APPIANI, Iacopo
Nacque in Pisa da Giovanni detto Vanni intorno al 1322; come il padre si dedicò alla professione di notaro, svolgendo tale attività anche e soprattutto negli uffici dell'amministrazione del Comune. In particolare è da notare che nel 1352 fu notaro degli Anziani, cioè della più alta autorità della Repubblica pisana, e che nel 1354 (bimestre marzo-aprile) egli stesso fu degli Anziani. Sempre nell'amministrazione pubblica ebbe successivamente importanti uffici in Pisa e in Lucca, dove, tra l'altro, per ordine del governo pisano, sostituì il padre nell'ufficio di cancelliere degli Anziani. Riguardo a ciò è opportuno rilevare come l'A., pur mettendosi in certo modo nella scia patema, dimostrasse di possedere fin da allora, nell'opinione dei governanti pisani, le capacità che erano necessarie per tenere uffici così importanti. Dopo la morte del padre, avvenuta il 20 maggio 1355, e la rovina dei Gambacorta, anche l'A. si allontanò da Pisa e, dopo vario vagabondare, si rifugiò, come già suo padre, presso i Visconti, ove è assai probabile che rimanesse ininterrottamente fino al 1368. In quell'anno, a causa della seconda discesa di Carlo IV di Boemia, nuovi turbamenti si preparavano per la vita di Pisa. Un incidente di cui rimase vittima il doge Giovanni dell'Agnello, mentre si trovava in Lucca con l'imperatore, offrì l'occasione propizia per un rovesciamento della sua signoria e per la restaurazione della "libertà" comunale. In conseguenza di questi avvenimenti, quasi tutti coloro che nel quindicennio precedente erano stati banditi per motivi politici poterono rientrare in città; anche l'A. ritornò a Pisa, ma poiché non risulta che egli fosse colpito da bando, è probabile che la caduta della signoria del Dell'Agnello abbia influito solo in parte sulla sua decisione, anzi è presumibile che egli si trovasse già in Toscana insieme alle milizie viscontee venute al seguito dell'imperatore. La prima volta che abbiamo di nuovo notizia di lui dopo il suo ritorno lo troviamo unito a quei cittadini che, dopo la caduta del doge, avevano costituito la Compagnia detta di S. Michele al fine di impedire che le fazioni dei Raspanti e dei Bergolini gettassero la città nella più completa anarchia con i loro quotidiani tumulti.
Componevano la Compagnia, "uomini di mezzo", come li definisce un cronista coevo, cioè, in termini modemi, il ceto medio, in quanto, essendo esclusi Raspanti e Bergolini, vale a dire, i grossi capitalisti industriali e armatori, ne facevano parte solo i piccoli mercanti e gli iscritti alle Sette Arti.
Non risulta che l'A. fosse tra i capi; non era certamente tra i più in vista; però, proprio per conto della Compagnia di S. Michele, in un momento particolarmente critico in cui si cercava l'appoggio dei Fiorentini, fu inviato a Firenze per chiedere un prestito di 15.000 fiorini (che fu concesso) per far fronte agli impegni presi con l'imperatore. Il fatto che l'A. fosse incaricato dalla Compagnia di mansioni così importanti, dalle quali dipendeva in certo qual modo il prestigio e l'esistenza stessa del regime voluto dalla Compagnia (e questo a pochi giorni dal suo ritorno inpatria dopo sedici anni di lontananza), è certamente un'altra prova che egli era persona assai stimata e di qualche seguito in certi ambienti e ceti sociali (quelli da cui provenivano i membri della Compagnia) di Pisa, certo anche per il ricordo, ancor vivo allora, dopo tanti anni, che suo padre aveva lasciato di sé. Dopo questo incarico l'A. ne ebbe altri e anzi, poco dopo (settembre 1369), venne eletto cancelliere degli Anzian. Fu eletto di nuovo a tale ufficio dopo due soli mesi di vacatio (in cui però fu Anziano) ai primi di luglio 1370. Una provvisione degli Anziani emanata il 27 ottobre guccessivo, e alcuni particolari riguardanti l'elezione di Pietro Gambacorta a capitano di guerra e difensore del popolo (21 settembre 1370), tramandatici da un cronista che fu testimone oculare, Ranieri Sardo, ci consentono di intravvedere il retroscena di questa seconda elezione e la particolare importanza che essa ebbe. Dalle fonti indicate si deduce, infatti, che tra il Gambacorta e l'A. ci fu sicuramente una segreta intesa, in conseguenza della quale all'A., in quanto cancelliere degli Anziani, erano riconosciuti poteri particolarmente estesi (di questo infatti si occupa la provvisione citata) perché egli, mediante il controllo della Cancelleria degli Anziani, da cui dipendeva tutta l'organizzazione amministrativa e politica dello Stato, contribuisse all'affermazione della signoria gambacortiana. Ciò è confermato anche dal fatto che l'A. conservò la carica di cancelliere quasi ininterrottamente per circa 22 anni. Durante questo ventennio è facile trovarlo menzionato nelle cronache cittadine, tra i primissimi cittadini per potenza e ricchezza, incaricato di missioni importanti o anche solo onorifiche, ma tali da metterlo in primo piano tra coloro che governavano Pisa. Egli, del resto, con quattro successivi matrimoni, l'ultimo dei quali con Ludovica di Spinetta Malaspina marchese di Vifiafranca, aveva stretto legami di parentela con influenti casate feudali. là anche certo che, duìante questi anni, l'A. mantenne rapporti, che non possiamo giudicare soltanto di riconoscente amicizia, con il Visconti; abbiamo notizia infatti di numerose visite da lui fatte (quasi sempre in veste privata), tra il 1376 e il 1392, a Gian Galeazzo Visconti. Forse egli andava a Pavia anche con segrete missioni per conto del governo pisano; ciò sembra confermato dal fatto che Pietro Gambacorta, per quanto messo in guardia dai Fiorentini sospettosi, sulle conseguenze che potevano avere per lui questi rapporti così intimi del cancelliere degli Anziani con la corte di Pavia, non mostrò di preoccuparsene. A Firenze si avevano però buoni motivi di sospettare; infatti le mire del Visconti verso la valle dell'Arno apparivano di giorno in giorno più evidenti ed erano motivo di crescenti preoccupazioni per la Signoria che doveva temere di vedersi lentamente soffocata entro le stesse mura cittadine, qualora fosse stata preclusa ogni via di accesso al mare. Il possesso di Pisa e del suo porto era la chiave della situazione. A Pisa perciò segretamente miravano i due contendenti e, di conseguenza, la città, impotente a difendersi, era danneggiata dalle continue devastazioni inflitte al suo territorio e dal conseguente ristagno di tutta la vita economica. In seguito a questo stato di cose prese consistenza in Pisa una fazione di cui facevano parte elementi di origini sociali disparate che, malcontenti perché danneggiati dalla politica filofiorentina dei Gambacorta, si richiamavano ai tradizionali motivi del ghibellinismo e dell'antifiorentinismo; si diceva che ne fosse a capo il cancelliere degli Anziani; del resto, Vanni, suo figlio, non faceva mistero dei propri sentimenti antifiorentini. Pietro Gambacorta non era all'oscuro del malcontento esistente in città, ma la sua posizione era tale che né poteva rompere i buoni rapporti esistenti con Firenze né, tanto meno, poteva mettersi decisamente dalla parte dei Fiorentini, perché ciò gli avrebbe inimicato irreparabilmente il Visconti. Non gli rimaneva che attendere che la situazione stessa si evolvesse in suo favore. Essa, invece, peggiorò. Il 25 apr. 1390, tra il Visconti e Firenze le ostilità scoppiarono apertamente e resero ancor più difficile la vita nel tormentato territorio pisano corso e saccheggiato dai mercenari delle due parti, mentre in città il malcontento serpeggiava giungendo a esplodere con tentativi di congiure che, per quanto repressi, stavano a dimostrare la pericolosità della situazione del governo. È presumibile che ormai, tra l'A. e il Visconti si fosse stabilito un mutuo accordo per cercare di forzare la situazione, m senso sfavorevole ai Fiorentini; questo è confermato dal fatto che l'A., ritornando in novembre da una visita a Pavia, propose al Gambacorta, a nome del Visconti, che per cinque mesi fosse vietato ai Fiorentini il transito per il territorio pisano. Il Visconti evidentemente sperava di poter costringere alla resa in questo lasso di tempo i suoi avversari. Il Gambacorta rifiutò; nondimeno i rifornimenti fiorentini, da quel momento, non'poterono uscire da Pisa se non protetti da forte scorta. Iacopo dal Verme, che era a capo delle milizie viscontee stanzianti nella regione, veniva sempre avvertito per tempo di qualunque movimento e - afferma un cronista - nessuno osava uscire con i Fiorentini per paura delle milizie viscontee "perché ser Jacopo (d'Appiano) incontanente il faceva sapere a li nimici nel campo loro". La pace conchiusa a Genova il 26 genn. 1392 parve confermare le speranze di Pietro Gambacorta in un avvenire migliore, ma nell'estate successiva un esercito visconteo era di nuovo nei dintorni di Pisa e il suo avvicinarsi diede nuova audacia agli avversari - dei Bergolini. Da tempo, tra Giovanni Rosso de' Lanfranchi, consanguineo dei Gambacorta ed esponente della loro fazione, e gli Appiani non correvano buoni rapporti oltre che per ragioni di natura politica anche per inimicizie private. Pare, infatti, che il Lanfranchi, per tener lontano da Pisa un avversario politico pericoloso qual era Vanni figlio dell'A., approfittasse del fatto che costui era stato preso prigioniero dai Fiorentini, in uno scontro in Valdinievole, mentre combatteva nelle file viscontee e si adoprasse presso la Signoria di Firenze perché non ne permettesse il riscatto. Contro il Lanfranchi erano rivolti anche gli odi dei conti di Montescudaio già capi della fazione Raspante, potenti feudatari in Marenuna, cittadini influentissimi in Pisa e imparentati con gli Appiani per il matrimonio di Vanni. Per tutti questi motivi egli fu scelto come prima vittima della sommossa. Il 21 ott. 1392 Giovanni Lanfranchi e suo figlio Tomeo, colti alla sprovvista da un folto gruppo di armati condotti da Vanni e da Gabriele di Montescudaio, vennero assassinati. Il popolo accorse e ne nacque un tumulto, ma poiché i ribelli dettero alla cosa tutta l'apparenza di una vendetta privata e si ritirarono nelle loro case - forse per attendere quale sarebbe stata la reazione dei Gambacorta - ognuno ritornò alle proprie faccende e per alcune ore tutto fu quieto. Gli Appiani ne approfittarono per attendere altri partigiani dal contado e mercenari assoldati da Iacopo in Garfagnana. Solo allora l'A. decise l'attacco e, dopo breve lotta, disperse i partigiani di Pietro Gambacorta uccidendo o facendo prigionieri i capi.
La tragica fine dei Gambacorta ebbe vastissima risonanza sentimentale fuori di Pisa, sicuramente anche per opera della propaganda fiorentina, che fece apparire l'azione dell'A. un "parricidio", e l'A. stesso la longa manus del Visconti. Questo giudizio è passato anche in alcuni storici moderni, i quali ritennero di poterlo basare su una particolare interpretazione delle fonti, che, a loro giudizio, dimostrerebbero che l'A. si sarebbe valso, per effettuare il colpo di stato, di milizie viscontee. In realtà, le fonti tacciono questo particolare o affermano il contrario; inoltre è sicuramente attestato che pochi giorni dopo, il 25 ottobre, i Fiorentini inviarono ambasciatori anche per stabilire relazioni coi nuovo governo e, il 12 novembre successivo, un commissario fiorentino si recò di nuovo a Pisa per confermare la lega già stretta col Gambacorta. Posto questo è presumibile che, se ci fossestato nell'avvenimento del 21 ottobre un intervento diretto dei Visconti, i Fiorentini avrebbero reagito in maniera diversa; invece, proprio perché il Visconti si era limitato a impedire la eventualità di un intervento fiorentino con la vicinanza delle sue soldatesche, la Signoria aveva avuto la possibilità di tentare un avvicinamento col nuovo governo in modo da evitare il peggio e rimandare ad altro momento la soluzione della questione. Questo, per quel che si può giudicare, era anche negli interessi dell'A., che doveva temere che una dichiarata ostilità dei Fiorentini lo costringesse a darsi in balia del Visconti per averne aiuto.
Il 23 ott. 1392, col consenso di un Consiglio di 300 cittadini, gli Anziani, "per acconciare le cose fatte", elessero Iacopo d'Appiano capitano del Popolo e delle Masnade come già Pietro Gambacorta. Il giorno dopo, per garantirgli la successione, l'A. faceva associare al potere il figlio Vanni. Istituita la nuova signoria, per circa quattro anni l'abilità e la consumata esperienza dell'A. furono tutte rivolte a destreggiarsi in instabile equilibrio fra la politica audace e imprevedibile del Visconti, desideroso dì piegare Firenze, e quella, sospettosa e celatamente ostile nei suoi riguardi, della Signoria fiorentina che non poteva dimenticare il modo in cui egli era divenuto signore di Pisa. Ma il persistere in questo equilibrio non dipendeva dalla volontà dell'Appiani. Il 1393 e il 1394 furono anni di tregua fra le due parti; l'A. ne approfittò per fare un tentativo di politica equidistante tra i due blocchi, aderendo a una lega, che aveva come promotrici Firenze e Bologna e si proponeva genericamente la conservazione della pace, sebbene, di fatto, fosse rivolta contro il Visconti, e, nello stesso tempo, continuando a coltivare l'amicizia del Visconti. Rimaneva, però, insoluto il problema dei fuorusciti; nonostante quindi fossero anni di tregua tra Firenze e Visconti, l'A. dovette respingere gli assalti dei Gambacorta, che, nascostamente aiutati dai Fiorentini, in tempi diversi occuparono di sorpresa alcuni castelli posti sui confini con Firenze e con Siena (Buriano, Legoli, Montevaso, Pietracassa). Quando parve si potesse sperare una tregua anche con i fuorusciti, un incidente capitato nel febbraio 1395, e cioè la cattura di Francesco Gonzaga, operata in territorio lucchese da agenti viscontei e appianeschi, dette inizio a una nuova fase di ostilità con gravi saccheggi e distruzioni causati dalle compagnie di ventura e dai fuorusciti.
Accadde appunto che uno degli agenti implicati nell'incidente, Andrea Stomelli, catturato dai Lucchesi, fosse giustiziato dopo un processo sommario e con una rapidità che parve essere adottata in odio agli Appiani cui lo Stornelli era caro. Il 28 maggio dello stesso anno una compagnia di mercenari già al soldo del Visconti, ma ora (si disse) pagata dagli Appiani, invase e saccheggiò ferocemente il contado lucchese. Il Comune di Lucca corse ai ripari, chiedendo aiuto ai Fiorentini i quali, approfittando del frangente, proposero la formazione di una nuova lega, che venne conclusa il 15 luglio successivo. Come la precedente, questa nuova lega si proponeva di difendere la pace ma, fatto significativo, il Comune di Pisa questa volta non ne faceva parte. Ricominciarono da quel momento le invasioni del territorio pisano ad opera di potenti compagnie a cui si unirono non solo i Gambacorta, ma anche i conti di Montescudaio, ora passati dalla parte opposta. A più riprese la città stessa fu minacciata da vicino, tanto che l'A., per salvarsi, dovette chiedere aiuto al Visconti, il quale cominciò coi mnn qualche migliaio di mercenari con l'intento di valersi di Pisa - secondo quanto il Visconti avrebbe confessato - come base per la conquista di qualche fortezza dei territorio lucchese o fiorentino (ecco il motivo dei tentativi viscontei contro S. Miniato, Montaione, Barbialla, ecc., che si verificarono in questo periodo) dalle quali minacciare più da vicino Firenze.Dopo una estenuante guerriglia durata più di un anno, si convenne di pattuire una tregua, più per ultimare i preparativi per la vera guerra che per volontà di giungere a un accordo e perciò rotta quasi prima che avesse inizio. Questa volta il duca di Milano inviò intorno Pisa un esercito di circa diecimila uomini e uno dei suoi migliori condottieri: Alberico da Barbiano. L'A. aveva capito da tempo il pericolo a cui andava incontro rimanendo alleato del Visconti, ma, fino a che la guerra era alle porte, gli era impossibile sganciarsi da lui, sebbene più volte egli vanamente cercasse di concludere una pace separata almeno con Lucca. Ai rappresentanti del Visconti in Pisa non erano però sfuggiti i suoi colloqui col marchese Malaspina, che già altre volte aveva fatto da intermediario fra l'A. e i suoi nemici ma, lungi dal sospettare che potessero giungere a qualcosa di concreto, ritennero che il vecchio Iacopo, particolarmente affranto non solo per i suoi 75 anni, ma anche per la morte del figlio Vanni (6 ott. 1397), avesse ormai perduta la vigoria e la combattività già dimostrata m passato; per tal motivo andò facendosi strada in loro la convinzione che non sarebbe stato difficile persuaderlo a cedere al duca la signoria della città. Pertanto, certamente col consenso del Visconti (quantunque poi si dicesse che la cosa era stata trattata a sua insaputa), i rappresentanti del duca, Niccolò PaRavicino, Paolo Savelli e Nicoletto Diversi, il 3 genn. 1398 si presentarono all'A. per indurlo a cedere la città. Egli tergiversò, rimandando la decisione al giorno successivo; i Viscontei, fidandosi anche nella presenza delle loro numerose soidatesche, credettero di non correre nessun pericolo. Nottetempo, invece, l'A. dopo essersi ritirato in luogo sicuro, preparò il suo piano e poche ore più tardi i malcauti negoziatori si trovarono imprigionati, mentre i loro soldati, sorpresi e sbaragliati dal popolo levatosi in armi, erano costretti ad accamparsi fuori di città. L'A. scoprì allora che esisteva anche una congiura di cittadini concordi con i viscontei: ci furono nuovi arresti ma, per la sua estrema prudenza, egli si rese subito conto che, per molti motivi, non gli conveniva infierire; si limitò ad obbligare i suoi prigiomeri, su cui pendeva la minaccia della forca, a sborsare enormi ammende. Nessuno perse la vita. L'avvenimento, conosciuto ben presto, a Lucca e a Firenze, fu interpretato come una ribellione aperta dei Pisani contro il Visconti: le ostilità d'improvviso cessarono e furono iniziate trattative di pace. Durante queste, PA. cercò ancora di ripetere il tentativo di una politica equidistante tra Firenze e il Visconti e a tale scopo si mostrò disposto ad accogliere tutte le richieste dei Fiorentini, pretendendo in cambio la rinuncia alle franchigie di cui le merci fiorentine godevano da tanti anni e che provocavano gravi danni al commercio pisano. Tale richiesta, che gli alleati di Firenze giudicarono accettabile, anche in considerazione del fatto che con la pace con Pisa sarebbe stata tolta al Visconti la sua base di operazioni in Toscana, incontrò, invece, la ostinata opposizione dei Fiorentini. Così l'A. non poté mutare le sue alleanze, caddero le speranze di pace in Toscana che la ribellione aveva lasciato intravvedere e il Visconti potè legare a sé più strettamente le sorti di Pisa.
Ma di questo ormai doveva preoccuparsi altri, non l'Appiani. Infatti la morte lo colse il 10 sett. 1398.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Pisa, Com. div. A., reg. 41, 29, 211, 177, 185, 197, 42. 148; Arch. di Stato di Firenze, Carteggio Signori, Missive, reg. 23; Legaz. e commissari, Istruz. e Lettere,1395-1399, reg. 1; Regesti del R. Arch. di Stato in Lucca, Carteggio degli Anziani, a cura di L. Fumi, II. Lucca 1903, Passim; Monumenta Pisana Auctore anonimo, in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XV, Mediolani 1729, coll. 973-1088; R. Sardo, Cronaca pisana, in Arch. stor. ital.., VI (1848), parte 2, Sez. 2, Passim; G. Sercambi, Le croniche, I-II, a cura di S. Bongi, Lucca 1892, in Fonti Per la storia d'Italia, XIX-XX, Passim; R. Roncioni, Delle famiglie Pisane, a cura di F. Bonaini, in Arch. Stor. ital., VI(1848-1849), parte 2, suppl. 2, sez. 3, pp. 848-858; P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni col resto della Toscana e coi Visconti, Pisa 1911, passim; O.Banti, Iacopo d'Appiano e le origini della sua signoria in Pisa, in Bollett. stor. pisano, XX-XXI(1951-52), pp. 5-40 (con ulteriore bibl.).