I teatri delle macchine
L’idea del teatro
Nel 1544 Giulio Camillo (1480 ca.-1544), filosofo e umanista, maestro di retorica e di alchimia, cresciuto tra gli accoliti di Pietro Bembo, è incaricato dal governatore di Milano, Alfonso d’Avalos, suo protettore e finanziatore, di celebrare l’arte della memoria con un’opera che segnerà la cultura del suo tempo. Ricca di simboli e di richiami allegorici, come ha ben evidenziato Frances A. Yates (The art of memory, 1966; trad. it. 1972), sarà il riferimento ideologico per un nuovo genere letterario che coinvolge le scienze e le arti e la cui fortuna si appoggerà sulle nuove tecnologie che proprio in quegli anni favoriscono il successo delle opere a stampa e delle riproduzioni calcografiche. Affrontando le complesse relazioni tra ermetismo cabalistico e tensione essenziale verso il nuovo, così scriveva la Yates:
L’uso del termine persona (maschera) per l’immagine di ‘memoria per le cose’, è interessante e curioso. Implica forse che l’immagine mnemonica potenzia il suo effetto d’urto esagerando il suo aspetto tragico o comico, come fa l’attore indossando una maschera? O suggerisce invece che la scena era una probabile fonte di impressionanti immagini di memoria? (trad. it. 1972, p. 19).
Pubblicata postuma nel 1550, L’idea del theatro vede la luce a Firenze curata da Ludovico Domenichi per i tipi di Lorenzo Torrentino. Il successo è tale che nello stesso anno appaiono a Venezia due altre edizioni, presso Agostino Bindoni e Baldassarre Costantini, e nel 1552 L’idea del theatro sarà ripubblicata presso Gabriele Giolito a cura di Ludovico Dolce, e così via nelle successive edizioni e ristampe come appare da una recente riedizione dell’opera a cura di Lina Bolzoni (G. Camillo, L’idea del theatro, 1991).
L’arte della memoria trova nelle tecniche mnemotecniche e soprattutto nelle rappresentazioni teatrali il contesto ideale e il laboratorio per verificare i propri successi, e sulla scia delle rivoluzioni dell’informazione e della conoscenza è causa del diffondersi di nuovi media. Il «theatro» non è solo metafora del comunicare al grande pubblico ma presto diventerà ‘genere’ di successo per quanti vorranno estendere le proprie conoscenze e affermare il proprio status. Scriveva Camillo:
Ma per dar (per così dire) ordine all’ordine, con tal facilità che facciamo gli studiosi come spettatori, mettiamo loro davanti le dette sette misure, sostenute dalle misure dei sette pianeti, in spettaculo, o vogliamo in theatro, distinto per sette salite. Et perché gli antichi theatri erano talmente ordinati che sopra i gradi allo spettaculo più vicini sedevano i più honorati, poi di mano in mano sedevano ne’ gradi ascendenti quelli che erano di menor dignità, talmente che ne’ supremi gradi sedevano gli artefici, in modo che i più vicini gradi a’ più nobili erano assegnati, sì per la vicinità dello spettaculo, come anchora perché del fiato de gli artefici non fossero offesi, noi, seguendo l’ordine della creation del mondo, faremo seder ne’ primi gradi le cose più semplici, o più degne, o che possiamo imaginar esser state per la disposition divina davanti alle altre cose create. Poi collocheremo di grado in grado quelle che appresso sono seguite, talmente che nel settimo, cioè nell’ultimo grado superiore, sederanno tutte le arti et facultà che cadono sotto precetti, non per ragion di viltà, ma per ragion di tempo, essendo quelle cose ultime da gli huomini state ritrovate (L’idea del theatro, 1991, p. 58).
I ‘teatri’ diventano così libri a stampa, riccamente illustrati, che aprendosi al lettore come si apre il sipario sulla scena (e molti nel frontespizio ripropongono le architetture teatrali) lo introducono ai saperi più nuovi e più curiosi, perché non solo il ‘filosofo’, ma anche l’uomo di mondo, deve sapere tutto delle scienze e delle arti. Dalla metà del Cinquecento le biblioteche si arricchiscono di teatri del mondo, delle città, anatomici, geografici, astronomici, chimici, botanici, farmaceutici, matematici e anche solo dalla prima impressione che si ha sfogliandoli si prova lo stupore per la ricchezza dei particolari con cui le immagini parlano ben più delle concise ed essenziali didascalie, che all’inizio non esitano a usare l’aulica lingua latina e solo più tardi passeranno al volgare. In questo senso possiamo definire i ‘teatri’ come opere di fanta-scienza dove la fantasia diventa il motore per un progresso scientifico di là da venire.
Le macchine a teatro
Il Medioevo è il tempo del manoscritto e anche la tecnica, nelle sue più svariate declinazioni, dall’arte militare all’architettura, dalla coltivazione dei campi alle ruote ad acqua, trasmette il suo sapere, spesso ‘tacito’, in opere che per la loro natura restano degli unica. Alcune, tra cui primeggia il De re militari (12 libri, 1446-1455) di Roberto Valturio (1405-1475), godono di un discreto successo e le copie del manoscritto arrivano a superare la decina, ma il contenuto ‘segreto’ dell’opera, destinata alla committenza, spesso di un sovrano, ne limita la diffusione.
Emblematica è l’opera di Leonardo da Vinci che mai pubblicò un suo scritto, perché il ‘saper fare’ è patrimonio di pochi che mantengono ben strette le proprie conoscenze e al limite le proteggono nelle confraternite di appartenenza. E anche se la segretezza dei saperi tecnici continuerà sino a oggi, anche supportata da privilegi e brevetti , diversi sono i nuovi scenari che la stampa apre alla diffusione della conoscenza.
Il Cinquecento può a buon diritto essere definito il ‘rinascimento delle macchine’ perché le arti (e qui si usa questo termine per meglio contestualizzare quei saperi tecnici e pratici che intorno al ‘saper fare’ preparano ai futuri progressi tecnico-scientifici), dall’alchimia alla meccanica, dalla metallurgia all’idraulica, alla stessa chirurgia, in un’armonia sinergica, contribuiscono a preparare il terreno alla grande rivoluzione della nova scientia di Galileo Galilei e di tutti i suoi successori. I progressi nell’arte dei metalli, nella meccanica di precisione, nella chimica delle trasformazioni della materia costituiscono il presupposto per la rivoluzione scientifica – che non sarebbe potuta accadere senza la presenza di accurati strumenti di misura – e per la rivoluzione industriale stessa.
Ma ritornando alla metà del Cinquecento e facendo riferimento alle ‘machine’ e non più agli ingenia, i ‘teatri’ non mancarono di fare sfoggio delle proprie meraviglie. Se nel mondo antico, infatti, gli ingenia erano i prodotti dell’ingegno degli artefici, le macchine, che avevano origine anch’esse proprio nel teatrale deus ex machina, avevano assunto un ruolo diverso, meno etico, di artefatti contro natura, come era stato il cavallo di Troia e come erano state per lunghi secoli le micidiali macchine da guerra. Ora però tutto stava cambiando e le macchine sempre più stupivano sulle scene come nei complessi meccanismi degli orologi e degli astrari, diventando modernamente (si fa per dire) il nuovo paradigma del futuro, della tecnica che prometeicamente forgia il mondo. Si parlerà, infatti, di theatrum machinarum, magari instrumentorum, ma mai più ingeniorum, perché tale termine riportava a un passato ormai da dimenticare.
Nella biblioteca dei teatri di macchine il primo non è italiano, ma francese. Il Theatrum instrumentorum et machinarum è opera di Jacques Besson, «matematico ingegnosissimo del Delfinate», e vide la luce con questo titolo a Lione nel 1578, ma una prima edizione intitolata Livre premier des instruments mathematiques, et méchaniques, servant à l’intelligence de plusieurs choses difficiles et necessaires à toutes Republiques uscì dalla tipografia forse poco dopo il 1569. In quest’opera, a fianco di strumenti «matematici» quali compassi e regoli, vengono presentati macchine utensili, torni e mulini e molte altre macchine a propulsione animale o idraulica, le cui brevi descrizioni in latino portano la firma di Francesco Beroaldo (cum Francisci Beroaldi figurarum declaratione demonstratiua).
Una traduzione in italiano del Theatrum di Besson è stampata da Barthélemy Vincent a Lione nel 1582 (Il theatro de gl’instrumenti et machine di M. Iacopo Bessoni, mathematico de’ nostri tempi eccellentissimo, con una brieve necessaria dichiaration dimonstrativa, di M. Francesco Beroaldo su tutte le figure, che vi son comprese, nuovamente di Latino in volgare Italiano tradotto et di moltissime additioni per tutto aummentato et illustrato pel signor Giulio Paschali Messinese) e proprio questo libro, accompagnato dalla fama del suo autore, contribuisce alla diffusione di tale genere letterario nel nostro Paese.
Il secondo ‘teatro’ porta invece la firma di un italiano. Le diverse et artificiose machine sono opera del Capitano Agostino Ramelli Dal Ponte Della Tresia Ingegniero del Christianissimo Re di Francia et di Pollonia: nelle quali si contengono uarij et industriosi Mouimenti, degni digrandißima speculatione, per cauarne beneficio infinito in ogni sorte d’operatione e, dedicate al re di Francia, furono pubblicate a Parigi nel 1588.
Agostino Ramelli, nato a Ponte Tresa nel 1531, fu ingegnere militare di origini svizzere, il quale, dopo gli studi di matematica e architettura, entrò nell’esercito di Carlo V ottenendo il grado di capitano. Trasferitosi in Francia nel 1571 al servizio del duca di Angiò, futuro re Enrico III, ottenne il ruolo di ingegnere militare partecipando all’assedio della Rochelle con le truppe italiane comandate da Pier Paolo Tornaghi, Paolo Emilio Fieschi e Greghetto Giustiniani. L’opera in folio consta di 195 tavole che illustrano altrettante macchine dove l’idraulica è al centro dell’energia attiva e passiva che mette in moto mulini e alimenta pompe e dà il moto a macchine utensili e organi di sollevamento. La forza umana, aiutata da leve e paranchi, resta pur sempre presente in una tecnologia che stava scoprendo il metallo per gli organi meccanici quali ingranaggi e manovelle, bielle e pulegge. Ma non solo l’idraulica segna un mondo di innovazioni perché il contesto professionale dell’autore porta alla ribalta anche i ponti mobili, le scale per superare i fossati, i martinetti per divellere le inferriate. A fianco dei cannoni, che ormai dominano i campi di battaglia e le postazioni d’assedio, non si dimenticano i trabocchi e le balestre, ma sarà ancora per poco. E lo strano leggio a ruota che permette allo studioso di consultare contemporaneamente un gran numero di libri, con un’immagine resa celebre dalle innumerevoli riproduzioni, anticipa nello spirito i moderni sistemi di consultazione multimediale.
I segreti della seta
Importate dall’Oriente nella Lucchesia, si suppone nel 14° sec., le nuove tecnologie della torcitura della seta si trasferiscono prima a Firenze e quindi a Bologna, dove diventano la principale attività, rendendo la città ricca e conosciuta in tutta Europa. Qui le macchine per torcere il filo, organizzate in modo da poter operare simultaneamente su decine di rocchetti, trovano nella propulsione idraulica fornita da piccole ruote alimentate dai baratroni il loro successo: le chiaviche che scorrono negli scantinati portando l’acqua del Reno attraverso tutta la città subiscono in tal modo un processo innovativo che non ha pari. La produttività di questi opifici, che a buon diritto possono essere considerati prototipo dei moderni sistemi di fabbrica, raggiunge livelli mai visti e le piante da torto, così si chiamano i torcitoi, detengono segreti costruttivi che i setaioli bolognesi custodiscono con la massima gelosia.
Afferma Carlo Poni, nella sua introduzione alla riedizione (1985) dell’opera di Vittorio Zonca, che con le sue ricerche sull’economia preindustriale in Italia ha disegnato in maniera originale ed esaustiva le vicende del «mulino da seta alla bolognese»:
Malgrado ostinate e lunghe ricerche in archivi e biblioteche non sono ancora riuscito a trovare disegni bolognesi dei mulini ‘alla bolognese’. L’ossessiva e gelosa preoccupazione di conservare il monopolio della macchina e quindi del suo know how sembra aver avuto soprattutto l’effetto di cancellarne la rappresentazione nella memoria archivistica della città. Corrisponde invece alla tassonomia del manoscritto oxoniense uno schizzo eseguito a Trento, durante il viaggio in Italia, dall’architetto tedesco Heinrich Schickhart. Questo disegno, che risale al 1599, contiene la prima rappresentazione del mulino da seta ‘exactly alla bolognese’. Notiamo la ruota idraulica, le rocchelle e persino l’incannatoio meccanico, elemento fondamentale nel processo di torcitura per trasferire il filato ritorto dalle matasse sugli aspi, ai rocchetti. Quest’ultimo è situato di fianco al mulino.
Questo disegno è un’eccezione perché è probabilmente il frutto di un’azione di spionaggio protoindustriale, come accadrà anche in seguito, anche se si sono (naturalmente) perse le tracce di ciò nei disegni e nelle relazioni.
Alcuni anni più tardi, e precisamente nel 1607, viene stampato a Padova da Pietro Bertelli il Novo teatro di machine et edificii per varie et sicure operationi, con le loro figure tagliate in rame e la dichiaratione et dimostratione di ciascuna. Opera necessaria ad architetti et a quelli che di tale studio si dilettano. L’autore è Vittorio Zonca (1568-1602), già «architetto della magnifica communità di Padova», dove dal 1592 nello Studio della città insegnava Galilei il quale, pur se mai menziona il suddetto architetto, più volte ebbe modo di esprimere i suoi interessi per le innovazioni della tecnica che nella Repubblica veneta, e in specie all’Arsenale, venivano sviluppate.
Il Novo teatro, il primo stampato in Italia, è fondamentale nella storia di questo genere letterario a livello europeo perché in esso si consolidano alcuni dei paradigmi della comunicazione tecnica destinata anche a un pubblico colto e non necessariamente di specialisti. Ma su questi temi si ritornerà più avanti perché qui è necessario soffermare l’attenzione sul filatoio ad acqua, illustrato in due tavole e descritto dalla pagina 68 alla pagina 75.
Bellissima anzi meravigliosa è la fabrica del Filatoio ad acqua, percioche si vede in essa tanti movimenti di ruote, fusi, rotelle & arte sorti di legni per traverso, per lo lungo, & per diagonale, che l’occhio vi si smarisce dentro à pensarvi, come l’ingegno humano habbia potuto capire tanta varietà di cose, di tanti movimenti contrarij mossi da una sol ruota, che ha il moto innanimato.
Quali Filatori non pur filano la seta, cioè l’avolgon attorno ai naspi, ma la intorceno più, e meno secondo il bisogno, si per lavorarla, come per tesserne i panni di seta. Primeramente ha questa Machina il motore gagliardo, che è l’acqua corrente, la quale si rinchiude in un canale, con la sua porta, & l’argano per aprirla, si come è costume di fare ne i Molini terragni, & dare il movimento alla ruota.
Nel disegno di Zonca compare solamente il torcitoio, ma forse proprio nell’incannatoio, che non è riprodotto, come ha fatto rilevare Poni, risiede il ‘segreto’ della torcitura: il segreto rimane ben conservato e lascia soltanto spazio alle congetture.
Sappiamo che la pubblicazione del Teatro non fu causa di nessuna pubblica diatriba da parte dei filatori perché la pubblicazione delle due tavole nulla svelava del «torcitoio da acqua»: i ‘segreti’ non sono nella struttura, ma piuttosto in una miriade di accorgimenti che si sono affinati lungo un lento e costante processo di innovazioni che non solo riguardavano materiali e strutture del torcitoio, ma coinvolgevano l’intero processo produttivo, dalla trattura delle bave dei bozzoli, sino alla tessitura dei veli. Il Novo teatro dimostrava così di non essere un manuale tecnico, un libro per specialisti e men che meno una memoria progettuale, ma solamente un elemento nell’importante processo di diffusione della promozione ‘politica’ della tecnologia e dell’industria, come negli stessi anni veniva esplicitamente dichiarato da Francis Bacon (1561-1626) nelle sue opere.
La seta al di là dei teatri
I veli di seta prodotti a Bologna manterranno così il loro primato per tutto il 17° sec. sino a che, anche a seguito di intriganti casi di spionaggio industriale, nuovi centri di produzione si insediarono in Lombardia, in Veneto e, soprattutto, in Piemonte. A Torino – racconta un mercante inglese – esistevano mulini da seta «exactly alla bolognese» che lavoravano solo la seta «superfine». La «fabrique of superfine silke» era stata introdotta nel 1664.
Sono note le vicende del progetto di un «filatoio ad acqua» presentato al sindaco della città di Torino, Alessandro Cova, il 13 ottobre 1663 da Giovan Francesco Galleani, «nativo di questa città, desideroso di ripatriare et introdurre lavori di seta in organzini alla vera bolognese con l’acqua», chiedendo che la città costruisse «la fabbrica con il suo voltone per piantarvi l’edificio et li roddoni dell’acqua, […] et di più la fabrica per le habitationi di lui et delli operari». Il fermento di attività intorno alla meccanizzazione degli impianti serici, fra il gennaio e l’agosto di quel medesimo 1663, vede un fitto carteggio fra le città di Torino, Parma e Piacenza, perché un «marchese» torinese, intenzionato a costruire un «edificio da seta», chiese al medico Giovanni Battista Sicca, trasferitosi a Parma come medico della principessa Margherita, sorella del duca Carlo Emanuele II, di inviargli un filatore provetto e altri esperti nella costruzione di mulini e nella lavorazione della seta. Ma nel momento in cui il mercato sembrò entrare in crisi il progetto sfumò e sarà Galleani a iniziare la fortuna del moulin du Piémont, accompagnando l’introduzione dei mulini «exactly alla bolognese» con un radicale cambiamento e un miglioramento a monte delle tecniche di trattura, supportate anche da nuovi Regolamenti. La fuga di tecnici da Bologna continuerà e nel 1681, in una «Conventione [della Città di Torino] con il Signor Girolamo Pinardi», proveniente dalla città di Bologna, si parla esplicitamente di «un edificio di due ruote per due filatori da setta». L’anonimo viaggiatore inglese – già citato da Poni – non si era interessato solo di torcitura. Era stato attento anche alle tecniche a monte e a valle. Annota inoltre che il mercante Ormesano aveva importato da Haarlem (in Olanda) un «engine loome» dotato di un «ingenious wheel» a fianco del quale le macchine per la trattura, come quella inventata in più versioni da Carlo Fogliarino tra il 1719 e il 1735, avrebbero permesso di ottenere qualità e uniformità nei prodotti serici del Piemonte mai raggiunti in altra parte d’Europa.
Di queste vicende però nulla traspare nei ‘teatri’, da quello di Zonca a quelli che si succederanno in Italia, ma anche nell’intera Europa, e quando questo genere letterario sarà assimilato e amplificato nello spirito enciclopedista del secolo dei lumi, saranno proprio le planches dell’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert a comunicare per immagini al grande pubblico della societé savante le meraviglie della tecnica.
Alla voce Soierie, nelle planches dell’Encyclopédie, l’VIII tavola ricopia, nella struttura iconografica, la famosa illustrazione di Zonca. Le due piante da torto, mosse da un albero di trasmissione posto sotto il pavimento, trascinato dall’azione di una ruota idraulica, sono diverse, ma in realtà illustrano le due strutture cilindriche coassiali del meccanismo. A sinistra è il cilindro interno, o giostra, rotante, che trasmette il moto al sistema di torcitura per mezzo dei serpi e delle ruote a bolzoni. Queste ultime sono ad asse fisso e fanno parte della struttura esterna, giacendo in piani meridiani. I serpi, che hanno forma di arco di spirale, a ogni passaggio, spostano i bolzoni, facendone girare la ruota. Essi provocano così il moto principale del torcitoio, che permette di svolgere, e torcere, il filo dai rocchetti agli aspi, ovvero alle rocchelle. La combinazione del movimento che svolge il filo e lo riavvolge, quello che provoca la sua torcitura sotto una regolata tensione, e il moto di va e vieni che regolarizza l’avvolgimento del filo evitandone accavallamenti sono ottenuti con dispositivi meccanici che utilizzano ruote dentate e semplici manovellismi e glifi. Il «moulin de Piémont à strafins propre à organsiner les soies» che compare nell’Encyclopédie sarà un punto fermo nell’evoluzione del torcitoio da seta, che manterrà la struttura circolare ancora a lungo.
La seta non è solo motore della protoindustria italiana, ma anche l’ambiente naturale in cui una cultura attenta all’innovazione tecnica cerca di allargare i propri orizzonti.
Francesco Griselini era nato a Venezia il 12 agosto 1717, da Marco, tessitore e tintore di seta; la madre proveniva da una famiglia milanese di commercianti di seta. Autodidatta, si appassionò di lettere e belle arti, ma anche di quella scienza che fioriva nella buona società veneta. Conscio del valore comunicativo dell’iconografia in una società che si stava aprendo ai nuovi scenari dei lumi, molto versato nelle arti grafiche, si applicò al disegno con la realizzazione di illustrazioni per libri, carte geografiche, ma anche ricami definendosi «dilettante in geometria ed in architettura militare» per diventare alla metà degli anni Cinquanta l’incisore dei librai Pietro e Giovanni Maria Bassaglia, titolari di una delle più note botteghe-librerie di Venezia. Nel 1768 presso l’editore veneziano Modesto Fenzo iniziò a curare il Dizionario delle arti e de’ mestieri che seguirà fino al 1778 quando l’opera verrà presa in mano dall’abate Marco Fassadoni il quale concluderà l’opera con il diciottesimo volume. Nel 1769 Griselini dedicò il quinto volume del Dizionario delle arti e de’ mestieri «Agl’Illustri, ed Onorati Signori fabbricatori e mercadanti di pannilani della magnifica terra di Schio». Se pure con un diverso registro rispetto all’Encyclopédie, il Dizionario, raccolta di «quanto di migliore da uomini celebri e pieni di patriottismo è stato pubblicato in differenti luoghi e in differenti tempi», può considerarsi l’ultimo stadio dell’evoluzione italiana dei ‘teatri’ non più solamente rassegna iconografica, ma anche «dizionario ragionato».
Teatri e macchine: da Padova a Roma e oltre
Zonca, nel suo Novo teatro di machine et edificii, da ingegnere consapevole che, come aveva affermato Guidobaldo del Monte, «mechanico è vocabolo onoratissimo», modifica e approfondisce il rapporto con la macchina che diventa nuova protagonista della cultura del tempo. La sua opera non si limita a mostrare le curiosità degli «strani ed ingegnosi meccanismi», ma li penetra con profondità, ne mostra gli spaccati e gli esplosi in cui ciascun componente della macchina costituisce un elemento di un sillogismo tecnologico. La prima tavola del libro presenta una Vite chiamata perpetua che alza grandissimi pesi. Si tratta di un argano comandato da una manovella che pone in rotazione una vite senza fine. Al di là della tecnica costruttiva, che evidenzia in modo molto chiaro la presenza del metallo in un congegno già noto dai secoli precedenti, l’iconografia qui presentata con una chiara incisione in rame introduce tre nuove caratteristiche nel disegno tecnico. La presenza della vista esplosa e dello spaccato che danno modo di evidenziare anche i particolari nascosti si accompagna qui per la prima volta alla presenza della scala grafica, sino allora usata esclusivamente nelle planimetrie di terreni ed edifici. Ma poiché la rappresentazione delle macchine comporta anche una particolare attenzione alla terza dimensione, ecco che inaspettatamente si abbandona la realistica vista prospettica per adottare quella assonometrica che, ponendo il punto di fuga all’infinito, dà all’osservatore anche la possibilità di avere un’esatta misura della profondità degli oggetti.
Le macchine di Zonca, tra le quali si è già anticipato il filatoio ad acqua, appartengono a varie categorie: dagli argani per i cantieri delle costruzioni alle chiuse per i canali, dai mulini terragni ad acqua a quelli mossi dagli animali, dalle mole per arrotare le armi ai folloni, dalle presse per l’olio a quelle per l’industria tessile. Ma si trovano anche i torchi per la stampa come le trafile per il piombo delle vetrate, i mortai per la polvere da sparo come le peste per la carta. Le pompe idrauliche, presenti in alcuni degli ultimi disegni, segnano un nuovo capitolo che sarà sviluppato ampiamente nei successivi ‘teatri’ e l’«altra machina da voltar spiedi col movimento del fumo», che ricorda un famoso disegno leonardesco, ci fa sorridere. Stupisce, ma bisognerebbe meglio approfondire lo spirito con cui l’illustre ingegnere padovano la presenta, l’ultima macchina «a levar acque con un moto perpetuo».
Per levar’acque con perpetuo moto si dimostra nella presente tavola una invenzione non mai più usata, con la quale si potrà fare un moto continuo, il quale da se stesso leverà l’acqua, come sarà inviato solamente la prima volta, & in questa tavola noi dimettiamo che ne leverà tanta, che girarà un mulino.
Supporre che un sifone innescato possa indurre il moto continuo di un flusso d’acqua tra due serbatoi posti allo stesso livello è cosa assurda, ma Zonca non fu il solo a porre tali congetture. Anche Alessandro Capra (m. 1685 ca.), nella terza parte della sua Nuova architettura civile, e militare, opera che solo parzialmente si può annoverare nel genere dei ‘teatri’, stampata con licenza de’ Superiori a Cremona nel 1717, dedicherà un breve capitolo a una «Ruota che dev’essere perpetua nel fare il suo moto».
Nel 1615 Fausto Veranzio (1551-1617) pubblicò a Venezia le Machinae novae, un ‘teatro’ che descrive in 49 incisioni altrettante macchine e invenzioni che non sempre presentano l’assoluto carattere della novità, ma seguono lo stile delle opere che l’hanno preceduto. Famoso nella tradizione è il suo homovolvens che descrive il paracadute, ma da ricordare sono gli innovativi ponte sospeso e quello strallato. I suoi meccanismi dimostrano una profonda intuizione del principio di composizione delle forze. Le descrizioni che accompagnano le immagini sono redatte in cinque lingue (italiano, latino, tedesco, spagnolo, francese): Veranzio, infatti, non è soltanto un ingegnere militare, ma anche un erudito, un linguista, un logico e un teologo.
Molti «theatri» si aprono con fontane e giochi d’acqua, ‘macchine’ certamente progettate e costruite per stupire più che per lavorare. Eccelle in questo senso, ma non solo, la raccolta dei disegni di più di cento macchine idrauliche collazionata dall’antiquario romano Jacopo Strada, pubblicata dal nipote Ottavio con i titoli La premiere partie des desseins artificiaulx de toutes sortes des moulins a vent, a l’eau, a Cheval & a la main […] par feu le Tresnoble Seigneur Iacques de Strada a Rosberg, Bourgeoise Romain, Antiquaire & Commissaire de guerre des Empp. Ferdinand, Maximilian & Rodolphe II, maintenant mis en lumiere par Octave de Strada a Rosberg, Bourgeois Romain, Nepueu & heritier unique du dit Seigneur (1617) e La seconde partie des desseins artificiaulx de toutes sortes des moulins a vent, a l’eau, a Cheval & a la main […] (1618). Queste macchine diventeranno nel 1661 la parte preponderante del Theatrum machinarum novum pubblicato a Norimberga da Georg Andreas Böckler.
La raccolta dei disegni di macchine idrauliche di Ottavio Strada (Variae ac faciles molendina construendi inventiones […]) è presente tra i manoscritti dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, ed essi contribuiscono ulteriormente a convalidare la tesi di una ‘ideologia’ di base che vede nell’acqua il protagonista di un’epoca in cui la tecnica non è solo utilità, ma anche divertimento, prestigio, status symbol. L’ingegneria idraulica non è semplicemente una nuova frontiera da esplorare, ma è anche il mezzo con cui la ‘classe’ degli ingegneri cerca un nuovo posto accanto ai potenti. E tutto ciò trova conferma nel fatto che un antiquario come Jacopo Strada, accreditato presso la corte imperiale di Vienna, così importante da essere ritratto da Tiziano, abbia prestato cotanta attenzione a oggetti normalmente di pertinenza di artigiani e stagnini, collazionandone le innumerevoli versioni, come se fossero nuove specie appartenenti al Regno naturale.
Lucio Abramo Perci pubblica a Napoli nel 1624 un Theatrum theatrorum machinarum che riprende temi e iconografie dei precedenti. Nel 1629 viene stampato a Roma il ‘teatro’ Le machine. Il suo autore è Giovanni Branca (1571-1645), ingegnere architetto che dal 1616 è anche amministratore della Sacra casa di Loreto, dove progetta ed edifica monumenti funebri e migliora le fortificazioni. Interessato alla costruzione di strumenti meccanici ne compose una collezione che donò al governatore di Loreto, Tiberio Cenci. Le machine è un libro in ottavo illustrato da 63 xilografie che appare assai più modesto degli altri ‘teatri’; in esso la macchina più famosa rappresenta una turbina a vapore, con caldaia e ruota a pale, ma permane il dubbio che essa sia rimasta solamente al livello di prototipo dimostrativo. Altre macchine, invece, rivelano la sensibilità dell’ingegnere come, per es., il tornio destinato a lavorare le spine coniche dei rubinetti.
I ‘teatri’ continuano per tutto il 17° sec. a occupare un posto d’onore nelle biblioteche e numerose saranno le loro riedizioni: Zonca è ristampato da Francesco Bertelli nel 1621 e, successivamente, nel 1656. A dimostrare il successo dei ‘teatri’ anche al di là dei confini europei, come ha evidenziato Joseph Needham (Science and civilization in China, 1954-2004), alcune tavole del Novo teatro di machine et edificii appaiono, nel 1627, assieme alla traduzione dei testi in cinese, effettuata da Johann Schreck e da Wang Zheng, nel volume Yuanxi Qiqi Tushuo Luzui (Arti meccaniche europee. Disegni e spiegazioni delle meravigliose machine del Lontano Occidente).
Ampi riferimenti alle Diverse et artificiose machine del Capitano Agostino Ramelli si ritroveranno ancora nel Theatrum machinarum pubblicato da Jacob Leupold dal 1724 al 1739 a Lipsia.
Le macchine, nuovi oggetti di culto: da Roma a Norimberga
Come già anticipato, nel 1661 appare a Norimberga il Theatrum machinarum novum di Georg Andreas Böckler, nato probabilmente a Strasburgo agli inizi del 17° secolo. Ingegnere e costruttore civile, si hanno notizie di suoi lavori dal 1644, periodo in cui si trovava a lavorare a Strasburgo. Si è informati di suoi interventi a Francoforte e a Norimberga, sin quando, nel 1679, al servizio del marchese Johannes Friedrich di Brandeburgo, costruì il Teatro di Ausbach. Tra il 1684 e il 1685 progettò e diresse i lavori per la costruzione della Herrider Tortum. Il Theatrum machinarum novum contiene in 154 tavole all’acquaforte una completa descrizione di mulini e di pompe idrauliche che fanno direttamente riferimento al corpus di illustrazioni raccolto da Jacopo Strada. Si legge infatti nella Praefatio ad techniphilum lectorem:
Non vogliamo in verità che il Lettore amante delle cose tecniche ignori che, ormai sono molti anni, il signor Jacopo de Strada da Rosberg, Cittadino Romano, Antiquario ecc. degli imperatori Ferdinando, Massimiliano e Rodolfo II, collazionò [immagini] di ogni genere di mulini utili e di altre macchine idrauliche, le quali, se fosse sopravvissuto, avrebbe descritto con maggiore dovizia di particolari e più chiaramente. Nondimeno tuttavia dopo la sua morte, il nipote di datto signor de Strada, il signor Ottavio de Strada non volle lasciare nelle tenebre queste descrizioni di mulini e macchine idrauliche, ma le affidò al torchio e le portò alla luce in prima edizione nell’anno 1618 e in seconda nell’anno 1629. E sebbene dette descrizioni e disegni fossero abbastanza oscure e disordinate, e le spiegazioni delle medesime fossero troppo brevi, tuttavia presso uno e un altro artefice e ingegnere fino a questo punto diedero il loro frutto non trascurabile.
Con la pubblicazione delle tavole degli Strada, opportunamente integrate e nuovamente ordinate, Böckler, riprendendo temi classici della tradizione dei teatri, fa una distinzione tra una meccanica volgare e una meccanica speculativa, che da Dio, sapientissimo artefice, è stata assegnata agli uomini. Traendo le proprie origini dalla geometria e dalla fisica, la meccanica è speculativa perché il numero, il peso e la misura sono entità fondamentali per ogni ragionamento. La natura «ideale» e «simbolica» della macchina secondo Böckler deve armonizzarsi con la sua dimensione più concreta.
La meccanica è speculativa poiché attraverso l’intelletto e la ragione soltanto questa parte si perfeziona nell’animo. Con i concetti di numero, peso e misura, nelle quali il sapientissimo artefice Dio creò e dispose tutte le creature, di questa prima parte della Meccanica, da alcuni secoli, molti celebri e valenti uomini, come dappertutto è evidente, produssero scritti in maniera chiara e circostanziata: di essi sarebbe superfluo qui aggiungere e rimettiamo pertanto colà al Lettore studioso.
La rassegna delle macchine idrauliche di Böckler, come ancor più quella degli Strada, in molti aspetti assomiglia a una iconologia della grande famiglia a cui appartengono gli Emblemata di Andrea Alciati e questa sublimazione è confermata e amplificata nella traduzione latina dove i molendina si tramutano in una famiglia di nomi le cui radici etimologiche si connettono direttamente alla lingua greca.
Il mulino mosso dalla forza dell’uomo (manuaria mola) diventa kiromylos, quello mosso dai piedi pateomylos; e così proseguendo si trovano: hippomylos (mulino mosso da cavalli), baromylos (mulino mosso da un contrappeso), anemomylos (mulino mosso dal vento), bumylos (mulino mosso da buoi), hydromylos (mulino idraulico), hydrotechnema (macchina idraulica), haustrum (abbeveratoio), antlergon (pompa a stantuffo) e così via. I ‘teatri’ sono tassonomie che classificano, analizzano e dissezionano i tipi di una natura artificialis la cui filogenesi sta producendo giorno dopo giorno nuove specie.
Le Variae ac faciles molendina construendi inventiones pacis et belli tempore admodum necessariae quibus diversa […] del manoscritto mediceo di Ottavio Strada sono la carta d’identità di un erudito collezionista che ha compreso appieno l’evoluzione del suo mondo. L’opera, forse non del tutto consapevole di Ottavio, che diffonde a stampa le idee di Jacopo, anticipa ciò che solo molto più tardi sarà all’origine della fama di Böckler.
Il disegno della macchina diventa un exemplum e trova il suo apogeo nella raccolta proprio di un antiquario, di un collezionista, di un numismatico a servizio dei più potenti imperatori del secolo e il Theatrum del 1662 sarà ‘novum’ perché, pur fondandosi su un sapere ormai passato, ne trascende l’essenza e la proietta verso una dimensione che va ben oltre le aspettative dei tecnici.
Jacopo Strada non è un ingegnarius e le sue conoscenze relative alle macchine non si sono spinte molto oltre l’aspetto esteriore, iconografico, ma il valore dell’impresa dello Strada sta nell’avere collazionato un sistema iconografico che riesce nella sua completezza a dare ragione dei radicali mutamenti della cultura e della società barocca. L’antiporta del Theatrum di Böckler ricopia con buona fedeltà il frontespizio della Premiere partie des desseins artificiaulx. Anche se «Vitruvius» si è trasformato in «Mechanicus» (ma «Archimedes» resta tale) il messaggio centrale rimane lo stesso. All’interno della ‘scena’ dei Desseins è il titolo e il colophon del libro. In quella di Böckler è la Natura, che sempre di più assume caratteristiche antropizzate e subisce l’impatto delle macchine.
Un epilogo europeo
Appartenente alla medesima scuola di Böckler, Jacob Leupold (1674-1727), ingegnere e costruttore a Lipsia, scriverà un Theatrum destinato ad anticipare per molti versi la stessa Encyclopédie. Leupold è anche inventore e a lui può essere ascritta una delle prime macchine a vapore ‘atmosferiche’. «Mathematico und Mechanico», è consulente del re di Prussia, membro dell’Accademia delle scienze di Berlino e, a dimostrare le sua presenza nel nostro Paese, è membro dell’Academia dell’onore letterario in Forlì. L’intera sua opera si colloca al termine di un periodo che copre l’arco di centocinquant’anni, e riassume tutte le esperienze passate che puntualmente, come già si è fatto cenno, trovano ampie citazioni, da Ramelli a Zonca. Con una maggiore sistematicità dei precedenti nella presentazione degli argomenti, il Theatrum machinarum è pubblicato in cinque volumi tra il 1724 e il 1725 a Lipsia.
Seguiranno in Europa, e non più in Italia, altri teatri di macchine di varia importanza, anche se redatti da famosi tecnici e ingegneri come Weidlerhus (1728), Polhem (1729), König (1752), ma è con Leupold che si conclude un genere letterario scritto per un pubblico colto e non specialistico, e si apre il grande capitolo della trattatistica settecentesca, passando il testimone per quanto riguarda la promozione del sapere tecnologico alle enciclopedie.
Bibliografia
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G. Federico, Il filo d’oro. L’industria mondiale della seta dalla restaurazione alla grande crisi, Venezia 1994.
Macchine da teatro e teatri di macchine: Branca, Sabbatini, Torelli scenotecnici e meccanici del Seicento, catalogo della mostra, Pesaro, Palazzo ducale, 29 luglio-29 agosto 1995, a cura di E. Gamba, V. Montebelli, Urbino 1995.
M. Popplow, J. Renn, Ingegneria e macchine, in Storia della scienza, Istituto della Enciclopedia Italiana, 5° vol., La rivoluzione scientifica, Roma 2002, cap. XV.
L’Album fiorentino dei “Disegni artificiali” raccolti da Jacopo e Ottavio Strada, a cura di V. Marchis, L. Dolza, Roma 2002.
V. Marchis, Storia delle macchine. Tre millenni di cultura tecnologica, nuova ed. riv. e accresciuta, Roma-Bari 2005.
L. Dolza, I primi teatri di macchine nella cultura del tardo Cinquecento, Milano 2009.
C. Poni, La seta in Italia. Una grande industria prima della rivoluzione industriale, a cura di V.R. Gruder, E. Leites, R. Scazzieri, Bologna 2009.