Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo sviluppo secentesco della musica strumentale si esprime in Inghilterra attraverso la produzione della scuola virginalistica che trae origine dalla tradizione polifonica-organistica e riprende ed elabora il repertorio di danze e arie tradizionali che già con il liuto aveva trovato ampia fortuna. Il virginale contribuisce allo sviluppo di una consuetudine musicale “domestica” e borghese. Il declino della scuola virginalistica sotto l’influsso delle mode continentali avviene nella seconda metà del secolo, dopo la restaurazione monarchica.
Il contesto storico e geografico
L’evoluzione della musica strumentale è un fenomeno culturale e di costume ancor prima che tecnico, legato all’affermarsi della nascente società borghese. Il consumo “domestico” della musica rappresenta un aspetto non secondario di questo processo, del quale protagonisti e testimoni privilegiati saranno gli strumenti a tastiera, a corde pizzicate: clavicembali, spinette, clavicordi e virginali, che per questa ragione possono essere ritenuti gli antenati del pianoforte, soprattutto sul piano culturale.
Nelle isole britanniche fiorisce e si spegne nell’arco di circa un secolo una scuola virginalistica con specifiche caratteristiche stilistiche e di repertorio. Il termine “virginale” nelle fonti inglesi dell’epoca indica genericamente uno strumento a tastiera, a corde pizzicate, ma non specificamente il virginale in senso proprio. La scuola virginalistica ha dato un contributo determinante, seppur decisamente radicato nella cultura inglese, all’affermazione della musica strumentale europea.
Le fonti, gli autori
I più antichi brani inglesi per virginale conosciuti risalgono alla prima metà del XVI secolo: si tratta di un Hornpipe di Hugh Ashton e di 10 altre danze, probabilmente dello stesso autore, inclusi in un manoscrittodatabile intorno al 1530. Bisogna però attendere i primi anni del Seicento perché vedano la luce le composizioni rappresentative della tecnica virginalistica più matura. Queste, in genere, ci sono pervenute in forma manoscritta e attraverso i cosiddetti commonplace books, antologie di brani di differenti autori compilate a uso privato, a beneficio delle famiglie patrizie presso cui i compositori si trovano a servizio e spesso trascritte da abili copisti piuttosto che dagli autori delle musiche.
Il più celebre ed esauriente commonplace book è senz’altro il Fitzwilliam Virginal Book, compilato probabilmente da Francis Tregian nei primi anni del Seicento. In questa raccolta sono rappresentati infatti tutti gli autori di musiche virginalistiche dell’epoca.
Molto significativa è la ricorrenza nel manoscritto di autori cattolici quali John Bull, che come altri cattolici trova rifugioin Olanda (1613), e soprattutto Peter Philips, un ecclesiastico cattolico inglese stabilitosi in Olanda, i cui brani, piuttosto rari nelle collezioni inglesi dell’epoca, sono qui abbondantemente rappresentati.
Philips, pur essendo uno tra i più celebri compositori dell’epoca, è misconosciuto in patria, probabilmente a causa del suo credo cattolico. Sue composizioni sono presenti in varie raccolte e ristampate per oltre 50 anni ad Anversa. Spesso considerato di scuola olandese, intrattiene in effetti con l’Olanda e i compositori di quelle terre uno stretto contatto: la sua musica sacra risente infatti dello stile di Jan Pieterszoon Sweelinck, ma questi a sua volta rielabora una pavana di Philips del 1580. Comprensiva di brani per consort di viole da gamba, spesso rielaborazioni di musiche originali per strumenti a tastiera, l’opera di Philips dimostra nel complesso una buona padronanza dello stile italiano (include infatti libri di madrigali e trascrizioni di madrigali e canzoni italiane), oltre a elementi strutturali tipicamente inglesi.
Il caso di Philips è comunque un’eccezione. I più importanti virginalisti, tutti attivi intorno all’epoca elisabettiana e negli anni immediatamente successivi, costituiscono una cerchia professionale abbastanza chiusa e omogenea: legati tra loro da rapporti di amicizia e pedagogici, educati nelle stesse o in analoghe istituzioni religiose, frequentano i medesimi ambienti di lavoro, completano tutti la propria formazione musicale teorica presso le università di Oxford e di Cambridge; tutti, all’apice delle rispettive carriere, presteranno servizio presso la Cappella Reale.
Il repertorio: formazione e caratteri
Gli autori di musiche per virginale sono generalmente organisti: il virginale offre ora un nuovo e più agile supporto espressivo a quella pratica della tastiera che fin da tempi remoti ha nell’organo il suo riferimento centrale. La prima riserva di materiale per le sperimentazioni sul nuovo strumento è costituita dunque dalla tradizione fiamminga di origine medievale: la polifonia vocale sacra e l’elaborazione della monodia del canto gregoriano, da sempre pane quotidiano dell’ufficio organistico. Per tutto il Cinquecento la musica per strumenti a tastiera si intende indifferentemente destinata all’organo o al virginale.
Lo è quella di John Bull, virginalista che esalta l’aspetto di ricerca nelle sue composizioni: preludi, fantasie, brani basati sul cantus firmus, in cui le sperimentazioni ritmiche e armoniche mirano all’esplorazione delle possibilità tecniche dello strumento e dell’agilità manuale del musicista, di nuovi effetti sonori che raggiungono risultati talora sorprendenti.
Bull, il più ardito sperimentatore tra i maggiori virginalisti, si rivela abile anche nella tecnica della variazione su arie tradizionali, e nell’elaborazione di musiche per danza (in quest’epoca quasi esclusivamente la coppia Pavana - Gagliarda) il cui virtuosismo strumentale raggiunge ormai livelli di complessità che ne fanno musica di puro ascolto, svincolata dalla funzione legata al ballo.
I tratti stilistici della scuola virginalistica sono abbastanza omogenei, ferme restando le specificità “artigianali” di ogni suo componente. Orlando Gibbons, ricordato come raffinato esecutore, si cimenta in un’ampia gamma di forme, eccellendo nell’arte della fantasia, oltre che nella tecnica del ground e della variazione.
Thomas Morley, allievo del celeberrimo William Byrd, è ricordato anche quale autore del più famoso trattato musicale del Rinascimento inglese, A Plaine and Easie Introduction to Practical Music. Nelle musiche per virginale Morley dà il meglio di sé nelle variazioni su arie tradizionali, riservando il genere della fantasia al gruppo di viole da gamba.
Ci sono pervenuti innumerevoli brani attribuiti a William Byrd, molti dei quali certamente apocrifi: nella copiatura e circolazione dei manoscritti accade di frequente che le composizioni vengano annotate sotto il nome non già dell’autore, ma di un copista, di un esecutore o, come in questo caso, di un compositore tanto rinomato da dare lustrocon la propria firma a opere di musicisti più oscuri o ignoti.
Nella pubblicazione di musiche a stampa peraltro in quest’epoca è tutt’altro che raro il caso di autori sconosciuti o editori senza scrupoli che accreditassero con nomi famosi le proprie o altrui opere per assicurarne il successo.
In Byrd risalta tra l’altro una notevole vena descrittiva: interamente dedicato ad opere di Byrd è il My Ladie Nevells Book of Virginal Music, compilato dal più illustre copista dell’epoca, John Baldwin di Windsor. In esso è contenuta, oltre alle immancabili fantasie e coppie di danze, la ricostruzionemusicale di un evento bellico: The Marche Before the Battel – The Battel – The Galliarde for the victorie (“Marcia prima della battaglia – La battaglia Gagliarda per la vittoria”).
Nel Seicento certa musica strumentale, alla ricerca di una propria autonomia espressiva, tenta di descrivere col suono eventi e oggetti: imitazioni onomatopeiche di versi d’animale, suoni di campane (The Bells, “le campane”, è il titolo d’un altro famoso brano di Byrd contenuto nel Fitzwilliam Virginal Book), temporali, segnali di battaglia e fragori bellici sono sempre più diffusi nella produzione virginalistica: la battaglia diviene una forma musicale.
I brani descrittivi della battaglia di Byrd si aprono con una solenne marcia d’apertura e si concludono con una festosa gagliarda finale, le quali si trasformano in pretesti per l’esecuzione delle diminuzioni sullo strumento. Tra questi due brani si sviluppa The battell, la vera e propria descrizione della battaglia, a sua volta suddivisa nelle sue fasi da titoli evocativi.
Le fasi della battaglia sono: The souldiers summons (La convocazione delle armate), The marche of footemen, The marche of horsmen (Marcia della fanteria, Marcia della cavalleria), ritmicamente ben differenziate tra loro a connotare l’ingresso in campo dei due diversi battaglioni, The trumpetts (onomatopea delle trombe marziali), The Irishe marche (Marcia irlandese), The bagpipe and the drone (onomatopea della zampogna), The flute and the droome (onomatopea del flautoe tamburo), The marche to the figthe (descrizione delle fasi dello scontro, con l’indicazione della fanfara – Tantara tantara – e dell’impatto decisivo – The battels be joyned) e infine The retreat (La ritirata).
Queste musiche di Byrd saranno riprese sessant’anni più tardi, con l’aggiunta di altri due brani (The Burying of the Dead e The Soldiers’ Delight), nell’Elizabeth Rogers Virginal Book, altro importante manoscritto che contiene anche brani di Gibbons e altri celebri virginalisti.
In un certo senso l’Elizabeth Rogers Virginal Book va oltre gli esperimenti di Byrd, presentandosi come una straordinaria cronaca di storia inglese del periodo: in esso sono “narrati” in musica i fatti che portarono alla Repubblica di Cromwell, dalla invasione scozzese in Inghilterra (The Scots March), alla guerra civile tra le armate fedeli al Parlamento (Sir Thomas Fairfax ’s March) e quelle fedeli al re (Prince Rupert’s March), la sconfitta delle armate realiste (Rupert’s Retreat), le canzoni del Protettorato (The King’s Complaint) e la speranze per la restaurazione monarchica (When the King Enjois His Own Again e What if the King Should Come to the City).
Le ambizioni narrative della musica virginalistica sono il sintomo inequivocabile della svolta culturale che la musica strumentale sta determinando: si fa strada una “ragione” puramente musicale; il suono tende a emanciparsi dalla schiavitù della parola per descrivere, celebrare, riferirsi al mondo direttamente e senza la mediazione del testo poetico.
All’evoluzione culturale della “ragione musicale” è strettamente funzionale lo sviluppo di una peculiare tecnica strumentale. In questo campo il virginale offre un territorio tutto da esplorare; si tratta di una evoluzione che non ha carattere provocatorio o rivoluzionario, ma è al contrario profondamente inserita nella tradizione musicale inglese.
Non è un caso se nello stesso Nevells Book è presente, nel titolo Hugh Ashtons Grownde, il riferimento di Byrd al meno illustre predecessore Hugh Ashton, che cinquant’anni prima era stato tra i pionieri della scuola: il mezzo secolo di evoluzione tecnica e artistica trascorso tra i due non ha cancellato ciò che in quest’omaggio assume emblematica evidenza: la vera novità resa possibile dall’impiego di uno strumento come il virginale è l’appropriazione da parte della tradizione musicale organistica delle forme di danza, l’ingresso nella musica colta del marcato senso del ritmo proprio della musica da ballo, e delle arie di vasta circolazione.
Condizioni socio-culturali
Per un maestro di cappella, legato a doppio filo al servizio religioso nella pratica quotidiana dell’organo, non doveva essere poca cosa il poter disporre di una tastiera portatile da usare secondo i più svariati bisogni. L’introduzione del virginale nelle case dell’aristocrazia come strumento didattico per le nobili allieve (a cui sono spesso dedicati e intitolati gli stessi commonplace books) e per diletto dei loro oziosi pomeriggi sarà per i virginalisti un’ulteriore occasione di elaborazione del repertorio.
L’incerta etimologia di “virginale” è contesa tra il termine latino virga o virgula che starebbe a indicare il salterello (cioè l’asticciola di legno che, mossa dai tasti, salta a pizzicare le corde dello strumento) e la destinazione d’uso dello strumento, volta soprattutto all’esercizio musicale delle fanciulle. Quale che sia la verità, certo è che sempre di più l’immagine del virginale si andrà associando alla figura della casta adolescente di buona famiglia; si può supporre peraltro che non pochi e piccanti doppi sensi abbia prodotto la denominazione di questo strumento: gli stessi titoli delle prime due raccolte pervenuteci a stampa di musica virginalistica, Parthenia e Parthenia In-Violata sono giochi di parole sul soggetto della verginità (nell’ultimo titolo il virtuosismo linguistico si arricchisce del riferimento a brani per virginale e viola da gamba).
I rapporti con la tradizione del liuto
È opinione affermata che la scuola virginalistica inglese sia erede diretta di una più antica tradizione: quella del liuto, la cui gloriosa storia in Inghilterra è a quell’epoca giunta all’apice e prossima al declino. Più di un manoscritto per virginale contiene tra le sue pagine trascrizioni di brani dei più famosi liutisti dell’epoca: il Fitzwilliam Virginal Book riporta trascrizioni di brani del celeberrimo John Dowland e di Robert Johnson; l’Elizabeth Rogers Virginal Book trascrive da Robert Johnson e da John Wilson.
Il virginalista Thomas Morley è anche autore di musica per liuto, e pubblica il suo First Booke of Consort Lessons (1599) con le intavolature per questo strumento.
Ma la versatilità dei compositori e la pratica generalizzata della trascrizione sono delle costanti a quest’epoca e non bastano a spiegare la natura del rapporto tra i due strumenti: l’omogeneità tra i due repertori, per genere, titoli, scrittura musicale è tale da richiedere spiegazioni più approfondite.
Lo status del liutista nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento è di altissimo prestigio: il liuto è l’unico strumento polifonico non a tastiera; la sua maneggevolezza e versatilità lo rendono generalmente più abbordabile di questi, sicché il liutista, che pure deve avere pratica di contrappunto, è al tempo stesso tradizionalmente vicino al repertorio profano e all’uso ludico della musica.
Il rapporto che i liutisti hanno con la polifonia è molto diverso da quello degli organisti, trovandosi essi in qualche modo costretti a dare ai problemi del contrappunto soluzioni empiriche, adeguate alla natura e ai limiti del proprio strumento. I virginalisti a loro volta, da secoli abituati alle possibilità armoniche praticamente illimitate dell’organo, che riunisce teoria e pratica in un unico gesto, a contatto col loro nuovo e più limitato strumento per la prima volta si pongono “problemi da liutista”, ossia ricercano soluzioni empiriche a problemi teorici, fondando così lo specifico idioma dello strumento.
Emblematica è la vicenda di Giles Farnaby, altro importante virginalista dell’epoca; egli è certo tra i più famosi, tuttavia non appartiene alla schiera dei suoi illustri colleghi almeno per un particolare non secondario: di professione non è organista, ma falegname. Dimostra, tuttavia, una spiccata attitudine sperimentale sullo strumento, specie nell’elaborazione di danze e nella tecnica della variazione.
Peraltro non solo nel repertorio ma proprio sul piano della tecnica di produzione del suono tra la famiglia dei liuti e quella degli strumenti a tastiera a corde pizzicate c’è molta più contiguità di quanto non appaia a un primo sguardo: in entrambi i casi il suono viene prodotto pizzicando una corda tesa su di una cassa di risonanza; l’unica differenza sostanziale consiste nel fatto che negli strumenti da tasto la corda viene fatta vibrare meccanicamente, per mezzo di una leva. In tal senso dunque i virginali, e con essi tutti gli strumenti da tasto a corde pizzicate, si potrebbero ritenere a buon titolo “eredi meccanizzati” dei liuti.
Più che di eredità tout-court della scuola virginalistica dalla tradizione liutistica si potrebbe dunque parlare di una singolare appropriazione da parte dei virginalisti del repertorio liutistico: gli accademici, i musici per eccellenza, dignitari della grande tradizione vocale polifonica, scoprono un “liuto meccanizzato” sorprendentemente adeguato alle proprie competenze, e si appropriano così di un mezzo espressivo forse meno nobile ma certamente molto più diffuso nel tessuto sociale, più facilmente godibile da tutti, più vendibile.
Epilogo della scuola virginalistica inglese
L’ultimo esponente della scuola virginalistica è Thomas Tomkins, altro allievo di Byrd, attivo alla Cappella Reale. Tomkins non solo si mantiene sulla linea del maestro, ma risale addirittura più a monte: la sua musica per virginale rivela adesione al vecchio stile polifonico nella preoccupazione di conferire uguale importanza alle diverse voci della composizione. La sua scrittura appare ben lontana dalla caratterizzazione idiomatica, in senso ritmico e melodico, verso cui muove la musica del suo tempo.
Verso la metà del Seicento il termine “virginale” in tutta Europa inizia ad avere un’accezione molto più ristretta di quella generica di “strumento a tastiera a corde pizzicate” che appartiene alla tradizione inglese del primo Seicento: d’ora in avanti designerà specificamente uno strumento di forma rettangolare e di piccole dimensioni. Il che non è segno di una solida affermazione della scuola inglese al di là della Manica, ma del suo contrario: lo strumentalismo che si è evoluto in continente rappresenta la tendenza generale e la scuola virginalistica inglese segna il passo anche dentro ai propri confini.
Tra gli autori inglesi non si può parlare più, dalla metà del Seicento, di “composizioni per virginale”: un musicista come John Blow, maestro di Henry Purcell, ricopre nel 1669 l’incarico di virginalista nell’orchestra reale, e pochi anni dopo diviene Gentleman e quindi Master of the Children della Cappella Reale, apparentemente all’insegna di una tradizione immutata nella monarchia restaurata.
Ma la sua musica strumentale (e non solo quella) risulta notevolmente influenzata dagli sviluppi europei, in particolare dalle nuove suites di danze italiane e francesi.
È una svolta storica della quale gli eventi musicali non sono cheun riflesso: la Repubblica di Cromwell determina la fine improvvisa di una tradizione virginalistica al massimo del suo splendore non tanto con l’ostacolarne le prospettive di sviluppo quanto resecandone di netto le radici con la semplice distruzione, per decreto ufficiale, di tutti gli organi delle chiese: il che ha per conseguenza il disorientamento e la privazione dello statuto professionale per i musicisti professionisti, vissuti dalla nascita all’ombra della propria cappella musicale e della tradizione organistica.
Tra i vecchi virginalisti e i musicisti della nuova scuola che sorge alla metà del secolo (conmusicisti quali Matthew Locke e John Blow) vi è dunque una cesura netta ma giustificata solo da circostanze esterne e accidentali: priva di motivazioni intrinseche ma irrimediabile quanto può esserlo lo spezzarsi di una catena di magistero artigianale. E gli effetti, non necessariamente negativi, si vedranno in una inedita “continentalizzazione” del gusto: nell’assorbimento spesso compiaciuto di stili e atteggiamenti che vanno dalla sostanza musicale vera e propria fino all’adozione di convenzioni notazionali e termini musicali alloglotti.