Nardi, Iacopo
Nacque a Firenze il 20 luglio 1476 da Salvestro e Lucrezia di Bardo, in una famiglia appartenente al «popolo grasso». Ebbe una formazione umanistica e forse fu discepolo di Marcello Virgilio Adriani. Questa cultura, tendenzialmente agnostica, N. la integrò con una profonda ispirazione religiosa legata all’insegnamento savonaroliano. Ai primi del Cinquecento iniziò la sua carriera politica e conseguì importanti cariche pubbliche, essendo priore nel 1509 e gonfaloniere di compagnia nel 1511. Avviò allora anche l’attività letteraria, con varie poesie in latino e la Comedia di amicizia, composta probabilmente nel 1502-1503. Fu favorevole ai Medici dopo la loro restaurazione nel 1512. Compose così I sette trionfi del secol d’oro per celebrare l’elezione al trono pontificio di Giovanni de’ Medici (Leone X) nel 1513, il Trionfo della Fama e della Gloria e una Canzona sopra il carro delle tre dee (in Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Cinquecento, a cura di R. Bruscagli, 1° vol., 1986, pp. 72-78) in onore di Lorenzo di Piero de’ Medici, scritta probabilmente nel 1518 per il suo matrimonio. A Lorenzo dedicò anche la commedia I due felici rivali, rappresentata a Firenze durante il carnevale del 1513. Fu frequentatore degli Orti Oricellari (→), dove conobbe M.; nel 1517 sposò Lena Bettini da cui ebbe molti figli.
Dopo aver mostrato una certa ambiguità tra il regime mediceo e quello repubblicano, come molti altri esponenti della borghesia ricca, nel 1527 N. aderì alla nuova Repubblica, assumendo la carica di cancelliere delle Tratte e qualificandosi come un protagonista politico attivo, anche se moderato. In seguito alla definitiva restaurazione medicea del 1530, attuata da Clemente VII con il sostegno delle truppe imperiali, N. fu confinato per tre anni prima presso Firenze, nella sua villa di Petigliolo, poi nel 1533 a Livorno. Allora, rinunciando a ogni prospettiva di riconciliazione e di ritorno in patria, soprattutto dopo l’istituzione del principato con Alessandro de’ Medici, decise di stabilirsi a Venezia con molti altri fuoriusciti. Perciò l’anno successivo fu dichiarato ribelle, con la confisca dei beni, divenendo una figura eminente tra gli esuli repubblicani fiorentini.
Oltre a tradurre la Pro Marcello di Cicerone (in Vita di Antonio Giacomini e altri scritti minori, a cura di C. Gargiolli, 1867 [d’ora in poi ed. Gargiolli], pp. 397-432), scrisse il Discorso fatto in Venezia contro ai calunniatori del popolo fiorentino (probabilmente nel 1534), in cui giudica il dominio mediceo frutto di corruzione e fonte di ulteriore rovina morale, contrapponendogli la libertà di Venezia e della passata Repubblica fiorentina. I repubblicani non sono stati «persone di bassa condizione», sono invece i tiranni che si avvalgono di «uomini nuovi e vili». La distinzione più che di classe è etica, e potrà farla a suo tempo solo Dio, «giustissimo giudice». La forte ispirazione religiosa di N. lo induce anche ad affermare che il sacco di Roma è la giusta punizione per l’immoralità del papato (ed. Gargiolli, pp. 227-310). Nel Discorso fatto in Vinegia dopo la morte di papa Clemente VII (ed. Gargiolli, pp. 203-26) N. traccia una sintesi di storia fiorentina dal 1494 al 1534 (particolarmente fino al 1512) elaborando idee che torneranno nelle Istorie della città di Firenze, come la divisione dei cittadini in «tre generazioni», di cui il «corpo di mezzo» costituisce la base di una «perfetta repubblica» (Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, 2 voll., 18422 [d’ora in poi ed. Arbib], 1° vol., p. 5).
Nel 1535-36 N. tentò, con altri fuoriusciti, di convincere Carlo V d’Asburgo a cacciare il duca Alessandro e a far rientrare a Firenze gli esiliati. Fu lui a pronunziare l’Orazione a Carlo V nel gennaio 1536 (ma non è sicura l’autenticità del testo tramandato: Orazioni scelte del secolo XVI, a cura di G. Lisio, 1897, pp. 103-29), a scrivere il Discorso porto in Napoli agli agenti cesarei in favore dei fuorusciti di Firenze, essendo S.M. in quella città a dì 2 di gennaio 1536 (ed. Gargiolli, pp. 338-95) e poi l’Esposizione del salmo quinto «Verba mea auribus percipe» (ed. Gargiolli, pp. 311-37), inviata all’imperatore dopo l’incontro. In questi testi Alessandro è denunciato come un usurpatore dal comportamento tirannico e immorale, ma le suppliche furono respinte dall’imperatore, che diede in moglie al duca una sua figlia. I fuoriusciti gli replicarono con un fiero discorso di congedo (ed. Arbib, 2° vol., p. 331), quindi si sbandarono. N. andò a fare il podestà a Cingoli, poi tornò a Venezia dopo che il duca Alessandro fu ucciso nel gennaio 1537 dal cugino Lorenzino. I fuoriusciti tentarono di rientrare a Firenze con le armi, ma furono sconfitti a Montemurlo (2 agosto 1537). N., persa ogni speranza, si diede all’attività letteraria, traducendo le Deche di Tito Livio, pubblicate a Venezia nel 1540; scrisse poi la Vita di Antonio Giacomini Tebalducci (1548), inviata al nipote Iacopo Giacomini nel 1552 e pubblicata a Firenze (presso Sermartelli nel 1597) in edizione censurata nei brani antimedicei. Alle Istorie della città di Firenze (edite a Lione nel 1582, poi a Firenze, presso Sermartelli nel 1584) dedicò dal 1553 lunghi anni, mentre teneva corrispondenza con Benedetto Varchi che cercava fonti per la sua Storia fiorentina, rievocando quelle vicende che l’avevano dolorosamente coinvolto, a differenza del suo amico, che era stato solo «spettatore» e non «attore» delle «fabule di questo pazzo mondo» (lettera del 24 genn. 1547, in Pieralli 1901, p. 182). Negli ultimi anni aveva accettato un sussidio da parte del duca Cosimo de’ Medici. Morì a Venezia l’11 marzo 1563.
Nelle commedie N. riprende temi di Giovanni Boccaccio, seguendo schemi e soluzioni di Plauto o Terenzio. Entrambi divisi in cinque atti, i due testi sono scritti in versi, endecasillabi e settenari: quest’ultimo metro solo nei prologhi e in qualche parte vivace della recitazione. La Comedia di amicizia (in Tre commedie fiorentine del primo 500, ed. critica di L. Stefani [d’ora in poi ed. Stefani], 1986, pp. 15-60) si fonda su Decameron X 8, con il cambiamento dei nomi: Lucio, andato ad Atene per studiare filosofia, si è innamorato di Panfila, promessa sposa di Eschino suo ospite e amico, che per amicizia gliela concede. Lucio torna a Roma, dove arriva anche Eschino, cacciato da Atene e ridotto in miseria. Volendo morire, si accusa falsamente di un delitto che non ha commesso, di cui si dice colpevole anche Lucio per salvarlo. Infine Cesare li grazia; allora Lucio dà in moglie all’amico la sorella e le due coppie vivranno felicemente a Roma. Anche I due felici rivali (ed. Stefani, pp. 61-108) è ispirata a Boccaccio (Decameron V 5), ma si svolge ad Atene anziché a Faenza, i personaggi hanno nomi classici e il prologo è recitato dall’Improntitudine. Megadoro, soldato cretese, ha rapito una fanciulla ad Atene mentre la città era assalita dai Persiani; morendo l’ha ceduta al commilitone Cremete, che l’ha adottata come figlia chiamandola Panfila. La giovane è ora contesa da due innamorati, Carino e Callidoro. Entrambi cercano di impadronirsene con la complicità dei servi di Cremete. Durante una movimentata scena notturna Carino si scontra con il rivale, ma poi emerge, dai ricordi di Cremete e di un altro vecchio, Menedemo, che la giovane è ateniese e figlia di Simone, quindi sorella di Callidoro. L’agnizione risolve così la vicenda: Carino può sposare Panfila, mentre Callidoro avrà in moglie la sorella di Carino, che aveva già amato in precedenza (questo è l’unico elemento di novità introdotto da N. nella trama). In entrambe le commedie i personaggi principali sono piuttosto scontati e fissi nel loro ruolo, mentre una nota vivace è introdotta dai vari parassiti, servi e mercenari che intrigano a favore o ai danni dei rispettivi padroni.
Le Istorie della città di Firenze ci sono state tramandate da una «eccezionale documentazione autografa» (Storici e politici fiorentini, 1994, p. 1053) che è però alquanto complessa. Dell’opera furono editi dapprima solo nove libri, il decimo fu pubblicato nell’edizione curata da Lelio Arbib (prima stampa 1838-1841, poi 1842), che costituisce tuttora il punto di riferimento «fondamentale» (p. 1056) per la tradizione a stampa, essendo seguita anche dall’edizione di Agenore Gelli (1858). Le Istorie trattano il periodo dal 1494 al 1537, con un accenno iniziale alla storia precedente della Repubblica e al tumulto dei Ciompi (1378), per giungere, con un’esposizione a larghe maglie, fino alla guerra di Siena (1552). L’autore stesso chiama la sua opera «memorie» (aveva ordinato nel testamento di distruggerla), e in effetti l’andamento è talvolta irregolare, con retrospezioni o scarti cronologici che interrompono la serie causale delle vicende. L’ideologia di N. è intensamente etica e religiosa, vicina al pensiero di Girolamo Savonarola (tipica la contrapposizione tra «utile» e «onesto»), il tono del racconto diviene spesso apocalittico nella denuncia di «questo» mondo e dell’«instabilità e incertezza delle cose umane» (Montevecchi 1989, pp. 23-69). Molte vicende appaiono dovute all’intervento divino, come la ribellione del «popolo basso» a Firenze (ed. Arbib, 1° vol., pp. 4-5) o l’intervento in Italia di Carlo VIII (ed. Arbib, 1° vol., pp. 29 e 56), oppure sono causate dai vizi di superbia, invidia e avarizia (ed. Arbib, 2° vol., pp. 11-12). La parte più organica dell’opera è quella che si svolge dal 1498 al 1512, mentre altrove non è sempre chiaro il collegamento tra la storia di Firenze e quella esterna, come l’autore stesso ammette. Animato da un forte scrupolo di verità, egli si affida talvolta a testimonianze di altre persone a prova delle sue affermazioni. La tragedia di Firenze si svolge in alcuni grandi episodi: l’egemonia e poi l’eliminazione di Savonarola (1498), la successiva restaurazione medicea (1512), la nuova caduta dei Medici cui segue l’effimera restaurazione repubblicana (1527-30), poi l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici a opera di Lorenzino (1537), l’avvento del principato con il duca Cosimo e la definitiva sconfitta dei repubblicani.
Lo scrittore possiede le risorse dell’eloquenza classica, ma ne fa un uso parco (per es., riducendo al minimo le orazioni) e interviene soprattutto per esaltare fatti e personaggi esemplari, come Savonarola che è presentato come un martire della moralità cristiana in lotta contro la corruzione della città e della stessa Chiesa. N., però, mantiene sempre una posizione mediana e non si associa neppure all’estremismo di certi «piagnoni». Negli altri eroi repubblicani, come Michele di Lando, Piero Capponi, Antonio Giacomini Tebalducci o Francesco Ferrucci, N. loda soprattutto la loro qualità di semplici e buoni cittadini, che diventano politici o condottieri se necessario allo Stato, per poi tornare alla comune vita civile. Hanno perciò un ruolo simbolico negativo episodi come l’uccisione di Ferrucci da parte del mercenario Fabrizio Maramaldo a Gavinana nel 1530, o il tradimento della Repubblica attuato dal capitano della città Malatesta Baglioni. I pontefici Alessandro VI e Giulio II sono figure scandalose, e netto è anche il giudizio morale verso Cesare Borgia, un «ladro» che conquista terre papali in Romagna come se fossero «de’ Barberi e infedeli» (ed. Arbib, 1° vol., p. 249). La descrizione dei fatti di Senigallia è vicina a quella fatta da M. nelle legazioni e nel Modo che tenne il duca Valentino, ma con giudizio opposto (ed. Arbib, 1° vol., pp. 286-90). L’autore entra personalmente in azione durante il «tumulto del venerdì» (1527), anche se con modestia: «Dispiacemi di essere costretto in questo luogo a far memoria d’alcuna mia azione» (ed. Arbib, 2° vol., pp. 132-38). La sua valutazione della seconda Repubblica è lucida: giudica ingenuo l’estremismo di molti suoi difensori e critica le loro divisioni, ma anche le illusioni del moderato Niccolò Capponi sulla possibilità di una riconciliazione con il papa Clemente VII. La restaurazione medicea appare anche come il frutto della corruzione di molti fiorentini e della loro rassegnata passività, perciò l’analisi è più pessimistica e meno partigiana di quella esposta nei due Discorsi fatti in Venezia.
N. è di nuovo protagonista quando a Napoli pronuncia la nota orazione a Carlo V in nome dei fuoriusciti, e ne rappresenta le reazioni alla risposta negativa dell’imperatore (ed. Arbib, 2° vol., pp. 295 e 323-31). Il gesto di Lorenzino ispira a N. una valutazione dubbiosa. Il tirannicidio è definito un «alto pensamento» e altrove il giovane è paragonato religiosamente a Davide e non a Bruto, a differenza di molti altri commentatori del tempo (lettera al card. Ridolfi del 18 genn. 1537: ed. Gargiolli, p. XXVI); d’altro canto N. riconosce che il popolo di Firenze non reagisce prontamente alla fine del tiranno, come Lorenzino credeva («si era immaginato e datosi ad intendere») e solo pochi sperano ancora, prima in una mediazione esterna, poi nella lotta armata, che però termina con la sconfitta (ed. Arbib, 2° vol., pp. 349-50). Isolato, per quanto nobile, è il sacrificio estremo di Filippo Strozzi che, fatto prigioniero, si uccide in carcere. M. è più volte menzionato o alluso nell’opera a proposito di alcune sue missioni diplomatiche (ed. Arbib, 1° vol., pp. 228, 233, 280 ecc.) e come autore del Discursus florentinarum rerum e poi delle Istorie fiorentine. Sono anche ricordate la sua frequentazione degli Orti Oricellari e la composizione dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (ed. Arbib, 2° vol., pp. 83 e 86).
La Vita di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini è in gran parte una conferma dei valori fondamentali dell’autore. La morale civica, fondata su basi religiose, esige che il cittadino si consideri sempre al servizio della sua comunità, soprattutto quando svolge funzioni delicate e difficili. Il mondo non invecchia, sostiene N. capovolgendo un’affermazione della Vita di Agricola di Tacito, cui si ispira, perché l’educazione può elevare l’uomo anche in una situazione degradata come l’attuale. In tal modo N. riesce a coniugare il suo schietto umanesimo con il suo altrettanto sincero savonarolismo:
Educazione chiamo io in questo luogo non solamente la dieta del vitto domestico e familiare e tutta la osservanza de’ costumi e instituti paterni [...], ma la religione, le leggi, le consuetudini e le cerimonie comuni e i comandamenti de’ magistrati e de’ principi e signori, gli essempi de’ quali eziandio hanno forza di espressi comandamenti appresso de’ popoli (Vita di Antonio Giacomini, a cura di V. Bramanti, 1990, p. 46).
Così può germogliare e fare «buon frutto» o diventare sterile «quel seme che da Dio e dalla natura è stato infuso negli animi nostri» (p. 46). Per questo il modello classico (Ciro, Lucullo o Scipione l’Africano) può essere di guida ad Antonio Giacomini (→) anche in tempi nefasti, segnati dalla corruzione dei cittadini, spesso ingrati e malevoli, e dalla finale caduta della Repubblica.
Un elemento centrale della biografia, che si connette così con il pensiero di M., è la necessità per uno Stato di avere armi proprie: dopo la «declinazione del romano imperio», Firenze, come altre città italiane, poté «respirare» e «con le proprie armi e col sangue de’ suoi cittadini si guadagnò la libertà» e divenne grande e potente. Ma in seguito, a causa delle «maledette parti», la città consumò e distrusse se stessa, «il che alla città di Roma nel principio del suo salire non avvenne» (p. 50), si perse la capacità militare e ci si affidò ai mercenari, che spesso fanno più danni dei nemici. Dopo il 1530 solo due uomini, grazie alla «divina provvidenza», hanno dimostrato un’alta «virtù» militare, ma non separata e ridotta a tecnica amorale, come nel soldato di professione, bensì impiegata disinteressatamente «combattendo per la libertà e salute» della patria, distinguendosi per probità e mancanza di ambizione personale: Antonio Giacomini e Francesco Ferrucci (p. 54). N. ripercorre la lunga carriera di Giacomini nelle magistrature cittadine e nella milizia, sempre al servizio della Repubblica, in Valdichiana, Casentino, soprattutto contro Pisa. Durante la lunga lotta di Firenze per riprendere quella città è lui a riportare una vittoria decisiva a Torre San Vincenzo (presso Campiglia) il 17 agosto 1505. Dopo il 1512 il protagonista, vecchio e malato, è trattato con bontà da Giuliano de’ Medici, a cui confessa «ingenuamente» di essersi opposto alla sua casa (soprattutto ai tentativi di tornare al potere di Piero, giudicato aspramente come una figura spregevole in tutta la biografia) solamente «per amore e zelo della libertà della patria» (p. 133). Gli è concesso di conservare le sue armi in segno di onore, ma ne sarà spogliato dai successori di Giuliano. Così il condottiero solo, malato e cieco, si spegne nel gennaio 1518, a 62 anni. N. cita qui esplicitamente M. («il nostro Nicolò Machiavegli») che, in Discorsi III xvi 14-18, loda il condottiero per la pazienza con cui ha sopportato l’ingratitudine dei concittadini, celebrandolo per il suo valore anche nel secondo Decennale (vv. 31-45). N. cita anzi questi versi nella chiusa della biografia, alterandoli in modo significativo: «Tanto a’ tiranni [anziché «fortuna»] la virtù dispiace» (pp. 138-39). Ricordiamo che M. ha citato con lode il condottiero anche nei Discorsi I liii 22, 25 e nelle Nature di uomini fiorentini. Sappiamo dalla lettera di Zanobi Buondelmonti a M. del 6 settembre 1520 (Lettere, pp. 365-67) che N. aveva letto e approvato la Vita di Castruccio Castracani, essendo vicino a M. anche negli ultimi anni (Ridolfi 1954, 1978, p. 390).
Bibliografia: Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, 2 voll., Firenze 18422; Istorie della città di Firenze, a cura di A. Gelli, 2 voll., Firenze 1858; Vita di Antonio Giacomini e altri scritti minori, a cura di C. Gargiolli, Firenze 1867; Orazioni scelte del secolo XVI, a cura di G. Lisio, Firenze 1897; Tre commedie fiorentine del primo 500, ed. critica di L. Stefani, Ferrara-Roma 1986; Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Rinascimento, a cura di R. Bruscagli, 1° vol., Roma 1986; Vita di Antonio Giacomini, a cura di V. Bramanti, Bergamo 1990.
Per gli studi critici si vedano: A. Pieralli, La vita e le opere di Jacopo Nardi, Firenze 1901; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 1978; A. Montevecchi, Storici di Firenze. Studi su Nardi, Nerli e Varchi, Bologna 1989; Storici e politici fiorentini del Cinquecento, a cura di A. Baiocchi, S. Albonico, Milano-Napoli 1994 (in partic. Nota introduttiva e Nota al testo, rispettiv. pp. 589-603 e 1053-61); V. Bramanti, Lettere inedite di Jacopo Nardi, «Archivio storico italiano», 1999, 579, pp. 101-29; S. Dall’Aglio, Nardi Jacopo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 77° vol., Roma 2012, ad vocem.