I vescovi
Il segno più evidente delle profonde trasformazioni che caratterizzarono il regno di Costantino e la più importante conseguenza del riconoscimento del cristianesimo come religione privilegiata da parte dello Stato romano vanno forse individuati nell’impiego dei vescovi quale strumento principale di cui si servì la politica religiosa imperiale. Costantino mostrò, durante tutto il suo lungo regno, un profondo rispetto e un’enorme fiducia nei confronti dei vescovi: il fatto che egli stesso si attribuisse il controverso titolo di episkopos ton ektos è un riflesso dell’importanza della loro funzione.
A loro volta essi lo corrisposero sempre con grande fedeltà: una fedeltà che venne meno soltanto a causa dei propositi d’indipendenza di taluni vescovi provvisti di forte personalità, come le fonti ci hanno trasmesso nel caso di Atanasio di Alessandria.
Mediatori religiosi tra il cielo e la terra, negli anni del regno di Costantino i vescovi si trasformarono anche nei mediatori tra la Chiesa e lo Stato: una funzione che non hanno cessato di esercitare fino al giorno d’oggi nei paesi di tradizione cristiana, tanto in Oriente quanto in Occidente1.
Eusebio di Cesarea, senza dubbio con quella grande enfasi retorica che lo porta a esagerare la gloria e la libertà di cui godeva la Chiesa prima della grande persecuzione e ad accentuare la corruzione che vi era penetrata al fine di interpretarla come castigo divino, esalta il prestigio e la considerazione sociale di cui già godevano i vescovi: «Bisognava vedere anche di quale favore tutti i procuratori e i governatori ritenevano degni i capi di ogni Chiesa!»2.
A conferma di questa affermazione, lo storico ecclesiastico fornisce pochi nomi: Doroteo, responsabile delle manifatture imperiali di porpora a Tiro, e Gorgonio, che occupava un posto di rilievo nel palazzo imperiale di Nicomedia, finirono con il subire il martirio. A loro potrebbero però aggiungersi i procuratori imperiali Filoromo di Alessandria e Adaucto di Frigia, citato in più di un passo3.
Si potrebbero ricordare anche Marco Giulio Eugenio, vescovo di Laodicea di Frigia, che, prima di divenire vescovo, aveva svolto delicate funzioni a fianco del governatore di Pisidia, e il famoso Paolo di Samosata, ‘procuratore ducenario’ e vescovo di Antiochia, deposto da un sinodo al tempo di Aureliano nel 268. Benché i dati disponibili siano scarsi, essi risultano comunque sufficienti per difendere un’immagine del cristianesimo precostantiniano che poco ha da spartire con quella ‘Chiesa dei martiri’ immaginata ed esaltata dai riformatori e dagli umanisti del XVI secolo e che anche la Chiesa della Controriforma finì con il prendere a modello. Si tenga poi presente che già Origene, intorno alla metà del III secolo, interloquisce nelle sue omelie con uditori cristiani di alto livello sociale e culturale: e tra i difetti, che rimprovera loro, figurano l’orgoglio di essere imparentati con governatori oppure la vanagloria, in alcuni casi, di discendere da persone che hanno ricoperto importanti cariche pubbliche, in altri invece, di possedere ingenti ricchezze, terreni, belle case e altro ancora. In Origene, inoltre, risuona la tipica nostalgia dei tempi andati: in appena quarant’anni, quelli trascorsi dall’epoca di Settimio Severo, l’immagine delle comunità cristiane ha subito una profonda trasformazione in qualità e quantità4. D’altronde, le critiche che l’Alessandrino rivolge alla gerarchia ecclesiastica, in special modo ai vescovi, non sono diverse da quelle che i suoi contemporanei indirizzano alle autorità civili. Si tratta di orgoglio, di disprezzo per i più deboli, di desiderio insaziabile di ricchezza; analogamente, molto numerosi sono i passi nei quali Origene denuncia il nepotismo dei vescovi come una piaga della Chiesa dei suoi tempi. Del resto, non deve sorprendere che in un’epoca come era quella, nella quale il matrimonio dei chierici era costume e l’esercizio del potere ecclesiastico si accompagnava già a significativi privilegi di tipo sociale ed economico, fossero frequenti le dinastie episcopali5. Potrebbe anche soltanto costituire un’esagerazione retorica, e tuttavia risulta comunque indicativo dell’influenza che un vescovo poteva esercitare sulla sua città in pieno III secolo, il giudizio espresso nel 251 da Cipriano di Cartagine, secondo cui l’imperatore «sarebbe rimasto più impassibile e indifferente alla notizia di un usurpatore dell’Impero che a quella della consacrazione a Roma di un vescovo di Dio»6. E si riferiva a Cornelio.
Nonostante che la frattura tra la Chiesa costantiniana e quella precostantiniana non sia stata così insanabile come si è creduto in passato, è indubbio che la storia del cristianesimo sia cambiata per sempre a partire dal momento in cui Costantino aderì alla nuova fede7. Un elemento fondamentale di questo cambiamento è rappresentato dalla gerarchia ecclesiastica, che vide accrescere rapidamente la propria influenza nella società attraverso i privilegi legali, fiscali e giurisdizionali che le furono riconosciuti dallo Stato romano. Di conseguenza, molte persone furono attratte dalla Chiesa per migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche, entrando a far parte di un episcopato che veniva configurandosi come una nuova classe dirigente. Non destano meraviglia, dunque, le lotte di potere presto scatenatesi per occupare le sedi episcopali più importanti. Ne costituisce la prova più evidente il canone 15 del concilio di Nicea (325): gli oltre trecento vescovi presenti giungono, infatti, a un accordo, in base al quale si proibisce a un vescovo di trasferirsi da una città a un’altra. La motivazione addotta è di evitare le lotte e le ambizioni derivanti dal desiderio di passare da una sede di modesta importanza a una più prestigiosa. Ecco il testo del canone:
Per i frequenti disordini e tumulti si è determinata la necessità di stroncare la consuetudine che, contro le norme canoniche, si è diffusa in alcuni paesi, così che sia proibito ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi di trasferirsi da una città all’altra.
Se qualcuno osasse contravvenire alla presente disposizione e tornare all’antico costume, questo suo trasferimento sarebbe considerato nullo ed egli dovrebbe ritornare alla Chiesa di cui era stato eletto vescovo o presbitero.
Quasi venti anni più tardi, il concilio di Serdica (343/344), nel canone 1, reitera lo stesso divieto, insistendo con ancora più forza sugli stessi argomenti e inasprendo le pene contro coloro che non si dovessero attenere a tale norma. A proporre questo accordo, approvato con il consenso di tutti i presenti, è il vescovo di Cordova, Ossio, lo stesso intervenuto a Nicea come rappresentante del vescovo di Roma. A riprova del fatto che è solo l’ambizione a indurre il cambiamento di sede episcopale, egli adduce l’argomento che non si conosce nessun caso di vescovo trasferitosi da una grande città a un’altra di minore importanza. Il testo del canone, conservatosi in versione sia greca sia latina, così recita:
[Ossio, vescovo della città di Cordova disse]: Si deve sradicare qualcosa che non è soltanto una cattiva abitudine, ma soprattutto una corruttela perniciosa, così che non sia permesso a nessun vescovo di passare da una città piccola a un’altra diversa. Poiché risulta evidente quale sia la motivazione per cui molti tentano questo, dato che non si è mai saputo di un vescovo che abbia cercato di trasferirsi da una città grande a un’altra più piccola. Se ne deduce che vi siano indotti dall’avidità e dominati dall’ambizione, nella convinzione di raggiungere un potere maggiore. Se sono tutti d’accordo, allo scopo che questo malcostume sia duramente punito, ritengo che costoro debbano essere espulsi dalla loro comunità. [E tutti i vescovi risposero]: «Siamo tutti d’accordo».
Che i padri conciliari di Serdica si vedano nella necessità di reiterare un divieto stabilito in tono perentorio vent’anni prima a Nicea, prova che spesso questa norma non era osservata. Quando si riunisce il concilio di Serdica, le controversie tra ariani e niceni hanno raggiunto la fase più acuta. Proprio nelle polemiche che seguono il concilio di Nicea, i sostenitori dell’ortodossia rimproverano spesso al principale leader della fazione ariana, Eusebio di Nicomedia – uomo di fiducia di Costantino e colui che avrebbe battezzato l’imperatore poco prima della sua morte –, di occupare la sede di Nicomedia dopo avere lasciato quella di Berito (Beirut). Sia a favore sia contro il trasferimento di sede si adducono argomenti dogmatici e scritturistici. Coloro che si oppongono argomentano con le stesse motivazioni addotte da san Paolo per condannare il divorzio: come il vincolo matrimoniale è indissolubile, perché è l’immagine dell’unione di Cristo con la sua Chiesa, così, a maggior ragione, deve esserlo il vincolo di unione del vescovo con la propria Chiesa8.
I sostenitori del diritto al trasferimento, che si trovano soprattutto nella fazione ariana, invece argomentano, forse per giustificare la situazione del proprio leader Eusebio di Nicomedia, che un vescovo è vescovo della Chiesa universale, ragion per cui poco importa se lo è di una città o di un’altra. Curiosamente, si tratta del medesimo argomento addotto oggi dalla Chiesa cattolica per giustificare il costume di trasferire un vescovo da una sede a un’altra.
Sono molti gli storici che si sono chiesti, e continuano a chiedersi, quali siano stati i motivi che indussero Costantino a mettersi nelle mani dei vescovi a partire dalla sua entrata in Roma nel 312. La risposta va forse ricercata nelle circostanze della crisi donatista, perché la soluzione che alla fine s’impose condizionò in grande misura (fornendone però insieme una spiegazione) le relazioni fra i vescovi e l’imperatore, nel corso del lungo regno di quest’ultimo. Alcuni storici moderni hanno suggerito che la soluzione data da Costantino al conflitto donatista avesse come unico obiettivo quello di assicurare la pace religiosa in una regione che, come l’Africa, era di vitale importanza per il rifornimento di beni alimentari a Roma. A fronte di questa ipotesi, José Fernández Ubiña ha sviluppato la teoria secondo cui la crisi costituì una prova del pragmatismo a cui Costantino improntò le sue relazioni con tutti i vescovi. Esso si fonda sull’opportunismo politico e poco ha a che vedere con il senso morale e la rettitudine dell’imperatore. Lo proverebbe l’assoluzione di Ceciliano, ottenuta nonostante tutti i sospetti, che ricadevano sul suo operato durante la grande persecuzione, e i suoi comportamenti brutali nei confronti dei colleghi, dopo che quest’ultima ebbe termine. Gli obiettivi perseguiti da Costantino nei suoi rapporti con i vescovi potrebbero essere così sintetizzati: conseguire e mantenere l’unità e la pace. Sono gli stessi espressi dieci anni dopo nella lettera indirizzata al vescovo Alessandro di Alessandria e al suo presbitero Ario:
Io ero consapevole del fatto che, se fossi riuscito a stabilire, in accordo con le loro richieste, una comune armonia di sentimenti fra tutti i servitori di Dio – i vescovi –, l’amministrazione generale degli affari di Stato avrebbe beneficiato di un cambiamento, che nel contempo avrebbe avuto l’approvazione e la stima di tutti.
Poco più avanti, l’imperatore sottolinea fino a che punto egli giudichi irrinunciabile l’armonia tra i vescovi: «Ho fatto ogni sforzo possibile, con la tenacia del mio spirito e il vigore dei miei occhi, per venirvi incontro, nella convinzione che sareste stati gli artefici della salvezza dei popoli»9.
Tutta la lettera è, del resto, un manifesto del pragmatismo dell’imperatore nelle sue relazioni con i vescovi, che definisce ‘conservi’: pragmatismo che rivela tutto il suo significato quando Costantino giudica le dispute dogmatiche tra Alessandro e Ario «cose meschine e di infima entità» e «argomenti banali e niente affatto essenziali»10.
Quel che Costantino chiede ai destinatari della lettera è lo stesso che ha sempre preteso dalla comunità dei vescovi: «Datemi giorni di bonaccia e notti senza tempesta, in modo che anche a me sia riservato quel tanto di piacere che la luce può dare e la soddisfazione di una vita tranquilla nel futuro»11.
Tuttavia, se volgiamo la nostra attenzione alle origini dello scisma donatista, risulta evidente che la sua composizione influì in maniera decisiva sulle successive relazioni di Costantino con i vescovi. Nel saggio sopra citato, Fernández Ubiña insiste sulla connessione tra il conflitto donatista e il ritorno di Ceciliano in qualità di vescovo legittimo di Cartagine e sul fatto che la condanna per calunnia nei confronti dei suoi delatori abbia in seguito determinato l’isolamento dei vescovi donatisti, a motivo della loro intransigenza e del loro irrigidimento in una ideologia ancorata ai vecchi ideali della purezza di vita e del martirio quali obiettivi ultimi. Al contrario, i loro rivali si videro aprire le porte del palazzo imperiale, e si potrebbero semplificare i fatti dicendo che essi non lo abbandonavano mai. I donatisti esprimeranno bene questo stato di cose nelle loro invettive contro i vescovi cattolici e cortigiani dell’epoca di Costantino e Costante: Quid episcopis cum palatio? Quid Christianis cum imperatoribus? Quid imperatori cum ecclesia?12
A tale riguardo si può anche richiamare un testo poco conosciuto, la cosiddetta Passio Donati, in cui l’autore, un’anonima vittima dei cattolici, si lamenta del fatto che gli antichi lapsi e i passati fiancheggiatori dei persecutori si accaparrino in questo momento gli uffici ecclesiastici e godano dell’amicizia imperiale (regali amicitia) e dei privilegi secolari (muneribus terrenis). È questo il motivo per cui il testo li definisce quasi episcopi vel Christiani13.
Di fronte ad accuse di questo tipo, Ottato di Milevi si assunse il compito di ricordare che erano stati proprio dei vescovi donatisti a prendere l’iniziativa di richiedere la mediazione dell’imperatore Costantino. Egli riporta le adulazioni contenute all’inizio della loro lettera: «Noi ci rivolgiamo a te, Costantino, ottimo imperatore, perché discendi da un’ottima stirpe […], noi ti supplichiamo che la tua pietà ordini che ci siano inviati giudici dalla Gallia»14.
Ciò detto, le accuse di ‘collaborazionismo’ si basavano sul servilismo con cui, sin dall’inizio, la maggior parte dei vescovi si era sottomessa agli interessi e ai desideri dell’imperatore e sull’accondiscendenza che mostrarono molto spesso nei confronti di Costantino e dei suoi successori. Tuttavia, la scelta di un atteggiamento intransigente da parte dei donatisti, dopo il rifiuto di Costantino di corrispondere alle loro pretese, sembra una premonizione dell’atteggiamento assunto in seguito dai luciferiani e da altri gruppi intransigenti nei confronti di ciò che essi giudicavano come opportunismo e servilismo della maggior parte dell’episcopato ortodosso – secondo quanto si apprende, per esempio, dal Libellus precum che i presbiteri Faustino e Marcellino15 indirizzarono a Teodosio I.
Harold A. Drake, in una recente monografia su Costantino e i vescovi, ha rimarcato la «politica d’intolleranza» dell’imperatore. Nondimeno, non vi sono assolutamente prove che l’imperatore abbia mosso una qualche rappresaglia contro i vescovi che si erano rifiutati di varcare le soglie del palazzo imperiale: al contrario, è certo che in alcune città (si veda il caso di Cirta) per lungo tempo l’unica comunità a non subire alcuna repressione da parte dell’autorità politica fu quella donatista. Una spiegazione di ciò potrebbe risiedere nel fatto che Costantino, durante i suoi primi anni di regno, mostra una mentalità molto vicina a quella che era stata la religiosità tradizionale romana e assume un atteggiamento reverenziale quando interviene direttamente nelle dispute religiose. È la mentalità che si riflette nella risposta, riportata da Ottato di Milevi, alla richiesta dei donatisti che fosse l’imperatore stesso a risolvere il conflitto: «Voi pretendete in questo mondo un giudizio emesso da me, mentre io stesso attendo il giudizio di Dio»16.
Inoltre, dall’analisi obiettiva delle fonti, si deduce che l’esilio di Atanasio non fu decretato da Costantino per l’adesione del vescovo alessandrino al dogma di Nicea, ma perché egli aveva seminato la discordia tra i vescovi, visto che non è credibile che l’imperatore possa avere dato importanza all’accusa rivolta ad Atanasio di avere impedito, grazie ai suoi poteri magici, l’arrivo a Costantinopoli delle navi che trasportavano l’annona della città, secondo le voci raccolte da Sozomeno17.
Infine, in una lettera all’anacoreta Antonio, che, preoccupato per la possibile uccisione di Atanasio, si era rivolto all’imperatore, quest’ultimo gli rispose che il vescovo «era un violento, un orgoglioso, un fautore di disordini e divisioni»18. Come dire che l’esilio fu semplicemente una misura per garantire l’ordine pubblico19.
Se il conflitto donatista influenzò in linea generale la politica di Costantino nei confronti dei vescovi, la soluzione data alla controversia ebbe anche un effetto decisivo sul ruolo che doveva essere proprio del vescovo di Roma nel nuovo panorama politico-ecclesiastico. Costantino dapprima affidò la soluzione del conflitto all’autorità religiosa rappresentata in certa misura dal vescovo della capitale, che in quel momento era Milziade. A partire dal III secolo, i vescovi di Roma avevano cominciato a godere di un prestigio che si estendeva ben oltre i confini d’Italia, specialmente sotto forma di potere giurisdizionale negli affari interni delle Chiese, sebbene in forma embrionale. Lasciando nelle mani del vescovo Milziade il compito di risolvere il conflitto, Costantino sembrava sostenere le aspirazioni all’esercizio di una quale supremazia da parte dei vescovi di Roma. Milziade, tuttavia, fallì nell’incarico ricevuto, sia per non avere raggiunto l’obiettivo sia per il modo in cui interpretò la funzione assegnatagli: invece di limitarsi, seguendo le istruzioni dell’imperatore, a prendere una decisione con la collaborazione di tre vescovi della Gallia, il vescovo di Roma convocò un concilio di vescovi italici da lui presieduto. Quando il concilio si pronunciò a favore di Ceciliano, i donatisti demandarono la decisione all’imperatore e sollecitarono che fossero i vescovi galli a decidere. Costantino accettò la proposta e convocò nel 314 un concilio ad Arles di vescovi occidentali, nel quale Milziade si vide totalmente emarginato. Benché il concilio ribadisse la decisione, assunta poi dall’imperatore, favorevole a Ceciliano, l’emarginazione in cui venne a trovarsi Milziade rese più facile per Costantino attribuirsi la suprema autorità in materia religiosa o, detto altrimenti, presentarsi come capo supremo della Chiesa in virtù dell’autorità che rappresentava, tanto quella del vescovo di Roma, di cui non si propose di mettere in discussione il primato onorifico, quanto quella di un qualunque concilio di vescovi. La facoltà di approvare qualsiasi decisione delle autorità religiose cristiane e di renderle operative rimase dunque esclusivamente nelle mani dell’imperatore20.
A riprova del rilievo assunto dal potere imperiale in materia religiosa nella Tarda Antichità, basti pensare che un secolo più tardi sant’Agostino sarà convinto che, nel pronunciare la sentenza in favore di Ceciliano, l’imperatore e i suoi rappresentanti fossero pienamente autorizzati a giudicare questi conflitti interni alla Chiesa e che il loro giudizio avesse un carattere quasi divino21.
Quanto alle successive testimonianze sulle relazioni tra il papa e l’imperatore che la leggenda della Vita Silvestri diffonderà, si può dire che la politica religiosa di Costantino servì a indebolire le incipienti aspirazioni dei vescovi di Roma all’esercizio di un primato sulle altre sedi episcopali in materia disciplinare e dogmatica. Nello stesso senso occorre interpretare il silenzio delle fonti contemporanee riguardo al fatto che Costantino mostrasse qualche speciale interesse per la figura dell’apostolo Pietro o che fosse sua l’iniziativa di costruire la basilica a lui dedicata in Vaticano, iniziativa che, con ogni probabilità, bisogna situare in un’epoca posteriore alla sua morte, di certo sotto il regno di Costanzo II22.
Tutte le fonti contemporanee, e specialmente Eusebio di Cesarea, sottolinearono compiaciute la profonda e quasi reverenziale stima personale che Costantino mostrava per tutti i vescovi, a partire dalla sua entrata in Roma e nel corso di tutto il suo lungo regno. Eusebio giunge persino ad affermare che Costantino, subito dopo la visione che precedette la battaglia di ponte Milvio nel 312, quando gliene fu spiegato il significato, ricambiò i vescovi «associandoli al suo comitatus come consulenti in materia giuridica» (e qui Eusebio allude probabilmente a Ossio di Cordova, benché non lo menzioni23) e affermò che le loro decisioni «meritavano d’avere più credito di quelle di un qualsiasi altro giudice»24.
Queste e altre fonti analoghe indussero Theodor Klauser a sostenere la tesi, divenuta famosa, secondo cui con Costantino si sarebbe prodotta una integrazione dei vescovi in seno alla gerarchia ufficiale dell’Impero, dal momento che essi risultavano assimilati alla categoria degli illustres. Tuttavia, la divergenza rispetto agli altri testi giuridici, epigrafici e letterari mostra l’infondatezza di tale teoria25. Né in Oriente né in Occidente si produce tanto una identificazione quanto una confusione dei titoli ecclesiastici con quelli civili, e gli epiteti che caratterizzano i vescovi sono sempre specifici del clero, né si confondono con quelli delle magistrature civili26. Ciò non contraddice la constatazione che i loro titoli comportino una dignitas e un honor nei quali convergono il carattere sia religioso sia civile27.
Un’altra constatazione importante sta nel fatto che l’accesso alla carriera ecclesiastica non comportava direttamente l’abolizione delle distinzioni sociali precedenti, così come non implicava la rinuncia alle proprietà possedute per eredità familiare28. Questo fatto è ben documentato da una legge di Onorio dell’anno 412 contro i donatisti, nella quale si stabiliscono pene pecuniarie contro vescovi, chierici e laici, non in funzione del loro rango in seno alla Chiesa, bensì in funzione di ciò che possedevano prima di entrare a far parte della gerarchia ecclesiastica: 50 libbre d’oro agli illustres, 40 agli spectabiles, 30 ai sacerdotales (membri del sacerdozio del culto imperiale), 20 ai principales delle curie e 5 ai semplici decuriones29.
È significativo e rivelatore di questo stato di cose che l’ex senatore e prefetto del pretorio Ambrogio di Milano, tanto nella sua corrispondenza quanto negli atti conciliari, firma sempre soltanto come Ambrosius episcopus o Ambrosius Mediolanensis. La dignitas e l’auctoritas di cui godettero i vescovi restò visibile esclusivamente nei titoli di significato puramente religioso come gloriosissimus, beatissimus, venerabilis, sanctissimus, e altri ancora. Ciò detto (e noi stessi lo abbiamo altrove sostenuto), è possibile che Basilio di Cesarea appartenesse a una famiglia senatoria, ma nella sua amplissima produzione epistolare e in tutta la sua opera letteraria non compare alcuna menzione di questa condizione sociale. Con tutto ciò, nei secoli IV e V furono pochi i vescovi provenienti dall’ordo senatorio, in confronto a quelli, molto numerosi, che provenivano dall’ordo curiale, poiché i privilegi di cui godettero a partire da Costantino resero l’incarico molto appetibile e permisero loro di liberarsi dei pesanti munera, di cui i curiali si dovevano far carico nel governo delle città. Per tutte queste ragioni, facciamo nostra questa conclusione di Angelo di Berardino, che si è occupato a lungo della questione:
Il vescovo cristiano godeva, per concessione imperiale, di numerosi privilegi, che in genere erano concessi alle dignitates secolari […] non per concessione di particolari insignia o codicilli, che conferivano un preciso rango sociale, ma per l’appartenenza ad un grado ecclesiastico, acquisito mediante l’ordinazione30.
La storiografia tradizionale ha tendenzialmente evidenziato i privilegi fiscali di cui, a partire da Costantino, hanno goduto la Chiesa, i vescovi e il clero in generale, a pari diritto dei funzionari e dei militari. In un denso studio, Rita Lizzi ha sostenuto che i chierici godettero, a partire da Costantino, anche di privilegi fiscali ed economici e di uno status speciale, di un salarium o stipendium permanente pagato dallo Stato, in relazione al loro grado:
Fra le disposizioni costantiniane del 313, accanto alle esenzioni fiscali, anche le elargizioni in denaro per il salario mensile dei sacerdoti avevano contribuito, in quanto honos, a definire la dignitas pubblica del sacerdote. Esse furono estese dopo il 325 a tutto l’Impero, ma motivazioni e forma del donativo cambiarono31.
Gli argomenti e le fonti addotte dalla studiosa italiana non sembrano convincenti. Inoltre un approfondito studio delle fonti, specialmente quelle legislative, rivela che la grande generosità mostrata da Costantino in questo campo fu in larga misura avversata dai suoi successori, fino alla decisione, presa da Giuliano, di sopprimere tutti questi privilegi32.
Non è questo il luogo per ricordare le vicissitudini che sperimentarono nel tempo ciascuno di questi privilegi, tema a cui Richard Delmaire ha di recente dedicato uno studio. Tale autore ha mostrato che molti degli ampli privilegi concessi da Costantino furono in seguito limitati dai suoi successori. In special modo, dopo l’annullamento di tutti i privilegi da parte di Giuliano, essi furono ristabiliti solo in modo molto parziale, e si dovette attendere fino al regno di Giustiniano perché la Chiesa godesse nuovamente di privilegi simili a quelli dell’epoca costantiniana. Lo studioso francese ha anche messo in luce che questa «exceptionelle génerosité» mostrata da Costantino nei confronti del clero cristiano e riassumibile nell’espressione privilegium Christianitatis adoperata in Cod. Theod. XIV 3,11, non fu un’esclusiva dei chierici, bensì fu condivisa da altre figure professionali come i veterani dell’esercito, i navicolari, i curiali, i palatini, e altri ancora. La spiegazione dei limiti della generosità costantiniana, finalizzata a creare all’interno dell’Impero una militia Christiana parallela alla militia palatina o alla militia armata, si sarebbe manifestata nella constatazione che ben presto cominciarono ad affluire tra le fila del clero «les ambitieux, les profiteurs et de façon générale tous ceux qui tentaient d’échapper à leur condition et à leurs charges»33.
Lo stesso Eusebio di Cesarea, che fu così poco critico nei confronti dei vescovi dell’epoca, si vide costretto a riconoscere «l’indicibile impostura di coloro che si infiltrarono nella Chiesa e utilizzarono in modo fraudolento il nome di cristiani»34.
L’enorme fiducia che Costantino ripose nei vescovi fu ricompensata dal grande rispetto che costoro gli manifestarono, ma ciò non evitò che presto si manifestasse che il ruolo di primo piano e i privilegi concessi al clero risultassero pericolosi, poiché rimaneva troppo poco spazio tra il mondo celeste governato da Dio e quello terreno, competenza dell’imperatore, tutelato nella sua condizione di vicario divino. Questo pericolo si manifesterà principalmente nei conflitti che si verificarono sotto il suo successore Costanzo, ma i primi sintomi apparvero già negli ultimi anni del suo regno.
A Nicea il grande trionfatore fu Costantino, poiché riuscì ad imporre la pace e la concordia all’interno di una Chiesa profondamente divisa. I fatti successivi però mostrarono che si trattava di un’illusione effimera. È possibile che l’importanza data da Costantino alla soluzione della crisi ariana, tramite la convocazione di un concilio universale, si dovesse all’interesse di tutti gli imperatori romani a tenere sotto controllo l’Egitto – quella “grande proprietà imperiale”, che era l’antico regno dei faraoni a partire dalla sua annessione per mano di Augusto – e la grande e turbolenta città di Alessandria. L’imperatore aveva tentato di risolvere lo scisma donatista con un concilio regionale, ma il conflitto si era chiuso con un niente di fatto; perciò dovette pensare che il nuovo scisma d’Egitto, con il pericolo che i donatisti nordafricani e i meliziani egiziani unissero le loro forze, si poteva risolvere soltanto con un accordo generale di tutti i vescovi, almeno di quelli dell’Oriente cristiano. Tuttavia le aspettative dell’imperatore dopo il concilio furono presto frustrate: un giovane vescovo da poco eletto ad Alessandria, Atanasio, diverrà il principale protagonista del fallimento politico di Nicea e la sua ribellione nei confronti dell’imperatore sarà la chiave per interpretare le difficili relazioni tra la Chiesa e l’Impero nel secolo successivo a Nicea.
Atanasio fu forse la figura più rilevante della Chiesa del IV secolo, ma l’interpretazione del suo operato come vescovo fu segnata dallo spirito polemico, sin dagli inizi del suo lunghissimo episcopato (328-373). Nei suoi scritti egli stesso si preoccupò di presentare un’immagine apologetica della propria lotta implacabile contro l’eresia ariana, contro i vescovi e contro i poteri imperiali che la appoggiavano, condizionando in tal modo tutta l’interpretazione successiva della sua vita e della sua opera. Per gli ortodossi Atanasio fu il difensore inflessibile del credo niceno, obiettivo a cui dedicò la maggior parte della sua produzione letteraria e che assorbì tutte le sue energie. La fazione opposta diede vita ad una produzione letteraria tanto polemica quanto la sua, che tuttavia ci è giunta molto censurata dopo il trionfo dell’ortodossia nicena con Teodosio (379). La storiografia moderna si è sforzata di riportare alla luce la vera immagine di Atanasio, oscurata dalla polemica di entrambe le fazioni, e a questo hanno dedicato gran parte della loro attività storiografi come Annick Martin o Thimoty D. Barnes. Tuttavia, per interpretare la sua figura come vescovo di Alessandria, è indispensabile tenere conto dell’importanza politica e religiosa che la sede episcopale di questa metropoli aveva ricoperto, e che in larga misura condizionò il pensiero teologico di Atanasio a partire dalla sua discussa elezione. I meliziani, una setta sorta a seguito delle persecuzioni dell’epoca tetrarchica, così come i donatisti del Nord Africa, si opposero ad Atanasio sin dalla sua elezione ed egli, identificando la propria personale causa con l’ortodossia, fece sì che i meliziani finissero con l’essere associati, senza alcun motivo, agli ariani. Sperimentarono un processo simile i vescovi che si scontrarono con lui e che lo condanneranno nel sinodo di Tiro del 335. Atanasio si preoccupò sempre di passar sopra all’opposizione interna che aveva in Alessandria, a vantaggio di una falsa concezione monolitica della Chiesa alessandrina raccolta intorno al suo vescovo. Il primo scontro serio ed il primo vescovo ad affrontare direttamente Costantino fu Atanasio nel 328. Un concilio riunito a Nicomedia alla fine del 327 o agli inizi del 328 decise, una volta verificata la disponibilità di Ario ad accettare una formula compatibile con quella approvata a Nicea, di revocare la sua condanna e di permettergli di recuperare le sue funzioni presbiteriali nella Chiesa di Alessandria, accordo a cui Costantino diede la sua approvazione. Tuttavia Atanasio si rifiutò di accettare Ario, continuando a considerarlo eretico. Costantino non poteva accettare che in seno all’Impero sorgesse un contropotere e la sua reazione «è indicativa del modo in cui vedeva le relazioni con l’autorità ecclesiastica, al di là delle formule di cortesia»35. Così, dunque, impose al giovane vescovo di accettare Ario con parole che non lasciano spazio a dubbi:
Visto che tu conosci qual è la mia volontà, garantisci il libero accesso alla Chiesa a tutti coloro che lo desiderano. Per tanto, se vengo a sapere che hai ostacolato o impedito l’ingresso nella comunità a chiunque voglia farne parte, manderò immediatamente qualcuno a provvedere, per mio ordine, a destituirti e ad inviarti in esilio36.
Anni dopo, il concilio di Tiro del 335, che condannò e depose Atanasio come vescovo di Alessandria, costituisce la chiave per comprendere la politica dell’Alessandrino e lo sviluppo del conflitto ariano negli anni successivi. Prima del concilio, Costantino scrisse una lettera ai vescovi che dovevano riunirsi, per deliberare sulle gravi accuse che ricadevano su Atanasio, invitandoli a «restituire a tante province la necessaria concordia che l’arroganza di pochi aveva mandato in rovina»37. La lettera di convocazione era accompagnata da questa minaccia: «Se qualcuno, cosa che non credo accada, tentando di infrangere il nostro ordine, non volesse presentarsi, dal palazzo verrà inviato un messo che, esiliandolo per decreto imperiale, gli spiegherà che non è bene opporsi in contumacia agli editti dell’imperatore promulgati a vantaggio della verità»38.
La minaccia, rivolta, pur senza nominarlo, contro Atanasio, mostra manifestamente che la fiducia riposta da Costantino nei vescovi sin dall’inizio del suo regno aveva cominciato ad affievolirsi. L’Alessandrino fu condannato dal sinodo e poco dopo comparve nel palazzo di Costantinopoli al cospetto dell’imperatore per difendersi dalle accuse. La sua giustificazione fu che l’unico delitto commesso era stato di essersi mantenuto fedele alla dottrina approvata dieci anni prima nel concilio di Nicea, presieduto dall’imperatore in persona e con il voto dei più di trecento vescovi ivi riuniti. Le argomentazioni non furono convincenti e Atanasio fu inviato nella lontana e fredda Treviri a scontare il primo dei cinque esili che subirà durante il suo episcopato. Detto questo, Costantino poté constatare, nel suo scontro con Atanasio, che le questioni teologiche e quelle ecclesiastiche in generale non si potevano ridurre facilmente agli interessi della politica, sebbene facesse propria, come già nel 312, l’espressione, riportata da Ottato di Milevi, secondo cui Dio gli aveva affidato la responsabilità (cura), per decreto celestiale, di «tutte le faccende umane». Forse la conseguenza più importante del concilio di Tiro è che per la prima volta si manifestò, in tutta la sua crudezza, la possibilità che l’intrigo, le calunnie, la compravendita dei voti, gli odi e la violenza potessero essere usati al fine di raggiungere determinati obiettivi, celati sotto forma di questioni dottrinali. Vescovi molto rispettabili, persino con l’aureola di ‘confessori’ durante la grande persecuzione, come Massimo di Gerusalemme, Potamone di Eraclea e lo stesso Eusebio di Cesarea votarono a favore della condanna di Atanasio di Alessandria. L’esperienza di quanto avvenuto a Tiro non sarebbe stata mai più dimenticata e nei suoi scritti, specialmente nella sua Apologia contro gli ariani, Atanasio presenta un’immagine monolitica della sua persona come capo indiscusso della Chiesa di Alessandria di fronte ai nemici esterni, gli ariani, e a quelli interni, i meliziani; immagine che è riuscita a passare alla storia come il trionfo dell’ortodossia sull’eresia, appoggiata prima da Costantino e poi dal suo successore Costanzo, il quale decretò altri quattro esili contro l’indomabile vescovo alessandrino. Ciascuno può valutare quanto siano lontani questi fatti dal giudizio espresso da Eusebio di Cesarea secondo cui, dopo la conclusione del concilio di Nicea, «si impose tra tutti i vescovi un unico sentire in sintonia con l’imperatore»39.
Lo scontro di Atanasio con l’imperatore fu la conseguenza dell’apertura, da parte di Costantino, delle porte del palazzo imperiale ai vescovi a partire dal 312, poiché, come ha scritto Barnes (e facciamo nostro il suo giudizio) «in the three and half decades after 324, eastern christian bishops showed themselves militant and aggressive as they eagerly exploited the opportunities which Constantine gave them»40. Un’importanza speciale in tutto ciò ha rivestito il privilegio concesso ai vescovi da Costantino, secondo cui soltanto un concilio di loro pari poteva giudicare, condannare e deporre un altro vescovo. Si tratta del cosiddetto privilegium fori, che riguardava qualsiasi delitto, incluso l’omicidio. Tuttavia Atanasio non accettò neppure la sua condanna da parte del concilio di Tiro nel 33541. Per questa ragione, l’immunità dalla sottomissione alle autorità civili provocò in alcuni vescovi l’inizio di un atteggiamento di indipendenza misto a sfida nei confronti dell’autorità imperiale, destinato a raggiungere la sua massima espressione durante il regno di Costanzo II: Atanasio stesso, Ilario di Poitiers, Lucifero di Cagliari e altri riterranno che, per aver maltrattato la Chiesa – a loro avviso – l’imperatore si è trasformato in un persecutore e in un tiranno che non aveva diritto a continuare a regnare42. Si spiegano così atteggiamenti e attacchi a Costanzo da parte di questi vescovi, che precedentemente nessun cristiano non si sarebbe neppure immaginato di assumere nei confronti di un imperatore pagano. Ossio era stato fedele assertore di una determinata politica religiosa, la cui concezione e responsabilità ultime potevano ricadere soltanto sull’imperatore stesso43. Tutto sembra indicare che Atanasio era contrario, per principio, a lasciare questa responsabilità ultima nelle mani dell’imperatore, ma in realtà perché non coincideva coi suoi interessi personali. Atanasio aprì così la strada ad altri vescovi intransigenti come lui, già menzionati. Mi limiterò a ricordare che Lucifero di Cagliari rimproverò a Costanzo il fatto che i vescovi ariani lo considerassero, in piena linea costantiniana, episcopus episcoporum; e che, con un gioco di parole assai caratteristico del suo gusto per le antitesi, gli dirà invece che era soltanto tyrannus tyrannorum44.
L’ultimo passo in questa direzione fu quello compiuto da vescovi come Ambrogio di Milano in Occidente o Basilio di Cesarea in Oriente, i quali avranno l’ardire di umiliare e mettere in ginocchio ai propri piedi imperatori cristiani come Teodosio I o Valente, fatto che altrove abbiamo qualificato come «alcune delle migliori rappresentazioni giunte sino a noi della capacità di un vescovo di imporsi sull’autorità più potente della terra, l’imperatore, in base al potere che gli attribuiva la sacralità del suo ministero»45.
Un elemento che contribuì a consolidare la auctoritas dei vescovi e la loro capacità di affrontare il potere politico, è il fatto che nelle loro relazioni con gli imperatori differivano dagli altri alti ufficiali, poiché non avevano bisogno di dipendere economicamente da loro, benché non avessero mai disprezzato le cospicue risorse che essi posero nelle loro mani. Inoltre, a differenza di ciò che accadeva per i funzionari e i magistrati, l’ufficio episcopale era a vita e furono molti i vescovi, oltre ad Ambrogio di Milano o Basilio di Cesarea, ad approfittarsi di questa circostanza per procurarsi l’appoggio dei propri fedeli nelle dispute da loro sostenute con gli imperatori o con altre autorità civili. Un appoggio che, con mentalità tipicamente americana, Drake ha paragonato a quello che i fan apportano ai club sportivi: «The bonds forged with their congregations by long years in their mutual roles [...] gave bishops a natural edge in disputes with outsiders, just as local fans provide a “home cour advantage” for professional sports teams»46.
Fu nell’epoca di Costantino che si consolidò in modo definitivo l’istituzione dell’episcopato monarchico in quanto il vescovo è capo unico e indiscusso di una Chiesa organizzata gerarchicamente, secondo il modello dell’amministrazione civile dello Stato e delle città greco-romane, soppiantando o relegando in secondo piano altre figure che nei primi secoli avevano conteso al vescovo il ruolo di guida religiosa delle nascenti comunità cristiane: presbyteroi, diakonoi, prophetai e altre figure carismatiche. La partecipazione del populus o plebs cristiana all’elezione dei propri vescovi era ancora un requisito indispensabile a metà del III secolo, come espresse chiaramente Cipriano di Cartagine:
Dio comanda che il sacerdote sia istituito dinanzi a tutta l’assemblea; ciò significa che le ordinazioni dei vescovi devono avvenire innanzi al popolo che assiste, affinché alla presenza del popolo, si scoprano i crimini dei malvagi o si rendano pubblici i meriti dei buoni, e la ordinazione sia giusta e legittima per essersi compiuta con il voto ed il giudizio di tutti [...] Bisogna rispettare diligentemente quella che è la tradizione divina e la pratica apostolica, e trasmettere ciò che tramandiamo noi e che si tramanda in quasi tutte le province; e cioè: per celebrare le ordinazioni rettamente, i vescovi della provincia vicina accorrono al luogo in cui si ordina un nuovo vescovo; questi viene scelto al cospetto del popolo, conoscendo a fondo la vita di ciascuno dei propri membri è al corrente della sua condotta perché gli è stato costantemente vicino47.
A Nicea, meno di un secolo dopo, le norme e le consuetudini subiranno profondi cambiamenti, nel senso che il popolo perderà il suo ruolo a beneficio del presbyterium e, soprattutto, dei vescovi vicini. Il canone 4 di questo concilio (325) stabilisce che «è assolutamente necessario che un vescovo sia eletto da tutti i vescovi della provincia; però, se ciò fosse difficile per una necessità urgente o per motivi di distanza, basterà che tre vescovi, riuniti nel luogo, e con il consenso scritto degli assenti, procedano alla consacrazione episcopale».
Il canone, oltre che mostrare che l’organizzazione ecclesiastica si era andata adattando al modello dell’amministrazione civile, riflette anche il fatto che il sistema elettivo era stato sostituito dalla cooptazione, propria delle istituzioni aristocratiche. Questo processo determinò l’emarginazione quasi totale dei laici rispetto ai chierici, e che il termine ‘laico’ acquisisse un significato pressoché uguale a quello di profano, cosa che avrebbe scandalizzato i cristiani dei secoli II e III. Un’altra conseguenza della cooptazione aristocratica fu che, molto spesso, non veniva rispettato il cursus honorum clericale per accedere all’episcopato. Si tratta di uno stato di cose che difficilmente avrebbe potuto giustificare nel III secolo Cipriano di Cartagine, che difese la legittimità dell’elezione di Cornelio a vescovo di Roma, tra gli altri motivi, perché «non giunse all’episcopato di colpo, bensì passando attraverso tutti gli incarichi ecclesiastici e servendo il Signore molte volte nei differenti uffici divini ed è asceso al culmine del sacerdozio attraverso tutti i gradi della Chiesa [religionis gradibus]»48.
Il contrasto con la visione ciprianea di un ordinato e graduale accesso alla carica episcopale si manifesterà in ordinazioni episcopali tanto sorprendenti come quelle di Ambrogio di Milano o di Nettario di Costantinopoli, senatori, consacrati vescovi senza essere stati in precedenza battezzati. Questa prassi esisteva già prima di Nicea, che la condanna nel suo canone 2 con la minaccia che «chi avesse osato agire contro questo grande concilio, avrebbe messo in pericolo la sua stessa ordinazione». Evidentemente, però, la minaccia sortì poco effetto.
Il problema era che la concessione di onori e privilegi economici e sociali da parte di Costantino ai vescovi li aveva rapidamente assimilati alle aristocrazie civili dell’Impero. E, non diversamente da quel che accadeva in ambito secolare, l’importanza delle sedi episcopali si era adeguata a quella delle città: circostanza, questa, che soleva inoltre coincidere con la maggiore antichità delle sedi. Nicea conferma, di fatto, il primato di Roma, Alessandria e Antiochia e le loro ‘prerogative’ tradizionali, riconoscendo anche un onore (τιμή) speciale a Gerusalemme. Le ambizioni di gran parte dei vescovi a scalare questa gerarchia di potere e di prestigio obbligarono presto a reiterare ripetutamente, come già abbiamo sottolineato, il divieto dei trasferimenti di sede per frenare le ambizioni di quanti volevano occupare posizioni di rilievo in maniera disonesta. Come già abbiamo ricordato, inoltre, quando Ossio imporrà a Serdica tale divieto, commenterà ironicamente che non si era mai visto il caso di un vescovo che si fosse trasferito da una sede importante a un’altra di minore rilievo49. Sebbene questa interdizione sia stata raramente messa in atto, i vescovi riuniti al concilio di Costantinopoli del 381 la utilizzeranno per esigere le dimissioni di Gregorio di Nazianzo da vescovo della capitale.
Gli erasmiani e i riformatori del Rinascimento, sia luterani sia cattolici, faranno Costantino oggetto delle loro critiche più aspre, ritenendolo il principale responsabile della mondanizzazione della Chiesa, per aver circondato se stessa e i vescovi, suoi rappresentanti, di onori e privilegi. Di questo avviso il grande umanista spagnolo Luis Vives, che si esprime in questi termini:
Entrò il Principe nella Chiesa non come un vero e sincero cristiano, cosa che sarebbe stata propizia e auspicabile, bensì come colui che introdusse con sé la nobiltà, gli onori, le armi, le insegne, i trionfi, l’arroganza ed il cipiglio, il fasto, la superbia. Voglio con ciò dire che il Principe entrò nella dimora di Cristo accompagnato dal diavolo e, accostamento impossibile, volle unire i due abitanti o le due città: quella di Dio e quella del demonio; giustapposizione tanto difficile quanto quella di Roma e di Costantinopoli, che sono separate da così grande estensione di terra e mare50.
Commenti simili si possono trovare in molti altri autori dell’epoca. Si dà il caso che in questa immagine si rispecchino le critiche che a suo tempo i donatisti scagliarono contro Costantino e i vescovi cattolici favoriti dalla regalis amicitia. Costantino apre le porte del palazzo imperiale ai vescovi e costoro fanno la loro entrata per non uscirne mai più, perché entrano a far parte del suo comitatus. Durante lo stesso concilio di Serdica del 343, Ossio propone anche che nessun vescovo possa entrare a corte senza essere stato prima convocato dall’imperatore mediante invito51. La proposta fu approvata all’unanimità, però raramente venne applicata, fino al punto in cui, un secolo più tardi, furono istituzionalizzati a Costantinopoli i cosiddetti synodoi endemousai, sinodi presieduti dal vescovo della capitale, ai quali partecipavano tutti i vescovi – spesso numerosi – che si trovavano a passare dalla corte. Una reazione simile a quella che si produsse con la Riforma, che rimarcava questa dimenticanza della Chiesa delle origini e dei poveri, si sperimentò già nel secolo IV, anche in seno alla stessa ‘Chiesa costantiniana’. Con la rapida diffusione del monachesimo, dovuta in larga misura al rifiuto del processo di mondanizzazione della Chiesa ufficiale, si produsse una profonda opposizione tra la figura del vescovo e quella dei monaci. Una delle caratteristiche del nascente monachesimo, specialmente in Oriente, dove la subordinazione del clero al potere politico era più marcata, fu il rifiuto da parte dei monaci di sottomettersi a qualsiasi autorità istituzionalizzata, anche se sacra o ecclesiastica. Lo esprime molto bene un apophtegma che circola tra gli asceti del deserto d’Egitto: «Il monaco deve fuggire dai vescovi e dalle donne». Di fronte alla auctoritas istituzionale dei vescovi, i monaci si sentono dotati di alcuni carismi soprannaturali che li pongono al di sopra di loro: mentre i vescovi sono visti come patroni e protettori delle loro rispettive città, spesso di fronte agli abusi dei potenti e delle autorità dello Stato, i monaci sono gli ‘uomini divini’ (theioi andres), autentici theophiloi, mediatori privilegiati dinnanzi alla divinità. Tuttavia neppure disprezzano spesso la loro mediazione di fronte alle autorità mondane: la loro parrhesia o libertà di parlare faccia a faccia con Dio, permette loro di parlare a tu per tu anche con l’imperatore e con i suoi rappresentanti. È questa, per esempio, la caratteristica fondamentale di molti monaci di Siria così come presentati da Teodoreto di Ciro52.
Sebbene tale contrapposizione tra il monaco carismatico e le autorità ecclesiastiche sia molto più marcata in Oriente, non è estranea neppure alle esperienze religiose vissute in Occidente nei secoli IV e V. Valida dimostrazione di ciò sono il disprezzo e l’ostilità con cui è visto dai vescovi contemporanei il primo monaco-vescovo d’Occidente, Martino di Tours, così come è presentato nella sua Vita, scritta da Sulpicio Severo. I monaci rifiutano spesso l’ordinazione sacerdotale considerandola associata al potere mondano e fonte di orgoglio, ricorrendo a espedienti assolutamente peculiari come l’automutilazione di alcune parti del corpo; questo perché già il concilio di Nicea aveva stabilito nel suo canone 1 la proibizione di ammettere nel clero chi si fosse automutilato. Con il passare del tempo la figura del monaco-vescovo finisce per diffondersi tanto in Oriente quanto in Occidente, con un processo parallelo a quello seguito dalla Chiesa per sottomettere i monaci all’autorità dei vescovi. A questo tema dedica particolare attenzione il concilio di Calcedonia del 451, specialmente nel suo canone 4: «I monaci di qualsiasi città o regione devono essere sottomessi al vescovo»53.
I secoli IV-V vedono comparire nella Chiesa una moltitudine di grandi vescovi che emergono per spiccata personalità, formazione teologica, capacità oratoria, attività politica, e altro ancora. Il vescovo, sebbene sia la figura istituzionale che meglio rappresenta il cosiddetto Impero romano-cristiano, che inizia con Costantino, risulta difficile da classificare e definire. In ciò sta la sua originalità e la sua ricchezza. Si potrebbe paragonare a un poliedro: può apparire, di volta in volta, come un sacerdote, un retore, un politico, un giudice, un filosofo, e tuttavia il risultato finale è la connessione di tutte queste facce. Basta ricordare alcuni nomi per comprendere come questa istituzione, la più originale del Tardo Antico nella sua tappa finale, abbia prodotto personalità di assoluto rilievo. In Oriente si possono ricordare Eusebio di Cesarea, Atanasio di Alessandria, Cirillo di Gerusalemme, i tre grandi Cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa), Teofilo e Cirillo di Alessandria, Sinesio di Cirene, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro e tanti altri che furono protagonisti della storia dell’Impero e della Chiesa. L’Occidente non vide apparire così tante figure di spicco, ma dopo Ossio di Cordova, è Ambrogio di Milano a sintetizzare nella sua persona il leader politico, l’oratore e il giurista. Per quanto concerne i vescovi di Roma, bisogna riconoscere che solo con Leone Magno (V secolo inoltrato) appare un uomo con una personalità paragonabile a quella dei vescovi sopracitati. Un secolo dopo seguirà le sue orme Gregorio Magno. Entrambi sono passati alla storia con la qualifica di ‘Magno’ e sono stati, con molte differenze, i papi più importanti dell’Antichità. Con tutto ciò, raramente i vescovi raggiunsero la popolarità che accompagnò molti monaci santi grazie ai loro miracoli e alle loro penitenze sovrumane. Il caso estremo della popolarità che giunsero a ottenere alcuni asceti, ce la offre il siro Simeone lo Stilita, morto nel 459, così come ricorda il suo primo agiografo, Teodoreto di Ciro, quando descrive le genti che da Oriente e Occidente accorrevano a contemplarlo sulla sua colonna:
Siccome erano molti coloro che accorrevano da ogni dove e ogni strada assomigliava a un fiume, era un oceano di gente quello che si poteva vedere riunito in questo luogo, un oceano in cui confluivano i fiumi da ogni parte. Non solo affluivano abitanti provenienti dal nostro Impero, ma anche ismaeliti, persiani, armeni sotto dominio persiano, iberi, omeriti ed altre popolazioni situate in luoghi ancora più remoti. Vi giungono anche molti che abitano nell’estremo Occidente, ispani, bretoni e galli, che sono situati tra i due. Per quanto concerne l’Italia, mi sembra superfluo menzionarla, poiché si dice che nella grande città di Roma il nostro uomo è così famoso che sulle porte di tutte le botteghe sono collocate statuette con la sua effigie, per ottenere protezione e sicurezza54.
La figura del monaco-vescovo merita un’attenzione speciale per la sua diffusione nell’Oriente cristiano a partire dal secolo IV e per il ruolo di primo piano che questi uomini, che assommano nella loro persona il carisma dell’asceta taumaturgo e la auctoritas episcopale, ebbero nella cristianizzazione delle masse popolari rurali e urbane. In Palestina bisogna ricordare la controversa figura del vescovo Porfirio di Gaza (circa 347-420) e il suo grande impegno nella cristianizzazione di una città dominata ancora dal paganesimo il cui ricordo si è perpetuato in una discussa biografia, scritta dal suo stretto collaboratore, il diacono Marco. Teodoreto di Ciro, nella sua opera Storie dei monaci di Siria, traccia le biografie di vari monaci che hanno saputo congiungere il loro estremo ascetismo con le occupazioni pastorali di vescovo, a cominciare dal semileggendario Giacomo di Nisibi, in Mesopotamia, alla metà del IV secolo. Secondo Teodoreto, specialmente rivelatrice dell’attività assistenziale svolta da questi monaci-vescovi tra le popolazioni più povere è la figura di Abraham. Da prima, semplice monaco, questi riesce ad attirare su di sé l’ammirazione della popolazione pagana di un villaggio del Libano, anticipando le cento monete d’oro di imposta reclamate dagli esattori del fisco. In seguito, su richiesta della popolazione, viene eletto vescovo di Carras, anch’essa in Mesopotamia. Teodoreto descrive in questo modo la forma in cui Abraham rese compatibile la sua profonda vocazione ascetica con l’incarico episcopale:
Quest’uomo ammirevole non mangiò pane durante tutto il periodo del suo episcopato, né legumi secchi, né legumi cotti sul fuoco [...] I suoi soli alimenti e bevande erano la lattuga, le cicorie, il sedano e altre piante di questo tipo. Quando era stagione si manteneva con la frutta, però la mangiava soltanto dopo la liturgia vespertina. Nonostante costringesse il suo corpo a tali rigori, dedicava agli altri attenzioni continue. Aveva sempre pronto un letto per gli stranieri che erano di passaggio e offriva loro pane bianco di prima qualità, vino scelto, pesce, legumi verdi. A mezzogiorno si sedeva con loro a mangiare55.
L’attività assistenziale e il patrocinio sociale e politico esercitato da molti vescovi, in special modo dai vescovi-monaci, già all’epoca studiati da Peter Brown, sono stati elementi decisivi nella cristianizzazione delle popolazioni del bacino mediterraneo e offrono un contrappunto alle meritate critiche che gli scrittori antichi e moderni hanno rivolto a molti vescovi mondani della Tarda Antichità. Probabilmente il migliore testimone della vita esemplare di molti vescovi del suo tempo è Giuliano l’Apostata che, nei suoi sforzi di rigenerare il paganesimo agonizzante, tenta di far sì che i sacerdoti dei culti tradizionali imitino i modi di vivere e le opere assistenziali dei vescovi cristiani: «Risulta vergognoso, dice, che tra i giudei nessuno mendichi e che gli empi galilei alimentino, oltre ai loro, anche i nostri»56. Un altro testimone imparziale è l’altrettanto pagano Ammiano Marcellino che, inoltre, contrappone il fasto e la vita principesca del vescovo di Roma, Damaso, a quella di «alcuni vescovi di provincia la cui moderazione nel mangiare e nel bere e la cui semplicità dell’abbigliamento e dei loro occhi socchiusi che guardano sempre a terra, li raccomandano all’eternità divinità e ai suoi veri adoratori come puri e verecondi».
I vescovi, grazie agli enormi privilegi concessi loro da Costantino, come la facoltà di agire in qualità di giudici anche nelle cause civili quando entrambe le parti si mettevano d’accordo (inter volentes), e grazie all’enorme influenza sociale che arrivarono ad acquisire, potevano apparire per i poteri politici dell’epoca come pacificatori di tumulti e di proteste sociali, o anche come provocatori di disordini in virtù della loro capacità di trascinare le masse più svantaggiate57.
Lo esprime molto bene Ambrogio di Milano in una frase in grado di riassumere l’influenza sociale che raggiunsero i vescovi, a partire da Costantino, tra le inquiete popolazioni urbane: «I sacerdoti sono pacificatori delle turbe e amanti della pace, a meno che non siano provocati da qualche offesa a Dio o da qualche oltraggio alla Chiesa»58. I vescovi mostrarono nei confronti di Costantino una stima vicina al servilismo; egli, per parte sua, li ricambiò, con una riconoscenza simile, basata sulla loro condizione di intermediari dinnanzi alla divinità e di garanti dell’ordine e della stabilità dell’Impero. Quando, questa stima e questa riconoscenza reciproca si affievolirono con i successori di Costantino i conflitti risultarono inevitabili.
1 Per una bibliografia generale sul tema si vedano almeno: Constantin der Große, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974; R. Lizzi Testa, Vescovi e strutture ecclesiastiche nella città tardoantica (L’Italia annonaria nel IV-V secolo d.C.), Como 1989; T.D. Barnes, Athanasius and Constantius: Theology and Politics in the Constantinian Empire, Cambridge (MA) 1993; Id. Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1993; G. Dagron, Empereur et prêtre: étude sur le «césaropapisme» byzantin, Paris 1996; A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Egypte au IVe siècle (328-373), Rome 1996; L’evêque dans la cité du IVe au Ve siècle. Image et autorité, éd. par E. Rebillard, Cl. Sotinel, Rome 1998; R. Teja, Emperadores, obispos, monjes y mujeres. Protagonistas del cristianismo antiguo, Madrid 1999; H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore-London 2000; C. Rapp, Holy Bishops in Late Antiquity. The Nature of Leadership in an Age of Transition, Berkeley-Los Angeles-London, 2005; J.N. Guinot, F. Richard, Empire chrétien et Église aux IVe et Ve siècles. Intégration ou «concordat»? Le témoignage du Code Théodosien, Actes du Colloque international (Lyon 6-8 octobre 2005), Paris 2008.
2 Eus., h.e. VIII 1,5.
3 Eus., h.e. VIII 9,7; 11,12.
4 Si veda A. Monaci Castagno, Origene predicatore e il suo pubblico, Milano 1987, pp. 86-89.
5 Per il caso dell’Hispania, cfr. R. Teja, Las dinastías episcopales en la Hispania tardoantigua, in Cassiodorus, 1 (1995), pp. 29-39.
6 Cypr., epist. 55,9.
7 Nella storiografia più recente si possono rinvenire valutazioni abbastanza contraddittorie: mentre C. Rapp, Holy Bishops, cit., apprezza in Costantino una politica di tipo continuista piuttosto che rivoluzionaria, H.A. Drake, Constantine and the Bishops, cit., preferisce porre in rilievo la novità rappresentata dall’impiego dei vescovi da parte dell’imperatore.
8 Cfr. Ef 5,25.32. È l’argomento addotto, per esempio, dal concilio di Alessandria del 339: «Se ciò si dice riguardo alla donna, in maniera più appropriata lo si deve dire riguardo alla Chiesa e all’episcopato. Quando qualcuno è legato a una Chiesa, non ne deve cercare un’altra, rischiando di compiere adulterio». Al riguardo si veda Histoire des conciles d’après les documents originaux, éd. par K.J. Hefele, H. Leclercq, Paris 1907-1952, I, p. 597 nota 1. Girolamo, al termine del secolo IV, ritiene che questa interpretazione, attribuita al concilio di Nicea, sia forzata: «Alcuni in maniera forzata («coacte») paragonano le donne alla Chiesa e i mariti ai vescovi, e sostengono anche che al concilio di Nicea i Padri decretarono che nessun vescovo si potesse trasferire da una Chiesa a un’altra, perché, disprezzata la virginale compagnia di una povera, non cercasse gli abbracci di un’adultera più ricca» (Hier., epist. 69,5).
9 Eus., v.C. II 65-67.
10 Eus., v.C. II 71,1-3.
11 Eus., v.C. II 72,1; cfr. J. Fernández Ubiña, The Donatist Conflict as Seen by Constantine and the Bishops (in corso di stampa).
12 Optat., I 22; III 3.
13 Passio Donati 2,95-100 in J.L. Meier, Le dossier du donatisme, Berlin 1987, I, p. 203.
14 Optat., I 22.
15 Si veda lo studio recente di G. Clemente, Il rossore del vescovo, in Scritti di Storia per Mario Pani, a cura di S. Cagnazzi, Bari 2011, pp. 141 segg.
16 Optat. I, 23. Ringrazio J. Fernández Ubiña per avermi permesso di accedere al succitato studio in corso di stampa, che ha ispirato alcune righe di queste prime pagine.
17 Soz., h.e. II 28,14.
18 Soz., h.e. II 31,3.
19 Si veda P. Maraval, Constantin est il devenu arien?: Relazione inedita presentata al Congresso Internazionale Constantinus: ¿El primer emperador cristiano? (Barcelona 20-24 marzo 2012).
20 M. Simonetti, Costantino e la chiesa in Costantino il Grande. La civiltá antica al bivio tra Occidente e Oriente, a cura di A. Donati, G. Gentili, (Catal.), Milano 2005, pp. 58-59.
21 Aug., epist. 43,4,13; c. Parm., I 18,13.
22 G.W. Bowersock, Peter and Constantine, in Humana sapit. Études d’Antiquité tardive offerts a Lellia Cracco Ruggini, ed. by J.M. Carrie, R. Lizzi Testa, Turnhont 2002, pp. 209-218.
23 Eus., v.C. I 32,3.
24 Eus., v.C. IV 27,3.
25 T. Klauser, Der Ursprung der bischöflichen Insignien und Ehrenrechte, 1951 ora in T. Klauser, Gesammelte Arbeiten zur Liturgiegeschichte. Kirchegenschichte und christliche Archaeologie, Münster 1974, pp. 191-138. Confutato all’epoca della sua pubblicazione da S. Mazzarino, Costantino e l’episcopato. A proposito di due lavori recenti, in Id., Antico, Tardoantico ed era costantiniana, Roma 1974, I, pp. 171-182.
26 D. Feissel, L’évêque, titres et functions d’après les inscriptions grecques jusqu’an VIIe siècle, in Actes du XIe Congrès international d’Archéologie chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste 21-28 septembre 1986), éd. par N. Duval, F. Baritel, P. Pergola, Rome 1989, I, pp. 801-828.
27 A. Di Berardino, L’immagine del vescovo attraverso i suoi titoli nel Codice Teodosiano, in L’évêque dans la cité, cit., pp. 36-37.
28 Cfr. C. Sotinel, Le personnel episcopal. Enquête sur la puissance de l’évêque dans la cité, in L’évêque dans la cité, cit., pp. 119-120.
29 Cod. Theod. XVI 5,5; cfr. anche XVI 5,54.
30 A. Di Berardino, L’immagine del vescovo, cit., p. 48.
31 R. Lizzi Testa, Privilegi economici e definizione di “status”: il caso del vescovo tardoantico, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, 397 (2000), pp. 55-103, in partic. 71.
32 Soz., h.e. V 4,5.
33 R. Delmaire, Église et fiscalité: le “privilegium christianitatis” et ses limites, in Émpire chrétien aux IVe et Ve siècles, cit., pp. 285-293, in partic. 293.
34 Eus., v.C. IV 54. Alcuni autori hanno visto in questo passaggio una velata allusione ad Atanasio di Alessandria, ma sono molti i vescovi a cui ci si potrebbe riferire.
35 A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2001, p. 137.
36 Testo citato da Atanasio, Ath., Apol. sec. 59,6.
37 Eus., v.C. IV 42,1.
38 Eus., v.C. IV 4.
39 Eus., v.C. III 21,4.
40 T.D. Barnes, Athanasius and Constantius, cit., p. 177.
41 Sebbene questo privilegio non appaia testimoniato prima del 355 (Cod. Theod. XVI 2,12), la condanna di Atanasio in questo concilio dimostrerebbe che la datazione risale all’epoca di Costantino.
42 T.D. Barnes, Constantine, Athanasius and the Christian Church, in Constantine. History, Historiography and Legend, ed. by N.C. Samuel Lieu, D. Monserrat, London-New York 1998, pp. 7-20, in partic. 17.
43 J. Fernández Ubiña, Osio de Córdoba, el Imperio y la Iglesia del siglo IV, in Gerión, 18 (2000), pp. 439-473, in partic. 463.
44 Lucif., Moriend. 3, 270,43-45; e 13,293,1-3; riguardo questa antitesi, cfr. K.M. Girardet, Kaiser Konstantius II als «episcopus episcoporum» und das Herrscherbild des kirchlichen Widerestantes (Ossius of Cordoba und Lucifer von Calaris), in Historia, 26 (2977), pp. 95-128; G. Corti, Lucifero di Cagliari. Una voce nel conflitto tra chiesa e impero alla metà del IV secolo, Milano 2004.
45 R. Teja, Valores aristocráticos en la configuración de la imagen del obispo tardoantiguo: Basilio de Cesarea y la oratio 43 de Gregorio de Nacianzo, in Humana Sapit, cit., p. 286.
46 H.A. Drake, Constantine and the Bishops, cit., p. 399.
47 Cypr., epist. 67,4; 55,8.
48 Cypr., epist. 55,8,1.
49 C. Sard., can. 1.
50 Juan Luis Vives, De la condición de los cristianos bajo el turco, in Id., Obras Completas, ed. por L. Riber, Madrid 1948, II, p. 69.
51 C. Sard., can. 5.
52 P. Canivet, Le monachisme syrien selon Théodoret de Cyr, Paris 1977.
53 Cfr. specialmente cann. 8 e 24. A proposito delle peculiarità che la figura del monaco-vescovo ha avuto in Occidente, cft. L. Cracco Ruggini, “Vir sanctus”: il vescovo e il suo “publico ufficio sacro” nella città, in L’évêque dans la cité, cit., pp. 3-15.
54 Thtd., h. rel. 26,11.
55 Thtd., h. rel. 17,6-7.
56 Iul., Ep. 84; cfr. anche ep. 89.
57 In merito alla episcopalis audientia, esiste una vastissima bibliografia i cui contributi si distinguono per aspetti marginali, si vedano fra i titoli più recenti M.R. Cimma, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali di Costantino a Giustiniano, Torino 1989; F. Cuena Boy, La “episcopalis audientia”, Valladolid 1985. Sembra che il maggior vantaggio dell’episcopalis audientia sia il fatto che amministri la giustizia in modo più rapido ed economico rispetto a quella civile.
58 Ambr., epist. 74,6.