LEVANTO, Iacopo da
Forse membro, secondo una tradizione erudita, del consortile nobiliare dei Da Passano originario della località di Levanto nella Riviera ligure di Levante e già da tempo trasferitosi a Genova e integrato nel ceto dirigente della città, il L., di cui ignoriamo i nomi dei genitori, nacque presumibilmente alla fine del XII secolo.
La prima attestazione certa del L. risale al 12 genn. 1234, quando compare tra i testimoni che presenziarono a Caifa (l'attuale città portuale di Haifa, in Israele) alla promulgazione dell'atto con il quale Rohard, signore della città, concedeva ai Genovesi, in riconoscimento dei numerosi aiuti e benefici da loro ricevuti, la piena libertà di commercio e la completa esenzione dai tributi in tutti i suoi domini.
Si trattava di un atto di notevole importanza, con il quale Genova segnava un punto a proprio favore in un momento di grande difficoltà per i suoi destini di potenza commerciale; grazie a esso, infatti, i Genovesi potevano rafforzare notevolmente le loro posizioni in un'area che, già tradizionalmente al centro dei loro interessi economici, era cresciuta ulteriormente di importanza nel quadro delle loro relazioni commerciali da quando l'esito della IV crociata aveva consegnato l'area dell'Impero bizantino all'egemonia veneziana, esercitata attraverso il fantoccio politico dell'Impero latino d'Oriente e dei suoi satelliti insediati nelle isole Egee e nel mondo ellenico, escludendo di fatto i mercanti liguri dalle ricche piazze commerciali della Romania. Pertanto, le trattative, guidate dai consules et vicecomites del Comune in Terrasanta, dovettero essere affidate a una delegazione di personaggi che godevano di fiducia e di sicuro prestigio; questo conferma come il L. all'epoca dovesse già ricoprire una posizione di rilievo nella vita politica della città.
A confermare questa posizione, così come, date le consuetudini dell'epoca, l'ipotesi di una sua appartenenza al ceto nobiliare, interviene anche la successiva notizia relativa al L., e cioè la sua nomina a comandante di una flotta del Comune nel 1241. La situazione era allora estremamente difficile per Genova: l'ostilità con l'imperatore Federico II, già latente da diversi anni, era precipitata dopo il rifiuto di prestare omaggio al sovrano opposto dal Comune nel 1238, e la città, pur alleatasi addirittura con la stessa Venezia nel quadro della lega antimperiale promossa da Gregorio IX, doveva sopportare praticamente da sola il peso dell'offensiva delle forze imperiali, nel cui campo erano confluiti non solo i ghibellini espulsi dalla città, ma anche numerose Comunità ribelli delle Riviere, a cominciare da Savona.
Ad aggravare ulteriormente la situazione era sopraggiunta poi la disastrosa sconfitta subita proprio nel maggio 1241 nella battaglia navale presso l'isola del Giglio, nel corso della quale la squadra guidata da Iacopo Malocello, incaricata di trasportare a Roma un gran numero di prelati oltramontani per il concilio progettato dal pontefice, era stata quasi interamente catturata dalla squadra navale imperiale comandata dal fuoruscito ghibellino Ansaldo De Mari, affiancata dalla flotta pisana.
Forte di questo successo, il De Mari si era portato a Savona da dove, dopo una serie di incursioni lungo le Riviere, aveva concentrato la propria azione contro la cittadina di Noli, baluardo del controllo genovese sul Ponente ligure. Proprio per reagire a questa minaccia, a Genova si provvide ad armare in tutta fretta una nuova squadra navale, forte di ben 51 galee, che venne posta sotto il comando del L. e di Ansaldo Soldano.
La flotta genovese, uscita nascostamente dal porto col favore della notte, cercò di sorprendere le unità nemiche che bloccavano Noli dal mare e, pur non riuscendo pienamente nel proprio intento, obbligò il De Mari, trovatosi in inferiorità numerica, a ritirarsi verso Savona abbandonando tutte le macchine d'assedio che erano state realizzate per superare le difese della cittadina. Dopo aver rafforzato la guarnigione locale, alla quale venne preposto Folco Guercio, uno dei capi riconosciuti della fazione guelfa genovese, la flotta incrociò ancora per qualche tempo lungo la Riviera di Ponente prima di rientrare a Genova. Non appena furono ripartite le navi guelfe, però, il De Mari uscì nuovamente da Savona e, dopo essersi impadronito con un colpo di mano del castello di Albenga, tentò di portare l'attacco più a Occidente, verso le località di Cervo e Diano rimaste fedeli a Genova; respinto, si diresse verso Savona, alla quale si dirigeva contemporaneamente anche la squadra genovese, uscita nuovamente dal porto. Perso tuttavia il contatto con la squadra ghibellina dopo un infruttuoso inseguimento, i guelfi si ancorarono a Noli in attesa del previsto ritorno delle galee imperiali verso la base di Savona. Quando il De Mari, giungendo dal mare aperto, tentò di portare un attacco contro la stessa Genova, la squadra guelfa fu comunque pronta a intervenire per costringerlo a ritirarsi nuovamente verso le sue basi nel Ponente, obbligando così anche le forze di terra, guidate dal vicario imperiale Marino di Eboli, a ritirarsi precipitosamente.
Le operazioni brillantemente condotte lungo le Riviere dovettero indubbiamente contribuire a rafforzare la fama di esperto comandante di mare del L. ed è pertanto logico che nel 1244 il podestà Filippo Visdomini, piacentino, si sia rivolto a lui e a un altro famoso uomo di mare, Ugo Lercari, per portare a termine un'impresa di importanza fondamentale: il trasporto di papa Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi) da Civitavecchia a Genova.
L'elezione di Sinibaldo Fieschi al soglio pontificio era stata salutata con sincero entusiasmo dai Genovesi, mentre Federico II, con acuta intelligenza politica, aveva intuito di trovarsi di fronte un nuovo, formidabile avversario. L'imperatore aveva tentato quindi in ogni modo di neutralizzare l'antico amico divenuto capo della fazione avversa cercando di intrappolarlo in una rete di trattative senza fine e contemporaneamente di allontanarlo da Roma per poterlo meglio controllare bloccandolo in qualche località remota. Innocenzo IV, compresa la trappola, si era però rivolto ai suoi concittadini per mettere in atto un audace piano di fuga che gli avrebbe consentito di portarsi fuori dal raggio di controllo dell'imperatore recuperando così la propria libertà di azione.
Fu pertanto organizzato un colpo di mano: il podestà prese il comando di una flotta la cui destinazione ufficiale era la Provenza, facendo mostra di imbarcarvi a forza anche i nipoti del papa, mentre in realtà, appena in alto mare, il comando delle operazioni venne trasferito al L. e al Lercari i quali, utilizzando audacemente le condizioni di tempo avverse per coprire la destinazione delle loro navi, portarono la flotta a Civitavecchia, dove il pontefice venne imbarcato.
L'arrivo del papa a Genova e il suo successivo trasferimento via terra a Lione, sede scelta per il concilio, costituirono indubbiamente un gravissimo insuccesso politico per l'imperatore; questi, stando alla tradizione, avrebbe amaramente commentato l'intervento dei Genovesi che gli avevano impedito di dare scacco matto al pontefice nella complessa partita che stavano giocando, ma, per i due ammiragli che l'avevano portata a termine, l'impresa dovette certamente rappresentare un momento di particolare fama e gloria.
Fu probabilmente anche per questo motivo che nel 1246, quando scelse di rivolgersi a Genova per l'organizzazione di quella crociata in Terrasanta alla quale si era impegnato quale segno di riconoscenza per la guarigione da una grave malattia, re Luigi IX di Francia decise di nominare il L. e il Lercari ammiragli della sua flotta.
I notai che rogarono a Genova gli atti relativi ai contratti di appalto delle costruzioni navali e di arruolamento degli uomini per l'organizzazione della grande spedizione crociata furono sostanzialmente due: Giovanni Vegio e Bartolomeo de Fornari. I cartulari del primo dei due relativi al biennio 1246-47 sono purtroppo andati perduti (e con essi anche il testamento del L., che sappiamo da altro documento essere stato rogato il 27 febbr. 1247) e ne abbiamo notizia solo attraverso citazioni in atti di altri notai; ma i due cartulari ancor oggi conservati del secondo contengono una cospicua quantità di rogiti relativi a questi anni e al 1248. Grazie a tale circostanza, questo periodo di tempo, e soprattutto il 1248, che coincise con la fase culminante dell'organizzazione della crociata, è quello per il quale possediamo il maggior numero di documenti relativi alle attività del L., quasi sempre esplicate in compagnia del Lercari.
Già ai primi di gennaio 1248 i due ammiragli stipularono contratti per la costruzione di galee per la flotta regia, e il 10 marzo successivo provvidero a fare autenticare una lettera patente del sovrano con la quale venivano autorizzati a spendere fino a 500 o 600 lire tornesi per l'acquisto di quadrelli per balestre, fornitura essenziale per la spedizione; similmente fu stipulato nel maggio successivo un contratto con Giacomo da Lucca, che si impegnava a rifornire la flotta di un cospicuo numero di ferri di lancia forgiati secondo il modello presentato agli ammiragli stessi, secondo sua attestazione.
Il maggio 1248 fu sicuramente il mese di più fervida attività organizzativa, anche per l'approssimarsi della scadenza del contratto stipulato con il re, che prevedeva la concentrazione di tutta la flotta ad Aigues-Mortes entro la metà di quel mese. Tale termine subì tuttavia una deroga, poiché proprio negli ultimi giorni di maggio venne stipulata una serie di contratti di noleggio di 3 grandi navi in ossequio agli espressi ordini del re, trasmessi agli ammiragli per mezzo di una lettera dei cavalieri ospitalieri Ottone di Gavi e André de Gignac solo il giorno 11, evidentemente in seguito a una nuova valutazione circa le necessità dei trasporti da effettuarsi; ancora fino alla fine del luglio successivo continuarono a essere posti sotto contratto patroni di navi.
Quest'ultimo gruppo di contratti appare oltretutto assai interessante, in quanto in diversi casi tanto il L. quanto il Lercari risultano essere comproprietari delle navi che vengono poste agli stipendi della Corona di Francia, o comunque legati da stretti interessi economici ai loro proprietari, i quali, come per esempio Lanfranco Pagano, Ottolino Vento, o Marino e Giacomo Usodimare, appartengono tutti all'aristocrazia mercantile della città. Il fatto che i due ammiragli vedessero nell'incarico loro conferito un mezzo per conseguire, oltre a un evidente prestigio, anche un consistente incremento delle loro fortune economiche è del resto dimostrato dall'atto istitutivo di una societas fra i due, che avrebbero dovuto dividere in parti uguali ogni provento derivante dai servigi prestati al re, rogato il 15 giugno 1248 alla vigilia della partenza per Aigues-Mortes, sulla cui piazza finanziaria, divenuta chiaramente una delle più attive del momento, entrambi provvidero a collocare un cospicuo numero di contratti di cambio che avrebbero dovuto essere onorati entro il successivo mese di agosto, data prevista per la partenza della flotta alla volta del Levante.
La presenza dei due ammiragli e di un cospicuo numero di vascelli genovesi (16 naves e 32 galee, secondo il racconto degli Annali genovesi) nella flotta francese mise in allarme Federico II, il quale temeva che la spedizione mascherasse in realtà un piano concepito dal papa e dal re di Francia per invadere la Sicilia, ma la spedizione si avviò celermente verso Oriente raggiungendo l'isola di Cipro, dove una prolungata permanenza permise di mettere a punto gli ultimi dettagli del piano di attacco contro l'Egitto, individuato come il bersaglio principale contro il quale concentrare lo sforzo offensivo per far crollare l'impero degli Ayyubiti che minacciava l'esistenza dei superstiti stabilimenti cristiani sulla costa siro-palestinese.
Sembra che a partire dallo sbarco sul litorale egiziano nel 1249 e dalla successiva presa della città di Damietta il sovrano francese abbia messo in secondo piano il ruolo dei suoi ammiragli genovesi per affidarsi completamente ai membri del suo Consiglio nella gestione della campagna. Pertanto è probabile che né il Lercari né il L. siano rimasti coinvolti direttamente negli eventi che condussero alla disastrosa sconfitta dei crociati nella battaglia di Mansura (aprile 1250), anche se il primo dei due - rimasto in Oriente dove morì ad Acri prima dell'ottobre 1250 - partecipò, come molti altri genovesi, alla raccolta delle somme necessarie per pagare il riscatto del re e dei numerosi altri prigionieri caduti nelle mani degli Egiziani.
Al contrario del collega, il L. era invece probabilmente rientrato a Genova già all'inizio del 1250, come prova un documento del 4 marzo che attesta la sua presenza in qualità di testimone, insieme con molti altri esponenti della classe di governo genovese, al rinnovo per 29 anni del tenore delle convenzioni stipulate fin dal 1171 fra Genova e il Comune provenzale di Grasse.
È questa l'ultima attestazione documentaria che ci presenti in vita il L., di cui sappiamo con certezza che era già defunto nel 1251; secondo una tradizione erudita, egli sarebbe morto nello stesso 1250 a Parigi, dove si era recato per una missione diplomatica di certo connessa con gli avvenimenti della spedizione crociata, e lì sarebbe stato sepolto con tutti gli onori spettanti a un ammiraglio di Francia.
Certamente connessa con il suo ruolo presso la corte di Luigi IX è del resto la procura che venne rilasciata il 14 maggio 1259 dalla sua vedova, Alda, a Giacomo "Amoretus" affinché questi riscuotesse per suo conto l'appannaggio di 25 lire tornesi che le spettava annualmente in virtù del feudo concesso dal re al defunto.
Dal matrimonio con Alda il L. aveva avuto evidentemente solo una figlia, Iacopa, a favore del cui marito, Lanfranco Simione, egli aveva disposto, con il già ricordato testamento redatto nel 1247, dei legati testamentari. Il genero doveva tuttavia averlo seguito in breve tempo nella tomba, in quanto il 18 maggio 1260 troviamo l'ormai anziana Alda agire in qualità di fedecommissaria del defunto marito e di tutrice, insieme con Iacopa, dei nipoti minorenni, nell'atto con cui viene concessa al monaco Oliverio, sovrintendente dell'Opera del porto e del molo, la facoltà di estrarre pietre per un periodo di dieci anni, in cambio del prezzo di 100 lire, da un terreno sito in Albaro, già appartenuto al L. e passato in eredità al genero successivamente defunto.
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