TOLOMEI, Iacomo
TOLOMEI, Iacomo. – Le informazioni documentarie disponibili su questo antichissimo rimatore toscano, da sempre ascritto a buon diritto al filone dei poeti realistici da tutti gli antologisti di poesia comica del Medioevo italiano, sono particolarmente scarse, così come scarsa è la sua produzione letteraria superstite. Ciononostante, pur a dispetto delle poche notizie di cui tuttora si dispone, la figura di Tolomei si è comunque guadagnata una discreta attenzione, soprattutto in ragione delle preziose informazioni contestuali deducibili dall’unico sonetto pervenutoci: Le favole, compar, ch’om dice tante.
Figlio di messer Lottirengo de’ Tolomei nato e vissuto a Siena, è verosimile che anche Iacomo – noto nei pochi documenti d’archivio e nelle didascalie dei canzonieri che ne tramandano il sonetto con il soprannome di Granfione (o Graffione) – sia nato e abbia trascorso la vita nella medesima città. Stante la minima documentazione reperibile, la data di nascita non è precisabile con esattezza, tuttavia è probabile che nel 1270 Iacomo fosse già in età adulta; così almeno sembra doversi ricavare da un istrumentum dello Spedale di S. Maria della Scala di Siena (n. 186), dove lo si menziona insieme ai figli («Graffione domini Luctoringi, et Minutulus Guelfucci filii dicti Graffionis», in De Angelis, 1818, p. 161). In un altro documento risalente all’8 giugno 1282, portato per la prima volta all’attenzione degli studiosi di lirica antica quasi un secolo e mezzo più tardi (Massera, 1940, p. 340), lo ritroviamo citato come testimone dell’atto di vendita al Comune di Siena del piccolo comune di Campagnatico, che era anticamente sorto come possesso dell’abbazia del San Salvatore al monte Amiata e che era entrato nell’orbita dei domini senesi a seguito della morte del conte guelfo Omberto Aldobrandeschi (1259), il quale fieramente si oppose a tale annessione fino a che fu in vita. Termine ante quem per la data di morte è il 1290: da un terzo e ultimo documento relativo a un contenzioso tra il Comune e i figli sopra citati, veniamo, infatti, a sapere – come sempre dall’olim che anticipa il nome paterno – che in quell’anno Iacomo era già morto (ancora De Angelis, 1818, p. 161, sulla base di alcuni registri finanziari conservati nell’Archivio di Stato di Siena, Libri di Biccherna, n. 99, c. 69).
Il sonetto Le favole, compar, ch’om dice tante è testimoniato da un numero complessivamente contenuto di fonti manoscritte e a stampa, fra le quali si segnala per antichità e affidabilità il manoscritto miscellaneo della Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 3953, f. XI, p. 146, appartenuto al rimatore trevigiano Nicolò de’ Rossi e allestito con la collaborazione di altre quattro mani più o meno coeve nel decennio 1325-35. La trascrizione del sonetto è dovuta alla terza mano intervenuta sul codice, designata ‘c’ (cui spetta la realizzazione delle pp. 127-206): benché non identificabile con quella dello stesso de’ Rossi (riconoscibile invece nella mano ‘d’), è certo che il possessore intervenne a più riprese sulle sezioni precedenti, al fine di effettuare integrazioni (pp. 27-36, 46-48, 74-80) e, se necessario, di revisionare i testi.
Grazie al lavoro di censimento compiuto sulle rime di Dante e poi confluito nell’edizione critica (v. in Alighieri, 2002, I, t. 2, pp. 616 s., 636 s., 723 s., 761-763), sappiamo oggi dell’esistenza di altri testimoni dell’opera: il ms. 3211 della Biblioteca Casanatense di Roma, della prima metà del XVIII secolo (in cinque sezioni, di cui interessa la prima; cc. 1-178); il ms. C.IV.16 della Biblioteca comunale di Siena, anch’esso settecentesco (composito di cinque codici, di cui interessa il primo; cc. 1-163); il ms. della Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 4000, del XVII secolo, costituito in larga parte di trascrizioni autografe di Federigo Ubaldini; il ms. Chigiano M.IV.127 della Biblioteca apostolica Vaticana, vergato da un amanuense di Leone Allacci e in misura minore da Allacci stesso nel terzo quarto del XVII secolo. Ebbene, fatta eccezione per il vetusto Barb. lat. 3953 appartenuto a de’ Rossi, tutte le altre testimonianze si rivelano inutili in sede di costituzione del testo, essendo in varia misura apparentate con la raccolta Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca Vaticana e Barberina da Monsignor Leone Allacci (Napoli 1661), a sua volta dipendente dal Barb. lat. 3953 per la sezione dei poeti senesi.
Oltre che per ragioni letterarie, il motivo principale per cui la critica si è interessata al sonetto Le favole, compar risiede nelle informazioni di carattere cronachistico che esso fornisce su alcuni dei personaggi ivi menzionati: sull’esempio dei ben noti sonetti caricaturali del modello a lui più prossimo, vale a dire Rustico Filippi, si passano qui in rassegna alcuni cittadini senesi evidentemente noti per le proprie miserie personali. Trasformandoli in personaggi quasi fiabeschi, Iacomo menziona, nell’ordine: un «ser Lici» che, in quanto «orco», si ciba di «garzone», con probabile allusione alle sue pratiche sodomitiche (v. 9); un «Muscia strega, ch’è fatto d’om gatta / e va di notte e poppa le persone» (vv. 10-11), con esplicita accusa anche per lui di omosessualità; un «Guglielmo di Bediera» definito ironicamente «gigante», come tutta la sua schiatta, forse perché basso o più probabilmente perché di conclamata indole codarda e remissiva; un «ser Benencasa» che «parla, ed è montone», cioè cornuto.
Considerando le molte difficoltà identificative che sorgono per almeno tre personaggi su quattro, particolarmente importante si è rivelata essere la menzione di Muscia, che è stata letta quale conferma dell’effettiva esistenza storica di un altrimenti ignoto Muscia da Siena, estraneo alle fonti d’archivio e autore dei sonetti Ducento scudelin de dïamanti – che nel teste barberiniano immediatamente precede quello di Iacomo – e di Giùgiale di quaresima a l’uscita, entrambi diretti a un Lano che si è soliti identificare con quell’Arcolano di Squarcia Maconi incontrato da Dante e Virgilio tra gli scialacquatori (Inferno XIII, 120-121). Non è forse da escludere che lo stesso Muscia di cui parla Iacomo possa essere autore anche di altri sonetti giocosi contesigli nella tradizione da Cecco Angiolieri (si vedano Marti, 1950, p. 275, e soprattutto Bruni Bettarini, 1974, pp. 86-98), a patto ovviamente che si sia disposti a riunire sotto una singola personalità i due sonetti attribuiti a Muscia da Siena e i quattro assegnabili a Niccola Muscia (come ora ripropone Marco Berisso, Poesia comica..., 2011, pp. 155-157, sulla scorta di Mario Marti, Poeti giocosi..., 1956, pp. 295-300; ma diversamente Vitale, 1956, I, pp. 231-237, II, pp. 61-70, che invece optava per due sezioni distinte).
Edizioni. Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca Vaticana e Barberina da Monsignor Leone Allacci, Napoli 1661, p. 368; A.F. Massera, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, I, Bari 1920, p. 139; I. Comunale, Sonetti di Rustico di Filippo, Salerno 1928, p. 25; M. Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, Milano 1956, pp. 295-300; M. Vitale, Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, Torino 1956, I, pp. 231-237, II, pp. 61-73; M. Berisso, Poesia comica del Medioevo italiano, Milano 2011, pp. 155-157, 241-243.
Fonti e Bibl.: L. De Angelis, Capitoli dei Disciplinati della venerabile compagnia della Madonna sotto le volte dell’I.E.R. Spedale di S. Maria della Scala di Siena, Siena 1818, p. 161; A.F. Massera, Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, I-II, Bari 1940, I, p. 340; M. Marti, Sui sonetti attribuiti a Cecco Angiolieri, in Giornale storico della letteratura italana, CXXVII (1950), pp. 253-275; A. Razzini, Intorno all’autencità delle rime ascritte a Cecco Angiolieri, in Filologia romanza, I (1954), pp. 30-38; F. Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, Padova 1974, I, pp. XLVII-XLIX, II, pp. 9-36; A. Bruni Bettarini, Le rime di Meo dei Tolomei e di Muscia da Siena, in Studi di filologia italiana, XXXII (1974), pp. 31-98; D. Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, Firenze 2002, I, t. 2, pp. 616 s., 636 s., 723 s., 761-763.