DEL CASSERO, Iacopo
Figlio di Uguccione, nacque a Fano intorno al 1260 dalla potente famiglia guelfa della Berarda, detta più comunemente Del Cassero, forse per la prossimità delle sue abitazioni al cassero di porta Maggiore adiacente all'arco di Augusto.
Con i Carignano, questa antica famiglia si contendeva la guida politica e militare di Fano ed era iscritta ad un sistema di alleanze esterne con famiglie delle Marche, della Romagna e della Toscana, i cui criteri non sempre si identificavano o si riducevano alla contrapposizione fra ideali guelfi e ghibellini, ma si fondavano su scopi ed interessi politici e di potere concreti e locali. Pronti, all'occorrenza, nel 1294, a riconciliarsi con gli avversari interni di fronte alle aperte intenzioni e ai reiterati tentativi dei Malatesta di Rimini di impadronirsi della città, come avvenne in seguito.
I Del Cassero erano una famiglia di toga e spada, una famiglia cioè podestarile di professione e, sia in patria sia fuori, rimasero fedeli ai principî e alle istituzioni comunali, volutamente rifiutando - pur potendolo - di avventurarsi in esperienze signorili. Nonno paterno del D. fu il celebre giurista Martino da Fano, che a più riprese aveva svolto una capace e proficua attività politica, prima di entrare nell'Ordine dei domenicani nel convento di Rimini (C. 1264). Suo figlio Palmerio, zio del D., fu podestà di Genova nel 1262, di Siena nel 1270, di Fano nel 1272, 1292, 1294, 1296, e di Ancona nel 1278. Il padre del D., Uguccione, forse più propenso all'attività militare - lo troviamo nell'esercito pontificio nel 1266 - fu podestà di Macerata nel 1268.
Favorito dalla buona fama acquisita dai suoi familiari più prossimi, e sostenuto dalla solida e personale amicizia con i conti Guidi, con Maghinardo Pagani da Susinana, con Filippo Baligani da Iesi, e con i conti Alberti da Mangona, il D. fece una rapida e brillante carriera politica e militare.
All'inizio della sua vita pubblica lo incontriamo nel 1288 alla guida delle truppe fanesi, giunte in aiuto all'alleata Firenze allora in guerra contro Arezzo (Villani, Historie florentine, col. 318); e forse in quella circostanza poté dar prova della sua abilità di condottiero. Da una richiesta di salario avanzato dagli eredi nel 1299 sappiamo - senza conoscere i termini cronologici - che fu podestà e capitano di Parte guelfa di Cagli. Ma la prima rilevante podesteria che egli ricoprì fu quella di Rimini, che gli fu affidata nel 1294, almeno per il primo semestre, quando la città era ormai alla vigilia delle lotte di fazione che portarono, l'anno successivo, alla definitiva cacciata dei Parcitadi - dei quali erano alleati i Del Cassero - ad opera dei Malatesta. Due anni dopo, l'11 apr. 1296, il D. fece ritorno nella città adriatica come ambasciatore di Fano, Pesaro e Fossombrone nell'assemblea di notabili, convocata dal rettore di Romagna Guglielmo Durante per denunciare i gravi fatti, ai danni della Chiesa, commessi dai Comuni di Faenza, Forlì e Cesena. Il credito politico raggiunto dal D. nelle città delle Marche e di Romagna fece maturare rapidamente le condizioni perché fosse chiamato alla guida di importanti comuni. Il 2 apr. 1296 venne infatti eletto podestà di Bologna, per il secondo semestre.
La città era già in guerra con Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara, di Reggio e di Modena, ed aveva subito una dura e sanguinosa sconfitta al Santerno, in seguito alla quale Imola era caduta in mano del nemico. La nomina del D. a podestà e, due giorni dopo, quella a capitano della Guerra - insieme con Rinaldo de' Buscolli di Arezzo, dal giorno del suo arrivo fino al 1° luglio, data di inizio della sua podesteria - vanno considerate in rapporto al momento drammatico, ai provvedimenti febbrili, al potere dittatoriale riservato agli Otto sapienti che costituivano allora il governo eccezionale di guerra. Bologna aveva essenzialmente bisogno di un capo militare, e il D. offriva sufficienti garanzie, e come condottiero, e come politico.
La guerra, che nei tre anni seguenti (1296-1298) vide in lotta tutti i guelfi e tutti i ghibellini dell'Emilia e della Romagna, di alcune città della Lombardia, della Toscana e delle Marche, quantunque avesse per teatro operativo i contadi bolognese, modenese ed imolese e per quanto si limitasse a rappresaglie, incendi, distruzione di castelli e di terre, perseguì finalità di ben più ampia portata. Intenzione di Azzo VIII, che l'aveva preparata e provocata, era sì di diventare signore di Bologna, ma anche di togliere alla città emiliana l'incontrastato dominio politico ed economico sull'intera regione. E se non nel primo, riuscì nel secondo intento. Si alleò - anzi ne divenne il capo, lui guelfo - con i ghibellini: con Maghinardo da Susinana, con Scarpetta degli Ordelaffi, con Uguccione della Faggiola, con Galasso da Montefeltro, con i fuorusciti parmensi e bolognesi. La dislocazione delle forze militari così congiunte gli permise di attaccare contemporaneamente su più fronti, con manovre a tenaglia. I Bolognesi potevano contare solo sull'importante alleanza con il Comune di Parma e sugli aiuti che potevano venire dalle lontane città di Milano, Brescia e Piacenza.
Il D. si trovò dunque a fronteggiare una situazione difficilissima: ai rovesci militari si aggiungevano condizioni di disgregazione interna e un'incerta politica di alleanze esterne. In pochi mesi riuscì tuttavia a mettervi riparo. Già come capitano della Guerra, all'attacco su quattro fronti mosso il 6 giugno dall'Estense che aveva messo a ferro e fuoco tutto il contado giungendo fin quasi alle porte di Bologna, rispose compiendo, con rapide cavalcate, dure rappresaglie e distruzioni a Imola e nei castelli in mano al nemico. Ma soprattutto promosse una tregua con i ghibellini espulsi e con quelli soggetti all'Estense che avessero giurato la parte geremea, pronti a combattere il "perfido Marchese". I risultati furono immediati: aderirono i nobili del Frignano, i fuorusciti modenesi con Lanfranco Rangoni, i Montecuccolo; e il conte di Panico conquistò e controllò abilmente i castelli del medio Appennino fra Bologna e Modena.
Insediatosi come podestà, con provvedimenti eccezionali e deroghe istituzionali, gradualmente accentrò nelle sue mani tutti i poteri assoluti degli Otto sapienti: gli fu concessa la facoltà di condurre l'esercito ovunque ritenesse più opportuno; fu prosciolto dal vincolo di obbedienza alle deliberazioni, dei consoli e degli Anziani; alla carica di podestà assommò quella di capitano generale della Guerra; ed alla scadenza del mandato, gli fu concessa l'esenzione dal sindacato sulla sua gestione. Tali misure da lui richieste e attuate instaurarono, è vero, una autentica temporanea dittatura, ma gli permisero di riorganizzare integralmente l'esercito con efficienti truppe di stipendiari, di stabilire una linea di difesa permanente sui due fronti, sul versante modenese e sul versante romagnolo, e di prendere all'occorrenza l'iniziativa con improvvise e vittoriose cavalcate. Le vittorie militari - mai più conseguite in seguito nel corso della guerra - furono ottenute fra settembre e novembre: conquista di Massalombarda, distruzione di Castel Cavalli, devastazione della "via del Marchese", presa di Savignano, assalto ed incendio di alcuni borghi di Imola, riconquista di San Cesario, ed infine - l'operazione più importante - l'assedio e la conquista del castello di Bazzano (25 novembre).
Ma il suo governo, a largo arbitrio personale, riuscì a produrre anche risultati considerevoli sia sul piano della politica estera, sia sul piano della politica interna. L'attività diplomatica dei suoi uffici, favorita ed aiutata dal conte di Romagna, allargò i confini della solidarietà guelfa e degli aiuti anche ghibellini. All'appello dei Bolognesi, risposero con invio di truppe Matteo Visconti, i conti da Mangona, i Romagnoli con Ostasio da Polenta e Malatestino Malatesta e lo stesso conte di Romagna, e poi Firenze, Siena, Prato e Pistoia. Sul fronte interno il D. avvertì tutto il pericolo della fazione marchesana, organizzata in una fitta rete clandestina, che era giunta a infiltrarsi anche ai vertici del Comune. Rissosa e tumultuante questa aveva cercato di impedire i processi per tradimento a carico dei collaborazionisti del nemico, ed era tanto potente e numerosa da accogliere in città i messi inviati dall'Estense. Nei suoi confronti il D. fu spietato: smascherò ed esautorò il suo collega, Rinaldo de' Buscolli, capitano di Guerra (27 luglio); Rosso dei Liazari, un fuoruscito bolognese che combatteva per Azzo VIII, fatto prigioniero, "per lo podestà fu facto straxinare a choda de dui asinelli a le forche e lì fu apichato per la gola" (Corpus Chron. Bon., p. 245); "... multos amicos dicti domni Aczonis cives bononie... cepit et aliquos decapitavit aliquos expulit", come attesta l'anonimo chiosatore del codice cassinese (Castellani, I. D., pp. 44 s.). Ma, nonostante l'impegno del D. per smantellarla, la fazione marchesana, anche se ridimensionata, mantenne a Bologna un clima di minacce e di terrore - capitani e podestà dovevano fuggirsene prima di concludere il loro mandato, o farsi accompagnare da scorte del Comune per salvarsi dai sicari dell'Estense - al punto che era assai difficile, anche nelle città amiche, trovare persone disposte ad accettare le massime cariche comunali. Lo stesso D. - si dice a motivazione dell'esenzione dal sindacato - "cum ... multa et varia negotia tractaverit contra marchyonem Estensem perfidum thyrannum et inimicum comunis et populi Bononie et eius sequaces...", è odiato per questo motivo dallo stesso marchese e dagli amici di questo, tanto che è intenzione di alcuni di loro di attentare all'incolumità dello stesso podestà e della sua familia durante il tempo in cui fosse stato sottoposto a sindacato (Gorreta, La lotta, p. 166). Questi di ordine politico - che gettano luce sul suo assassinio - appaiono i veri motivi dell'odio nutrito da Azzo VIII nei confronti del D., più che le ragioni di rancore privato - raccolte poi dai commentatori danteschi -, più che gli insulti pubblici continuati, che avevano solo un rilievo propagandistico per tenere elevato il grado di eccitazione degli animi contro il pericolo in atto.
I meriti del D. per non aver ceduto al marchese e trattato con la sua fazione interna, per aver salvato l'integrità territoriale del Comune e avere innalzato il prestigio della città con vittorie militari, furono ampiamente riconosciuti dai Bolognesi: la città si mise completamente nelle sue mani e lo pregò più volte (Boschini, pp. 20 ss.) di iterare o prolungare la podesteria, o almeno di nominare il successore. Ma il D., pur avendo raggiunto il massimo grado di potere personale, dovette avvertire le condizioni di pericolo e il peso della guida di una guerra che si profilava impari per mancanza di mezzi finanziari: rinunciò infatti alle offerte adducendo il pretesto di doversi recare altrove. Agli inizi del 1297 fece ritorno a Fano, e partecipò alla vita pubblica della città, ma senza ricoprire incarichi particolari. Per il 1298, forse per il primo semestre, fu chiamato da Matteo Visconti alla podesteria di Milano. Molti hanno creduto di vedere in questa nomina il frutto di un intrigo del Malatestino per allontanare il D. da Fano e potersene impadronire; ma in proposito non ci sono pervenute testimonianze contemporanee. È più probabile che il Visconti ammirasse le qualità di governo che il D. aveva dimostrate a Bologna.
Il viaggio per terra, lungo la via Emilia e i territori di dominio del marchese, si prospettava denso di pericoli, perché si poteva supporre che, pur a distanza di oltre un anno dalla sua partenza da Bologna, la volontà di vendetta dell'Estense non fosse caduta; di ciò il D. era perfettamente avvertito. Per questo scelse per recarsi a Milano, la via del mare fino a Venezia. Da Fusina risalì in barca il Brenta, ma a Oriago fu raggiunto e trucidato, mentre saliva a cavallo, dai sicari di Azzo VIII, complici - come sembra probabile - il signore di Treviso Gerardo da Camino e suo figlio Rizzardo. Esecutore materiale del delitto fu un certo Marco da Mestre che atterrò il D. a colpi di roncone, forse agli inizi del 1298.
Fu ucciso nel territorio padovano, dove riteneva di essere al sicuro; grazie a tradimento, allora, come ci pare sottolinei l'epigrafe sepolcrale: "Probitas exhausta testatur debita cani... Perditur ha gloria, nisi prodant crimina canum" (Castellani, I. D., p. 62). Ma tradimento di chi? Di Malatestino, dei Carignano di Fano, di un informatore appartenente alla sua scorta? O dello stesso Matteo Visconti, che dopo il fatto accettò di far pace con l'Estense - fino ad allora era stato suo aperto nemico - e non vendicò l'uccisione di uno già eletto, e quindi a pieno titolo, podestà di Milano? Non ci sono pervenuti sufficienti elementi di interpretazione; resta un alone di misterioso tradimento.
Il corpo del D. fu riportato a Fano e con solenni onori sepolto nella chiesa di S. Domenico, nel lato sinistro dell'ingresso. Del sepolcro ci resta l'epigrafe di sedici versi leonini.
Per la sua tragica fine il D. è stato immortalato nella Divina Commedia (Purgatorio, V, 64-84) accanto a Buonconte da Montefeltro e a Pia de' Tolomei. Per Dante egli è vittima dell'odio, della vendetta personale e del tradimento, che troppo spesso impregnano e funestano la vita politica contemporanea; il poeta non pensa nemmeno lontanamente che abbia meritato quella morte. Al contrario di quanto sembra doversi dedurre dai versi di Dante, quasi tutti i più antichi commentatori del poema - con sfumature e accentuazioni diverse - sembrano giustificare l'assassinio. Il carattere impetuoso e le gravi maldicenze diffuse sul conto di Azzo VIII lo avevano esposto a una vendetta senza dubbio crudele, ma motivata. Benvenuto da Imola, che tiene la parte dell'Estense, sostiene decisamente che il D. "procuravit sibi mortem sua temeritate"; e, compiaciuto, registra le parole del marchese, che lo avrebbe qualificato "asinaio delle Marche". L'Anonimo del codice cassinese è molto più equilibrato: mette in chiara evidenza la volontà di Azzo di insignorirsi con ogni mezzo di Bologna; ci parla della fazione marchesana all'interno del Comune e della dura repressione messa in atto dal D.; ci riferisce della podesteria e della guerra, dei fatti che, più delle ingiurie, hanno provocato l'odio feroce del marchese. Di tale avviso ci sembra anche il commento del codice gradenighiano, conservato nella Bibl. Gambalunga di Rimini (D. II. 41, f. 67): "Venuto come e decto al regimento el nô gli bastoe di perseguitare et fare di facto contra gli amici del marchese. Ma continuamente esso usava cative et vilane parole contra di lui, dicendo esso avere giagiuto con la matrigna et che quella caxa erano dissexa da una lavandara de panni et che ello era un bugiardo et cativo homo. Ne mai la sua lingua non se saciava de vilanigiare di lui. Per li quali facti et dicti lodio cressete si al marchexe che ello gli tractoe la morte et fecello ucidere... mesere Jacopo da Casaro da Fano... per assasini fue morto a tradimento" (Castellani, I. D., p. 39).
Fonti e Bibl.: C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, I, Bologna 1596, pp. 332-40; G. Villani, Historie fiorentine, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script., XIII, Mediolani 1728, col. 318; P. Cantinelli, Chronicon, in L. A. Muratori, Rerum Ital. Script., 2 ed., XXVIII, 2, a cura di F. Torraca, pp. 83-87; Corpus chronic. Bononiensium, ibid., XVIII, I, 2, a cura di A. Sorbelli, pp. 243 ss.; A. Boschini, Alcuni documenti intorno a I. D. …, Pesaro 1898, pp. 19-23; La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi-G. L. Passerini-E. Rostagno, Purgatorio, Torino 1931, pp. 83 ss.; P. M. Amiani, Mem. istor. della città di Fano, Fano 1751, I, pp. 229 ss., 233 ss.; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, III, Rimini 1862, pp. 220, 705; I. Del Lungo, Dante e gli Estensi, in Nuova Antologia, 16 ott. 1887, pp. 571 ss., 575 s.; V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna (1280-1327), Bologna 1901, pp. 66 s.; A. Bassermann, Orme di Dante in Italia, a cura di E. Gorra, Bologna 1902, pp. 237 s., 452 ss.; A. Gorreta, La lotta fra il Comune bolognese e la sign. estense, Bologna 1906, pp. 55-83, 99 s., 109, 166 s.; G. Castellani, I. D. e il Codice dantesco della Biblioteca di Rimini, in Le Marche, VII (1907), pp. 36-72; A. Montanari, I Marchigiani nella Divina Commedia, Macerata 1911, pp. 85-121; G. Fallani, Nota storica su I. D., in L'Alighieri, I (1960), pp. 40-43; M. Natalucci, Dante e le Marche, Bologna 1967, pp. 96 ss.; M. Puppo, Purgatorio, Canto V, in Lectura Dantis Scaligera, Firenze 1967, pp. 168 ss.; G. Salinari, Il canto V del "Purgatorio", in Nuove letture dantesche, III, Firenze 1969, pp. 323 s. (ora in Id., Dante, Roma 1975, pp. 60 s.); G. Fallani, D., I., in Enc. Dantesca, II, Roma 1970, p. 346.