza Malatesta, risalenti all’età del Bronzo Antico, e da quelli sulla collina del Montagnolo dell’età del Bronzo Recente e Finale. Sui colli dei Cappuccini e del Cardeto si situano i nuclei abitativi piceni e non lontano da essi le necropoli (IXVII sec. a.C.), da cui provengono oggetti di bronzo, di ambra e di pasta vitrea.
Al V-IV sec. a.C. risalgono invece i materiali piceni della collina del Montagnolo. Si ritiene che la città greca si sia sviluppata sulle pendici del colle Guasco, dove era l’acropoli, cinta di mura di tufo, delle quali rimangono alcuni resti. Qui si trovava anche il tempio dedicato a Venere, citato da Catullo (XXXVI, 13) e da Giovenale (IV, 40), del quale nel 1948 si rinvennero le sostruzioni sotto la chiesa romanica di S. Ciriaco. Una recente indagine ha modificato l’ipotesi di un tempio ellenistico-italico sine postico, con fronte esastila e orientamento a nordovest, stabilendo invece che si trattava di un tempio di tradizione greca, esastilo, con 10 colonne sui lati lunghi e una cella preceduta da un pronao, orientato a sud-est, rivolto quindi verso la città e databile alla fine del IV sec. a.C. La città si espanse in età augustea; il suo perimetro si ritiene compreso tra le attuali vie Fanti, Bernabei e della Catena. I ritrovamenti al di fuori di questo percorso (via Garibaldi, via Menicucci, corso Mazzini) sono relativi a resti di ville extraurbane con mosaici e affreschi. Sempre al periodo augusteo risale la costruzione dell’anfiteatro, edificio di grandi dimensioni con un asse maggiore di 93 m e uno minore di 74 m; recentemente ne sono stati messi in luce il podio e alcuni tratti delle gradinate.
Anche sotto Traiano la città fu interessata da nuovi interventi urbanistici ai piedi del Guasco, a testimonianza dei quali rimangono l’ampliamento del porto, alcuni magazzini e il monumento più noto e meglio conservato di A.: l’arco dedicato a Traiano dal senato e dal popolo romano nel 115 d.C., il quale, come si legge nell’iscrizione (CIL IX, 5894), indicava ai naviganti l’accesso all’Italia. L’arco, costruito con grandi blocchi di marmo, con un fornice alto e stretto (3 x 7,62 m), si caratterizza anche per le tracce lasciate dalle decorazioni bronzee che erano sui piloni, forse prore di navi. Sull’attico dovevano ergersi le statue di Traiano, della moglie Plotina e della sorella Marciana, delle quali rimangono nel marmo solo le impronte delle sagome dei piedi. Tra il III e il IV sec. d.C. si data invece un mosaico pavimentale con testa di Oceano rinvenuto lungo corso Garibaldi, conservato nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche, dove si trovano importanti reperti archeologici di varie epoche provenienti da tutta la regione. Si ricordano tra gli altri i corredi delle necropoli di A. dall’età preistorica a quella paleocristiana, un affresco di II stile con scene nilotiche, proveniente da via Fanti e il sarcofago di S. Maria della Piazza, detto “del vinaio”, del II sec. d.C.
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di Giovanni Di Stefano
Città (gr. Καμάρινα; lat. Camarina) sulla costa meridionale della Sicilia, fondata secondo Tucidide (VI, 5, 3) circa 135 anni dopo Siracusa, intorno agli inizi del VI sec. a.C.; essa ebbe due ecisti: Daskon e Menacolos. L’abitato antico si estendeva su una collina con la sommità pianeggiante, alta 60 m sul mare, compresa fra due fiumi: l’Ippari e l’Oanis. La storia arcaica di C. è funestata, verso la metà del VI sec. a.C. (Thuc., VI, 5, 3), da un contrasto con la madrepatria. Nel 492 a.C. la città è rifondata da Ippocrate di Gela e nel 484 è distrutta da Gelone. Nel 461 a.C. viene nuovamente rifondata per poi essere sgombrata nel 405 e abbandonata dai Cartaginesi. Appare utile riassumere le fasi edilizie dell’antica città.
Sono relativamente scarse le tracce archeologiche relative al periodo di vita più antico. Al centro della collina è noto il muro occidentale del temenos; nel triangolo occidentale dell’acropoli, anche al di là del temenos, si sono individuate esigue tracce di muri di case arcaiche. Si tratta, forse, di resti di abitazioni sparse e isolate. Alla metà del VI sec. a.C. deve risalire pure la costruzione di un aggere di difesa. La necropoli del primo nucleo di coloni, corrispondente a questa prima fase edilizia, è situata a circa 2 km dal temenos, in contrada Rifriscolaro - Dieci Salme. In questa necropoli sono sostanzialmente noti due riti: l’inumazione e la cremazione. Inoltre, sono diffusissime le sepolture a enchytrismòs. La seconda fase di vita della città, quella di età classica (dagli inizi alla fine del V sec. a.C.) corrisponde al periodo di maggiore notorietà di C. Strutture databili al V sec. a.C., appartenenti a quartieri urbani, sono state riscontrate nei settori occidentali, centrali e orientali della città. Il tracciato delle strade, plateia B, sembra che si definisca nel corso di questa seconda fase di vita. È probabile che questo tracciato si possa riferire alla ricostruzione del 460 a.C., da parte dei Geloi. I maggiori monumenti pubblici di questo periodo sono rappresentati dal tempio di Atena e dall’agorà.
Un consistente nucleo della necropoli di V-III sec. a.C., corrispondente a questa e alle successive fasi della città, è quello noto a Passo Marinaro. È svariata la tipologia delle sepolture riscontrate: inumazioni in nuda sabbia, fosse coperte con tegole a cappuccina, fosse rivestite a cassetta con tegole, enchytrismòi, vaschette fittili, sarcofagi, fosse intonacate, celle ipogee, crateri usati come cinerari. Dopo l’incendio e le distruzioni dei Cartaginesi del 405 a.C. ha inizio, con una ripresa edilizia di largo respiro, una nuova fase della città. Un preciso riferimento a un nuovo momento di vita si trova in Diodoro (XVI, 82, 7), che ricorda le grandi opere di Timoleonte: “avendo portato coloni a Camarina ingrandì la città”. Alquanto leggibile appare ora l’assetto della città in conseguenza di un piano rispettato in maniera rigorosa. Vengono impiantate le arterie C e A, a nord e a sud della plateia B. È oramai certo che dopo la distruzione romana del 258 a.C. alcuni quartieri di C. (quelli occidentali) furono parzialmente ricostruiti e sopravvissero fino ad Augusto. Il nuovo assetto degli isolati mostra un radicale mutamento delle unità abitative.
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di Nicola Bonacasa
Il sito archeologico di I. (gr. Ἱμῆρα; lat. Himera), identificato da T. Fazello e riconosciuto da J. Houel, da N. Palmeri, da G. Meli, da L. Mauceri, da F.S. Cavallari, da A. Salinas e da E. Gabrici, occupa le due colline dette Piano di Imera e Piano del Tamburino, che limitano a sud una parte della pianura di Buonfornello, e la zona a valle a ovest e a nord del grande tempio dorico cosiddetto “della Vittoria” (scavi di P. Marconi, 1929-30, a ovest della foce del Fiume Grande o Imera Settentrionale). La Sezione Archeologica del Dipartimento di Beni culturali, storico-archeologici, socio-antropologici e geografici dell’Università degli Studi di Palermo ha condotto a I. dal 1963 a oggi una lunga serie di campagne di scavo sistematiche e, nel 1984, ha curato l’allestimento scientifico dell’Antiquarium.
Nella città alta, l’area sacra dedicata ad Atena occupa l’angolo nordest del Piano di Imera. Comprende quattro edifici di culto (templi A, B, C e D) e un altare, oltre ai servizi del santuario, dislocati sui lati nord, ovest e sud del temenos, all’interno di tre lunghe fasce di ambienti. Il santuario fu frequentato ininterrottamente dal 648 a.C., anno della fondazione della città, fino alla distruzione del 409 a.C. Il Tempio A (15,75 x 6,04 m), il più antico dei quattro templi riportati alla luce, è volto a est con accesso sullo stesso lato e risulta bipartito. Il ricco deposito votivo – che comprendeva moltissime ceramiche d’importazione e alcune locali, due statuette bronzee (un’Atena e un’offerente), una faïence, numerosi oggetti votivi di bronzo e una laminetta aurea lavorata a sbalzo con la figura di una Gorgone in corsa – suggerisce una datazione compresa tra gli ultimi due decenni del VII e il secondo venticinquennio del VI sec. a.C. Il costruttore del Tempio B rispettò, per motivi religiosi, le strutture dell’antico Sacello A inserendole nella pianta del nuovo edificio. Il Tempio B presenta un vasto impianto rettangolare (30,7 x 10,6 m), in origine quadripartito, orientato a est, con accesso su questo lato per mezzo di una pedana.
Attorno al Tempio B venne recuperato durante lo scavo un numero ingentissimo di terrecotte figurate policrome ad altorilievo e a tuttotondo e di terrecotte architettoniche dipinte. I tipi plastici possono essere raggruppati in tre categorie distinte: le metope (con le fatiche di Eracle), i frontoni (con gruppi di animali in lotta, ai lati di un gigante atterrato ?) e le figure acroteriali, da ascrivere a successive fasi della decorazione del tempio. Nella zona nord dell’area sacra, a 22 m di distanza dai templi A e B, si trova il Tempio C (14,3 x 7,15), bipartito, anch’esso orientato a est, parallelo ai primi due e allineato con la fronte orientale del Tempio B. Malgrado i reperti siano assai scarsi, gli elementi della copertura (frammenti di antefisse a protome gorgonica e a palmetta pendula) consentono di assegnare il Tempio C ai primi decenni del V sec. a.C. Il Tempio D, l’ultimo scoperto, a sud del B, mostra una pianta rettangolare di 13,75 x 6,55 m; è del tipo a oikos (come gli altri tre edifici), senza partizioni interne, e a esso si accede da est per mezzo di una pedana. Diverso, rispetto agli altri templi, è l’orientamento dell’edificio. Tra i reperti più significativi: frammenti di antefisse a palmetta pendula, pertinenti alla copertura, una piccola terracotta di Atena Promachos e un’iscrizione metrica della seconda metà del VI sec. a.C.
L’abitato arcaico, fin dal primo momento della sua costituzione (ultimo quarto del VII sec. a.C.), si estese sia sull’intero pianoro della città alta, sia nella pianura a valle, in prossimità del fiume: la città fu dunque organica e pianificata fin dal suo nascere. Le strutture arcaiche sul Piano di Imera, sebbene non rigorosamente allineate, ripetono un orientamento nord-ovest/sud-est e nord-est/sud-ovest, come gli edifici sacri. Il piano regolatore arcaico prevedeva un’occupazione rada del suolo, con ampi spazi lasciati a verde. Tra i resti delle abitazioni vi sono indizi di suddivisione in due vani adiacenti, aperti su aree libere, tipiche zone di lavoro e di servizio. I reperti ceramici rivestono grande interesse per la datazione delle strutture e dei livelli di frequentazione. Il nuovo piano regolatore della città (fine del VI - inizi del V sec. a.C.) suddivise il Piano di Imera in 16 isolati, larghi 32 m (100 piedi dorici), orientati est-ovest e delimitati da strade parallele, larghe in media 5,6-5,8 m, attestate ai due lati di un asse viario che attraversava in senso nord-sud l’intero pianoro. Tale asse terminava a nord in una vasta area libera a ovest del santuario, forse l’agorà cittadina.
L’impianto urbanistico di età classica, progettato unitariamente, ignorò l’orientamento della pianta arcaica e disegnò i nuovi isolati e le strade parallelamente alla linea di costa, sfruttando tutta la larghezza del pianoro e anche i pendii collinari edificabili. Sul Piano di Imera, questo programma urbanistico-architettonico, oltre a delimitare isolati e strade, imponeva anche uno schema-tipo di ripartizione interna degli isolati in blocchi modulari – ciascuno di 16 m di lato (50 piedi), destinato a un lotto edificabile – mediante un fitto reticolato di ambitus larghi 0,8 m. Due le aree di culto di quartiere (in onore di Demetra, Kore e Atena Ergane), nell’isolato II del quartiere N e nel quartiere E, sulle pendici nord-est della città (VI-V sec. a.C.). Ingente il numero dei reperti dell’abitato: ceramiche arcaiche d’importazione e attiche a figure nere e a figure rosse (un grande cratere è dell’officina del Pittore dei Niobidi), insieme a ceramiche figurate siceliote; ceramica a vernice nera di forme e dimensioni diverse; ceramiche acrome locali e altre con decorazione a larghe bande.
Numerose le terrecotte figurate, soprattutto dai due santuari urbani, ioniche e rodie, della seconda metà del VI sec. a.C., cui si affiancano i tipi dell’Atena Lindia e dei busti fittili di produzione agrigentina; in seguito, nel V sec. a.C., si impone largamente lo stile attico e, insieme a esso, sono presenti alcune testimonianze della coroplastica della Magna Grecia. Numerose le arule fittili a rilievo, alcune di notevole valore documentario, come quelle con Scilla e con la rappresentazione di Dedalo e Icaro sulla groppa di un toro; ben documentati i louteria di terracotta. Rilevante il numero delle monete, delle zecche di I., Siracusa e Agrigento. Un muro di cinta ad aggere difendeva la città alta (un tratto lungo 100 m ca. è stato scavato sul lato sud-ovest del Piano di Imera). Questo sistema difensivo scendeva gradatamente verso il fiume, lungo il pendio est della collina, ed è probabile che si collegasse a valle, in prossimità del porto-canale, con il resto della fortificazione che certamente doveva difendere a nord e a ovest la città bassa in pianura.
Per quanto riguarda quest’ultima, il tempio cosiddetto “della Vittoria” rimane l’unica testimonianza monumentale di un grande temenos sorto in prossimità della sponda ovest del fiume Imera (sul porto- canale, purtroppo andato perduto) come monito ideologico-politico, subito dopo la vittoria della coalizione greca sui Cartaginesi, a I., nel 480 a.C. Dorico, periptero, esastilo (55,91 x 22,45 m), con 14 colonne sui lati lunghi, su crepidoma di quattro gradini, ha pronao, cella e opistodomo; è costruito in tufo conchiglifero. Fu incendiato e distrutto nel 409 a.C. insieme con il santuario e i grandi settori della città a valle e in collina. La maggior parte dei frammenti scultorei scoperti da P. Marconi apparteneva ai frontoni. Sul lato ovest del tempio, lungo il crepidoma, sono stati rinvenuti consistenti livelli di occupazione degli inizi del VI sec. a.C. Si tratta di un’area artigianale con botteghe che operavano in prossimità del fiume. Sulle pendici ovest del Piano di Imera, 500 m circa a sud-ovest del tempio della Vittoria, è stato individuato un lembo di abitato disposto su terrazze artificiali, lungo un pendio che si attenua gradualmente da sud verso nord. A differenza della città alta, con isolati e strade est-ovest, la maglia urbana in pianura sembra orientata nord-ovest/sud-est, nel rispetto del piano arcaico, e disegnata normale alla linea di costa.
Tre sono le necropoli di I.: quella occidentale, sulle pendici ovest del Piano del Tamburino, fu in parte esplorata da L. Mauceri nel 1877; la seconda, quella meridionale, si estende a nuclei sparsi a sud del Piano di Imera e intorno al Cozzo Scacciapidocchi (scavi 1963); la terza necropoli, orientale, è fino a ora la più nota, individuata a est del fiume Imera, a 1 km circa dal centro antico, nella pianura costiera in contrada Pestavecchia e sulle pendici nord di Rocca d’Antoni; fu scavata per primo da E. Gabrici (1926-27). Un altro vasto settore di questa terza necropoli, situato 250-300 m a sud del precedente, venne esplorato nel 1971, nella sede del tracciato autostradale Palermo-Messina, allora in costruzione. Nelle 22 tombe individuate, databili al V sec. a.C., disposte a gruppi e orientate est-ovest, ricorrevano con uguale frequenza l’inumazione e l’incinerazione. Una sola tomba monumentale, la n. 5, attribuibile a un membro dell’aristocrazia imerese, è del terzo venticinquennio del VI sec. a.C.
Colonia di popolamento, I. produce orzo e cereali, vino e olio. Le ceramiche arcaiche la dicono inserita nel circuito commerciale tirrenico, fenicio-punico, corinzio, greco-orientale e insulare, fino alla metà del VI sec. a.C. Nella seconda metà del secolo cresce la sua cultura figurativa e materiale, la città assume autonomia con attive officine locali che rielaborano modelli importati. Dopo la vittoria del 480 a.C., I. non viene monumentalizzata, tranne che nel respiro urbanistico, e rientra nella sfera politica e artistica di Agrigento, da cui si distacca nell’ultimo trentennio del V sec. a.C. per seguire motivi iconografici e stilistici attici. La pianura costiera è occupata quasi senza soluzione di continuità da fattorie, botteghe e insediamenti industriali, dalla fine del VII sec. a.C. fino a età sveva. Per quanto riguarda l’entroterra collinare le indagini hanno coperto una complessa unità geografica e morfologica prospiciente la fascia costiera, limitata a est e ovest dai fondovalle alluvionali dei fiumi Imera e Torto e chiusa a sud da una linea netta di rilievi, che separa il territorio agricolo gravitante sulla città dall’entroterra. La storia del popolamento può essere ricostruita dal Bronzo iniziale fino a età medievale e moderna.
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di Laura Buccino
Città sorta nell’omonimo golfo, in prossimità di un precedente insediamento fondato da Cuma nella prima metà del VII sec. a.C. con le funzioni di scalo navale (epineion), che derivò il nome di Parthenope (gr. Παρθενόπη; lat. Parthenope, “dalla voce di vergine”) dalla Sirena che, secondo il mito, dopo la morte era stata trasportata dalle correnti marine sulla spiaggia di N. e sulla cui tomba fu istituito un culto, menzionato da Strabone.
Una tradizione alternativa attribuiva la fondazione di Parthenope a navigatori rodi, che nel periodo precoloniale avrebbero dato vita a un emporio successivamente occupato da Cuma. La città nuova (gr. Νεάπολις; lat. Neapolis) fu fondata dagli stessi Cumani, cui si aggiunsero, secondo Strabone, Calcidesi, Pithecusani e Ateniesi. Le fonti non ci tramandano la data di fondazione, posta tradizionalmente sulla base della documentazione archeologica intorno al 470 a.C., poco dopo la celebre battaglia navale di Cuma (474 a.C.), ma che in seguito ai dati acquisiti dalle indagini più recenti si tende ad anticipare alla fine del VI sec. a.C. L’abitato precedente di Parthenope, distinto topograficamente dalla nuova colonia, assunse allora il nome di Palaeopolis. N. si affermò ben presto rispetto al vecchio centro e assunse un ruolo di primo piano nella gestione dei traffici tirrenici, sostituendosi alla madrepatria in declino e intrattenendo stretti rapporti con Atene. Nella seconda metà del V sec. a.C. vi fu inviato lo stratega ateniese Diotimo, cui la tradizione attribuiva l’istituzione della festa delle Lampadoforie in onore della Sirena, in seguito alle prescrizioni di un oracolo.
Alla fine del V sec. a.C. esponenti della popolazione italica dei Campani, che nel 421 a.C. conquistarono Cuma, si inserirono nella compagine sociale di N., dove assunsero posti di potere accedendo alle magistrature cittadine. All’inizio della seconda guerra sannitica, nel 327 a.C. N. decise di schierarsi contro Roma. L’esercito di Sanniti e Nolani inviato come rinforzo si stabilì a Palaeopolis, mentre quello dei Romani prese posto tra l’antico insediamento e la città nuova, come racconta lo storico Tito Livio. Dopo un anno di assedio, l’aristocrazia cittadina consegnò la città ai Romani, con i quali nel 326 a.C. stipulò un vantaggioso trattato di alleanza, che garantiva a N. autonomia e benefici economici, in cambio della possibilità concessa a Roma di utilizzare il porto e la flotta per operazioni belliche e commerciali. Seguì un periodo di grande prosperità, caratterizzato dall’avvio della produzione di ceramica a vernice nera, la cosiddetta Campana A. Nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.) Annibale tentò più volte invano di espugnare la città, saldamente fortificata. Dopo la guerra sociale, N. divenne municipio romano e nel II sec. d.C. fu trasformata in colonia.
Lo scavo della necropoli scoperta in via Nicotera, ai margini della collina di Pizzofalcone, ha permesso di far luce sull’insediamento di età arcaica, che si estendeva su un promontorio proteso sul mare, costituito dall’omonima collina e dall’antistante isoletta di Megaride (dove poi sorse Castel dell’Ovo), allora collegata alla terraferma. La necropoli, costituita prevalentemente da tombe del tipo a cassa scavate nel tufo, ha restituito materiali databili dal 675 circa al 550 a.C. (ceramica italo-geometrica di produzione cumana e di importazione, soprattutto vasi corinzi e coppe di tipo ionico). Il porto doveva essere situato a est, nell’ampia insenatura costiera, che si apriva tra Pizzofalcone e l’odierna piazza del Municipio, progressivamente interratasi per i depositi alluvionali defluenti dall’arco collinare retrostante e per la sedimentazione marina. I limiti cronologici dell’insediamento arcaico sono confermati da un nucleo di frammenti ceramici rinvenuti nella scarico di via Chiatamone, dove devono essere confluiti dalla sommità del colle di Pizzofalcone.
Nella seconda metà del IV sec. a.C. riprese l’uso della necropoli arcaica di Pizzofalcone, interrotto alla metà del VI secolo, un dato che conferma la testimonianza delle fonti sull’esistenza del primo insediamento anche dopo la fondazione di N. La frequentazione si interruppe definitivamente nel corso del III sec. a.C. Sul promontorio di Pizzofalcone fu costruita alla fine del I sec a.C. la villa del ricco romano Lucullo, che si estendeva probabilmente fino a Castel Nuovo, passata poi di proprietà imperiale. Nel V sec. d.C. si sovrappose alla lussuosa residenza un castrum, dove soggiornò dopo la fuga l’ultimo imperatore di Roma, Romolo Augustolo. La città nuova fu fondata a est della collina di Pizzofalcone, su un pianoro ondulato digradante a sud verso la costa (da Caponapoli a S. Marcellino), protetto sui lati da valloni naturali scavati dal deflusso delle acque collinari e verso l’interno da un esteso arco collinare dominato dal Vomero. L’abitato antico è compreso attualmente tra le vie Foria, Costantinopoli, Carbonara e corso Umberto I.
Indagini recenti hanno messo in luce in vico Soprammuro a Forcella un tratto di fortificazione databile tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., che ha consentito di rialzare la data di fondazione della polis. L’inquadramento cronologico è confermato dai materiali ceramici e fittili rinvenuti in settori della cinta muraria individuati a S. Aniello a Caponapoli, a S. Domenico Maggiore e a S. Marcellino. Il circuito murario fu costruito nel primo trentennio del V sec. a.C. lungo i margini del pianoro, protetti ulteriormente da fossati naturali, e fu adattato alla natura accidentata del terreno. La cinta, provvista di torri, era costituita da una cortina in ortostati di tufo posti di taglio, in alcuni tratti doppia, con terrapieno retrostante di scaglie di tufo e terra, ammorsato al pendio della collina mediante briglie. Le mura furono rafforzate alla fine del IV sec. a.C., all’epoca della guerra sannitica, con l’aggiunta di una cortina più avanzata, realizzata con impiego prevalente di assise piane (ma anche di ortostati), che ricalcava il percorso della precedente. La cortina originaria fu utilizzata come paramento interno, tramite l’inserimento di briglie trasversali. Ulteriori restauri risalgono all’epoca della seconda guerra punica, sul finire del III sec. a.C. I resti più consistenti sono stati rinvenuti nel centro storico, in piazza Cavour e in piazza Bellini.
Un tratto della cinta occidentale è stato messo in luce negli scavi recenti presso il complesso architettonico di S. Antoniello delle Monache a Portalba, che hanno confermato il raddoppiamento della cortina preesistente nella seconda metà del IV sec. a.C. Sistemi di terrazzamento regolarizzarono sin dalle origini l’aspetto accidentato del pianoro. L’impianto urbano, ancora riconoscibile nel tessuto stradale dell’attuale centro storico, era impostato su tre arterie principali (plateiai) con andamento est-ovest, intersecate da strade minori nordsud (stenopòi), che originavano isolati stretti e allungati (35 x 185 m), rispondenti alla tradizione urbanistica tardoarcaica. Il reticolo stradale non era esteso all’acropoli della città, sita a nord-ovest sul punto più elevato del pianoro, presso la chiesa di S. Aniello a Caponapoli. Non sono noti resti monumentali, ma la stipe votiva rinvenuta sotto il convento di S. Gaudioso dimostra l’esistenza di un santuario dedicato a Demetra (fine V - fine IV sec. a.C.). Immediatamente a valle dell’acropoli, al centro del reticolo urbano, era pianificata l’agorà, che occupava un’area pari a 6 isolati in larghezza e 2 in lunghezza, articolata su terrazze e divisa dalla plateia mediana (poi decumano massimo, ricalcato da via dei Tribunali) in due settori, che con il tempo si specializzarono in funzioni differenti: religiosa e politica a nord e commerciale a sud.
I resti conservati attualmente risalgono al foro romano, che si sovrappose alla piazza greca: nella parte nord si elevavano due teatri, uno più grande scoperto (di cui sono state rinvenute le strutture di età flavia, restaurate nel II-III sec. d.C., ma che doveva risalire almeno all’età di Nerone, che vi si esibì) e un odeion coperto, menzionato dal poeta latino Stazio, e il tempio dei Dioscuri, datato in età tiberiana, inglobato nella chiesa di S. Paolo Maggiore. Nel settore meridionale sorgeva il complesso monumentale articolato su due piani, rinvenuto sotto il convento di S. Lorenzo Maggiore, che inglobò muri di terrazzamento dell’età greca a blocchi di tufo. Il complesso di età imperiale comprendeva il macellum nella terrazza superiore e una serie di botteghe e un criptoportico in quella inferiore. Nel settore sud-orientale della città sono emersi i resti di un quartiere artigianale di età ellenistica (fosse e pozzi con abbondante materiale ceramico), in un’area periferica, vicino alle mura, urbanizzata solo in età romana (fine I sec. a.C. - inizi I sec. d.C.).
Le necropoli urbane si estendevano fuori delle mura, al di là dei valloni naturali che circondavano la città. Indagini recenti hanno individuato quattro nuclei principali. La necropoli di Castelcapuano, che si estende a est, documenta la fase iniziale di vita di N., dal primo quarto del V sec. a.C., e continua a essere in uso fino all’età romana. Le sepolture di V e IV sec. a.C. sono prevalentemente del tipo a cassa ricavata nel tufo, mentre alla fine del IV secolo compaiono le tombe a cappuccina e i complessi monumentali. Grandi ipogei scavati nel banco di tufo sono stati individuati nel settore nord-orientale dell’area delle necropoli, fuori porta S. Gennaro. Le tombe a camera, che rappresentano un gruppo omogeneo per tipologia, sono databili alla fine del IV-III sec. a.C., anche se sono state riutilizzate a lungo fino al I sec. d.C. Alcune di queste sono provviste di facciate monumentali lungo la strada extraurbana che doveva uscire da porta S. Gennaro e presentano all’interno una ricca decorazione architettonica e dipinta. Le testimonianze di pittura funeraria restituiteci dal complesso di via dei Cristallini, formato da quattro ipogei contigui, e da quello di vico Traetta documentano la conoscenza e la rielaborazione dei modelli della pittura macedone da parte della vivace e raffinata aristocrazia cittadina di età ellenistica.
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di Dieter Mertens
La città di S. (gr. Σελινοῦς; lat. Selinus) fu fondata nella Sicilia occidentale da coloni di Megara Hyblaea, sotto la guida dell’ecista Pammilos, nel 651 (Diod. Sic., XIII, 59, 4) o, più probabilmente, nel 628 a.C. (Thuc., VI, 4, 2).
Per il luogo dell’insediamento fu scelta una collina lambita da due fiumi, il Gorgo Cotone a est e il Modione (l’antico Selinus) a ovest, i quali delimitano a sud un ripido promontorio che si apre verso l’entroterra in un ampio pianoro; tali condizioni topografiche avrebbero evidentemente determinato l’ubicazione dell’acropoli e delle aree residenziali della futura città. Due profonde insenature, attualmente insabbiate, alle foci dei due fiumi, facilitarono l’attracco delle navi e contribuirono, assieme ai due corsi d’acqua, alla chiara separazione della collina urbana dal circondario. Tuttavia, sin dalla fondazione, appartengono all’area interessata dalla presenza greca anche i pendii e le alture a ovest e a est dei due fiumi, sebbene queste aree non siano mai state comprese nei sistemi di fortificazione. Il sito si colloca in un vasto territorio estremamente fertile, che garantì alla colonia greca (apoikia) una straordinaria fortuna. Lo studio archeologico sistematico della ricca chora selinuntina, che si spinge fino a circa 30 km nell’interno, è ancora agli inizi e costituisce uno dei più importanti desiderata della ricerca sulla polis greca. La tradizione storica parla spesso di frequenti contrasti con Segesta per il possesso delle terre. Un altro aspetto, ultimamente considerato con più attenzione e di cui sono stati approfonditi gli effetti positivi per lo sviluppo economico della città, riguarda la vicinanza degli emporia fenicio-punici che occupavano la punta occidentale dell’isola e offrivano le più opportune possibilità di scambio e commercio.
L’area scelta dai Megaresi era abitata da popolazioni sicule, testimoniate (con fondi di capanne circolari e ceramica) sulla punta più settentrionale del pianoro detto Manuzza. Dai dati di scavo non risulta con chiarezza la modalità – violenta o più pacifica – con cui il sito venne occupato dai Megaresi. A ogni modo, un insediamento greco caratterizzato da case ad angoli retti, sullo stesso posto e collocato immediatamente sopra i resti indigeni, è parte dei primi nuclei abitativi dei nuovi arrivati. Tracce insediative della prima fase di occupazione greca si sono trovate recentemente anche nella valle del Cotone e precisamente vicino a una delle due insenature di attracco, nonché ai margini di una zona pianeggiante al centro del pianoro Manuzza che in futuro sarebbe divenuto l’agorà della polis greca. Da alcuni indizi si desume che i primi coloni non seguissero un progetto di occupazione coerente di tutta la collina ma vivessero ancora katà komas, in singoli nuclei abitativi separati. Ciò risulta anche e con maggiore chiarezza dalla presenza di una piccola necropoli proprio al centro di tutta la collina e precisamente sullo spiazzo dell’agorà e nelle immediate vicinanze dei resti insediativi ivi scoperti. Il fatto che vi fossero seppelliti i primi coloni greci viene documentato dai reperti ceramici, i più antichi finora scavati a S. e databili prevalentemente nell’ultimo quarto del VII sec. a.C. Questo luogo di sepoltura deve aver avuto e conservato grande importanza e particolare significato, dato che fu utilizzato (da parte di una famiglia privilegiata?) per tutto il VI sec. a.C. e quindi in un periodo in cui tutta la collina risulta sistematicamente urbanizzata.
Dopo meno di una generazione, infatti, si optò per un impianto unitario dell’intera area compresa tra i due fiumi e ampia circa 100 ha, lottizzandola in parcelle (strigae) di uguale larghezza (ca. 32,8 m = 100 piedi dorici). Tale principio, noto anche dalle altre colonie greco-occidentali, era stato sperimentato un secolo prima dalla città-madre, che prestava, infatti, il modello generale. A S. lo schema fu applicato, tuttavia, con una rigidità e sistematicità finora ineguagliate. Seguendo le condizioni geomorfologiche si impostarono due grandi sistemi, sfalsati l’uno rispetto all’altro di 23° circa, di assi viari principali intersecati ad angolo retto da vie secondarie. Sugli assi principali e sulle linee di separazione delle parcelle furono disposte delle strade le cui larghezze corrispondevano alla loro importanza nel sistema viario. Tre grandi arterie principali (plateiai) di 9 m di larghezza (la strada che percorreva la cresta della collina meridionale in senso nord-sud, una strada perpendicolare a questa che scende dai pendii della collina Manuzza a est, nonché la grande arteria del quartiere Manuzza) furono intersecate da alcune strade di secondo ordine di larghezza (tra 5 e 6,5 m) in modo da creare dei larghi spazi definiti almeno su tre lati dalle strade predette. Tali spazi furono divisi nelle parcelle abitative da strade più strette (stenopòi) larghe in media 3,60 m e disposte a una distanza di 100 piedi.
Le insulae abitative così create, larghe 100 piedi meno la larghezza dello stenopòs (probabilmente 89 piedi), furono assegnate ai coloni secondo criteri di uguaglianza che costituiscono la base di ogni sistema distributivo delle terre nelle colonie e per le quali la città-madre offriva evidentemente il modello. Dagli scavi recenti, effettuati soprattutto nel quartiere dell’agorà, risulta con chiarezza un sistema distributivo simile a quello noto da Megara Hyblaea, ma con la misura doppia di superficie del singolo lotto abitativo (oikopedon). Due file di lotti delle dimensioni di 14,5 x 14,5 m circa (ca. 220 m2; a Megara Hyblaea 110-120 m2) compongono le insulae ovvero strigae. Non è ancora possibile constatare la densità di occupazione abitativa reale nello schema distributivo così articolato, almeno nelle prime generazioni di vita della città. Vaste aree (oikopeda già definiti?) saranno inizialmente rimaste libere. A ogni modo, il sistema venne considerato di tale unitarietà da comprendere sicuramente anche la dislocazione delle varie zone funzionali comunitarie, nonché un dispositivo difensivo. Infatti, allo stesso progetto appartiene anche la costruzione delle mura urbane sia nel senso della definizione spaziale sia nella loro vera funzione pratica.
Le mura, parzialmente scavate nel loro tratto orientale, cingevano la collina lungo i due fiumi che, assieme ai bacini portuali, servivano anche come ostacoli all’avvicinamento. Solo a nord bisognava attraversare la sella che divide la collina urbana dalle alture occupate dalle più vicine necropoli (contrada Bagliazzo). Le porte ubicate in corrispondenza delle strade principali collegavano l’area urbana con i santuari extraurbani, nonché con le necropoli e la chora. L’esempio più monumentale finora noto è la porta Est, con l’ampio doppio fornice attraverso cui passava la grande plateia est-ovest, che costituiva così una sorta di via sacra diretta verso il grande santuario della collina orientale. I due santuari extraurbani sulla collina orientale e in contrada Gaggera assumono infatti ben presto una grande importanza che si esprime sia nella grande quantità di temene e di edifici sacri (i santuari della contrada Gaggera, tra cui soprattutto quello della Demetra Malophoros) che nella straordinaria monumentalità dei templi (i tre peripteri della collina orientale). Recenti scavi interessano l’agorà individuata in posizione centrale in un’ampia area libera tra i due sistemi urbanistici. Anche in questa ubicazione e nella risultante forma trapezoidale si riflette il noto campione della città-madre.
Mentre i lati sud, ovest e nord della vasta piazza di circa 3 ha vengono definiti da importanti plateiai di ambedue i sistemi stradali, il lato est è costituito da un isolato che – inizialmente lottizzato come i normali quartieri residenziali – sembra venir occupato successivamente da edifici con probabile funzione pubblica (botteghe, hestiatorion o prytaneion). I grandi santuari urbani, invece, si concentrano sul promontorio meridionale, seppur collegati con l’agorà attraverso l’arteria principale nord-sud. Lo spazio del santuario maggiore intorno al Tempio C è comunque determinato e definito dalla disposizione urbanistica e precisamente da quest’ultima plateia nonché da due strade est-ovest distanti tra loro circa 400 piedi. Solo a est il ripido declivio della collina viene cinto e in parte terrazzato da un muro di percorso poligonale. Questa situazione topografica, verso la metà del VI sec. a.C., nella prima grande fase di prosperità della giovane colonia e di conseguente monumentalizzazione dei suoi edifici, richiede una nuova sistemazione, con l’allargamento del temenos con ampi terrazzamenti artificiali sostenuti da potenti muraglioni costruiti a mo’ di gradoni.
Il tempio principale del santuario, il Tempio C (le dedicazioni dei templi selinuntini alle singole divinità sono tuttora discusse), che sostituisce un tempio precedente ubicato nella stessa area, diventa uno dei modelli paradigmatici del tempio arcaico siceliota. Molto allungato, con un peristilio di 6 x 17 colonne, la cella profonda e divisa in pronaos, naòs e adyton, la grande scalinata d’accesso, il doppio colonnato sulla fronte orientale e le ampie peristaseis, segue nella disposizione particolari imposizioni che il culto nelle colonie siceliote sembra aver richiesto. Come nel rituale greco, il sacrificio veniva svolto presso il grande altare per sacrifici cruenti disposto a notevole distanza davanti al tempio, definendo così un ampio spazio cultuale. L’importanza della facciata principale dell’edificio viene ancora esaltata dalla fastosa decorazione con le famose metope figurate lavorate ad altorilievo di grande espressività formale e contenutistica. Assieme a quelle del Tempio Y, di incerta ubicazione, molto più piccolo ma di poco precedente al Tempio C, il ciclo delle metope di quest’ultimo costituisce il primo apice della scultura monumentale in Sicilia. Decorare i templi con metope figurate di grande importanza artistica e semantica rimane una tradizione particolare a S., come dimostrano il Tempio M, un grande tempio in antis in contrada Gaggera, e il Tempio F sulla collina orientale, ambedue databili in epoca tardoarcaica, nonché il famoso ciclo delle metope di stile severo del Tempio E (di Hera) vicino a quest’ultimo.
Nell’evoluzione dell’architettura monumentale di S. si tende a individuare l’influsso del modello del Tempio C nei progetti dei templi D e F, nei quali si avverte il tentativo di sposare i concetti di base del Tempio C con le nuove tendenze architettoniche sviluppatesi in Grecia. Il monumento più complesso e più ambizioso, tuttavia, è il gigantesco Tempio G nel santuario della collina orientale. In forma pseudodiptera, cioè con ambulacri ampi due interassi, 8 x 17 colonne racchiudono la cella articolata in un ampio pronao con la fronte contraddistinta da quattro colonne prostile, un grande vano centrale nonché un opistodomo. La statua di culto doveva essere stata custodita in un sacello (naiskos) costruito autonomamente nel vano (sekòs) centrale che era concepito senza tetto (ipetrale). Con tale articolazione l’edificio si ispira evidentemente al modello del tempio di Apollo a Didyma in Asia Minore, uno dei grandi dipteri ionici. La costruzione, iniziata in epoca tardoarcaica, si protrae, probabilmente con interruzioni, per almeno due generazioni fino al secondo quarto del V sec. a.C., come dimostrano le forme artistiche, specialmente i capitelli; tuttavia essa non venne mai portata a termine. È probabile, comunque, che vi si svolgesse già il culto (di Apollo?), anche se il grande numero di elementi costruttivi destinati a questo monumento e rimasti nella cava (Cave di Cusa) pone ancora problemi di interpretazione.
Nel V sec. a.C. l’architettura templare monumentale si orienta sempre maggiormente ai modelli e canoni formali intanto maturati in Grecia, senza tuttavia rinunciare alle fondamentali disposizioni spaziali degli interni condizionate dalle specifiche funzioni cultuali tradizionali dell’Occidente greco. Ciò si evidenzia soprattutto nelle vaste sale dei naòi e nelle particolari disposizioni di scalinate interne che davano accesso alle parti alte dei templi. Il grande Tempio E (di Hera) costruito intorno al 460 a.C. e il Tempio A, di poco più recente, nonché il finissimo propylon del santuario della Malophoros in contrada Gaggera sono i testimoni più importanti di questa fase più matura dell’architettura selinuntina. La potenzialità economica e la grande stabilità sociale della città si rispecchiano, oltre che nei grandi templi, anche nell’edilizia residenziale della prima metà del V sec. a.C. Si assiste, infatti, a una parziale riedificazione di estese zone nella maglia dei lotti abitativi arcaici, ma in una tecnica del tutto nuova e finora senza paragoni nel mondo greco coevo. Le case sono costruite, almeno per quanto riguarda le pareti perimetrali, con grandi blocchi squadrati e in eccellente opera isodoma, una tecnica che di solito è riservata ai monumenti pubblici. Che si tratti di case residenziali risulta inequivocabilmente dalla loro distribuzione in un rigido sistema di lotti uguali, ma in mancanza di sistematici scavi al loro interno, finora, non è possibile definirne le caratteristiche planimetriche.
All’apice del benessere la città si trova coinvolta nelle vicende che portano al ritorno dei Cartaginesi sulla scena siciliana e quindi all’assalto del 409 a.C., in cui la S. arcaico-classica viene praticamente annientata. In seguito e fino al definitivo abbandono nel 250 a.C., il sito servirà soprattutto come avamposto fortificato, passando varie volte, nel IV sec. a.C., dall’occupazione punica a quella siracusana e viceversa. Il siracusano Ermocrate rifortifica – e ricostruisce – nel 408 a.C. una parte dell’antica città, limitandosi all’acropoli e a una parte del plateau Manuzza, mentre il resto delle rovine viene sistematicamente smantellato. Durante l’eparchia punica della seconda metà del IV sec. a.C., nello spazio dell’acropoli cinto dalle mura si ristabilisce un insediamento caratterizzato, ora, da una forte e determinante componente punica che si esprime nelle peculiarità urbanistiche e architettoniche del nuovo impianto. Nel 307/6 a.C. il siracusano Agatocle occupa il posto e ne ristruttura profondamente le difese, che vengono ora concepite (attraverso la costruzione del complesso impianto avamposto al precedente muro settentrionale e il proteichisma orientale nonché attraverso alcune torri) secondo le più avanzate teorie della difesa offensiva e mobile. L’impianto selinuntino, evoluto probabilmente dal modello del Castello Eurialo di Siracusa, è da annoverare tra le più sofisticate opere di fortificazione del mondo antico.
Riparate le distruzioni subite dai Siracusani, l’insediamento dentro le mura dell’acropoli sopravvive fino all’arrivo dei Romani nella prima guerra punica, quando il resto della popolazione viene trasferito nella vicina Lilibeo. Decaduto e in gran parte sepolto dalle dune, il sito sarà rioccupato soltanto nel primo Medioevo, in particolare dai Bizantini. Rimane tuttavia dubbio a quali iniziative attribuire la notevole – seppur tecnicamente primitiva – opera di rimessa in funzione del circuito murario dell’acropoli nonché del castello quadrato con torri angolari costruito sopra le rovine dei templi A e O. L’ultima testimonianza, prima dell’era moderna, di vita umana sul posto consiste in sporadiche monete e nel resto di una fattoria di età sveva scoperti nell’area dell’antica agorà.
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