Alighieri, Iacopo
Figlio di D. e di Gemma Donati, probabilmente, dopo Giovanni e Pietro, terzogenito; maggiore dunque soltanto di Antonia. Nacque a Firenze sicuramente alcuni anni prima del 1300, se il 15 ottobre 1315, insieme coi fratelli, era certamente compreso nella sentenza di condanna a morte nuovamente irrogata a D. (dopo quella del 10 marzo 1302) quale ghibellino sospetto. Il sapere compresi in tale condanna (come prova il successivo sbandimento) i figli maschi del poeta, implica infatti che essi, a quella data, avessero compiuto i quindici anni. Alla sentenza di morte seguì, il 6 novembre, quella rituale di sbandimento contro " Dantem Adhegherii et ff. ", i quali non si erano presentati a sodare l'osservanza del confino (" qui non satisdederunt a septuaginta annis infra et a XV annis supra "): anche i figli di D., alla data del bando, dovevano aver preso già da qualche tempo la via dell'esilio (si rammenti che l'unica traccia di Giovanni è in un documento lucchese del 1308).
Per la scarsità dei documenti non è oggi possibile determinare con esattezza le varie tappe delle peregrinazioni di I. negli anni che precedono la morte di D.: si può d'altra parte ben ragionevolmente e legittimamente supporre che egli sia per lo più rimasto accanto al padre, come mostrano gl'indubbi suoi legami con Ravenna e i Polentani da un lato e, successivamente, con Verona e gli Scaligeri dall'altro. Che I., col fratello, fosse a Ravenna quando D. si disponeva all'ultima, suprema ascesa, appare non tanto dai documenti storici (come è per Pietro), ma da fonti letterarie: lasciando da parte la narrazione - quanto leggendaria? - del Boccaccio (Vita di D. XXVI) circa il ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso e circa l'anteriore proposito di I. e Pietro, " ciascuno... dicitore in rima ", di " supplire la paterna opera, accioché imperfetta non procedesse ", basterà rammentare come proprio a Guido da Polenta i. inviasse, nella primavera del 1322, la sua Divisione del poema, accompagnandola con il sonetto Acciò che le bellezze, signor mio; quanto ai rapporti con Verona (ben presto divenuta sede stabile per Pietro) I. vi ottenne un canonicato, le cui rendite ebbe una volta a cedere per un triennio al fratello. La menzione di tale beneficio è del 1341 (cfr. Piattoli, Codice 175), dunque piuttosto tarda; ma ciò non attenua gli ovvi legami con la città scaligera, anche perché non si hanno prove che tale nomina sia dovuta a tardivo interessamento di Pietro.
Dal Codice (docum. 160) risulta, a ogni modo, che nel 1325 I. potè rientrare a Firenze, in quanto ormai spente, con la morte di D., le ragioni del bandimento; il 9 ottobre 1326 riceveva da Tedici vescovo di Fiesole gli Ordini minori e la tonsura (ordinazione da mettersi forse in rapporto con il summenzionato beneficio). Indi egli attese a sistemare le numerose pendenze ereditarie e amministrative, legate sia al recupero della dote di Gemma Donati, sia ai debiti contratti dal padre, prima e dopo il duro tempo dell'esilio, con Francesco Alighieri e con altri (cfr. Codice 144, 150-155, 158, 169). Nello stesso Codice (151, 152; 172-176) è poi documentata la divisione dell'asse ereditario tra I. e Pietro, effettuata oculatamente nel 1332, mediante lodo, dal notaio Lorenzo da Villamagna, e poi ulteriormente perfezionata (nel 1341) dopo la morte di Gemma, con lo scopo evidente di eliminare, mediante permute, i possessi in comune (con la cessione da parte di Pietro dei propri diritti sui beni rurali) e di riscattare (cfr. Codice 183) la quota dei beni di D. confiscata nel 1302. Ma I. non adempì agli obblighi posti dal lodo di Paolo dei Corbizzi, in particolare non pagò entro un triennio al fratello la somma di 159 fiorini d'oro; sicché il 17 novembre 1347 il notaio Ciuto di Cecco da Castelfiorentino, arbitro e amichevole compositore fra le parti, restituiva a Pietro la metà per indiviso del podere e delle terre in S. Miniato a Pagnolle, fermo però restando il diritto di I. e dei suoi eredi di tornare in possesso di quella metà allorché fosse pagata per intero tale somma (Codice 187-189). Le ragioni di tale mancato pagamento da parte di I. appariranno quando si pensi che in quegli anni egli s'era accasato e aveva avuto due figli, Bernardo e Alighiero, dei quali resta traccia documentaria (non della madre loro, sì che non sappiamo se I. l'avesse sposata, poi rimanendone vedovo - e così pensa il Barbi - oppure si fosse limitato a convivere con essa, ipotesi più probabile per la mancanza in atti di ogni accenno ai diritti dotali di questa presunta prima moglie). Il provvedere alla famiglia dovette insomma impedire a I. di mantenere gl'impegni col fratello; e le cose non mutarono quando nel 1346 egli contrasse una relazione con Iacopa di Biliotto degli Alfani: promettendole di condurla in moglie, avendone una figlia, Alighiera, e incamerandone la dote. Anche questa volta I. non giunse alle nozze nonostante le intimazioni legali di Domenico Alfani, fratello e procuratore di Iacopa (Codice 184-186); ai due fratelli non restò che adire le vie legali innanzi al giudice del podestà, per ripetere la dote nei termini del contratto: e la causa fu discussa nel maggio 1349 (Codice 193). Ma a quella data, probabilmente a seguito della peste dell'anno precedente, I. era già passato a miglior vita: sicché furono condannati a pagare una certa somma di denaro i suoi figli ed eredi. Fu a seguito di tale lite che i beni a Pagnolle passarono a Iacopa Alfani e alla madre, che saldò il debito contratto da I. col fratello (cfr. Piattoli, in " Studi d. " XLIV [1967] 265-267).
L'operosità letteraria di I., fin dalle sue prime battute (il son. Acciò che le bellezze, signor mio, e il capitolo O voi che siete nel verace lume), è strettamente legata a un intento apologetico e insieme esplicativo dell'opera paterna, dunque alla dichiarazione della struttura materiale e del contenuto del poema; il capitolo, in 51 terzine (più un verso finale, ripresa dell'incipit della Commedia) espone sinteticamente, rispettandone l'ordine topografico, la partizione e la materia delle varie cantiche, abbozzandone insieme un brevissimo inquadramento allegorico; ed è il primo anello di una tradizione cui, nel Trecento, si riannoderanno Bosone da Gubbio, Mino d'Arezzo, Guido da Pisa, Cecco di Meo degli Ugurgieri, Iacopo Gradenigo e Simone Serdini. Pari intento divulgativo ed esplicativo, ma insieme altrettanto impegno innovatore (si badi che siamo all'inizio della secolare tradizione esegetica) mostrano le Chiose (in volgare) alla prima cantica, composte probabilmente intorno il 1322 - se Graziolo Bambaglioli poteva usufruirne nel suo commento di poco posteriore -: si tratta di una serie di postille all'Inferno, condotte in chiave allegorica col preciso intento di " dimostrare parte del suo profondo e autentico intendimento ". Nel Proemio I. espone l'allegoria fondamentale della Commedia in piena coincidenza con l'Epistola a Cangrande; ma nello scendere, canto per canto, all'analisi particolare, egli non riesce più a cogliere dall'interno il significato concreto della fictio, della rappresentazione: l'immagine dà avvio a uno sterile, astratto allegorismo, sovrapposto alla lettera della poesia, anche laddove non è manifestamente in causa un sovrasenso. I personaggi, anziché concreti e realistici exempla di un ordine esistenziale, sono considerati altrettante ‛ personificazioni ' allegoriche di categorie concettuali: il che è quanto a dire che la Commedia è letta più guardando alla tradizione dei poemi allegorici mediolatini e romanzi che all'oggettivo superamento di quelle esperienze (primo il Roman de la Rose) compiuto proprio da D. col suo realismo e con la sua poetica nuova.
Questo enciclopedismo allegorico-didattico trova piena espressione nel successivo Dottrinale, poemetto che fin nel metro (settenari a rima baciata) si riannoda all'esempio dugentesco del Latini (ma anche del Detto d'Amore); in 600 sestine I. vi affronta argomenti astronomici, astrologici, di fisica e cosmologia naturale, d'etica e di politica, di estetica femminile, in uno stile contorto e pesante che è d'altronde notevole pel vocabolario e le frequenti innovazioni semantiche. Da segnalare d'altronde la piena coincidenza, in alcune parti dell'operetta, con la materia e le soluzioni della Quaestio, nonché con le linee maestre del pensiero politico di Dante. Accenno a parte merita un altro aspetto della filiale ‛ pietas ' di I.: quello, se non proprio di editore, certo di divulgatore dell'opera paterna. I pochi dati testuali ricavabili dalle Chiose consentono di non escludere la possibilità che la precoce diffusione della Commedia in Firenze tra il 1325 e il 1330 (all'altezza, insomma, degli antigrafi del Trivulziano 1080 [Triv] e dell'Aldina Braidense AP XVI 25 [Mart]) abbia ricevuto impulso dal ritorno " intra moenia " di questo pietoso figlio dell'Alighieri, che sempre si adoperò per diffondere e illustrare l'opera del padre suo.
Bibl. - Edizioni: il Capitolo, a c. di F. Roediger, in " Il Propugnatore" n.s., I (1888), p. I, 358-370; Chiose alla cantica dell'Inferno di D.A. attribuite a J. suo figlio [a c. di Lord Vernon], Firenze 1848; Chiose alla cantica dell'Inferno di D.A. scritte da J. Alighieri, a c. di Jarro [G. Piccini], ibid. 1915; Il Dottrinale di J.A. Edizione critica con note e uno studio preliminare [di] G. Crocioni, Città di Castello 1895; G. Crocioni, Una canzone e un sonetto di J.A., Pistoia 1898.
Codici: un elenco di codici del Capitolo in Roediger, op. cit., loc. cit.; G. Crocioni, Di due codici sconosciuti del " Dottrinale " di J.A., in " Giorn. d. " VI (1898) 259-279; L. Rocca, Di alcuni commenti della D.C. composti nei primi vent'anni dopo la morte di D., Firenze 1891, 6-7, 33; G. Crocioni, Il frammento Barberiniano delle Chiose di J.A., in " Bull. Società filol. romana " IV (1903) 57-85.
Studi: L. Rocca, op. cit., 1-42; F. Mazzoni, Per la storia della critica dantesca. I: I.A. e Graziolo Bambaglioli (1322-1324), in " Studi d. " XXX (1951) 157-202; ID., La critica dantesca del sec. XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 (gennaio-giugno 1965) 289-292; B. Sandkühler, Die frühen Dantekommentare und ihr Verhältnis zur mittelalterlichen Kommentartradition, Monaco 1967, 95-97 (per il Capitolo), 103-116 (non privo di inesattezze). Si è discusso un tempo (particolarmente dopo alcuni lavori di F.P. Luiso, Di un commento inedito alla D.C. fonte dei più antichi commentatori. Comunicazione al Congresso internazionale di Scienze Storiche, Roma, aprile 1903, Firenze 1904; Chiose di D. le quali fece el figliuolo di D. co le sue mani. Vol. Il. Purgatorio, ibid. 1904) se I. non avesse scritto in latino, e commentato tutte e tre le cantiche; ma dopo l'esemplare saggio, documentatissimo, di M. Barbi, Di un commento del Poema mal attribuito a J.A., ora in Problemi I 359-393, convenne restare all'opinione tradizionale (anche il Luiso rinunciò a stampare le chiose alle altre cantiche).