I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille
Una testimonianza letteraria ben nota, la Translatio sancti Marci, che la critica colloca di solito oltre la metà del secolo XI, ma che per buoni se non decisivi indizi si potrebbe retrodatare di almeno 70 anni, al declino di Pietro IV Candiano (verso il 976), parla dei Venetici come di una gens devota alla fede cattolica (catholicefidei cultrix), pronta a seguire la legge di Dio (divinis preceptis libenter intenta), incapace di commettere furti, rapine, prepotenze (in cuius terra non sunt furta, non latrocinia, nemo iniuste aliquem angarizat), e anzi sempre fedele interprete della volontà di Dio (sed ea patrantur quae Deo Tacita sunt) (1). E si noti: nessuno allora, tranne chi deteneva il potere, poteva dirsi fedele interprete della volontà di Dio (2).
L'elogio, che ha avuto una fortuna immensa nella pubblicistica lagunare e si può ritenere la prima pietra del mito di Venezia (3), attende ancora di essere analizzato e radicato nel contesto che gli è proprio, ma intanto serve a impostare il tema degli atteggiamenti religiosi di un popolo. Ci si chiede come mai, fin dagli inizi, fu scelta, almeno come linea ufficiale, la strada della tranquilla ortodossia, dell'innocenza rispetto ai peccati più diffusi, del sentirsi tutt'uno con Dio (non, si badi, almeno nel testo della Translatio sancti Marci con la Chiesa, con il papato) (4). C'è il fondato sospetto che non di scelta si tratti, e men che mai di una scelta "furba", ossia di una copertura di comodo - "prima Veneziani e poi cristiani" si continua a ripetere (5) -; bensì di un approdo forzato dagli eventi, del tutto imprevisto. Può essere, cioè, che quella dei Veneziani sia una religione cresciuta tra difficoltà e tempeste, perfino con il rischio del naufragio, in stretta connessione con la loro vicenda politica, con le loro avventure mercantili, e quindi in gran parte da riscoprire.
Con l'avvento dei Carolingi, spinta importante per il plasmarsi di una identità "venefica" se non veneziana, la religione che si afferma sulle lagune comincia ad assumere l'impronta del nuovo Impero sacro e romano. Mentre il greco Cristoforo, vescovo di Olivolo, supposto traduttore in latino dell'Inno acatisto in onore della Vergine, veniva costretto all'esilio o a un ruolo in sottordine (segno dell'indebolirsi della tradizionale impronta bizantina) (6), occupava letteralmente la scena il patriarca Fortunato, un ecclesiastico tutt'altro che "sottile" sul piano teologico, fors'anche non immune da simonia e saccheggi, certamente un cattivo ministro (almeno a giudizio del papa), ma abilissimo nell'ottenere la fiducia e i benefici dell'"augusto" Carlo (7). Si può anche sostenere che, a partire da quest'epoca, cominciano a trapassare sulla laguna atteggiamenti mentali e di cultura largamente diffusi nella tradizione franca, se non longobarda: ad esempio, il fatto di esercitare il potere in simbiosi con gli uomini di Chiesa (Carlo prendeva le grandi decisioni politiche insieme con i sacerdoti e gli altri Grandi, una cum sacerdotibus vel ceteris obtimatibus suis; negli atti veneziani gli ecclesiastici sottoscrivevano subito dopo il duca) (8); oppure il fatto di appoggiarsi a chiese e monasteri, a preti e monaci in quanto pilastro portante del potere e garanzia concreta di salvezza in questa vita e nell'altra: a vantaggio del "regno" come dicono i documenti carolingi; o a vantaggio dell'anima del duca e dei suoi "parenti", come dicono quelli veneziani (9).
In ogni caso, sia che prendesse piede la religione dei Franchi, sia che ci fossero soprassalti di quella bizantina (ancora nell'806, o forse prima, i Venetici, d'accordo con i Graeci, avevano costretto alla fuga il patriarca Fortunato) (10), si trattava pur sempre di una copertura "straniera", non del tutto affidabile, in cui era arduo integrarsi e da cui semmai contava fuggire (sono frutto di un disagio ad essa connesso le conversioni monastiche, specie femminili, che interessano in questi anni grandi famiglie?) (11). E invece stava sbocciando il desiderio di una religione "domestica", costruita su misura delle esigenze indigene, accogliente e duratura.
Già si notano tentativi per renderla operante: nella donazione fatta dai duchi Agnello e Giustiniano all'abate di S. Servolo nell'819 il dato rilevante, a parte l'assunzione della Regola di s. Benedetto (altro aspetto mutuato dall'Occidente carolingio) (12), è il privilegio di esenzione conferito al monastero per il quale nessuna autorità laica ed ecclesiastica poteva esercitare su di esso giurisdizione spirituale o temporale (13). Non era questo un modo per fare dell'abbazia la cellula di una Chiesa separata e autonoma? E un ancora più preciso significato sembra avere l'esenzione dichiarata nel testamento dello stesso duca Giustiniano a vantaggio del monastero femminile di S. Zaccaria, per il quale si configura l'adozione della Regula Magistri, che può essere interpretata come segno di una presa di distanza dal mondo carolingio (14).
Sarebbe incongruo e prematuro, dato anche il carattere non chiaramente "pubblico" degli atti in questione, parlare di una Chiesa monastica dipendente dal duca; ma certamente siamo di fronte a qualcosa di più di una fondazione privata, ossia della già diffusa tendenza, tipica dei maiores della laguna, di possedere in proprio strumenti salvifici quali basilicae e reliquie (15). In effetti, anche i Venetici, non soltanto come singole famiglie ma anche come popolo, né più né meno di altri popoli dell'Italia padana (sono quasi coeve le fondazioni di S. Zeno di Verona e di S. Ambrogio di Milano) (16), tendevano a eludere la Chiesa dei vescovi "stranieri" o dei vescovi legati a poteri esterni per quanto superiori, e a costituirne una di abati e badesse che fossero loro creature.
Tutto ciò, peraltro, non toglieva il fatto che l'abbozzo di Chiesa domestica pur faticosamente edificato restava "minore" rispetto alla ben strutturata Chiesa "maggiore" del patriarca e del vescovo, lasciando in gran parte insoddisfatto il bisogno di una religione autonoma. Nell'825-826 Venerio di Grado, in una lettera diretta a Ludovico e a Lotario, chiamava Agnello e Giustiniano filii nostri e fideles vostri, a sottolineare la doppia soggezione, pur di segno diverso, al patriarcato e all'Impero in cui sempre si trovavano i duchi lagunari. E si dice esplicitamente che cosa comportava quella soggezione: un affidarsi totale, senza riserve, all'episcopus in quanto ripieno della doctrina dello Spirito Santo e quindi in grado di prescindere dalle humanae institutiones, e nell'accettare in tutto e per tutto il principatus dei piissimi imperatores, il cui compito, rispetto alla fede, era quello di custodirla gelosamente quand'era retta e sana e di guarirla con la giusta medicina ove fosse languente e corrotta (17). Non per nulla si stava diffondendo l'idea - e si diffondeva, ovviamente, presso le sedi ecclesiastiche più importanti come Ravenna e Milano - che due erano i poteri legittimi e necessari, l'episcopale e il regio; anche se il primo valeva più del secondo (episcopus plus est quam rex purpuratus et auratus), come scrisse Agnello Ravennate (18).
La Chiesa domestica sarebbe rimasta chissà per quanto "minore" e marginale se le vicende di quella "maggiore" non avessero creato varchi imprevisti per la sua crescita, se non proprio per la sua completa affermazione.
Un primo episodio di rilievo, tendente a modificare dall'alto il quadro della vita religiosa venetica, ha un protagonista ben preciso: il già citato Venerio di Grado. Costui, entrato in dissidio con il patriarca di Aquileia che nella sinodo di Mantova dell'827 aveva fatto declassare la sua sede a semplice pieve, non sperò aiuti dall'imperatore Ludovico (che non poteva non favorire il suo avversario), men che mai dai duchi venetici (ancora incapaci di un'azione politica a largo raggio), bensì dal papa di Roma. Lo celebra per l'occasione come il vicario di Dio in terra, il successore di Pietro, l'unica e assoluta potestas cui ricorrere con fiducia perché - e qui sembra echeggiare passidi un sermo di Leone Magno - forte e inflessibile di fronte a tutti (quem nullus a recto tramite deviare potest, non principum favores, non subditorum varice suggestiones) (19). Straordinario: per la prima volta, sulla laguna, veniva affermato e invocato il primato del papa a copertura dei diritti della sede patriarcale. Ovvero, per conseguenza, al posto del potere franco operante attraverso i suoi ecclesiastici, Roma stessa, direttamente, avrebbe dovuto dare la sua impronta alla religione venetica.
Sennonché, alla prova dei fatti, il collegamento non funzionò: il papa rimase assente e lontano; continuò a incombere, con l'appoggio imperiale, il patriarca di Aquileia, sicché Venerio di Grado si trovò isolato ed esposto, con i suoi duchi e il suo popolo, al rischio di nuove umiliazioni. Fu in questo contesto che maturò l'idea del riscatto con il ricorso a un altro potente protettore e alleato che non deludesse. E siamo al secondo episodio, questa volta di importanza decisiva.
Alla sinodo mantovana dell'827 (già ricordata), a sostegno della superiorità indiscussa di Aquileia su Grado, si addusse, sulla base di una tradizione già esistente (20), la figura dell'evangelista Marco: fu lui - si dichiarò - che in quanto inviato da Pietro principe degli Apostoli portò in Aquileia la vera fede di Cristo; fu lui che poi ritornò a Roma per far ordinare, dallo stesso Pietro, Ermacora come proprio successore (Hermachoram proton Italiae pontificem constituit). In altri termini, Marco in persona, in obbedienza a Pietro, aveva fondato la "metropoli" di Aquileia; e nessuno tranne un "eretico" d'accordo con i Greci interessati al dominio sull'Istria - poteva incrinare l'unità di questa sede accampando diritti su Grado (21).
L' "eretico ", manco a dirlo, era Venerio, patriarca di Grado. Il quale, come schiacciato da un'accusa così motivata, pur gridando allo scandalo consumato contra Deum et canonum instituta e appellandosi a sua volta al giudizio del successore di Pietro, nulla osò dire (siamo nella primavera dell'828) contro l'asserita fondazione marciana di Aquileia, e neppure si scolpò dal sospetto di collusione con i Greci (22). Ma, nel giro di un solo anno, ecco la notizia che segna una svolta sorprendente: nella parte finale del suo testamento il duca Giustiniano parla del corpo di s. Marco come già presente a Venezia, e ordina a sua moglie Felicita di innalzare una basilica in suo onore infra territorio Sancti Zacharie (23).
S. Marco, colui che scrisse il suo Vangelo Petro dictante (24), a Venezia! Bisogna calarsi nella mentalità del tempo - una mentalità assetata di segni e di reliquie, bisognosa di toccare con mano la predilezione divina - per valutare appieno il senso di questo "avvento" improvviso. Se, infatti, ogni corpo santo, per il fatto stesso di giungere in una sede nuova, produceva effetti mirabolanti - guariva tensioni e malattie, creava concordia, conferiva prestigio e potenza, plasmava una identità, perfino un ruolo politico (25) -, quali e quanti benefici avrà mai provocato un corpo speciale come quello del grande evangelista. Certamente consentì a Venerio di Grado una rivincita ideale sulla sinodo mantovana: se il patriarca di Aquileia di Marco vantava una visita fugace alla sua civitas, ora egli di Marco poteva vantare il possesso duraturo delle spoglie. Ossia, il binomio Pietro-Marco si ricomponeva a favore di Grado; e il papa, successore di Pietro, ora sapeva quale sede privilegiare (26).
Non c'è dubbio, poi, che anche il vescovo di Olivolo ne fu gratificato; e gratificato al punto da indursi a una scelta coraggiosa se non rivoluzionaria: al posto della cattedrale dedicata ai ss. Sergio e Bacco, Orso (questo il nome del vescovo) fece erigere una nuova cattedrale dedicata a s. Pietro: solo la "copertura" di Marco consentiva un orientamento romano, e non più bizantino, della sua Chiesa (27). Ma vantaggi rilevanti dovettero toccare anche al duca e ai Grandi di Venezia: stretti tra due Imperi, soggetti a due Chiese potenti e ugualmente straniere, essi potevano trarre dal "possesso" di Marco una spinta decisiva per la propria liberazione: l'evangelista significava infatti un rapporto privilegiato con Roma; il dislocarsi, da una posizione di forza, a fianco del papa, nel cuore stesso della Chiesa di Cristo, al riparo dai principi d'Oriente e d'Occidente; il pilastro poderoso su cui costruire finalmente una Chiesa domestica. In ogni caso, per misurare davvero gli effetti, e non solo momentanei, dell'avvento di Marco, sarà utile chiedersi chi lo promosse, chi ne fu il regista più o meno occulto.
Di per sé tutti avrebbero potuto volerlo - il patriarca Venerio, il vescovo Orso, il duca Giustiniano con il suo seguito -, perché tutti ne potevano trarre effetti benefici. In realtà, le fonti residue inducono a distinguere o per lo meno a graduare. Ad esempio, il nome del patriarca non compare tra i sottoscrittori del testamento ducale dell'829, mentre compare quello di Orso (28). Non c'è traccia, e per molti anni, di un nesso intimo tra il patriarcato di Grado e s. Marco: solo nell'880, in un atto della cancelleria ducale, la titolarità di s. Marco sembra (il passo non è chiaro e può essere interpolato) acquisita a Grado, così come quella di s. Ermacora ad Aquileia (29). Inoltre, la "trovata" di s. Marco non giovò abbastanza a Venerio nella sua contesa con il patriarca finitimo, né gli conciliò automaticamente i favori del papa: ancora nell'844-846 Sergio II subordinava il suo intervento al consensus dell'imperatore (30)Né si può trascurare il fatto che il corpo di s. Marco fu portato a Venezia e non a Grado, e che l'autore della neppur nomina il patriarca tra le "autorità" che grandiosamente lo accolsero (31). È difficile pertanto pensare a Venerio come all'ideatore primo dell'avvento di s. Marco.
Passiamo al vescovo Orso. Secondo il predetto autore, egli sì che appare tra i protagonisti dell'adventus dell'evangelista: la nave che portava il prezioso carico approda ad portum olivolensem, ossia davanti alla sua residenza e alla sua cattedrale; egli è il primo ad accogliere solennemente, circondato dai suoi ministri, il corpo santo. Ma perché poi, invece di collocarlo nella sua chiesa matrice, lo scorta al palazzo del duca e permette che in esso venga celato (sempre che sia vero il racconto della Translatio) (32)? Perché acconsente che sia il duca a erigere una chiesa in suo onore e per giunta in un'area - quella di S. Zaccaria - praticamente sottratta alla sua giurisdizione (33)? Perché, avendo costruito una nuova cattedrale, decide di dedicarla a s. Pietro e non invece a s. Marco? Perché, nel suo testamento dell'853, pur destinando vari legati per il restauro delle chiese di Dio, non nomina affatto quella di S. Marco (34)? Tanti interrogativi per una conclusione sola: Orso fu sicuramente implicato nell'adventus di Marco, ma non ne fu certo l'ideatore primo e neppure il primo regista.
Non resta che il duca Giustiniano, sanctorum amator come lo definisce il testo della Translatio (35). In effetti, fu lui, già intento a costruire una sua Chiesa domestica a forza di monasteri esenti, che s'impadronì per primo del corpo santo, che decise di costruire una basilica in suo onore, e anzi indicò perfino donde trarre le pietre necessarie (dalla casa di Teofilatto in Torcello); anche se, per la morte sopravvenuta, toccò poi a Giovanni, suo fratello e successore, di realizzare il progetto (36). Si può quindi indicare in Giustiniano la "mente" possibile dell'operazione marciana, o comunque colui che per primo ne intuì gli sviluppi.
Quali sviluppi? Quando, forse nell'832, fu consacrata la nuova chiesa di S. Marco e in essa fu collocato il corpo santo (37), la meta dell'autonomia religiosa sembrerebbe finalmente raggiunta. Non per nulla si dice che S. Marco divenne la "nuova cappella ducale", e costituiva un simbolo, anche nella sua forma esterna (" gerosolimitana" e non "bizantina"), del distacco dal mondo orientale (38). In realtà, i dati sicuri, o abbastanza sicuri, sono scarsi: l'acquisto di s. Marco fu un affare che coinvolse innanzitutto la famiglia ducale, come si desume dal testamento dell'829; la piccola cappella (tale è infatti una basilica) fondata in onore del Santo è una dépendance della stessa famiglia (una Eigenkirche), e per giunta eretta su un terreno che sarebbe eccessivo definire, oltre che "privato", "demaniale" (39). Niente prova che S. Marco abbia sostituito di colpo S. Teodoro (tra l'altro costruita da poco, sembra nell'810-814) come cappella ducale: solo un secolo e mezzo più tardi, nel 982, essa viene detta esplicitamente "cappella del nostro palazzo" (40). Dunque, l'avvento di s. Marco non provocò affatto una rottura traumatica, non affrancò subito dalle dipendenze "straniere": pressioni carolingie, greche e papali continuarono a incrociarsi sulla laguna. Ma un effetto certamente lo produsse: rafforzò la famiglia del duca, le conferì un carisma straordinario: quanti potenti d'Oriente e d'Occidente potevano vantare, nel loro sacrario domestico, una reliquia come quella dell'evangelista? Forse solo il re delle Asturie Alfonso II il Casto, che in Galizia, negli stessi anni, ebbe la ventura di "scoprire" il corpo dell'apostolo Giacomo. Con s. Marco era approdato a Venezia un quasidio, e il duca era il suo profeta (41).
"In quel tempo fu consacrata la chiesa di S. Pietro di Olivolo, che era stata costruita nello spazio di 9 anni". Negli stessi anni (verso 1'835), Domenico vescovo di Torcello rinunciò all'episcopato e si fece monaco (42). Nel diploma di Lotario dell'84o non si parla più di provinciae dux, bensì di dux Veneticorum (43). Un vescovo che si appoggia al papato, un altro che lascia la carica e si ritira dal mondo, un duca che cresce in potenza fino a rappresentare tutti i Venetici: sono fatti tra loro collegati e connessi in qualche modo con il maggior peso che il duca traeva dal "possesso" di s. Marco?
Non è facile dirlo; ma certo, d'ora in poi, nessun vescovo o patriarca di una sede venetica oserà guardare al duca come a un proprio soggetto. Succede, anzi, il contrario: è normalmente il duca a guardare al patriarca e ai vescovi, oltre che agli abati e alle badesse, come a propri "fedeli". Si assiste così a un processo di appropriazione della Chiesa locale da parte del duca. Scompaiono pressoché del tutto gli ecclesiastici che vengono da lontano o gravitano su poteri lontani (come quel patriarca che "molto frequentemente si recava in terra franca contro il parere dei Venetici") (44). A capo delle sedi e delle abbazie si trovano di solito uomini del duca, spesso suoi parenti: come Domenico di Olivolo, eletto nell'863-864, consanguineo del duca Pietro; o come il patriarca Vittore, eletto nell'878, che il Chronicon Altinate dice figlio del duca Orso (e una figlia di Orso era nel contempo badessa in S. Zaccaria) (45). E guai agli ecclesiastici che fossero "disobbedienti" al duca: il patriarca Pietro, che aveva rifiutato di consacrare Domenico vescovo di Torcello per insanabile difetto canonico (si era evirato), fu costretto a fuggire in Istria e poi a rimanere a lungo presso il papa. E il suo successore Vittore poté entrare in carica solo dopo aver giurato che "avrebbe consacrato colui che il duca gli avesse proposto per l'elezione" (prova evidente che era il duca a scegliere i vescovi) (46). Lo stesso papa ben sapeva, come dimostrano certe lettere di Giovanni VIII, che il suo rapporto con i vescovi lagunari doveva passare necessariamente attraverso il duca (47). Il quale, nell'880, aveva quindi ragione a parlare di Grado come della "nostra metropoli" (48).
Non avremmo ricordato questo esito, che sembra così poco spirituale e molto politico-ecclesiastico (è ben noto il nesso famiglie-Chiese-monasteri ai fini della costruzione di poteri locali), se esso non avesse al contrario, complice o meno la presenza delle reliquie di Marco, anche un forte risvolto religioso. Si pensi alla figura del duca: in quanto non più "figlio" della sua Chiesa, bensì "padrone" della stessa, egli diventa il capo di una religione domestica, con conseguente assunzione di un ruolo preciso, di portatore di salvezza, nei confronti del suo popolo. Il che si traduce in due compiti primari: alimentare il culto a Dio (con la fondazione e il restauro di chiese e monasteri, con il reclutamento degli uomini adatti a servirli); e provvedere alle persone incapaci di sopravvivere da sole (con l'elargizione quotidiana di elemosine). Ecco il duca Giovanni che dopo 1'881 fa edificare una chiesa dedicata ai santi Cornelio e Cipriano (49); ecco il duca Pietro che provvede nel 900 ai monaci di S. Stefano di Altino rovinati e depredati dal passagio degli Ungari (50); ecco i numerosi duchi celebrati per le tante risorse destinate ai poveri. Al duca toccava inoltre segnalarsi come modello di tutte le virtù, specie come uomo di pace e giustizia, di pietà e carità, insomma come un santo (non per nulla Orso II è celebrato in quanto sanctitate preditus, iusticie amator, elemosina dapsilis) (51).
È pertanto la religione del duca a connotare, tra IX e X secolo, il mondo lagunare; e a connotarlo con tutte le sue implicite contraddizioni. In quei tempi di anarchia, di terrore e insicurezza, era impossibile restare a galla senza il ricorso alla guerra, all'ingiustizia, alla ferocia (la famiglia degli Orseolo fu così chiamata per la ferocia animalesca con cui s'era affermata) (52), senza calpestare i più deboli. Era la logica stessa della famiglia, del sangue, delle amicizie, delle clientele a indurre al male. Il duca è conscio dei suoi "peccati"; sa benissimo che lo attende il terribile castigo di Dio che può colpire anche in questa vita (la stessa invasione dei "crudelissimi" Ungari era avvenuta, secondo un atto ducale del 900, imminentibus nostris peccatis) (53); e perciò intensifica le sue opere di pietà in favore di chiese e monasteri e a sostegno dei poveri. Ma talora neppur questo bastava, rassicurava; e allora subentrava la disaffezione, il distacco dal potere, dai parenti, dai "fedeli", da tutto, insomma il relinquere seculum, il chiudersi in monastero per vivere "come morto" in compagnia di Dio (sequi Deum): come fece, dopo circa 20 anni di governo, nel 931, Orso II ritirandosi nel monastero di S. Felice di Ammiana (54). L'obiettivo dissidio tra religione e politica si può peraltro meglio seguire attraverso personaggi ed eventi della seconda metà del X secolo.
Cominciò con il ribellarsi al padre, con il farsi odiare da molti, se non da tutti; si salvò dalla morte con l'esilio in terra italica, dove strinse amicizie preziose con il marchese Guido e suo padre Berengario, e da dove costrinse i Venetici ad accoglierlo come duca con tutti gli onori nel 959. Si tratta di Pietro IV Candiano, il cui orientamento politico "territoriale" si sostanziò di atteggiamenti religiosi conseguenti. Narra di lui il cronista che non era entrato in carica da molto quando, con un pretesto, "ripudiò la sua consorte Giovanna e la costrinse con la forza a prendere l'abito monacale nel cenobio di S. Zaccaria. Avviò poi alla carriera clericale il figlio, di nome Vitale, che aveva avuto da lei e più tardi lo innalzò alla sede patriarcale di Grado. Quindi prese in moglie la sorella del marchese Ugo di nome Waldrada" (55). Si sa chi era Ugo di Toscana: uno dei personaggi più potenti dell'Europa di allora, legato alla casa imperiale di Sassonia, ma nel contempo uno dei più pii, uno che non si sposò per vivere casto, che fu sempre incerto se lasciare il secolo per chiudersi in un chiostro, che comunque fu monaco nell'anima, fondatore di cenobi, protettore di uomini santi, esempio vivente dello sforzo di porre la religione al di sopra e nel cuore della politica: per annullarne la perversità (56). Orbene, il matrimonio con Waldrada è il segno dell'approdo sulla laguna di un modello di potente (come fu Ugo, come furono gli stessi Ottoni) deciso a purificare il mondo corrotto anche con la forza. Quali, infatti, gli atti qualificanti del governo di Pietro IV?
Nel 960, appena eletto duca, sua preoccupazione fu quella di rinnovare il divieto (già a suo tempo imposto da Orso bonus dux e da suo figlio Giovanni) del commercio degli schiavi (una delle "voci" più importanti dell'economia venetica). E si noti la motivazione: si tratta di un gravissimum malum, di un peccatum che Dio punisce con castighi terribili (multe tribulationes); quando invece astenersi da esso apre la via alla salvezza (Dio misericordioso, si emendaverimus, dimittet nobis peccata nostra) (57). È evidente, qui, il cambio di mentalità: il duca intendeva governare in obbedienza alla legge di Dio (per salvarsi l'anima), piuttosto che in omaggio agli interessi profani (che portavano alla dannazione). E non era il solo, sulla laguna, a pensarla così: nel 971 fu la gran maggioranza dei Venefici riuniti in sua presenza a decidere il divieto del commercio di materiale strategico (armi e legname da costruzione) con i Saraceni in quanto magnum peccatum (58).
Ancora l'idea del peccato, la paura della dannazione eterna. Si potrebbe credere che un linguaggio siffatto sia solo un travestimento formale messo lì per dar voce a scelte politiche più o meno forzate (nel caso concreto, i Venetici, più di Dio, temevano i Bizantini che avevano apertamente promesso di bruciare le loro navi, con i relativi equipaggi e carichi, se il commercio non fosse cessato) (59). Ma basta rifarsi alla figura di Pietro IV per escluderlo: egli era un "tracotante", un "duro" con tutti (anche con i suoi sudditi), uno pronto a schiacciare gli avversari e a commettere ogni "atrocità" contro chi osasse resistergli; e ciò in nome di una rigidità, di un moralismo inflessibile (virtutis rigor, austeritas, scrive il suo biografo) (60) che tradisce un orientamento preciso: il rifiuto dell'avventura mercantile sentita come offesa a Dio, e la conversione verso la territorialità sentita - anche per i valori, tipicamente monastici, di stabilitas ad essa impliciti - come virtuosa in sé e giusto viatico per la salvezza. Davvero con Pietro IV il potere fu a servizio della religione - la religione del duca -, nello sforzo gigantesco, condotto con tutti i mezzi (anche con la violenza), di piegare il mondo a Dio.
Ma il mondo si ribellò: congiurati diedero fuoco al palazzo, attesero il duca che fuggiva tra le fiamme - che sembra chiedesse stupito: "In che cosa ho peccato?" -, e lo trucidarono con il suo figlioletto. Ai corpi fu negata perfino la sepoltura; una barca frettolosa li trasportò tra i rifiuti del pubblico mattatoio (61). L'illusione di salvarsi vivendo dentro il mondo e imperando sul mondo era fallita.
Fallita? In verità non mancò un gesto di pietà per il duca assassinato: lo fece Giovanni Gradenigo, un "uomo santissimo", che raccolse le sue spoglie e le compose nella pace del monastero di S. Ilario. Molti Venetici si pentirono dell'"orrendo delitto" compiuto, e come per riscattarsi elessero al ducato un uomo "santo", uno che pur essendo sposato aveva fatto voto di castità, uno che da quando era fanciullo null'altro desiderava se non "piacere a Dio", insomma un quasi-monaco, Pietro Orseolo (62). Ancora - e questa volta ancor più scopertamente - la religione al potere; e per giunta in mezzo a terribili tensioni (il figlio di Pietro IV, il patriarca Vitale, e la vedova Waldrada che si rifugiavano presso l'imperatore Ottone chiedendo vendetta, le famiglie divise, la città da ricostruire).
Narra il cronista di casa che l'Orseolo si pose a governare santamente, eccellendo "nel possesso di tutte le virtù": praticò e fece praticare la giustizia (uno dei suoi primi atti fu la restituzione alla vedova Waldrada della dote e di tutti i suoi beni); operò assiduamente per la "salvezza del ducato "; restaurò a sue spese il palazzo ducale e la chiesa di S. Marco (nel cui altare fece portare da Bisanzio una pala d'argento e d'oro mirabilmente lavorata); regalò ai Venetici, traendole dal proprio tesoro, 1000 libre, e altre 1000 libre elargì ai poveri. Eppure c'era chi non lo gradiva: "oppositori perversi" cercavano in tutti i modi di "ucciderlo di morte crudele". Egli li scopriva ogni volta, ma non si vendicava e "con rassegnazione, per timor di Dio, sopportava ogni cosa". Peraltro, "in questa situazione", bastò che passasse per Venezia, attratto dalla devozione per s. Marco, un certo Guarino, abate del monastero di S. Michele di Cuxà (sui Pirenei, presso Perpignano), perché maturasse la grande rinuncia: a poco più di 50 anni, dopo appena 2 anni e un mese di governo, nella notte fra il 31 agosto e il 10 settembre del 978, depose il potere, fuggì da Venezia e con una fantastica cavalcata attraverso la valle padana raggiunse il suddetto monastero, dove si rinchiuse e fu monaco per sempre (63).
C'è chi, valutando il fatto in chiave politica, ha parlato di "intrigo diplomatico, ammantato di pietà religiosa"; chi di "vocazione esplosa sulla punta delle spade". Ossia, Guarino non sarebbe stato che l'inviato di Ottone II che portò al duca un crudo ultimatum: o ritirarsi o soccombere dopo un bagno di sangue (64). E dietro a questa interpretazione sta addirittura Pier Damiani che nella sua Vita Romualdi dipinge l'Orseolo come uno dei potentiores dell'epoca tra i più perversi: si sarebbe messo d'accordo con i ribelli per incendiare la città e assassinare Pietro IV Candiano spinto solo dalla libidine del potere, cioè per succedere nel ducato; salvo poi a vivere tra i rimorsi e a volersi riscattare fuggendo nel chiostro (65). Ma, pur nella difficoltà di districarci fra testimonianze discordi, è forse possibile accertare alcuni dati che per-mettono una lettura più complessa del personaggio-Orseolo.
Ad esempio, è sicuro che Pietro non dovette attendere le pressioni di Guarino per convertirsi dalla politica alla religione: già da anni, almeno da dopo la nascita del suo primo e unico figlio (avvenuta attorno al 961), egli si era posto sulla strada del relinquere seculum e del sequi Deum (66). Altrettanto sicuro è che Pietro, su questa strada, non era solo: cadono in quegli anni altre conversioni clamorose, come quelle di Giovanni Morosini e di Giovanni Gradenigo, i membri di due importanti schiatte lagunari che si collegarono con Romualdo di Ravenna (uno che a sua volta era fuggito per vivere con il selvaggio eremita Marino), costituendo uno dei gruppi spirituali più importanti dell'Europa di allora (67). Probabile, inoltre, se non sicuro, è il fatto che questi uomini siano stati le "eminenze grige" del "rigido" e "austero" ducato di Pietro IV Candiano (le loro schiatte ne sottoscrivono gli atti più qualificanti) (68) e ne abbiano contestato il tragico epilogo (non fu forse il Gradenigo ad avere pietà del duca assassinato?), sostenendo l'avvento al potere di Pietro Orseolo, che era uno di loro, salvo poi a convincersi, con l'aiuto di Guarino, a lasciare il secolo per ritirarsi tutti insieme nel lontano monastero pirenaico. Dunque, se è vero che l'Orseolo scelse fin da giovane una vita santa e fin da giovane si accompagnò a giganti dello spirito, cade l'idea di un approdo improvviso e forzato, o anche sotto la spinta di un rimorso intollerabile, alla religione. La sua vicenda, più che con cause locali o private, si può spiegare in rapporto al disagio profondo che attraversava settori non piccoli dell'aristocrazia europea. Egli è come Ugo di Toscana (il potente sempre diviso tra il mondo e il chiostro), come Romualdo di Ravenna (che voltò le spalle al padre, alla famiglia e alle violenze di cui essa si nutriva per sopravvivere), come lo stesso Giovanni Gradenigo che gettò al vento poteri e ricchezze (regna cum diviciis proiecit) per farsi monaco e poi morire martire in terra pagana (69), come altri Grandi dell'aristocrazia del Mille che in tempi di forte pressione delle strutture, quando troppo costava preservare la stirpe, perdono fiducia nei parentes, negli amici, nella patria, nel potere e nella spada, scoprendo nel secolo un ostacolo insormontabile alla propria salvezza (70). Non a caso esplodono in quest'epoca le eresie dello Spirito, quelle che negano ogni potere, ogni istituzione di questo mondo e si rifiutano di credere nell'uomo (melius est [ripetono> confidere in Deo quam in hominibus) (71). Non a caso cominciano proprio ora a circolare modelli agiografici, come quello legato alla figura di s. Alessio, che sono la negazione del santonobile integrato nelle strutture (72). Insomma, anche l'Orseolo, come altri Grandi, a un certo punto, anche in presenza di eventi ostili, perse fiducia nel suo ruolo e si abbandonò (se vogliamo credere alla più tarda Vita) al Dio di Abramo che lo esortava a lasciare tutto e a mettersi in viaggio (egredere de terra et cognatione tua et veni in terram quam monstrabo tibi) (73), raggiungendo il porto sicuro della salvezza. Segno della persistente incompatibilità tra religione e politica.
Non per questo, peraltro, cioè non per la scomparsa dell'Orseolo, ogni atteggiamento religioso era esaurito. La fuga dal mondo, prima o poi, non è priva di conseguenze sul mondo stesso. Sul momento, poiché con l'Orseolo erano partiti gli "spirituali" a lui legati, Venezia patì certamente il vuoto che si era creato. Allora, infatti, tutto lo spazio fu occupato dalla politica, e il ducato visse anni drammatici, con le famiglie che si dilaniavano in faide senza fine. Durante una di queste un Morosini cadde trafitto davanti alla cattedrale di S. Pietro. La famiglia colpita si preparava alla vendetta; e invece, proveniente da Cuxà dove era fuggito con l'Orseolo, giunse improvvisamente (siamo nel 982) il religiosus vir Giovanni Morosini: non per sostenere la sua famiglia, non per rientrare nella politica, ma per chiedere di fondare un monastero nell'isola di S. Giorgio (74).
Venne di sua iniziativa? Ci fu qualcuno che lo mandò (l'Orseolo era ancor vivo) o qualcuno che lo fece venire? Non lo sappiamo. Sappiamo invece che cosa significò la sua venuta: il 20 dicembre del 982, tutti i Grandi della laguna, di solito divisi tra di loro, si trovarono uniti e concordi nel fondare nell'isola di S. Giorgio un nuovo monastero: un monastero, si badi, esente, cioè libero da ogni controllo non soltanto da parte del vescovo locale ma anche dello stesso duca (75). Come Cluny, come Fruttuaria, come altre abbazie dell'epoca, S. Giorgio appare espressione di un monachesimo nuovo che ha superato il punto morto della pigra e spesso complice soggezione al secolo e alle grandi famiglie per riscoprire la sua originaria funzione di oasi contemplativa, di anticipo della Gerusalemme celeste piantato nel cuore del ducato.
Si può dire che la fuga di Pietro Orseolo aveva dato e continuava a dare i suoi frutti: frutti per l'intero mondo venetico, dato che almeno per un attimo - l'attimo della fondazione di S. Giorgio - s'era placata la persistente tensione tra religione e politica; frutti per i singoli uomini che continuavano a sentire il disagio del secolo: fa impressione quel Ranieri (Rainerius Veneticus) che, verso il 1035, passando da pellegrino per il monastero di Cuxà, ove ancor fresca era la memoria dell'Orseolo, decise di fermarsi per sempre come monaco (tunc peregrinus, nunc vero monachus, precisa l'atto) (76); né si può dimenticare Gerardo monaco in S. Giorgio, e quindi legato idealmente allo stesso Orseolo, che finì martire della fede in Ungheria (77).
A questo punto non si può non riflettere, peraltro, su una religione che alternava pause e contrasti, fughe e ritorni, ossia di continuo divisa tra il mondo e Dio. In altri termini, il duca aveva sì sconfitto una religione "straniera", importata dal di fuori, e imposto, anche con l'aiuto di s. Marco, una religione propria, tutta domestica, che faceva di lui il padrone della Chiesa e il protettore dei poveri, ma pagando un prezzo insostenibile: costruire e restaurare basiliche e monasteri costava un patrimonio; neppure tutte le ricchezze di Dario e di Creso - come ammonì Raterio - sarebbero bastate a sfamare le folle di miserabili (78). Insomma, più svolgeva il suo ruolo sacrale e più disperdeva i beni della famiglia indebolendosi come duca, esponendosi ai colpi dei nemici, fino a distruggersi. La contraddizione è tutta qui: il duca, per dominare, aveva bisogno di una propria religione; ma nel momento in cui di questa s'impadroniva cominciava a tramontare come duca, perfino ad annullarsi (come quando decideva di fuggire nel chiostro). Ma era possibile una religione distinta dal duca?
Nel 901, dopo il passaggio devastatore degli Ungari, il duca Pietro, "insieme con i suoi" (una cum suis), cominciò a edificare la civitas di Rialto con le sue difese (il muro e la catena di ferro) (79). La nascita del nuovo centro non è priva di conseguenze su tutti i campi: i suoi abitatori, per quanto formalmente uomini del duca (sui, come dicono i testi), lo premono da vicino, lo condizionano, lo contestano, e perfino lo eliminano in caso di conflitto insanabile, manifestando le proprie esigenze (80). Perché gli stessi abitatori non avrebbero potuto intaccare anche il primato sacrale del duca e farsi interpreti di una religione propria? Secondo il diacono Giovanni che scrisse qualche anno dopo il 1000, anche i Venetici, o soprattutto i Venetici, accanto ai duchi, sono i protagonisti della storia lagunare: sono loro, assieme con il patriarca e con i vescovi, che a suo tempo decisero di sostituire il governo dei duchi a quello dei tribuni; sono loro che decidono di portare da Alessandria il corpo dell'evangelista Marco e di darlo in dono al duca (81) S. Marco, appunto: perché quello che era stato un loro omaggio al duca non poteva trasformarsi da santo del duca, da reliquia di famiglia, in santo della città, in reliquia di tutti i Venetici?
Solo nell'XI secolo, è stato scritto, avvenne questa trasformazione; e un primo segno ne sarebbe stata la comparsa, nel dì dell'Ascensione dell'anno 1000, di una qualche effigie o del simbolo di s. Marco nel triumphale vexillum che il vescovo di Olivolo consegnò al duca Pietro II Orseolo in partenza per la spedizione dalmata. In realtà, il diacono Giovanni, testimone diretto del fatto, non fa il nome dell'evangelista, mentre precisa che lo stesso duca, appena giunto a Grado, ebbe in consegna dal patriarca "il vittorioso vessillo di s. Ermagora" (82). Quasi tutti concordano nel fare di Marco il patrono fin troppo precoce della città, ma sulla base di dati troppo scarsi e senza il sospetto che magari si trattò di un processo lento e non privo di contrasti (83).
Dopo la translatio dell'828, s. Marco restò come celato tra le pieghe della storia lagunare. Una moneta di tipo carolingio, coniata dopo l'85o, porta la scritta Christe salva Venecias che circonda la facciata di una chiesa: solo dopo la metà del secolo XI compare, al posto della chiesa, l'effigie di s. Marco (84). La stessa antroponimia locale, pur ricca di tanti nomi religiosamente significativi (soprattutto Domenico, Giovanni, Stefano, Pietro, Martino, Vitale, Maurizio, Costantino, Giorgio, ecc.), non vanta nessun Marco (85). I duchi, una volta appropriatisi della Chiesa locale, ebbero meno interesse a ricorrere a s. Marco, il cui solo nome bastava a riaprire tensioni e conflitti. La loro cappella fu sì, a un certo punto (forse nella seconda metà del X secolo), dedicata a s. Marco; ma ciò non impedì a Pietro II Orseolo di costruirsi un'altra cappella all'interno del palazzo e di decorarla "non solo con ornamenti di marmo, ma anche d'oro" (86). Dopo l'incendio del 976, non si seppe più neppure dov'erano finite le sacre spoglie (anche se pellegrini di gran fama, tra cui lo stesso Ottone III, continuarono ad affluire a Venezia per venerarle); e ci volle un miracolo (il miracolo provvidenziale del 1094) per ritrovarle (87). Perfino il diacono Giovanni, pur riferendo con scrupolo i pochi eventi marciani a lui noti, non ci mette affatto l'enfasi che meriterebbe un santo patrono. E allora quando e come s. Marco divenne realmente il santo della città e di tutti i Venetici?
"Noi siamo i suoi figli primogeniti" (nos sumus primogeniti fili eius), "perché per primi siamo stati da lui generati alla fede" (qui primi ab eo per evangelium geniti sumus). Così avrebbero parlato due Venetici; e il padre di cui si vantavano figli era l'evangelista Marco. Ecco, finalmente, s. Marco avocato ai Venetici, non più proprietà gelosa del duca ma loro indiscusso patrono.
Il passo è tratto da un testo celebre - la Translatio sancti Marci -, che contiene ben altre prove di questo esito importante. Vi è, ad esempio, il famoso encomio dei Venetici come gens catholica e perfetta nel rapporto con Dio, con il quale abbiamo aperto questo contributo: un encomio che invano cercheremmo nel diacono Giovanni, viceversa incline a esaltare la santità dei duchi. C'è poi il fatto che l'arrivo a Venezia del corpo santo ha per protagonisti i Venetici, o meglio un gruppo eminente di essi (i negotiatores), non già il duca; addirittura è frutto di una disobbedienza dei primi al secondo, che aveva vietato i viaggi in Egitto (anche se si tratta di una disobbedienza voluta da Dio e in seguito facilmente perdonata). Non si può inoltre sottacere che i due artefici primi del "santo furto", Bono e Rustico, provengono da Malamocco e da Torcello, due centri "declassati" (specie Malamocco, che era stata sede politica), non da Rialto, la "capitale" emergente: segno di una resistenza del "policentrismo" venetico di contro all'accentramento promosso dal duca? Non è forse un caso che il diacono Giovanni, schierato per quest'ultimo, ignori i due "eroi" e la loro provenienza (88).
Ecco quindi confermato il sospetto che la Translatio rappresenti il primo apparire di una religione dei Venetici distinta e perfino in antitesi con quella del duca. E in questo senso orienta anche la storia, per lo meno strana, del testo. Normalmente l'arrivo di spoglie importanti trovava ben presto un autore disposto a celebrarle. E si capisce perché: solo un testo scritto e circolante dava pubblicità all'evento, stimolava il culto del santo importato, ne pubblicizzava i miracoli, stabiliva un nesso inscindibile, quasi ufficiale, tra protettore e protetti (89). Nel caso di s. Marco, no: bisogna attendere oltre 2 secoli, fin oltre la metà del secolo XI secondo non pochi studiosi, o comunque fino alla fine del X, perché una Translatio venga prodotta. E anche fosse stata prodotta qualche decennio prima, il ritardo resta enorme. Vuol dire, come minimo, che i duchi del IX secolo (quelli più vicini al fatto) non ispirarono una "loro" Translatio; o che il testo da essi ispirato andò perduto o venne assunto e riscritto da chi aveva un diverso intento: esaltare il binomio s. Marco-Venetici, non già quello s. Marco-duchi. Ma alla luce di questa prospettiva l'intero testo della Translatio merita di essere riletto e rifiatato.
Quasi in apertura, l'autore si sofferma a lungo sulla figura di Narsete, l'eunuco-generale mandato da Giustiniano a riconquistare l'Italia dominata dai Goti. Dapprima lo celebra come uomo pio, cattolico, benefattore di poveri e di chiese, capace di vincere più con preghiere e penitenze che con le armi; ma poi ne denuncia l'animo gretto e vendicativo giacché, una volta caduto in disgrazia a corte, invitò i Longobardi a occupare l'Italia. Narsete serve all'autore per enunciare le due conseguenze dell'avvento dei "rabbiosi" Longobardi: la nascita di Grado "nuova Aquileia", come unica metropoli di tutta la Venetia; e la fuga sulle isole della laguna degli abitanti della terraferma che, dal nome della provincia da cui provenivano, si chiamarono Venetici. Insomma, tutta la prima parte della Translatio fu scritta per mostrare l'origine dei Venetici (ut Veneticorum originem monstraremus) e della loro Chiesa-madre (90).
Nulla di più ovvio, si dirà. Anche il diacono Giovanni, e sulla base delle stesse fonti (soprattutto Paolo Diacono), parla di Narsete, dei Longobardi, di Grado, della fuga sulle isole (91). Ma c'è una differenza: quella del diacono Giovanni è una Cronaca, non una narrazione agiografica; il che significa che il nesso tra quei fatti e il racconto della translatio vera e propria è tutt'altro che scontato, e anzi induce a rilievi specifici.
In primo luogo: la nascita di Grado come unica metropoli risulta sostenuta dall'imperatore d'Oriente con l'invio della cattedra di Marco che a suo tempo Elena madre di Costantino aveva portato da Alessandria; anche il dislocarsi sulla laguna dei Venetici è collegato con i Greci: costoro infatti, nella loro lingua, li chiamarono Hennetici, cioè degni di lode (laudabiles) (92). Chi scriveva e anche chi leggeva questo poteva pensare una sola cosa: che il referente naturale dei Venetici era l'Impero d'Oriente; che solo da esso, specie nei momenti difficili, potevano venire gli appoggi e la stima, non certo dall'Occidente (che era invece il luogo delle invasioni, dei titoli usurpati, dei tradimenti).
Un altro rilievo: la figura di Narsete. Costui fu un buon governante finché rimase fedele all'Impero d'Oriente; ma poi, quando voltò le spalle allo stesso, provocò disastri terribili, l'occupazione dell'Italia da parte dei feroci Longobardi. Chi scriveva e anche chi leggeva questo non poteva avere in mente che il seguente monito: guai a tradire l'Impero d'Oriente.
Dunque - ecco una prima conclusione -, per l'autore della Translatio Venezia è inconcepibile senza Bisanzio; Venezia può vivere e prosperare solo con Bisanzio, in collegamento stretto con Bisanzio, a fianco di Bisanzio. Tant'è vero che non viene taciuta la condizione di quasi-vassallaggio in cui si trovava il duca venetico: l'imperatore d'Oriente era come il suo "signore" (imperator suus); i suoi comandi (iussiones) avevano forza di leggi (statuta) anche dentro il ducato (93).
Quale il senso di questo filobizantinismo senza sfumature? Per rispondere è necessario proseguire nella lettura della Translatio, indugiando soprattutto su quel passo celebre dove i Venetici sono lodati come gente nobile, cattolica, perfetta nella fede e nella pratica delle virtù cristiane. Si tratta di un passo che ha risonanza in tutto il racconto, giacché l'autore non perde occasione per mostrare con i fatti, e non solo a parole, quanto i Venetici erano nobili, santi, graditi a Dio: fu Dio che li costrinse, quando già stavano tornando in patria per obbedire al comando del duca, a dirottare le loro navi verso Alessandria; le navi erano cariche di uomini nobili (nobiles viri), e anche pii: due di loro, una volta sbarcati ad Alessandria, ogni giorno andavano a pregare sulla tomba di s. Marco; e a forza di andare ebbero l'idea di trasportare il corpo di s. Marco a Venezia. Eccoli pertanto a insistere con i custodi renitenti, a proclamarsi "primogeniti" dell'evangelista, a perpetrare il "santo furto", a imbarcare le reliquie a dispetto di tutti i controlli. E Dio gradì tutto questo, e attraverso Marco, già nel viaggio di ritorno, fece molti miracoli. Difatti i Venetici "meritavano" di possedere il corpo santo; e tutti lo riconoscevano ripetendo: O quam beati estis qui talem sanctum habere meruistis (94). A me sembra che un elogio del genere - solo in parte topico, si noti - non può essere inteso solo come espressione di fatuo compiacimento, di gusto imitativo (anche Paolo Diacono aveva lodato i Longobardi del tempo di Autari in termini analoghi). Lo si può intendere meglio come risposta - risposta polemica - a chi asseriva il contrario, e cioè che i Venetici erano gente mediocre, infedele a Dio e alle sue leggi, immorale. Ma chi poteva asserire questo?
Racconta l'agiografo che durante il viaggio di ritorno i Venetici sostarono a Umago sulla costa istriana: avevano paura infatti di presentarsi a Venezia sapendo che il duca Giustiniano era terribilmente (vehementissime) adirato contro di loro. Mandarono pertanto dei legati che fecero questo discorso: "Confessiamo il nostro peccato e ci vergognamo di essere considerati ribelli (quia sumus tamquam rebelles inventi); ma Dio ci è testimone che abbiamo disobbedito senza volerlo (magis inviti quam sponte). Comunque abbiamo con noi il corpo di s. Marco evangelista: se il nostro signore ci perdona e ci assicura l'impunità, glielo portiamo; diversamente, andremo altrove (divertemus ad aliam regionem) e altrove lo porteremo" (95).
Or dunque è vero (è lo stesso agiografo ad ammetterlo): ben lungi dall'essere santi, cattolici, nobili, i Venetici erano caduti nella colpa peggiore che allora si potesse concepire, quella di infedeltà e tradimento, che li faceva apparire spregevoli, peccatori, perfino complici dei più pericolosi nemici della cristianità, cioè dei Saraceni. E a muovere questa accusa terribile era lo stesso duca, anche se poi li perdona; ma li perdona soltanto perché dal sommo male da essi compiuto gli veniva il sommo bene (il possesso del corpo dell'evangelista). A questo punto una seconda conclusione s'impone: la Translatio fu scritta anche per riabilitare i Venetici dalle accuse del duca, come per far capire al duca che no, i Venetici non potevano aver peccato, erano anzi ricolmi di ogni virtù, tant'è vero che solo da essi egli aveva potuto ricevere il dono più ambito, quello delle reliquie di s. Marco.
Il filobizantinismo dell'agiografo diventa ora spiegabile. I Venetici "buoni" di cui egli parla non sono, ovviamente, tutti i Venetici, ma soltanto i negotiatores, coloro che conoscevano l'arte e la fatica di mettersi in viaggio, di trasportare da un porto all'altro carichi di merci (negotiis insulare) per trarre guadagno (96). Costoro avevano necessità assoluta di vivere in pace e in amicizia con l'Impero d'Oriente, e sotto la sua ala protettrice.
Volendo ora tirare le fila del discorso, si può dire che la Translatio fu scritta con due intenti non tanto reconditi: affermare la "santità" dei mercanti, la funzione "meritoria" e grata a Dio del loro lavoro (non era vero che "il mercante non può piacere a Dio", come allora si diceva); ribadire il nesso inscindibile, quasi simbiotico, tra i Venetici e l'Impero d'Oriente. L'approdo a Venezia dell'evangelista era la prova lampante della duplice "verità": s. Marco poteva farsi rapire solo da uomini santi; senza i viaggi mercantili in Oriente s. Marco non sarebbe mai giunto a Venezia. Il fulcro della religione dei Venetici, s. Marco, era insomma un dono che veniva, con la benedizione di Dio, dai "buoni" mercanti. Dai "buoni" mercanti, e non dal duca. In altri termini, la Translatio rappresenta la fase in cui s. Marco fu rivendicato come il santo della città dei mercanti.
Quale fase? La Translatio, come si è detto, è datata dai più in avanzato XI secolo; ma sulla base di fragili elementi esterni (97), non già della sua sostanza storica, dei suoi intenti reali. Ora, l'esistenza di un manoscritto di fine X secolo, se confermata, ne anticipa la datazione, ma senza spiegare la genesi del testo, che di certo non fu prodotto a caso (98). Invece è pensabile che se un autore venetico sostiene a spada tratta il nesso con Bisanzio, la "santità" del ceto mercantile, evidentemente lo fa per rispondere a una provocazione effettiva, a una congiuntura concreta che metteva in forse o del tutto negava l'uno e l'altra.
Ora, tra IX e XI secolo - o meglio, tra 1'828, data della translatio, e il 1094, data della inventio del corpo di s. Marco -, un solo periodo vide uno scontro aperto tra il "buon" duca e i "cattivi" mercanti: quello dell'avanzato X secolo, quando Pietro IV Candiano, sulle tracce peraltro del duca Orso e di suo figlio Giovanni, bollò come "colpa gravissima" il commercio degli schiavi e come "grande peccato" il commercio di materiale bellico.
Un solo periodo registrò un divieto di recarsi in Oriente per affari (negotii causa) collegato non solo a una iussio imperiale ma anche, se non soprattutto, a una scelta di campo da parte del duca regnante (la scelta della territorialità, dei valori etico-religiosi di stabilitas da essa garantiti): quello dell'avanzato secolo X, quando Pietro IV Candiano da un lato bloccava i traffici per scrupolo e dall'altro lottava senza scrupoli per accumulare "possessi di enorme estensione".
Un solo periodo presentò un duca così ostile ("religiosamente" ostile) all'Oriente dei mercanti e così legato ("religiosamente" legato) all'Occidente dei latifondisti-guerrieri: quello dell'avanzato X secolo, quando Pietro IV Candiano privilegiò a tal punto l'amicizia con Ugo di Toscana e con Ottone I di Germania da sposare Waldrada (che del primo era sorella e del secondo nipote) e da circondarsi di schiere di milites italici, fatti confluire a Venezia e insediati, tra lo stupore e lo scandalo di molti Venetici, nel palazzo ducale. Pietro IV somiglia anzi per molti versi al Narsete della Translatio: come lui pio, cattolico, generoso con i poveri, austero e moralista fin che si vuole; ma come lui anche pronto a vendicarsi dei torti subiti (i Venetici avrebbero voluto ucciderlo prima ancora che fosse duca), chiamando noni feroci Longobardi a invadere l'Italia, ma i feroci Italici - gli eredi dei Longobardi - a "invadere" Venezia (99).
Dunque, la sostanza storica della Translatio induce a datarla nel contesto del ducato di Pietro IV Candiano, e più precisamente verso i suoi ultimi anni: dopo il 971, anno del divieto di commercio con i Saraceni da essa ricordato; oppure dopo il 974, anno in cui forse il duca si servì di s. Marco in funzione della sua politica territoriale (alludo al diploma concesso da Ottone II in favore della Chiesa di Grado) (100); e prima del 976, anno della morte violenta. Sotto questo profilo la Translatio rappresenterebbe l'ultimo monito monito pacifico prima della rivolta cruenta rivolto dai mercanti o a nome dei mercanti al duca. Come se gli dicessero: 'il vero, il sano e santo fondamento del ducato siamo noi; tu sei grande solo grazie a noi; perfino s. Marco, del quale tu ti glori e ti servi, è un nostro dono'.
Agli ultimi anni del ducato di Pietro IV rinviano anche gli scarsi appigli cronologici contenuti nella Translatio. La cappella ducale (cenaculi locus), in cui il corpo dell'evangelista fu riposto in attesa che sorgesse la basilica in suo onore, ancora si esibiva con orgoglio al tempo in cui l'agiografo scriveva (usque ad presens tempus monstratur) (101): il che rinvia a prima del 976, giacché in quest'anno il palazzo del duca fu distrutto dal noto incendio.
La stessa opportunità di giustificare il fatto che uno dei custodi del corpo di s. Marco in Alessandria, per quanto prete, aveva famiglia - difatti era greco e segua ce di s. Paolo trova perfetto riscontro nel clima di lotta contro la mulierositas del clero che proprio in quegli anni (concilio di Ravenna del 967) mobilitava Ottone I, grande amico di Pietro IV Candiano (102).
Soltanto una ragione giustifica il fatto che l'agiografo conosce una sola basilica innalzata in onore di s. Marco, quella progettata dal duca Giustiniano e realizzata dal successore Giovanni: l'aver scritto prima del 976-978, quando Pietro I Orseolo costruì la seconda basilica (103).
In ultimo, non si può davvero trascurare, anche se si tratta di un elemento di contorno, che negli anni Sessanta e Settanta del X secolo, ovunque e anche a ridosso della laguna (nella Verona di Raterio, nella Vicenza di Rodolfo, nella Padova di Gauslino), si registra un bisogno eccezionale di reliquie e di racconti relativi (104): lo stesso che si trova riflesso nella Translatio s. Marci.
Dunque, concludendo l'analisi della Translatio, si può ben dire che anche i Venetici, e non solo il duca, erano in grado di farsi interpreti di una religione propria; che anche i Venetici, e non solo il duca, potevano vantarsi santi e meritevoli del patrocinio di s. Marco. Accanto alla religione del ducare era spuntata la religione dei sudditi.
Attorno al Mille, negli anni del ducato di Pietro II Orseolo, le condizioni di crisi che avevano motivato uno scritto come la Translatio vengono meno: non più scelta lacerante tra Oriente e Occidente, con conseguente penalizzazione degli interessi mercantili, bensì una politica a tutto campo capace di coinvolgere le forze più importanti della laguna. Fin dagli inizi del suo governo Pietro II provvide in effetti a rendere "placati e amici" gli imperatori di Costantinopoli, che non a caso concessero, nel 992, un crisobollo estremamente favorevole ai negotiatores; a stabilire buone relazioni con "tutti i principi dei Saraceni" con i quali pertanto non era più un magnum peccatum e neppure un tradimento della cristianità fare commerci; a stringere legami di "amore e amicizia" con "re Ottone III" di Sassonia e con i "principi d'Italia", sicché i confini del ducato divennero più sicuri e i Venetici potevano viaggiare pacifice, senza il rischio di essere continuamente taglieggiati, per le terre dell'Occidente (105). Se poi si aggiunge che lo stesso duca seppe allargare la territorialità del ducato con la conquista della Dalmazia e imprimere alla sua azione un respiro europeo e mediterraneo, si avrà idea del nuovo contesto, tutt'altro che cupo e lacerato e anzi sereno e conciliante, in cui si svolge l'esperienza religiosa.
Si guardi innanzitutto al duca. Egli appare di nuovo nel pieno esercizio del suo primato sacrale: devolve ingenti risorse nella costruzione e nel restauro di chiese, in elargizioni a sudditi poveri; continua a sentirsi al vertice della Chiesa locale, al cui governo destina propri familiari e fedeli; merita di stringere, attraverso i sacramenti (battesimo, cresima, matrimonio), legami di familiaritas anche spirituale con gli imperatori d'Oriente e di Occidente: si mostra devoto a Dio (si recava ogni giorno in S. Marco a pregare). Nessuna meraviglia se il cronista lo considera un santo (ancora più santo del suo genitore fuggito a Cuxà), un re della terra che fa le veci del "re dei cieli", un prediletto dell'Altissimo che attira miracoli (ecco l'apparizione della Vergine Assunta, stella maris, che prefigura il suo arrivo in soccorso di Bari assediata), una specie di Cristo che vince il mondo e nel contempo lo patisce (al colmo dei trionfi la peste colpì il ducato e gli rapì il figlio Giovanni e la nuora Maria) (106).
E si guardi poi al clero. Vescovi e abati assecondano compatti ed entusiasti un duca siffatto: lo accolgono nelle chiese, celebrano in suo onore solenni cerimonie liturgiche, gli affidano i sacri vessilli quasi fosse un nuovo Costantino, inseriscono il suo nome (così giurano i vescovi dalmati) tra le "laudi" dopo quello dell'imperatore (107). Lo servono come consiglieri, come ambasciatori, come confidenti, anche come storici di corte: ecco il caso splendido del diacono Giovanni che tenne la fitta trama di rapporti con Ottone III e che scrisse una lunga Cronaca proprio per esaltare il duca che "per le sue doti superò quasi tutti gli altri duchi" (108), Sono perfino disposti a sacrificare la loro autentica vocazione pur di non far venir meno il loro appoggio: come dimostra il caso di Orso, uno dei figli del duca, che avrebbe voluto lasciare Venezia e seguire il santo abate Guglielmo, ma poi rimase per non recare dispendium alla sua patria segnalandosi come "decoro degli ecclesiastici" (109).
Non è quasi necessario, infine, parlare del popolo che appena s'intravvede dietro al duca; ma si sa che partecipava convinto alle sue imprese e ai suoi trionfi, che godeva con slanci di autentica "allegrezza" delle sue gioie familiari, che cercava in tutti i modi di confortarlo nei momenti di tristezza, che nutriva verso di lui in quanto giusto e padre una devozione filiale e lo venerava in quanto degno della "grazia di Dio onnipotente" (110).
Dunque, se il duca era tutto a tutti in quanto dava protezione e benessere in questa vita e certezza nell'altra; se nel duca, in quanto mediatore felice e massimo tra il cielo e la terra, ogni contrapposizione tra spirito e mondo, tra religione e politica appariva sanata, si può ben intuire il tono dominante nell'esperienza religiosa dell'epoca. Di casa, allora, in Venezia, doveva essere non già un Dio nascosto e lontano, esigente e minaccioso, bensì un Dio vicino e visibile, tollerante e benevolo, perfettamente incarnato nelle strutture del ducato e complice determinante di tutti i suoi obiettivi temporali: un Dio, insomma, che amava stare dalla parte dei Venetici e del loro duca, e al quale il duca e i Venetici riservavano un culto grato ed esclusivo.
Culto a Dio, ho detto, non ai santi. Con un Dio così presente e amico diventava infatti meno pressante il bisogno di santi e reliquie: non è un caso che il diacono Giovanni dedichi solo poche righe della sua Cronaca a un evento pur centrale come l'arrivo delle spoglie di s. Marco a Venezia (e aveva a disposizione la Translatio o almeno una versione di essa); e neppure è un caso che lo stesso cronista nomini di rado l'evangelista e in ogni caso non lo ponga affatto al centro della religione patria (111). S. Marco esisteva sì, ma come contorno: in primo piano, a intercedere presso Dio e a far da patrono per tutti i Venetici c'era lui, il duca.
Altrove una religione come questa - incarnata nel mondo e nelle "cose", perfettamente intonata ai bisogni storici del momento innestò reazioni di segno opposto, "spirituali", fino alla negazione di tutto ciò che in quanto potere, struttura, mediazione profana o ecclesiastica impediva il rapporto immediato con Dio (non per nulla furono trovate eretiche) (112). Non a Venezia dove, a parte qualche "isola" (come S. Giorgio Maggiore, forse ancora vivente nello spirito romualdino o cluniacense), quasi tutti, grazie a quella religione, si sentivano gratificati: perché da essa derivavano conquiste e prede, possessi fondiari e guadagni mercantili, insomma tutti quei successi per i quali la Venezia del Mille "superò in grandezza e opulenza tutte le province vicine" (113).
Vista dall'esterno, siffatta religione poteva anche suscitare critiche, almeno per certi suoi aspetti degenerativi: in due lettere papa Silvestro II denunciò quegli ecclesiastici veneziani che non si vergognavano di vendere sanctuaria, di vivere sfacciatamente con donne, di dedicarsi ad attività profane come facevano i nummularii et trapezite (cioè i cambiavalute) (114). Ma intanto all'interno produceva consensi, cementando un'alleanza profonda tra duca e sudditi. E tutto ciò negli anni di Pietro II Orseolo. Morto lui, dopo il 1008, l'equilibrio si ruppe: ricominciarono le tensioni tra duca e sudditi, gli ardui pendolarismi tra gli Imperi d'Oriente e d'Occidente, i contrasti tra Aquileia e Grado, le lacerazioni indotte dall'aggressività dei riformatori ecclesiastici, per non parlare di altri problemi. Con tutte le ripercussioni sul vissuto religioso che, almeno in parte, è possibile documentare.
"Sono il patriarca di Grado e di Aquileia per grazia di Dio; la mia Chiesa trae origine da Marco evangelista; lo stesso s. Pietro conferì ad essa la dignità patriarcale; il papa mi ha concesso il privilegio di sedere alla sua destra" (115).
Pressappoco così, verso il 1054, Domenico Marango scriveva al patriarca di Antiochia evidenziando in poche battute quanto era mutato - radicalmente mutato - il contesto religioso veneziano. Si pensi: un patriarca che si proclama tale "per grazia di Dio" e non per volontà del duca (che neppure sente il bisogno di nominare); che vanta la titolarità tanto su Grado quanto su Aquileia forzando le stesse decisioni della sinodo romana del 1053 (dove pur si prevedeva l'esistenza di un "vescovo friulano") e ignorando l'ostilità del suo governo; che monopolizza s. Marco come fondatore della sua Chiesa (come se s. Marco non fosse già l'esclusivo patrono del duca); che si richiama a s. Pietro e al papa mostrandosi fieramente schierato - proprio quando il ducato muoveva in direzione del tutto opposta - dalla parte della sancta Romana Ecclesia (116).
Evidentemente il patriarca non accettava più il ruolo di sommo orator, ossia di uomo della preghiera e del culto, e come tale subordinato al duca che restava l'unico mediatore tra il mondo e Dio. In quanto investito direttamente da Dio - non per nulla si sentiva patriarca gratia Dei -, ora era lui l'unico mediatore, non più il duca, che pertanto viene relegato tra i laici, e tra i laici (pur essendo al vertice di essi) che dovevano obbedienza al clero (117).
Coerente con il nuovo ruolo fu anche la proposta religiosa. Nella lettera succitata il patriarca si concentra non a caso sull'Eucarestia: la Chiesa di Roma - egli osserva - usava il pane azimo secondo l'insegnamento di Cristo e degli Apostoli; ma ammetteva anche l'uso del pane fermentato secondo la tradizione dei Padri orientali; con questo dichiarava la sostanza del Verbo incarnato, con quello la purezza della carne umana di cui Dio volle rivestirsi. Invece la Chiesa di Costantinopoli osava condannare i "santissimi azimi" nella convinzione che essi non possono trasformarsi nel corpo di Cristo. Il che significava escludere tutto l'Occidente, tutta la Chiesa fondata da Pietro e da Paolo da ogni speranza di salvezza eterna: chi infatti può salvarsi se non è partecipe del corpo e del sangue di Cristo (118)?
Argomenti triti, si dirà, e solo relativi a controversie teologiche di vertice (era quello il momento delle scomuniche reciproche tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente, dello scisma di Michele Cerulario); ma non per questo meno rivelatori della svolta che il Marango cercò di imprimere al mondo lagunare: predicando il nisi comederitis carnem Filii hominis et sanguinem eius biberitis, non habebitis vitam in vobis, egli incentrava sull'Eucarestia (non sul culto, non sulle reliquie o sui santi) l'esperienza religiosa; e indicava nel prete, in quanto esclusivo artefice di essa, l'unico mediatore di salvezza. Una prospettiva, come si vede, tutta "romana" e anzi "gregoriana", che come tale penalizzava il duca (uso a dominare sul clero) e insieme molti Venetici (abituati a un Dio che si manifesta a tutti negli eventi e nelle cose ben più che a un Dio nascosto nell'Eucarestia e monopolio esclusivo dei preti): come poteva essere accolta?
La risposta di Pietro d'Antiochia non poteva essere più raggelante. Quanto al titolo di patriarca vantato dal Marango, essa suonava pressappoco così: ho letto tanto nella mia vita, testi antichi e recenti, ma non ho mai trovato scritto che il presule (πϱόεδϱοϚ) di Aquileia e delle Venezie fosse un patriarca. Cinque, infatti, sono le sedi patriarcali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme; 5 come i 5 sensi del corpo. Sarebbe mostruoso se fossero di più. E poi se a una terra così piccola come quella venetica fosse attribuita la dignità patriarcale, quale dignità bisognerebbe conferire a terre immense come la Bulgaria?
Quanto alla questione eucaristica, lungi dall'intervenire presso il clero di Costantinopoli, Pietro ne condivideva con forza le tesi: non era più tempo di vivere secondo l'Antico Testamento, cioè sub lege, come faceva la Chiesa di Roma; bisognava vivere secondo il Nuovo, cioè sub gratia. Bastava leggere i Vangeli per capire che Cristo s'era cibato di pane fermentato. L'azimo, infatti, è cosa morta, inanimata, parecchio imperfetta; è il fermento che gli conferisce anima e sostanza, trasformandolo in carne vivente e vivifica di Cristo. Fermarsi all'azimo significava anche sfiorare l'eresia di Apollinare, per la quale il Verbo di Dio avrebbe assunto il solo corpo, non già l'anima e la mente, dalla Vergine Maria (119).
Ecco, dunque, dove portava la religione romana di Domenico Marango: a un autentico disastro. Ne usciva minata la credibilità della Chiesa venetica e come istituzione (si negava la sua dignità patriarcale) e come ortodossia (si contestava la sua concezione eucaristica). Tanto bastò perché attorno ad essa si facesse il vuoto di consensi e di risorse (a un certo punto il Marango, ridotto pressoché in miseria - propter nimiam egestatem -, minacciò di abbandonare la sede) (120), e perché in sua vece tornasse in auge una religione patria, cioè la religione del duca e di s. Marco.
I segni del mutamento sono evidenti: la costruzione di una nuova basilica - che è poi quella attuale - in onore del santo evangelista, iniziata al tempo di Domenico Contarini (†1071) e conclusa al tempo di Vitale Falier (†1096); e l'assunzione dello stesso santo come patrono ufficiale del duca e di tutti i Venetici. Del rapporto ormai inscindibile tra s. Marco e il duca è prova l'elezione di Domenico Silvo nel 1071: il nuovo eletto, condotto in processione alla basilica di S. Marco, entra scalzo nella chiesa, ringrazia Dio e l'evangelista per la carica ricevuta, e poi riceve all'altare a lui dedicato il baculus del comando. È significativa l'enfasi portata sulla figura dell'evangelista, che non è detto solo santo o beato ma sanctissimus o beatissimus. a sottolineare il suo primato su tutti gli altri santi o beati, e che è visto come colui che conferisce direttamente l'investitura del potere al nuovo duca (121). E poi, a conferma ulteriore del nesso s. Marco-duca, venne la celebre inventio del 1094, interpretata come "miracolo politico" (122).
Nello schema agiografico l'inventio precede la translatio. Narra la leggenda che essendo ormai prossima la consacrazione della nuova basilica marciana nessuno sapeva più dov'era finito il corpo dell'evangelista da trasportare nella splendida sede e tutta la città con il suo duca era mesta e vergognosa. Ma Dio venne in soccorso con un miracolo: il 25 di giugno - giorno che entrò nella tradizione liturgica -, alla presenza di una moltitudine che era confluita in S. Marco per preghiere e voti, l'arca con il corpo dell'evangelista scaturì come per incanto da una colonna calloprecia spandendo soavi profumi. Grande allora fu il tripudio di tutti; il corpo rimase esposto per qualche mese, dum ecclesia nova consecraretur, fino all'8 di ottobre; e in questo tempo Dio compì molti prodigi (123).
La leggenda fa certamente parte di un'offensiva del duca, condotta con l'ausilio di una cultura soprattutto monastica a lui fedele, intesa a ricuperare una primazia religiosa e quindi politica senza dubbio compromessa. Non per nulla, negli stessi anni, comparve anche nelle monete, tipico segno e veicolo della sovranità ducale, l'effigie di s. Marco (124); non per nulla, sempre negli stessi anni, cominciò a essere eseguito all'interno della neocostruita basilica marcianti un manto musivo che era una specie di Bibbia e di agiografia riscritte in funzione del potere ducale: che cosa poteva significare, infatti, s. Marco troneggiante al sommo dell'abside centrale del presbiterio avendo ai lati s. Pietro e s. Ermagora se non la ricattura nelle mani del duca di tutta la tradizione religiosa venetica (125)? Tanto più che lo stesso duca sentiva il bisogno di difendersi non solo dalla concorrenza del patriarca ma anche da quella di una parte crescente e invadente dei suoi sudditi: nella suddetta abside, sorprendentemente, compare un nuovo santo, Nicola di Mira.
Si dice che fu il duca Domenico Contarini a fondare nel 1053 un nuovo monastero dedicandolo a s. Nicola: S. Nicolò del Lido. Un monastero che inizialmente ebbe lo status di "dipendenza" da S. Giorgio Maggiore, ossia dal "principale santuario cittadino" dopo la basilica di S. Marco (126). Come al solito, tutto viene ricondotto al duca e a s. Marco. Ma quelli erano anche gli anni del patriarca Marango e comunque di un articolarsi della religione venetica: che senso poteva avere, quindi, questa nuova fondazione e quale posto poteva occupare s. Nicola nel quadro delle devozioni locali?
L'elezione di Domenico Silvo del 1071 avvenne dopo che quasi tutti i Venetici (fere omnes) si furono radunati sulla spiaggia di S. Nicolò al Lido; fu in S. Nicolò che clero e monaci implorarono Dio di concedere alla patria e alla gens Venetiarum un duca degno; dopo il rito, fu sempre in S. Nicolò che fu gridato il nome del nuovo duca; le laudi ducali furono cantate lungo il tragitto che processionalmente condusse l'eletto da S. Nicolò a S. Marco (127). S. Nicolò e S. Marco sembrano dunque i due luoghi sacri al potere ducale. E in realtà lo sono: l'elezione non può essere disgiunta dall'investitura. Ma il testo del cronista coevo fornisce anche una "differenza": S. Nicolò è il luogo dei populi che acclamano, degli ecclesiastici che pregano, dei nobiles che decidono; mentre S. Marco è il luogo del duca solitario e scalzo, circondato dai suoi cappellani, che si inginocchia di fronte al suo Santo e da lui riceve il baculus del comando. Si può dire che la fonte del potere è a S. Nicolò, mentre in S. Marco è la sua consacrazione. Era la prima volta che succedeva in Venezia un simile "sdoppiamento": chi ne era protagonista; o, per meglio dire, chi era interessato a "occupare" S. Nicolò e quindi a influenzare l'elezione ducale?
Secondo uno dei miracula narrati al seguito della Translatio di s. Nicola, fu lo stesso vescovo di Mira a fondare in Venezia il monastero e la chiesa di S. Nicolò; e li avrebbe fondati perché i negotiatores, al loro ritorno in patria, trovassero una loro casa (habitatio) (128).
Anche i mercanti, dunque, avrebbero dovuto avere il loro Santo e il loro tempio votivo, non solo il duca. Non per nulla qualcuno ha scritto di recente che allora "si esitò" se dare il patrocinio di Venezia anche a s. Nicola (129). Ma la prova più evidente di questo "sdoppiamento" si trova in un testo finora non abbastanza studiato: la Translatio relativa a s. Nicola, a suo zio Nicola e a Teodoro, scritta da un monaco anonimo nella prima metà del XII secolo.
Lo scenario è quello della spedizione crociata del 1099. Già erano trascorsi tre anni da quando gli Occidentales, mossi dallo Spirito Santo, erano andati in Oriente per liberare i Luoghi Santi dai "nemici di Dio" quando anche i Venetici decisero di raggiungerli. Dopo una sosta a Rodi per svernare, invano le navi fecero rotta verso Gerusalemme: la mano di Dio le costrinse a deviare su Mira dove, in un crescendo di drammatiche avventure, gli uomini di Venezia misero le mani su quelle reliquie di s. Nicola che nessuno in precedenza, neppure l'imperatore di Bisanzio, era riuscito a far sue. "O popolo felice [esclama a questo punto l'agiografo>, che hai meritato l'inventio di un così prezioso tesoro; o beata, anzi due volte beata Venezia, che puoi poggiare su due fulgide colonne: possiedi infatti il leone che ti fa vittoriosa in guerra, possiedi il nocchiero che non ha paura del mare in tempesta" (130).
S. Marco e s. Nicola: sembra un accostamento ovvio, un binomio scontato, la perfetta combinazione della religione del potere con quella degli affari; ma l'avvento del nuovo santo costituì un turbamento non piccolo per il mondo lagunare. Si legge, ad esempio, nella Translatio che i crociati, prima di partire, si concentrarono non in S. Marco bensì in S. Nicolò, dove ascoltarono le prediche del patriarca e dei vescovi e ricevettero la benedizione; ed è noto che S. Nicolò era diventata la sede ufficiale del patriarca, anzi di un patriarca, Pietro Badoer, parecchio autonomo rispetto al duca e tenacemente filopapale (131). Vi si legge ancora che Venezia da sempre venerava s. Nicola, da sempre era consacrata a s. Nicola, da sempre gli apparteneva (tua Venetia), da sempre, da buona filia, non desiderava altro che la presentii del suo unico patronus (132). Ma tutto questo non si diceva, e davvero da sempre, di s. Marco?
In effetti, quando giunse a Rialto la notizia clamorosa dell'inventio delle reliquie di s. Nicola, chierici monaci e laici gioirono sì ma anche cominciarono a discutere sulla destinazione: "Mettiamo s. Nicola vicino a s. Marco", proposero gli uni; ma altri: "No, è meglio costruire una chiesa nuova in campo ipsius" (cioè nella stessa piazza di S. Nicolò) e altri ancora: "No, meglio S. Nicolò, la sua casa maior, dimodoché, sicut dux ad Sanctum Marcum, ita patriarcha sedeat ad Sanctum.Nicolaum". E c'era anche il sospetto più che fondato che il vescovo Enrico, cui si riconosceva gran parte del merito dell'inventio, pretendesse collocare il corpo santo nella sua chiesa matrice (133).
E difficile non cogliere dietro questo "dissidio" l'agitarsi di forze distinte e anzi contrapposte, di vere e proprie partes. E non persuade l'agiografo quando afferma che solo per intervento di Dio alla fine si decise di assecondare l'abate di S. Nicolò e di collocare le reliquie nel suo monastero. In realtà la decisione finale fu presa, con impegno giurato, dagli stessi membri della spedizione crociata che avevano individuato in S. Nicolò il luogo ideale del proprio santo patrono (134). I quali membri sono in primo luogo ecclesiastici: la crociata nasce indubitabilmente dal patriarca e dai vescovi della laguna, dal clero e dai fideles Venetici che prima della partenza si concentrano per le cerimonie propiziatorie in s. Nicolò; il vero eroe della crociata è il vescovo di Castello Enrico Contarini che profetizza l'inventio di s. Nicola, decide da ispirato rector et preceptor le fasi salienti dell'impresa tra cui la deviazione su Mira, si presenta come l'interprete di tutto il popolo lagunare (celebrando in Gerusalemme sul Sepolcro di Cristo esclama: "totam hodie Venetiam prae oculis habeo"), e chiude il viaggio trionfale a S. Nicolò da cui era partito tenendo alla folla dei Venetici e dei multi alii ivi convenuti un discorso-rapporto:."totius rei gestae seriem [...> satis breviter et luculenter enarravit" (135).
Accanto agli ecclesiastici, gli altri membri della spedizione che sicuramente contavano erano i negotiatores e in ogni caso quanti erano interessati al guadagno mercantile: l'impresa fu decisa dai mercanti e a vantaggio dei mercanti per arginare l'invadenza dei Pisani in Oriente; il primo scontro militare avvenne con i Pisani che, sconfitti e presi prigionieri, furono liberati con il patto che non avrebbero più messo piede in Romània causa mercimonii; l'accordo con i crociati Francigenae prevedeva che in tutte le città conquistate i Venetici fossero esentati dai gravami che di solito i mercatores pagano ai principes terrae. Tutto, insomma si svolge all'insegna del Nos enim Venetici sumus nautae negotiatores, in periculo maris assidue conversantes, oppure del Venetici sumus, et causa negotii, sicut patres nostri, regiones plurimas peragramus (136).
Dunque, ecclesiastici e mercanti: ecco le forze interessate a far blocco, a defilarsi dall'egemonia del duca, a limitarla in nome delle proprie esigenze. Esigenze ovviamente diverse, ma in quel momento convergenti: i primi erano abituati da secoli a essere tutt'uno con il duca, il quale (come nel 1074) decideva ancora una cum episcopis, abbatibus, iudicibus et maxima parte nostrorum fidelium; ma nel 1090 risultano esclusi dal potere (137): come non cercare appoggi nelle forze emergenti della società? I secondi, da secoli confusi tra i fideles del duca, proprio allora premevano per affermarsi accanto al duca, il quale è costretto a riconoscerli come propri consiglieri (nel 1090 decide cum nostris iudicibus et aliis bonis hominibus): come non appoggiarsi al clero che in quel momento, fra l'altro, era il principale fautore della crociata, ossia di un'impresa vitale per l'incremento dei traffici? Il convergere delle due forze avveniva nel nome di un nuovo patrono, s. Nicola, in un nuovo "santuario", S. Nicolò al Lido, che erano ben altra cosa rispetto al vecchio patrono e al vecchio "santuario" nazionale, s. Marco. L'inventio di s. Marco del 1094 aveva trovato una pronta e non disinteressata risposta: accanto alla religione del duca era nata la religione della società mercantile.
L'oggettivo divaricarsi della pietas lagunare (s. Nicola era tutt'altro che un "assistente" o una "controfigura" di s. Marco) (138) ebbe effetti imprevisti quali l'apertura al monachesimo straniero di tipo cluniacense: nel 1098 il duca Vitale Michiel donò al monastero di Polirone la chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano di Malamocco (una pertinenza della propria cappella, ossia della basilica di S. Marco) perché vi stabilisse una comunità; nel 1109 anche la famiglia Badoer si spogliò di una chiesa "propria", S. Croce di Luprio, in favore del monastero di La Charité-sur-Loire, perché vi insediasse una sua comunità (139).
Neppure Venezia, si potrebbe dire, riusciva a sottrarsi al papato e alla sua riforma; ma fa egualmente specie la donazione del duca a Polirone, l'abbazia protetta da Matilde di Canossa. Essa comportò infatti l'inserimento permanente sia del Michiel sia di suoi parenti e di altri Veneti nella grande familia polironense che proprio allora veniva dichiarata in un apposito Liber vitae secondo precise gerarchie: primo veniva Urbano II, il capo di tutti i credenti; poi, l'abate Ugo di Cluny, sotto la cui regola il monastero mantovano era confluito; quindi, la contessa Matilde con tutta la sua stirpe; e infine l'insieme degli amici e dei benefactores della stessa abbazia. Tra i quali - primi nella lista e preposti agli stessi vassalli dell'ente monastico - il duca Vitale Michiel, appunto, suo figlio Giovanni, Marino Michiel (forse un suo congiunto) e Vitale Polani; ma anche - collocati tra i vassalli e con l'avvertenza che non avevano prestato giuramento di fidelitas - altri Veneti: Berlencario Contarini, Domenico Michiel, Domenico Baseggio, Stefano Ziani, Albuino Foscari, Giovanni Badoer con sua moglie (tutti di schiatte importanti).
E anche in seguito, al tempo dell'abate Enrico (1125-1141), Veneti continuarono a entrare nella familia polironense: Giovanni Andradi primicerio di S. Marco, Gisa moglie di Giovanni Polani, Pietro Michiel, Enrico Morosini, Orio Dandolo con sua moglie (per quest'ultima coppia esiste anzi l'impegno solenne del monastero per la celebrazione del trigesimo in morte e dell'anniversario della sepoltura con messa e officio funebre) (140).
Sembra abbastanza chiarito che cosa rappresentava per tutti l'iscrizione nel Liber vitae: non tanto il segno di legami di natura giuridico-economica, connessi con il possesso di benefici o di beni censuari del monastero da parte dei familiares, quanto la dichiarazione di un vincolo di carattere spirituale per il quale i familiares stessi acquisivano lo status di fratres o di socii della comunità monastica e quindi di destinatari delle preghiere e dei meriti da essa garantiti. Meglio ancora: l'iscrizione nel Liber vitae era la prova che anche i laici, certi laici, di per sé esclusi dall'accesso all'altare (l'esclusione, già biblica, era stata rinverdita dopo la riforma gregoriana), in realtà all'altare potevano accedere ed essere presentati e ricordati a Dio per sacerdotem in vita e dopo la morte tramite i loro nomi: era come se questi nomi fossero scritti in cielo, nel gran libro del Signore (141).
Al di là, peraltro, degli aspetti mistico-spirituali, rilevante resta il fatto che nel Liber vitae di Polirone compaiano, entro la prima metà del XII secolo, ben 5 Michiel, più, tra gli altri, un Polani e un Morosini: tutte stirpi ducali (tra il 1096 e il 1172, a parte un Falier, si alternarono al governo del ducato ben 3 Michiel, un Polani e un Morosini). Dunque, anche Veneti illustri si stringevano ai monaci - non più come patroni ma come familiares - in cerca di conforti religiosi, né più né meno di certi grandi e meno grandi signori della Terraferma: come i Tiso e i da Romano che nel 1127, memori dell'abate Ponzio, donarono a Polirone un'area per la costruzione di un monastero; come il conte vicentino Uberto dei Maltraversi, fondatore di un monastero - S. Maria di Praglia - poi aggregato a Polirone; come il conte Rambaldo di Treviso, per non parlare dei feudatari lombardi (142).
Sorprende l'affinità di situazione tra grandi leaders di Venezia e del territorio; ma non più di tanto: in fin dei conti anche in Venezia il potere assoluto del duca era entrato in crisi, così com'era entrato in crisi in terraferma il potere dei vescovi e delle grandi famiglie. E nel momento della crisi ogni appoggio era utile, specie se prove-niente da forze "omogenee" come quelle monastiche (era antica la confidenza tra grandi famiglie e abbazie). Ora si comprende meglio perché il duca di Venezia si mostrasse "amico" dei monaci, benefattore dei monaci e pronto a far parte della loro familia. L'alleanza con i monaci era una risposta all'alleanza in atto tra clero e mercanti. Una prova di ciò si può forse trovare anche in un'altra Translatio che resta da esaminare: quella di s. Stefano protomartire (143).
Problema dirimente, agli effetti di una lettura esatta di questa Translatio, è la data di composizione: c'è chi la colloca all'indomani del trasporto materiale delle reliquie, che avvenne sicuramente nel 1110; e chi, in maniera imprecisata, nel corso del Duecento. In realtà, anche se l'unico "testimone" sopravvissuto riporta all'avanzato XV secolo, la data più probabile di composizione si può far risalire al tardo XII secolo, e in particolare agli anni che precedettero la quarta crociata (144). A parte questo, resta vero peraltro che il culto di s. Stefano si diffuse per tempo a Venezia, fors'anche prima della stessa translatio: per iniziativa di chi e con quale significato?
L'interesse per il santo vede in prima linea i monaci dell'abbazia di S. Giorgio: colui che ha l'idea del "furto ", la forza e la costanza per compierlo è un monaco di S. Giorgio; Dio stesso (solo Deo, ut credo, suggerente) vuole che le reliquie siano destinate all'abbazia (e alla volontà di Dio non può opporsi neppure il duca); una lode speciale è riservata all'abate Tribuno per aver procurato le sacre spoglie (cuius labore et studio corpus sanctum suo monasterio fuit attributum) (145). L'iniziativa di arricchire Venezia di una nuova reliquia sembra dunque da ascriversi ai monaci di S. Giorgio.
Ma non appena il monaco protagonista del "santo furto" ebbe caricato le spoglie su una nave veneziana che da Costantinopoli faceva rotta verso la patria, ecco - secondo l'agiografo - venire alla ribalta altri protagonisti: sono le 72 persone viaggianti per mercatura che, non appena s'accorgono della presenza di s. Stefano, decidono di rendergli grazie costituendo, presso il luogo in cui a Venezia fosse stato collocato, una schola in suo onore. Fra esse figurano tanto nomi importanti (di maiores) quanto nomi meno importanti (di mediocres e di minores), tanto uomini quanto donne, tanto veneziani quanto stranieri, fornendo uno spaccato parecchio composito della società lagunare. Quelli che più risaltano sono comunque i nomi importanti - ben 8 Michiel, 3 Falier, 2 Polani, e poi Orseolo, Morosini, Dandolo, Baseggio, Dolfin, Badoer, Contarini, Giustinian, Gradenigo, Sanudo -, che superando il terzo dei fratres qualificano in senso altamente aristocratico la schola. La quale, pertanto, sembra nata proprio per garantire conforti spirituali ai membri delle grandi famiglie ducali e "apostoliche" (146). Ossia, oltre ai monaci, protagonisti centrali della Translatio sono i laici eminenti del ducato che si stringono attorno all'abbazia di S. Giorgio (un'abbazia ducale, si ricordi) in nome di s. Stefano (147).
Il senso dell'alleanza monaci-laici eminenti, che qui si presenta in termini ben più ampi e organici che non nel caso di Polirone, può essere saggiato proprio a partire da s. Stefano. Perché questo nuovo patrono? Aveva un bel dire l'autore della Translatio che il protomartire veniva ad affiancarsi a Marco e a Nicola, a rinforzarne il patrocinio, sicché i tre santi finivano per stringere la città con un triplice rassicurante funiculus (148). Si sa che egli scriveva "dopo", in un diverso contesto, che si potrebbe definire non più "ducale" e già comunale, quando contava celebrare tutta Venezia e non questa o quella forza ad essa interna. Ma ai primi del XII secolo il ricorso a s. Stefano risulta tutt'altro che pacifico. Erano quelli i tempi in cui la religione veneziana già si era attestata attorno a due patroni forti e tra loro concorrenti, in cui le famiglie ducali da un lato e quelle mercantili dall'altro già avevano individuato il loro santo preferito (s. Marco e s. Nicola). Chi poteva aver bisogno, in quel contesto, di s. Stefano?
L'autore della Translatio chiude il suo scritto con una celebrazione del santo che può riferirsi a ogni età: nessuna minaccia, neppure la morte, distolse Stefano dall'amore di Dio; fu coperto dalle pietre, ucciso, ma non vinto; sotto i colpi, fortis perseveravit anzi esultò e pregò per i suoi persecutori. I lapidantes lo credevano vinto, ma egli, il lapidatus, era in realtà il vincitore (149). Ora, sarebbe azzardato ipotizzare una identificazione stretta, quasi necessaria, tra un santo così configurato e forze soccombenti della società e della politica; ma il diffondersi coevo e in ambiti diversi, perfino a Cluny (dove pure avviene una translatio), del culto al protomartire (150) pone comunque il problema dell'emergere di una religione del disagio. A Venezia, evidentemente, i santi del successo, come s. Marco vittorioso in guerra e s. Nicola il nocchiero che vince le tempeste del mare (il santo del potere e il santo della ricchezza), non confortavano abbastanza; e c'era chi guardava a un santo dell'insuccesso, come s. Stefano, perché da un santo dell'insuccesso ci si poteva attendere (per qualche via) un successo più grande.
Ora meglio si comprende il fatto della translatio, il costituirsi di una schola, il confluire di monaci e di laici - specie di membri di famiglie ducali - attorno alla figura del protomartire: era una maniera di garantirsi, di solidarizzare da parte di forze che avvertivano di perdere terreno, ciascuna nel proprio ambito - i monaci di fronte ai preti, le famiglie ducali di fronte alle famiglie emergenti -, e che tentavano di familiarizzarsi con l'idea del proprio "martirio" nella speranza di un trionfo finale.
Atteggiamenti siffatti coinvolgevano peraltro minoranze ristrette, mentre la preferenza dei più era ormai orientata per una religione fortemente radicata nelle esigenze di una nuova società: per una religione, quindi, non più del duca o di gruppi speciali di sudditi, ma "cittadina", "veneziana". Le Translationes del XII secolo presentano, nel loro complesso, uno scenario quanto mai significativo: Bisanzio che perde, e merita di perdere, ad una ad una le reliquie; Venezia che acquista, e merita di acquistare, le stesse reliquie. Bisanzio che vede emigrare la santità, il fondamento stesso della sua grandezza verso Occidente, rimanendo triste, desolata, piangente; e Venezia che eredita la stessa santità, come pegno e linfa di una sua grandezza ormai incontenibile, dando sfogo a tutta la sua gioia ed esultanza. Quella che contava, insomma, era la Venezia nella sua unità indiscussa di popolo e di Grandi, di clero e di monaci, "rappresentata" (non più solo dominata) dal duca, che ormai possedeva tutti i segni divini per essere riconosciuta da tutti, in Oriente e in Occidente, come la nuova Bisanzio (151).
Peraltro, in tutte le Translationes (compresa quella di s. Stefano), la città è identificata tramite un ceto ben preciso, quello dei mercanti. Un prete, durante un movimentato viaggio svoltosi attorno alla metà dell'XI secolo, avrebbe dichiarato: Venetici sumus et causa negotii, sicut patres nostri, regiones plurimas peragramus; le reliquie di s. Stefano sono caricate su una nave veneziana che "come al solito aveva fatto scalo a Costantinopoli" e sulla quale, insieme con i mercanti (Veneticorum nobilitas, iuvenum amenitas), viaggiava una partita di oro, di argento e di altri preziosi (152).
Per contro, anche i mercanti si identificavano con la città, se la portavano per così dire in viaggio. Sappiamo ad esempio che non si mettevano in mare senza condurre seco un prete della propria parrocchia, o meglio della parrocchia di cui erano vicini (153).
La religione ormai dominante è quindi quella dei mercanti. Ed è una religione pronta a far propri, senza distinzioni o concorrenze, tutti i patroni via via comparsi sull'orizzonte veneziano, perché tutti contribuivano a far grande la città di fronte al mondo.
In primo luogo, s. Marco: Dio stesso - come si legge in una preghiera scritta attorno al 1130 - aveva disposto che il suo corpo prezioso fosse traslato da Alessandria a Venezia (così come aveva disposto che quello di s. Giacomo passasse da Gerusalemme alla Spagna, e quelli di Matteo e Bartolomeo dall'Etiopia e dall'India alla Puglia); poi, il glorioso protomartire Stefano, i ss. Ermacora e Fortunato, il grande Nicola, per non parlare degli altri santi, martiri e confessori i cui corpi avevano abbandonato l'Oriente per raggiungere Venezia in una grandiosa translatio. È un elenco che si trova in un testo dell'epoca (154).
Nello stesso testo si narra, anzi, di un nuovo corpo santo traslato da Chio a Venezia nel 1125, quello del martire Isidoro, in onore del quale l'intera spedizione veneziana si impegnò a edificare una chiesa in prossimità di quella di S. Marco. E in quella chiesa doveva essere collocata anche un'enorme pietra trovata a Tiro, sulla quale, "come molti documenti asserivano", si sarebbe degnato di sedere Cristo Salvatore (155).
Questa nuova Translatio scritta da un chierico veneziano di nome Cerbano Cerbani, e in una data ben precisa (tra il 1125 e il 1135), è la prova migliore del diverso ruolo - di coagulo civico, non più di bandiera per forze contrapposte - che andava assumendo la religione nel contesto dell'ormai vincente società mercantile. L'autore è, come s'è detto, un ecclesiastico; lo scritto è dedicato a un altro ecclesiastico e di grande rilievo, il vescovo di Olivolo Bonifacio Falier. Ma nella Translatio un posto d'onore è riservato anche al duca che guida la spedizione veneziana in Oriente sotto l'egida di Dio e di s. Marco (sub divino ac beatissimi Marci gubernaculo); e accanto al duca un risalto speciale assumono i proceres o "nobili" (i nobili mercanti), l'esercito e il clero (non compaiono più, invece, i monaci), ossia tutte le rappresentanze cittadine avviate a fondersi nell'ormai operante Comune. In effetti, più che questa o quella forza, la vera protagonista della Translatio è l'intera città di Venezia, sentita come "patria" venerata, come "luogo di desiderio" per tutti i suoi figli sparsi per il mondo (tale era anche Cerbano), come meta preferita per tanti santi che "vollero" lasciare l'Oriente, e perciò come santuario essa stessa tra i maggiori della cristianità (156).
A rappresentare una città siffatta non poteva più bastare un solo uomo, per quanto nobile e grande come il duca; ci voleva un santo, un amico di Dio in cui tutti si riconoscessero, come s. Marco (difatti i giuramenti pubblici cominciano a essere prestati prima a s. Marco e poi al duca: sancto Marco et duci Venetiarum) (157): un santo che a sua volta lasciasse spazio a tutti gli altri santi e amici di Dio (non a caso s. Marco è chiamato "compatrono", e non già patrono, dei Veneziani) (158). Era nata, insomma, dopo una lunga e complessa gestazione, la cosidetta "Repubblica di s. Marco".
20 Epilogo
Il nostro cammino tra le pieghe della storia lagunare si può interrompere qui. Abbiamo individuato, agli inizi, una religione privata e domestica, di singole famiglie ducali, che inutilmente tentò di imporsi all'intera società. Abbiamo quindi illustrato un'altra religione: quella scaturita dalla società, anzi dal ceto mercantile in ascesa, che rivendicò dapprima il possesso di s. Marco e poi inventò un suo santo autonomo, Nicola. Abbiamo mostrato infine come lo scontro tra la religione del duca e quella dei mercanti valorizzò da un lato un santo speciale, Stefano protomartire (il santo degli sconfitti), e preparò dall'altro il rilancio di s. Marco come patrono, accanto a tutti gli altri santi importati dall'Oriente, dell'intera città.
Il che, se non basta a confermare appieno che i Veneziani furono sempre perfetti nella fede e fedeli interpreti della volontà divina (come scriveva l'autore della Translatio di s. Marco), è segno non dubbio che la religione - ossia il rapporto con Dio e con i santi che sono gli amici di Dio - non cessò mai di alimentare nel profondo la storia della Repubblica.
1. Nelson Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche sul testo della " Translatio Sancti Marci ", "Memorie storiche forogiulesi", 27-29, 1931-1933, pp. 223-264, con testo della Translatio a pp. 238-264, partic. pp. 245-246. Il brano appare nei mano-scritti più antichi, non nel Marciano del secolo XII; ma non per questo si deve ritenere interpolato. Accettano la datazione della Translatio nel pieno XI secolo anche Hans C. Peyer e Otto Demus: cf. Patrick Geary, Furta sacra, Thefts of Relics in the Centrai Middle Ages, Princeton 1978, pp. 107-I 15, partic. p. 114. Ma Baudouin De Gaiffier, in una recensione al Peyer in "Analecta Bollandiana", 76, 1985, p. 445 (pp. 444-446), segnala un manoscritto che si ritiene della fine del X secolo: cf. Catalogue général des manuscripts des Bibliothèques publiques de France, Départements, XII, Paris 1889, pp. 102-104. Sulla datazione e il significato della Translatio, v. infra.
2. Giorgio Cracco, Pataria: 'opus' e 'nomen' (tra verità e autorità), "Rivista di storia della Chiesa in Italia", 28, 1974, pp. 357-387, partic. p. 384.
3. Il mito religioso, che precede quello civile, passa attraverso la Translatio prima che attraverso la Cronaca del diacono Giovanni: Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 445-479, partic. pp. 452-455.
4. Eppure l'autore della Translatio ben conosceva le gerarchie ecclesiastiche: del patriarca Elia dice che assunse il governo della Chiesa gradense "con il consenso" di papa Pelagio (pp. 242-243 dell'ediz. cit.).
5. Reinhard Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia. Il culto dell'evangelista e il miracolo politico della Repubblica di Venezia, Roma 1981, pp. 81-82.
6. Agostino Pertusi, Cultura bizantina a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 326-349, partic. p. 333.
7. Il dossier dei documenti relativi a Fortunato in Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Secoli V-IX, a cura di Roberto Cessi, Padova 1942, nrr. 37-43, pp. 56-71, partic. p. 57 (papa Leone III rileva che Fortunato avrebbe dovuto esporre i suoi principi di fede con maggior cura: subtiliter), 69 (Leone III lamenta che Carlo ha provveduto alle "temporalità" di Fortunato, ma non alla sua anima, giacché egli continuava a comportarsi in maniera indegna per un arcivescovo).
8. Giovanni Tabacco, Il volto ecclesiastico del potere nell'età carolingia, in Storia d'Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini - Giovanni Miccoli, Torino 1986, pp. 5-41, partic. p. 14; Documenti, I, nr. 44, pp. 71-74, partic. p. 72. Solo in seguito, peraltro, ben più che nel corso del IX secolo, il contorno ecclesiastico del duca si farà più evidente.
9. Maximum regni nostri [... > munimentum, precisano i diplomi carolingi; pro divino amore ac nostre anime sine parentorum nostrorum salute, dichiarano quelli veneziani (Documenti, I, nrr. 38, p. 58 e 44,
p. 72).
10. Documenti, I, nr. 41, p. 68 (per brevità e comodità solo di rado, in questa come in altre note, si danno diverse, anche più recenti edizioni dei Documenti curati dal Cessi).
11. Ad esempio, la fondazione del monastero femminile di S. Zaccaria (827-829?) è non solo frutto di un atto politico, ma anche sbocco di una domanda religiosa (Giovanni Spinelli, I primi insediamenti monastici lagunari nel contesto della storia politica e religiosa veneziana, in AA.VV., Le origini della Chiesa veneziana, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 151-166, partic. p. 157).
12. L'abbazia di S. Servolo è trasferita a S. Ilario e dotata perché i monaci possano vivere eo ordine quo decet beati Benedicti regula (SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, nr. I, pp. 5-17, partic. p. 9). La regola benedettina era stata uniformemente adottata dall'impero al concilio di Aquisgrana dell'817 (cf. Vita Benedicti Abb. Anianensis et Indensis auctore Ardone, in M.G.H., Scriptores, XV, a cura di Georg Waitz, 1887, pp. 198-220, partic. 215 ss. Per i Capitula Aquisgranensia dell'8I7 e dintorni, cf. Corpus consuetudinum monasticarum, I [...>, a cura di Joseph Semmler, Siegburg 1963, pp. 423 ss.).
13. SS. Ilario e Benedetto, p. 10.
14. I1 testo dice infatti: magistro Regule subdantur servire sub regula (Documenti, I, nr. 53, p. 94). La Regula Magistri era allora ben nota: Benedicti Anianensis Concordia regularum, in P.L., 103, coll. 713-1380; La Règle du Maître, I [...>, a cura di Adalbert de Vogüé, in Sources Chrétiénnes, 105, Paris 1964, p. 134.
15. Per il possesso di basiliche e reliquie si veda il testamento di Orso vescovo di Olivolo (853) in S. Lorenzo, a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nr. I, pp. 5-12, partic. p. 7 (dove la basilica di S. Lorenzo è elencata tra le res iuris proprietatis meae, che già aveva avuto in eredità dal padre) e la notizia che i Particiaci patrocinia multa erant habentes desunta dall'Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 144. Cf. Daniela Rando, Aspetti dell'organizzazione della cura d'anime a Venezia nei secoli XI-XII, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 53-72, partic. p. 64.
16. Vittorio Fainelli, L'abbazia di S. Zeno nell'Alto Medioevo, in AA.VV., Miscellanea in onore di R. Cessi, I, Roma 1958, pp. 51-62; AA.VV., Il monastero di S. Ambrogio nel Medioevo, Convegno di studi nel XII Centenario: 784-1984, Milano 1988. Del 784 è anche la fondazione del monastero di S. Ilario poi trasferito a S. Gregorio.
17. Documenti, I, nr. 46, pp. 79-81.
18. Luigi Alberto Ferrai, Agnello Ravennate e il Pontificale Ambrosiano, "Archivio storico lombardo", ser. III, 22, 1895, pp. 277-302, partic. pp. 296 ss.
19. Documenti, I, nrr. 50-51, pp. 83-92. Per il riscontro con il sermo di Leone Magno, cf. Michele Maccarrone, La dottrina del primato papale dal IV all' VIII secolo nelle relazioni con le Chiese occidentali, in AA.VV., Le Chiese e i Regni dell'Europa occidentale e i loro rapporti con Roma fino all'800, II, Spoleto 1960, pp. 663-742, partic. p. 661, n. 93.
20. Fra i legati del patriarca Fortunato alla sua Chiesa (824), si legge testualmente: ad sedem Sancti Marci (Documenti, I, nr. 45, p. 75). Per i titoli marciani della laguna, cf. Antonio Niero, Santi di Torcello e di Eraclea tra storia e leggenda, in AA.VV., Le origini della Chiesa veneziana, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 31-76, partic. pp. 59-60. Cf. anche Sergio Tavano, Nota marciana, "Felix Ravenna", 127-130, 1984-1985, pp. 455-469, partic. pp. 458-459.
21. Documenti, I, nr. 50, partic. p. 89.
22. Ibid., I, nr. 51, pp. 90-92.
23. SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, pp. 17-24, partic. p. 23. Cf. Silvio Tramontin, Realtà e leggenda nei racconti marciani veneti, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 35-58, partic. p. 53; Id., Origini e sviluppi della leggenda marcianti, in AA.VV., Le origini della Chiesa veneziana, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 167-186, partic. p. 175; Antonio Niero, Questioni agiografiche su san Marco, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 18-27 (mette in dubbio il fatto della traslazione).
24. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, p. 250.
25. Peter Brown, Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983, passim.
26. P. J. Geary, Furta sacra, p. 110; Heinrich Fichtenau, Zum Reliquienwesen des friiheren Mittelalters, in ID., Beiträge zur Mediävistik, Ausgewählte Aufsätze, I, Allgemeine Geschichte, Stuttgart 1975, pp. 108-144, partic. pp. 137-138.
27. Fu Orso a "edificare dalle fondamenta" la chiesa di S. Pietro e poi a restaurarla (Documenti, I, nr. 60, pp. 114-118, partic. p. 116). Secondo Giovanni diacono la stessa chiesa sarebbe stata consacrata verso 1'831 (Giovanni DiacONO, Cronaca, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 [Fonti per la storia d'Italia, 9>, p. 110). Cf. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milano 1983, p. 548.
28. SS. Ilario e Benedetto, nr. 2, p. 24.
29. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, II, Secoli IX X, a cura di Roberto Cessi, Padova 1942, nr. 15, pp. 20-21.
30. Documenti, I, nr. 57, pp. 110-111.
31. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, p. 26o.
32. Ibid., pp. 26o-261.
33. S. Zaccaria era monastero esente, come si è detto supra.
34. S. Lorenzo, nr. I, pp. 5-12.
35. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, p. 255.
36. S. Lorenzo, nr. I, pp. 11-12; Giovanni Monticolo, La Cronaca del diacono Giovanni e la storia politica di Venezia sino al 1009, Pistoia 1882, p. 98.
37. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 109-110.
38. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 556-558.
39. Ibid., p. 557.
40. S. Giorgio Maggiore, a cura di Luigi Lanfranchi, II, Documenti 982-1159, Venezia 1968, nr. I, p. 20; W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 545-556.
41. Se in un primo tempo la Translatio fu concepita come risposta alla sinodo di Mantova (Heinrich Schmidinger, Patriarch und Landesherr. Die weltliche Herrschaft der Patriarchen von Aquileja bis zum Ende der Staufer, Graz-Köln 1954, pp. 12-13), in seguito i suoi effetti si amplificarono. Cf. anche l'importante lavoro di Daniela Rando, Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII. Il dinamismo di una Chiesa di frontiera, Trento 1990, pp. 74 ss.
42. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 110, 112. Seguo la trad. it. a cura di Mario De Biasi, Venezia 1988, II, p. 25.
43. Documenti, I, nr. 55, pp. 101- 108, partic. p. 101.
44. Si tratta del patriarca Fortunato: cf. Giovanni
Diacono, Cronaca, p. 107 (trad. De Biasi, II, p. 13).
45. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1938, p. 155; Giovanni Diacono, Cronaca, p. 125; Origo civitatum, p. 125.
46. Giovanni DiacONO, Cronaca, pp. 121, 125- 126 (trad. De Biasi, II, p. 55)
47. Documenti, II, nr. II (877), pp. 16-17. La storia dello scontro tra il papa che difendeva il patriarca Pietro e il duca Orso in trad. De Biasi, II, pp. 48-51.
48. Documenti, II, nr. 15, pp. 20-21 (convenzione tra il duca Orso e il patriarca di Aquileia Valperto).
49. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 128.
50. Vittorio Lazzarini, Un privilegio del doge Pietro Tribuno per la badia di S. Stefano d'Altino, in Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692, pp. 133-149, partic. pp. 147-149 = Documenti, II, nr. 25, pp. 33-36.
51. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 132.
52. Vita b. Petri Urseoli, in Acta Sanctorum ordinis S. Benedicti [...>, V, Luteciae Parisiorum 1685, pp. 878-888, partic. Prologus.
53. Documenti, II, nr. 25, p. 34.
54. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 132.
55. Ibid., pp. 136-138 (trad. De Biasi, II, pp. 76-78).
56. Vito Fumagalli, Il Regno italico, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, II, Torino 1978, pp. 288-290.
57. Documenti, II, nr. 41, pp. 70-74. Già papa Zaccaria (741-752) aveva vietato ai Venetici il commercio degli schiavi: Le Liber Pontificalis. Texte Introduction et Commentaire a cura di Louis Duchesne, I, Paris 1886, p. 433.
58. Documenti, II, nr. 49, pp. 86-91, partic. p. 87. Cf. anche Maria Nallino, Il mondo arabo e Venezia fino alle Crociate, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 161-181, partic. pp. 167-170.
59. Cf. n. precedente.
60. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 138-139.
61. Ibid., p. 140.
62. Ibid., pp. 140-141.
63. Ibid., pp. 141-143; Ramon D'abadal I De Vinyals, L'esperit de Cluny i les relacions de Catalunya amb Roma i la Italia en el segle X, "Studi Medievali", ser. III, 2, 1961, pp. 3-41, partic. pp. 19 ss.
64. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I, Milano-Messina 19682, p. 78; Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Torino 1980, pp. 339-438, partic. p. 417; Id., Petrus I. Orseolo und seme Zeit. Anmerkungen zur Geschichte der Beziehungen zwischen Venedig und dem Ottonischen Reich, Venezia 1990 (Centro Tedesco di studi Veneziani, Quaderni, 39), pp. 5-15, 66 ss. Cf. anche Silvio Tramontin, Problemi agiografici e profili di Santi, in AA.VV., La chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 153-177, partic. pp. 155-160.
65. Petri Damiani Vita beati Romualdi, a cura di Giovanni Tabacco, Roma 1957 (Fonti per la storia d'Italia, 94), pp. 21 ss.
66. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 140-141.
67. Giovanni Tabacco, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell'eremitismo camaldolese, in AA.VV., L'eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti [...>, Milano 1965, pp. 73-121, partic. pp. 104-107, 120-121.
68. Documenti, II, nr. 41, pp. 72-73 (tra i sottoscrittori compaiono un Giovanni Gradenigo e un Giovanni Morosini, che potrebbero anche non essere omonimi); nr. 49, p. 88 (qui, oltre a un Domenico Morosini, compare un Pietro Orseolo). Cf. Pure M. Nallino, Il mondo arabo e Venezia, pp. 167-168.
69. Giorgio Cracco, Riforma ed eresia in momenti della cultura europea tra X e XI secolo, "Rivista di storia e letteratura religiosa", 7, 1971, pp. 411-477, partic. P. 448.
70. È una situazione ben riflessa nella Vita b. Petri Urseoli, partic. cap. 5. Cf. anche Jean-Marie Sansterre, Otton III et les saints ascètes, "Rivista di storia della Chiesa in Italia", 43, 1989, pp. 377-412.
71. Giorgio Cracco, Le eresie del Mille : un fenomeno di rigetto delle strutture feudali?, in AA.VV., Structures féodales et féodalisme dans 1'Occident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles) . Bilan et perspectives de recherches, Colloque [...>, Roma 1980, pp. 345-360, partic. pp. 353-354.
72. Paolo Golinelli, La leggenda di sant'Alessio, Siena 1987, partic. pp. 19-22.
73. Vita b. Petri Urseoli, cap. 8.
74. S. Giorgio Maggiore, II, nr. I, pp. 15-26; G. Spinelli, I primi insediamenti, pp. 160-163.
75. Un monastero "più cluniacense che romualdino", è stato definito S. Giorgio: Giuseppe Fornasari, Fondazioni cluniacensi non dipendenti da S. Benedetto di Polirone nelle regioni venete. Un primo sondaggio, in AA.VV., L'Italia nel quadro dell'espansione europea del monachesimo cluniacense, Atti [...>, Cesena 1985, pp. 89-103, partic. 94-96.
76. Eduard Junyent, Diplomatari i escrits de l'abat i bisbe Oliba, a cura di Anscari M. Mundò, Barcelona 1990, nr. 119, pp. 198-199.
77. Jean Leclercq, San Gerardo di Csanad e il monachesimo, in AA.VV., Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Firenze 1973, pp. 3-22; S. Tramontin, Problemi agiografici e profili di Santi, pp. 160-166.
78. Die Briefe des Bischofs Rather von Verona, a cura di Franz Weigle, in M.G.H., Die Briefe der Deutschen Kaiserzeit, I, 1949, nr. 3, pp. 21-27: lettera indirizzata a un duca Pietro di Venezia, che l'editore individua in Pietro II, e perciò data tra il 932 e il 939. È interessante che l'invito di Raterio a lasciare davvero il mondo (cioè ogni contatto con il duca regnante, con i consanguinei, con i parenti) e a disinteressarsi del soccorso ai poveri (che compete ai laici come mezzo per lavare le loro colpe) sia rivolto a un duca venetico.
79. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 131.
80. "Fra il 742 ed il 1032, su ventinove [duchi>, otto soltanto morirono di morte naturale, mentre erano in carica: uno morì in guerra, tre furono assassinati, quattro acciecati, cinque rinunciarono, otto furono espulsi": Gina Fasoli, Comune Veneciarum, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1965, pp. 71-102, partic. p. 78.
81. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 91, 109- 110.
82. Ibid., p. 156; Hans C. Peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Ziirich 1955, pp. 11 e 71 (n. 8); R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, p. 71.
83. Più che negare il fatto della traslazione, serve capire le motivazioni del silenzio che la seguì: cf. Anche P. J. Geary, Furta sacra, p. 112.
84. Nicola Papadopoli, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893, pp. 22, 35; G. Fasoli, Nascita di un mito, p. 452.
85. Antonio Niero, Marco, in Bibliotheca Sanctorum, VIII, Roma 1967, coll. 724-738, partic. col. 725.
86. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 169 (trad. De Biasi, II, p. 132).
87. Michelangelo Muraro, Il pilastro del miracolo e il secondo programma dei mosaici marciani, "Arte veneta", 29, 1975, pp. 70-75. Su questo "miracolo" e la storia che lo precede, cf. Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 117-160, partic. pp. 119-123.
88. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, pp. 253, 245-246, 238-239, 247, 259-260.
89. Martin Heinzelmann, Translationsberichte und andere Quellen des Reliquienkultes, Turnhout 1979, partic. pp. 63 ss.
90. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, pp. 238-245.
91. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 60 ss. Se è vero, come è vero, che la Translatio s. Marci fu scritta prima del Mille, è evidente che anch'essa diventa fonte di Giovanni diacono (finora si riteneva che questi fosse la fonte dell'autore della Translatio).
92. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, pp. 244-245.
93. Ibid., pp. 246-247.
94. Ibid., pp. 247-248, 258-259.
95. Ibid., pp. 259-260.
96. Ibid., pp. 239, 248.
97. Si vedano le considerazioni di N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, pp. 231 ss.
98. C'è, invece, chi esclude che la Translatio sia da interpretare come a index of Venetian policy and interests (P. Geary, Furta sacra, p. 114).
99. Vedi supra; Giovanni Diacono, Cronaca, p. 138.
100. Documenti, II, nr. 53, pp. 94-98 (il "forse" del testo deriva dal fatto che il diploma in questione è ritenuto largamente contaminato).
101. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, p. 261.
102. Ibid., p. 249; Die Briefe des Bischofs Rather, nr. 29 (968), pp. 159-169, partic. pp. 165-166; Giorgio Cracco, Religione, Chiesa, pietà, in AA.VV., Storia di Vicenza, II, L'età medievale, Vicenza 1988, pp. 359-425, partic. pp. 373-374.
103. N. Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche, pp. 261-262; Giovanni Diacono, Cronaca, p. 140; W. Dorigo, Venezia Origini, p. 580.
104. È, questa, "l'età classica" delle Translationes: cf. M. Heinzelmann, Translationsberichte, pp. 94-99; Eugenio Dupré Theseider, La "grande rapina dei corpi santi" dall'Italia al tempo di Ottone I, in AA.VV., Festschrift fiir P. E. Schramm, I, Wiesbaden 1964, pp. 420-432; G. Cracco, Religione, Chiesa, pietà, pp. 374, 377-378; Ireneo Daniele, San Prosdocimo vescovo di Padova nella leggenda, nel culto, nella storia, Padova 1987, p. 127.
105. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 148-149; A. Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, pp. 123 ss.; Matilde Uhlirz, Venezia nella politica di Ottone III, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 29-43; M. Nallino, Il mondo arabo e Venezia, pp. 175-176.
106. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 151- 152, 106, 163-164, 166-167, 169-171.
107. Ibid., pp. 156-157; G. Fasoli, Comune Veneciarum, pp. 89-90; Ernst H. Kantorowicz, Laudes regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Mediaeval Ruler Worship, Berkeley - Los Angeles 1958, rist., pp. 147-156.
108. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 149 (trad. De Biasi, II, pp. 97-98).
109. Ibid., p. 171; Rodulphus Glaber, Vita domni Willelmi abbatis, 28, a cura di Neithard Bulst, "Deutsches Archiv fiir Erforschung des Mittelalters", 30, 1974, pp. 450-487, partic. p. 485 (anche in P.L., 142, coll. 718-719).
110. Giovanni Diacono, Cronaca, pp. 160, 164,
169-170 (trad. De Biasi, II, pp. 116, 121, 133).
111. Ibid., pp. 109-110, 112, 139, 140, 141, 161, 162, 164.
112. Giorgio Cracco, Gli eretici nella 'societas christiana' dei secoli XI e XII, in AA.VV., La cristianità dei secoli XI e XII in Occidente. Coscienza e strutture di una società, Atti [...>, Milano 1983, pp. 339-373, partic. pp. 354-355.
I 13. Giovanni Diacono, Cronaca, p. 149.
I 14. Paul F. Kehr, Italia Pontificia, VII, Venetiae et Histria, Pars II, Berlin 1925, nr. 26, p. 18; nr. 67, p. 50.
115. P.G., 120, coll. 751-755, partic. col. 752; Guido Bianchi, Il patriarca di Grado Domenico Marango tra Roma e l'Oriente, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 19-125; Paolo Lamma, Venezia nel giudizio delle fonti bizantine dal X al XII secolo, in Id., Oriente e Occidente nell'Alto Medioevo. Studi storici sulle due civiltà, Padova 1968, pp. 439-463, partic. pp. 451-453.
116. P.G., 120, col. 754; Giorgio Cracco, "Un altro mondo" : Venezia nel Medioevo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VIII, Torino 1986, pp. 1-166, partic. p. 32.
117. Era il senso delle idee "gregoriane": cf. André Vauchez, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose, Milano 1989, pp. 58-59.
118. P.G., 120, col. 754.
119. Ibid., coll. 755-782.
120. Gregorii VII Registrum, II, 39 (1074), a cura di Erich Caspar, in M.G.H., Epistolae selectae, II/1, 1920, pp. 175-176.
121. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, III, Venezia 1795, p. 95; G. Fasoli, Comune Veneciarum, pp. 87-90; H. C. Peyer, Stadt und Stadtpatron, p. 64.
122. Cf. supra, n. 87.
123. Monachi Anonymi Littorensis Historia de translatione Sanctorum magni Nicolai terra marique miraculis gloriosi, eiusdem avunculi, alterius Nicolai, Theodorique martyris pretiosi de civitate Mirea in monasterium S. JVicolai de Littore Venetiarum, in Recueil des Historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, V, Paris 1895, pp. 253-292, partic. p. 284; Giovanni Monticolo, L'apparitio Sancti Marci ed i suoi manoscritti, "Nuovo Archivio Veneto", 9, 1895, pp. III-177, partic. pp. 123-127; Alberto Sacerdoti, Un antico calendario veneziano, "Bollettino dell'Atlante Linguistico Mediterraneo", 4, 1962, pp. 159-171, partic. p. 164.
124. Cf. supra, n. 84.
125. Antonio Niero, I cicli iconografici marciani, in AA.VV., I mosaici di San Marco. Iconografia dell'Antico e del Nuovo Testamento, a cura di Bruno Bertoli, Milano 1986, pp. 11-36, partic. pp. 11-12.
126. Giovanni Spinelli, I monasteri benedettini fra il 1000 e il 1300, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 109-133, partic. pp. 118-119. Peraltro il documento di fondazione ducale del monastero è giustamente ritenuto di "autenticità dubbia": cf. Agostino PertusI, Ai confini tra religione e politica. La contesa per le reliquie di S. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, "Quaderni medievali", 5, 1978, pp. 6-56, partic. p. 50, n. 121.
127. Cf. supra, n. 121
128. Monachi Anonymi Littorensis Historia de translatione, p. 282.
129. A. Niero, Marco, col. 726.
130. Monachi Anonymi Littorensis Historia de translatione, pp. 254 ss. partic, pp. 266-267. Cf. anche Josef Riedmann, Eine Überlieferung der "Translatio Sancti Nicolai" aus dem 12. Jahrhundert im Tiroler Landesarchiv Innsbruck, in AA.VV., Festschrift Nikolaus Grass [...>, a cura di Kurt Ebert, Innsbruck 1986, pp. 349-364.
131. Monachi Anonymi Littorensis Historia de translatione, p. 256. Sul Badoer, cf. Giorgio Cracco, Chiesa e istituzioni civili nel secolo della quarta crociata, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 11-30, partic. pp. 13-14.
132. Monachi Anonymi Littorensis Historia de translatione, pp. 256, 260.
133. Ibid., p. 270.
134. Ibid., p. 278.
135. Ibid., pp. 273, 279.
136. Ibid., pp. 258, 259, 272, 274, 282, 284.
137. S. Giorgio Maggiore, II, nr. 31, p. 93; G. Cracco, Chiesa e istituzioni civili, p. 14.
138. R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, p. 104.
139. G. Spinelli, I monasteri benedettini, pp. 112-113.
140. Angelo Mercati, L'evangeliario donato dalla contessa Matilde al Polirone, in Id., Saggi di storia e letteratura, I, Roma 1951, pp. 213-227, partic. pp. 219-227.
I41. Cinzio Violante, Per una riconsiderazione della presenza cluniacense in Lombardia, in AA.VV., Cluny in Lombardia, Cesena 1981, pp. 521-664, partic. pp. 627 ss.
142. Ibid., p. 630; G. Cracco, Religione, Chiesa, pietà, pp. 388-389.
143. Il testo della Translatio di s. Stefano in Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis illustratae, VIII, Venetiis 1749, pp. 96-110; S. Giorgio Maggiore, III, Documenti 1160-1199 e notizie di documenti, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968, nr. 144, pp. 504-505 (ediz. parziale).
144. Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo.
I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 65-68;
Gilles - Gérard Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collab. con Gian Piero Pacini, I, Roma 1977, pp. 90-94. Le prove della datazione della Translatio alla fine del XII secolo sono presentate in un mio contributo Santità straniera in terra veneta (secc. XI-XII), in AA.VV., Les fonctions des Saints dans le monde occidental (IIIe - XIIIe siècles), Roma 1991, pp. 447-475.
145. F. Corner, Ecclesiae Venetae, pp. 99 ss., 108-109.
146. Ibid., pp. 106-108; S. Giorgio Maggiore, III, pp. 504-505.
147. S. Giorgio Maggiore, II, nrr. 106 ss., pp. 239 ss.
(tra il 1114 e il 1150 l'abbazia di S. Giorgio assunse il doppio titolo: S. Giorgio e S. Stefano).
148. F. Corner, Ecclesiae Venetae, p. 109.
149. Ibid., pp. 109-110.
150. Tractatus de reliquiis S. Stephani Cluniacum delatis, in Recueil des Historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, V, Paris 1895, pp. 317-320.
151. Cf. soprattutto la Translatio di s. Stefano in F. Corner, Ecclesiae Venetae, p. 109.
152. Cf. supra, n. 136, e F. Corner, Ecclesiae Venetae, p. 104.
153. G. Cracco, Chiesa e istituzioni civili, p. 15; Cerbani Cerbani Clerici Veneti Translatio mirifici martyris Isidori a Chio insula in civitatem Venetiam ( jun. 1125), in Recueil des Historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, V, 1895, pp. 321-334, partic. p. 326 (compare il presbiter gatti - il gattus era una specie di galea ma di dimensioni maggiori -, assieme con il nauclerus che era suo nipote e con quidam nobiles che erano suoi vicini).
154. Ibid., p. 327.
155. Ibid., p. 330.
156. Ibid., pp. 321, 323, 324, 327, 330. Su Cerbano, cf. A. Pertusi, Cultura bizantina a Venezia, pp. 339 ss.
157. R. Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia, p. 113; H. C. Peyer, Stadt und Stadtpatron, pp. 15, 72 (n. 21).
158. Cerbani Cerbani Clerici Veneti Translatio, p. 326.