DANIELLI, Iacopo
Nacque da Domenico e da Caterina Benvenuti a Buti, in provincia di Pisa, l'11 nov. 1859, in una ricca famiglia borghese. Si laureò in scienze naturali nell'università di Pisa. Nel 1888 si trasferì a Firenze, dove frequentò l'Istituto di studi superiori per il perfezionamento in antropologia. Nell'anno accademico 1891-92 conseguì la libera docenza in antropologia, restando nell'istituto come assistente del professor P. Mantegazza.
Nel 1891 pubblicò uno studio sulla popolazione dell'isola di Nias, nel 1893 un altro sui crani bengalesi con appunti di etnologia indiana, oltre a recensioni ed articoli in diverse riviste scientifiche. Fu anche autore di saggi di botanica. Dal 1890 al 1895 fu iscritto all'università di Berlino, al corso di perfezionamento in filosofia. Fu inoltre membro della Società di antropologia di Parigi e di quella di Bruxelles.
I viaggi in Europa e le lunghe permanenze a Parigi, Bruxelles e Berlino portarono il D. a contatto con i movimenti operai e socialisti, facendogli acquisire interessanti esperienze. Soprattutto Berlino era in quegli anni il centro dell'intellettualità marxista internazionale e la socialdemocrazia tedesca esercitò una particolare influenza sugli orientamenti politici del Danielli.
Il D. s'inserì nel vivo della lotta politica in un momento di confusione e di crisi per il movimento democratico fiorentino. Fu proprio lui il principale artefice del processo di chiarificazione in seno allo schieramento democratico e progressista, facilitando il superamento della crisi attraverso la rottura dell'unione tra radicali, repubblicani, anarchici e socialisti.
Avendo ben chiare le idee su ciò che intendeva perseguire come socialista, il D. si servì strumentalmente delle associazioni democratiche, di cui fu socio attivo ed animatore. Favorì egli stesso la nascita di organizzazioni operaie con scopi di rivendicazione economica. Nelle adunanze di tali organismi i suoi interventi provocarono accese polemiche da parte dei mazziniani e dei seguaci di Garibaldi, mentre venivano favorevolmente accolte dagli anarchici che s'illusero di aver trovato nel D. una guida nuova dopo il "tradimento" di A. Costa. Fu tuttavia presto chiaro che il D. perseguiva un disegno politico ispirato alla concezione lassalliana di un "socialismo di Stato", che cominciasse ad essere praticato nelle amministrazioni comunali.
Nel novembre 1889 fu eletto in una lista, comprendente democratici e progressisti, che conquistò la maggioranza al Consiglio comunale di Firenze (il D. era anche consigliere comunale a Campiglia Marittima). Benché sprovvisto di esperienza amministrativa s'impegnò assiduamente nei lavori consiliari, distinguendosi per l'originalità della sua impostazione politica.
Sostenne, tra l'altro, la parità di trattamento economico tra maestri e maestre, il dovere da parte del Comune di provvedere all'istruzione degli alunni in disagiate condizioni economiche, l'assegnazione dei lavori comunali alle cooperative, la radiazione dai bilanci dei sussidi per le feste monarchiche, l'iniziativa del Comune per la riforma dei patti di locazione. Nel 1890 una sua proposta perché il comune imponesse l'obbligo delle otto ore lavorative alle ditte che lavoravano per esso suscitò la reazione contrariata dei progressisti, che decisero di porre fine alla collaborazione con i radicali, mettendo in crisi l'amministrazione.
In seguito a ciò, mentre i progressisti accentuarono il distacco dai radicali avvicinandosi ai moderati, il D. venne esaltato dal Comitato Giordano Bruno come il solo che in Comune aveva "difeso a viso aperto gli interessi delle classi lavoratrici".
La sua fama cresceva, anche al di là dell'ambito cittadino. Nel novembre 1890 Antonio Labriola, ritenendo il D. tra le "persone qualificate come socialiste note in qualche maniera e sotto tutti i rispetti presentabili", lo segnalò a Filippo Turati affinché fosse inviato a rappresentare il non ancora costituito "Partito socialista italiano" al congresso di Halle. Nell'ottobre dello stesso anno il D. partecipò al congresso del Partito socialista rivoluzionario a Ravenna e nel gennaio 1891 al congresso di Capolago, in cui venne approvato uno schema di organizzazione del nuovo Partito socialista anarchico rivoluzionario.
Il D. e Giuseppe De Franceschi furono i soli socialisti a trasgredire la direttiva di disertare quel congresso, al quale presero parte i più noti esponenti anarchici. Nell'agosto 1892 il D. prese parte a Genova al congresso costitutivo del Partito dei lavoratori italiani, propugnando il distacco dei socialisti dagli anarchici. Da allora fino al 1900 fu sempre riconfermato rappresentante della Toscana nel Consiglio nazionale del partito socialista.
Il 28 sett. 1892 il D. fondò insieme con E. Ciacchi, A. Sichi, E. Curzio e L. Mongini il Circolo socialista fiorentino. Il Circolo, che aveva aderito al Partito dei lavoratori italiani, si proponeva di realizzare in campo economico la proprietà collettiva ed in quello politico la federazione regionale delle amministrazioni socialiste. Il nuovo organismo diede un forte impulso al movimento operaio fiorentino e concorse, nel marzo 1893, alla fondazione della locale Camera del lavoro. Nel luglio 1893 il D. fu tra i fondatori della Lega socialista fiorentina. Nel 1894 il Circolo e la Lega si fusero dando vita all'Unione socialista fiorentina, del cui comitato esecutivo il D. fu membro. In seguito poi al congresso di Empoli venne fondata, il 21 apr. 1894 a Firenze, una sezione del Partito socialista dei lavoratori italiani, che assunse la denominazione di Comitato regionale toscano e quindi di Federazione regionale toscana. In seno a tali organismi il D. esprimeva le posizioni della direzione del partito, mentre nei congressi nazionali svolgeva gli ordini del giorno discussi con i suoi compagni di Firenze.
Il socialismo toscano si caratterizzava per il proverbiale intransigentismo ed infatti al secondo congresso del Partito dei lavoratori italiani, svoltosi a Reggio Emilia nel settembre 1893, il D. fece approvare un ordine del giorno favorevole all'intransigenza assoluta contro quello, presentato da Filippo Turati, per un atteggiamento di transigenza. Della validità di tale orientamento il D. si era convinto riflettendo su quanto accadeva in Germania, dove nel 1893 i socialdemocratici avevano vinto le elezioni - scrisse il D. in una corrispondenza da Berlino a La Martinella di Colle Val d'Elsa - grazie "alla chiarezza delle idee, all'unità del metodo, all'intransigenza con cui si segue il programma approvato nei congressi". Per il D. la lezione da apprendere era quindi quella di respingere qualsiasi unione con i democratici e con quelli che egli definiva "rivoluzionari da caffè".
Nel 1894, superando le sue iniziali perplessità, la candidatura del D. fu presentata nel collegio di S. Spirito, ma egli non venne eletto. Stesso esito negativo ebbero anche le sue partecipazioni alle elezioni del 1895 a Firenze, Volterra e Vicopisano e del 1897 a Firenze. Libero da incarichi amministrativi il D. poté dedicarsi con maggiore impegno alla vita del partito. Nel 1895, al terzo congresso del Partito socialista dei lavoratori italiani (che da allora assunse la denominazione di Partito socialista italiano) e nel 1896 al quarto congresso del P.S.I., fu, insieme a P. Ciotti, uno dei leaders della corrente intransigente. Al quarto congresso fu firmatario con L. Bissolati, A. Costa, E. Ferri ed altri, di un ordine del giorno, che venne tuttavia respinto, di apertura verso le organizzazioni - come le società economiche, i circoli (degli studenti, ricreativi, elettorali, ecc.) - esterne al partito.
Sempre in quel congresso il D. sostenne, contro il parere di Filippo Turati e di Anna Kuliscioff, la necessità di inviare rappresentanti italiani al congresso socialista internazionale di Londra. Ciò confermava la particolare attenzione che il D. costantemente rivolgeva alle idee ed alle iniziative del socialismo europeo.
In seguito ai tumulti scoppiati a Firenze il 5 e 6 maggio 1898, venne proclamato lo stato d'assedio e furono istruiti processi a carico dei principali esponenti socialisti fiorentini. Benché non fosse direttamente coinvolto in alcuno di questi processi, il D. fu comunque costretto ad abbandonare l'Italia. Era in quel momento in precarie condizioni di salute ed all'estero non poté avere le cure necessarie. Tornato in Italia morì nella sua villa di Pulledraia, nei pressi di Campiglia Marittima (Livorno), il 19 apr. 1901.
Gli ambienti socialisti furono assai colpiti dalla prematura scomparsa dell'"integerrimo, purissimo e dotto"dirigente. Cerimonie funebri si svolsero a Campiglia Marittima, Cecina, Pontedera, Pisa, Volterra, Firenze e Buti. Qui i ricchi parenti del D., con i quali egli aveva interrotto ogni rapporto a causa delle divergenze politiche, negarono il consenso a che la salma del loro congiunto venisse accolta nella cappella di famiglia. Ciò poté avvenire soltanto dopo alcuni giorni e dopo che tale comportamento aveva destato amarezza e risentimento in tutti coloro che - come scrisse La Difesa del 19 maggio 1901 - "lo avevano amato e ne avevano apprezzato le virtù, l'ingegno e la rigidezza del carattere".
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