IACOPO da Benevento (Iacobus iudex)
Alla fine della commedia intitolata De uxore cerdonis si legge il distico "Iacobus istud opus metrice conscripsit ut omnis / qui leget hic, discat spernere vile lucrum". L'autore della commedia fu cautamente identificato da Haskins con il coevo autore dei Carmina moralia, ovvero Iacopo da Benevento, che aveva tradotto in latino, rielaborandola ampiamente in 724 versi, la raccolta di Proverbi che constava di 77 lasse in sirventese (per un totale di 308 versi) compilata da Schiavo da Bari anteriormente al 1235. Per l'identificazione Haskins si basava sull'incipit in esametri dei Carmina moralia: "Incipiunt Sclavi de Baro consona dicta / a Beneventano Iacopo per Carmina ficta" e sull'explicit in distici: "Excipiunt Sclavi huius proverbia Bari / que Beneventanus composuit Iacopus". Già Ludovico Antonio Muratori aveva proposto l'identificazione tra l'autore dei Carmina moralia e quello del De uxore cerdonis, che è oggi corroborata da una trentina di passi paralleli: in Bertini (1984) si conduce la puntuale analisi filologica dei notevoli punti di contatto e delle palmari coincidenze frastiche e linguistiche ravvisabili fra il De uxore cerdonis e i Carmina moralia, in una serie di riscontri che consente di attribuire i due testi allo stesso autore.
L'autore dei due testi è da identificarsi con lo "Iacobus iudex Beneventanus" al quale Innocenzo IV "concedit officium notariae curiae suae Beneventanae" con un documento dato a Lione il 28 luglio 1247. I. va quindi distinto dal più noto frate domenicano omonimo e contemporaneo.
Nella seconda metà del XIII secolo I. compose il De uxore cerdonis, un poemetto in distici elegiaci che alterna parti dialogate a sezioni narrative, in parte affine alla commedia elegiaca De Paulino et Polla, che un altro giudice meridionale, Riccardo da Venosa, aveva dedicato tra il 1228 e il 1229 a Federico II di Svevia.
La trama del De uxore cerdonis, che consta di due parti, si può riassumere in questo modo: la bellissima moglie di un povero calzolaio accende i sensi di un prete, brutto ma ricco, suscitando in lui una passione incontenibile (vv. 1-36). Non potendo avvicinare la donna di persona, il prete si rivolge a una vecchia ruffiana che, dietro lauto compenso, si presenta in casa della donna per indurla, con varie lusinghe, a cedere alle voglie del prete; ma la giovane la respinge sdegnosamente, intimandole di non farsi mai più vedere (vv. 37-172). La vecchia, sconsolata e impaurita, esorta il prete a mettersi il cuore in pace; ma poi, vedendolo disperato e pronto al suicidio, decide di ritentare la sorte e di ripresentarsi in casa della giovane, carica di doni (vv. 173-228). Questa volta la parlantina della ruffiana e, soprattutto, i ricchi regali fanno breccia nel cuore della donna, inducendola a cedere (vv. 229-274). Informato del felice esito della missione, il prete si abbandona all'esultanza e promette alla vecchia riconoscenza eterna (vv. 275-302). Intanto, però, la giovane riferisce tutto al marito che, dopo averla lodata per il suo comportamento, decide di tendere una trappola al prete, sorprendendolo all'improvviso per ricattarlo, dopo avergli fissato un appuntamento con l'amata (vv. 303-366). La donna, sia pure con una certa riluttanza, acconsente a mettere in opera il piano del marito e convoca il prete. Costui accorre al convegno amoroso, ma, per prudenza, si arma; poi, entrato nella casa della sua bella, chiude la porta a chiave. Sfugge quindi abilmente alla trappola tesagli, lasciando il marito fuori della porta, trascorre l'intera notte tra le braccia dell'amata e, al mattino, si allontana allegro, sbeffeggiando l'ingenuo calzolaio (vv. 367-410). A questo punto la commedia si chiude con una lunga tirata moralistica contro l'avidità di turpe guadagno (vv. 411-436).
Il racconto, il cui inizio ha il tono di una favola (come la contemporanea commedia Asinarius): "Uxor erat quedam cerdonis pauperis olim", trascorre ben presto nel realismo, per poi passare al cinismo e concludersi moralisticamente. I quattro personaggi diventano a turno protagonisti, ma un vero protagonista manca. Il titolo e il primo verso ci presentano un calzolaio sposato a una bella donna; l'uomo è identificato con un termine, cerdo, storicamente carico di valenze plurime, perlopiù negative. Dopo la confessione della moglie, benché sia stato investito del ruolo positivo di paladino e difensore dell'onore minacciato della sposa, il calzolaio assume quello di ruffiano ingannatore, ponendo la donna al centro di una situazione scabrosa, alla quale ella desiderava sottrarsi. Infatti, il cerdo degrada la consorte all'avvilente ruolo di esca per cogliere in trappola, in flagranza di adulterio, il prete lascivo, in modo da poterlo ricattare: l'auri sacra fames illude il cerdo venale d'essere furbo, con suo scorno conclusivo.
Ben altra complessità psicologica dimostra la moglie del calzolaio: presentata in apertura secondo la consueta (e stereotipata) tecnica della descriptio pulchritudinis, in un ritratto leggiadro e aggraziato, che contrasterà in modo stridente coi suoi comportamenti durante lo svolgersi della vicenda, ai primi approcci della ruffiana intermediaria inviata dal prete per adescarla ella ha una ferma reazione di ineccepibile moralità: di fronte all'insistenza della ruffiana, la moglie del cerdo giunge addirittura a minacciare fisicamente la vecchia. Sennonché, a sorpresa, quando riceve i doni inviatile dal prete, la donna, fino a poco prima sdegnosamente refrattaria alle avances del presbiter, decide d'accettarne le profferte amorose, imputando questo mutamento d'opinione ai dulcia verba della anus. Lacerata dall'intimo contrasto fra rispetto della morale corrente e lusinghe della tentazione erotica e al contempo ondeggiante fra soggezione alla potestà maritale e inconfessato desiderio di evadere, ella delega la propria difesa al consorte, ma, colta di sorpresa dalla sua squallida reazione, non può far altro che prestarsi, benché malvolentieri, al gioco avvilente che la tramuta in oggetto di ricatto. Nel finale, però, il piano venale del cerdo fallisce, ritorcendosi contro di lui, mentre il presbiter riesce ad appagare i propri desideri con la donna, che, lungi dal subire effettivamente violenza, benché all'inizio tenti di respingere l'adultero, finisce per partecipare all'amplesso, ansimando (anxiat) ed emettendo lunghi sospiri di piacere.
Una personalità altrettanto complessa e sfaccettata dimostra il presbiter, nella cui figura confluiscono due topoi della casistica amorosa medievale: il motivo dell'incurabile ferita d'amore e l'opposizione fra l'elemento inibitorio del pudor / timor e quello di sprone costituito dalla pulsione del desiderio, che si innesta sul primo in chiave parodica, perché di solito questo contrasto sconvolge il cuore della fanciulla innamorata, mentre qui si lega alla figura del seduttore (cfr. i vv. 41-42).
La vegliarda ruffiana è invece presentata, sin da principio, quale detentrice indiscussa dell'ars rhetorica e delle sue subdole strategie di persuasione: apre il dialogo con il prete con una captatio benevolentiae in piena regola e gli offre i suoi servizi, preconizzando il felice esito della vicenda. La vecchia appare estremamente accorta nello svolgere ogni suo discorso e rivela di conoscere le più nascoste pieghe dell'animo dei suoi interlocutori, conoscenza che sfrutta a proprio vantaggio: così ella riesce dapprima a ottenere una lauta ricompensa dal prete, assumendo con lui ad artem un atteggiamento vittimistico, e poi a strappare l'assenso della donna, all'inizio riluttante.
Il lungo e abile discorso della ruffiana alla moglie del cerdo comincia con una lode sperticata della sua bellezza, che contrasta con il turpe aspetto del marito, di lei indegno. Dopo il primo sfoggio di virtù adamantina da parte della donna, la anus riprende il suo attacco, aprendo un nuovo fronte su un argomento, quello religioso, all'epoca assai persuasivo, benché qui svolto in termini dissacratori. Ribaltando l'etica vigente, la vecchia afferma che, per la giovane, l'accondiscendere ai desideri del prete equivarrebbe non solo a salvargli la vita, ma anche a ottenere subito, data la veste dell'innamorato, la remissione del peccato, mentre resistergli significherebbe la morte di dolore per l'uomo e la conseguente dannazione eterna per lei: anche qui, come sempre, la ruffiana dà prova di sottile penetrazione psicologica e d'indubbia abilità dialettica, in grado di far breccia nella corazza morale della giovane, approfittando con astuzia della sua ingenua ignoranza.
I. è sempre pronto a cogliere i vari aspetti della psicologia femminile; così la sua ruffiana, sommersa dalla valanga di ingiurie con cui la giovane la aggredisce, mostra di risentirsi, in realtà, solo di un'offesa: quella di essere stata giudicata una vecchia decrepita. Ai vv. 159-164 ella sottolinea perciò quanto sia facile, quando si è vissuta una vita contrassegnata dalla povertà e dalle fatiche quotidiane, dimostrare più anni di quelli effettivi. Un simile discorso, astutamente rivolto a una donna giovane e bella, ma di bassa estrazione sociale e certo poco abituata ai lussi e agli agi, è naturalmente destinato a lasciare il segno, e la vecchia, che ne è consapevole, si allontana confidando nel buon esito della missione. Tuttavia, al cospetto del prete, gli propina un resoconto catastrofico, con un'abile mossa che mira all'amplificatio della propria ardua impresa, per alzare il prezzo e richiedere così un compenso maggiore. Prima di uscire definitivamente di scena, la vecchia trova ancora il tempo di esibirsi in una tirata di trenta versi (vv. 230-260) rivolta alla moglie del cerdo, in cui sfoggia tutta la sua maestria ruffianesca, ed è appunto al termine di questo capolavoro retorico che la donna cede.
Al verso 410 la commedia può dirsi ormai terminata: esaurita la loro parte, i personaggi rimasti escono di scena. Domina il campo la figura del prete che, con la sua ironia, sottolinea la perfida beffa giocata al marito: il suo sarcastico ringraziamento e il beffardo saluto di congedo contrastano però vivamente con la lunga tirata seguente. Concludono infatti la commedia ventiquattro versi di carattere gnomico, un florilegio di moralità posto in coda a un componimento che di morale ha ben poco. È l'amore illecito, infatti, delle cui tentazioni è portavoce la ruffiana, a vincere sulla fedeltà coniugale, dipinta come una realtà sordida e meschina. A riportare la vittoria finale è dunque l'astuzia e, benché sia in fondo lecito sconfiggere l'insidia con l'insidia, non possiamo però dimenticare che il prete, travolto dalla passione dei sensi, finisce per risultare un personaggio positivo a confronto con il cerdo, il cui peccato è invece l'avida dabbenaggine.
La morale posticcia è quindi solo un pretesto, o una giustificazione, che consente di recuperare da un punto di vista etico la piccante narrazione a sfondo erotico e di presentarla come exemplum negativo comprovante la bontà della morale universalmente approvata. È un'appendice poco convincente, appiccicata a mo' di conclusione a un testo di notevoli pregi tecnici e formali, caratterizzato da un'agilità narrativa che non consente mai al discorso di appesantirsi.
Tra le "commedie" del XIII secolo questo è certamente il testo che meglio corrisponde al nostro concetto di commedia. È vero che i quattro personaggi che danno vita all'intreccio risultano, a conti fatti, modellati in parte sui loro antecedenti del XII secolo: per esempio il marito gabbato è costruito sul modello del Babio o su quello del civis del Miles gloriosus; la anus sulle corrispondenti figure del Pamphilus, uno dei tre capostipiti del genere (gli altri sono il Geta e l'Aulularia, entrambi di Vitale di Blois), nonché del Baucis et Traso o dell'Alda di Guglielmo di Blois; la mulier sulla Galatea del Pamphilus e, infine, il prete lascivo sugli amanti pervasi dal desiderio, ma privi d'autentico amore, quali Panfilo, Trasone o Pirro nell'Alda; in Bisanti (1990) si rileva che la figura del prete lascivo ricorre anche nel fabliauVilain de Bailluel di Jean Bodel. Ma è altresì vero che proprio questi personaggi, nel sottile approfondimento delle loro psicologie tutt'altro che univoche, paiono prefigurare alcuni tipi classici della commedia umanistica e rinascimentale: il marito tonto della Mandragola di Machiavelli, la quintessenza della ruffiana immortalata nella Celestina da Fernando Rojas, i giovani e le giovani di tante commedie che si amano e si lasciano senza problemi (come certi loro prototipi boccacciani) e, soprattutto, il prete corrotto e seduttore. In Bisanti (1999-2000) si segnala inoltre una possibile ripresa della commedia nella cinquecentesca Farsa de Zohan zavatino di Gian Giorgio Alione.
Edizioni del De uxore cerdonis: H. Niewöhner, De uxore cerdonis, in Zeitschrift für deutsches Altertum und deutsche Literatur, LIII (1928), pp. 65-92: questa edizione si basa sul manoscritto più antico P (Fondo Aldini 42 della Biblioteca universitaria di Pavia, fine sec. XIII, cc. 1r-5v) e su due manoscritti tedeschi, E (Amplonianus Q.21 della Wissenschaftliche Bibliothek der Stadt Erfurt, della prima metà del sec. XIV, cc. 140v-147r) e M (Clm 443, della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, trascritto da Hartmann Schedel tra il 1479 e il 1496, cc. 152r-159r); E. Franceschini, Due testi latini inediti del Basso Medioevo, in Memorie della Real Accademia di scienze, lettere e arti di Padova, LIV (1937-38), pp. 61-88 (poi in Id., Scritti di filologia latina medievale, I, Padova 1976, pp. 205-229): non conoscendo l'edizione del Niewöhner, Franceschini ritiene ancora inedita questa commedia, che colloca verso la metà del secolo XIII; si basa anch'egli su P e su due manoscritti entrambi conservati presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, A (O.63 sup., seconda metà sec. XV, cc. 194r-202r) e B (E.43 sup., compilato da Antonio Veneto da Monterubbiano, negli anni 1475-76, cc. 105r-114r); l'edizione più recente è quella curata da F. Bertini, in Commedie latine del XII e XIII secolo, VI, Genova 1998, pp. 429-503, in cui si sostiene l'impossibilità di delineare uno stemma soddisfacente, vista l'esistenza di contaminazioni nei rami alti della tradizione e, più in generale, di trivializzazioni poligenetiche tanto estese da oscurare i reali rapporti tra i testimoni, e in cui si tratta anche della fortuna del testo nell'opera novellistica di Simone Prudenzani - o Prodenzani - di Orvieto (1370-1438 circa). In Bertini (2003) si segnala un nuovo testimone parziale del De uxore cerdonis: il ms. 432 della Biblioteca comunale di Poppi, databile agli anni 1489-94, che riporta i primi 79 versi della commedia, benché si rilevi che la scoperta di tale frammento risulta del tutto ininfluente per la costituzione del testo dell'edizione e si limiti ad arricchire l'apparato critico di errori e di omissioni.
Dei Carmina moralia esistono due edizioni: quella di A. Altamura, in Id., Studi di filologia medievale e umanistica, Napoli-Sorrento 1954, pp. 47-80 (basata su un solo manoscritto: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat., XII.15 [4088], cc. 52v-63v, ritenuto del XIV secolo, mentre probabilmente è del XV), che Ezio Franceschini a p. 80 della sua copia personale, conservata presso la Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, valuta molto severamente, e quella, inedita, di Anna Martoriello (nella tesi di laurea Proverbia Iacobi Beneventani, discussa con lo stesso E. Franceschini presso l'Università di Pavia nel 1936-37). Il testo critico dei Carmina della tesi della Martoriello si basa sul ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana 357 (M.III.4) del secolo XIII-XIV, cc. 67v-92r.
Fonti e Bibl.: L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Mediolani 1740, col. 916; E. Berger, Les registres d'Innocence IV, I, Paris 1884, p. 489 n. 3250; W. Wattenbach, Hartmann Schedel als Humanist, in Forschungen zur deutschen Geschichte, XI (1871), pp. 351-374; P. Rajna, Geremia da Montagnone, in Studi di filologia romanza, V (1891), pp. 193-204; C. Salvioni, Il pianto delle Marie in antico volgare marchigiano, in Rendiconti dell'Accademia naz. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche, VIII (1899), pp. 577-605; C.H. Haskins, Latin literature under Frederick II, in Speculum, III (1928), pp. 129-151; S. De Benedetti, La fonte diretta di una novella di Simone Prodenzani (Sollazzo 6; Ira), in Pallante, I (1931), 6, pp. 9-14; A. Martoriello, I. da B., in Archivum Romanicum, XXIII (1939), pp. 62-78; Th. Kaeppeli, I. da B. O.P., in Arch. italiano per la storia della pietà, I (1951), pp. 463-479; F. Babudri, J. da B. e Schiavo da Bari, in Arch. stor. pugliese, XI (1958), pp. 88-107; S.L. Wailes, Role-playing in Medieval comediae and fabliaux, in Neuphilologische Mitteilungen, LXXV (1974), pp. 645 s.; G. Oliva, Un epigono del Boccaccio in Umbria: Simone Prudenzani, in L'Umanesimo umbro. Atti del IX Convegno di studi umbri… 1974, Gubbio 1977, pp. 87-104; F. Ugolini, Annotazioni ai testi di Simone Prodenzani di Orvieto, in Contributi di dialettologia, I (1980), pp. 41-137; F. Bertini, Il "De uxore cerdonis", commedia latina del XIII secolo, in Schede medievali, VI-VII (1984), pp. 9-18; Id., Letteratura latina medievale in Italia, Busto Arsizio 1988, pp. 112 s.; Id., Le "commedie elegiache" del XIII secolo, in Tredici secoli di elegia latina. Atti del Convegno internazionale… 1988, Assisi 1989, pp. 256-263; A. Bisanti, "Fabliaux" antico-francesi e "commedie" latine: alcuni sondaggi esemplificativi, in Schede medievali, XVIII-XIX (1990), pp. 5-22; F. Doglio, Rapporti fra le diverse esperienze drammatiche europee nel Medio Evo: la commedia elegiaca, ambito italiano, in Id., Il teatro scomparso. Testi e spettacoli fra il X e il XVIII secolo, Roma 1990, pp. 161-181; A. Bisanti, A proposito del De uxore cerdonis di I. da B., in Filologia mediolatina, VI-VII (1999-2000), pp. 295-309; F. Bertini, Postilla all'edizione del De uxore cerdonis di I. da B., in La tradition vive. Mélanges d'histoire des textes en l'honneur de Louis Holtz, a cura di P. Lartdet, Paris-Turnhout 2003, pp. 433-440; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VI, p. 117.