PITTI, Iacopo
PITTI, Iacopo. – Nacque a Firenze il 26 gennaio 1519 da Francesco e da Ginevra Lanfredini.
Originari di Semifonte, località della Toscana tra la Val d’Elsa e la Val di Pesa, i Pitti furono mercanti, imprenditori e banchieri; accumularono, nel corso degli anni, un’ingente fortuna, grazie alla quale assunsero prestigio e parteciparono alla vita pubblica della città. Negli elenchi dei priori, dei gonfalonieri di Giustizia e degli ambasciatori della Repubblica fiorentina, il nome dei Pitti compare spesso. Tra i membri più illustri della famiglia si annoverano Bonaccorso di Neri (v. la voce in questo Dizionario) e Luca di Bonaccorso (v. la voce in questo Dizionario). Il primo, mercante e scrittore, fu autore di una cronaca di Firenze in cui si intrecciano storia e autobiografia; il secondo fu, per un lungo periodo, amico e fidato consigliere di Cosimo il Vecchio, prima di cadere in disgrazia per aver tramato contro la signoria del figlio Piero. In realtà, il rapporto con i Medici oscillò a lungo tra amicizia e ostilità, specialmente quando, nel corso del XV secolo, la famiglia si frazionò in più rami con orientamenti politici differenti. Al ramo, tradizionalmente gravitante nell’orbita medicea, che faceva capo a Pietro di Neri, appartenne Iacopo, discendente di Pietro in quinto grado.
Esponente del ceto dirigente fiorentino, Pitti ricoprì la carica di governatore di diverse città della Toscana e fu vicario di Pescia. Dalle nozze con Maddalena Gaddi, celebrate nel 1549, nacquero cinque figli. Le tre femmine contrassero matrimoni prestigiosi, imparentandosi con nobili e potenti famiglie fiorentine: gli Alamanni, gli Antinori e gli Strozzi. Dei due maschi, Cosimo e Camillo, il secondo, in base alle disposizioni testamentarie del nonno, Sinibaldo Gaddi, ereditò il cognome e la fortuna della famiglia materna, rimasta priva di discendenti, e diede origine al casato dei Pitti Gaddi.
Membro dell’Accademia fiorentina, Pitti ne divenne console nel maggio del 1567, succedendo a Lionardo Salviati. Fondò, a sua volta, un sodalizio letterario, che prese il nome di Accademia del Piano, dalla località di Piano di Ripoli, nei pressi di Firenze, dove si tenevano le riunioni. Il 4 agosto 1568 fu eletto senatore. Quattro anni dopo fece parte di un’ambasceria inviata a Roma presso il pontefice Gregorio XIII. Nel frattempo la sua fama di letterato cresceva, al punto che il suo nome fu inserito nella rosa dei nove candidati tra cui Cosimo I scelse i quattro deputati alla rassettatura del Decameron.
L’attività intellettuale di Pitti fu non meno intensa di quella politica. Al 1570 risale la prima stesura della Vita di Antonio Giacomini Tebalducci. Successivamente riprese e rielaborò l’opera, la cui redazione definitiva è del 1574.
Si tratta della biografia di una personalità di primo piano della storia di Firenze, che visse tra il 1456 e il 1518 e che mise al servizio della patria la sua esperienza di soldato di professione, distinguendosi per il rigore morale e per la modernità delle sue idee in fatto di reclutamento di truppe. Un altro storiografo fiorentino, Iacopo Nardi (1476-1563), aveva già composto nel 1548 una Vita di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, pubblicata postuma nel 1597. All’opera di Nardi si ispirò sicuramente Pitti, che però fornì un ritratto molto più ampio e dettagliato del personaggio, basandosi su una serie di lettere che gli permisero di mettere in luce i rapporti tra Giacomini e il Consiglio dei dieci.
Al di là degli aspetti fisici e caratteriali, che comunque vengono descritti, a Pitti interessa tratteggiare la fisionomia del condottiero e del politico, presentandolo come l’ultimo baluardo della libertà repubblicana. Non è un caso, perciò, che la conclusione del racconto coincida con la fine dell’attività pubblica di Pitti stesso, alla cui integrità si inchinarono anche i Medici, consentendogli di mantenere le sue insegne dopo la caduta della Repubblica. Improntata a un forte spirito liberale, l’opera, nonostante la dedica ai signori di Toscana, Cosimo I e Francesco I, con ogni probabilità non era destinata alle stampe e, di fatto, vide la luce dopo quasi tre secoli.
Una sorte analoga toccò all’Apologia de’ Cappucci, a cui Pitti lavorò tra il 1570 e il 1575. Lo scritto nacque dall’esigenza di difendere la fazione dei democratici, soprannominati appunto Cappucci, dai pesanti attacchi mossi contro di loro da Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia. Si tratta di un dialogo fra tre personaggi: Tito, Publio e Marchetto. Il primo, nipote di Guicciardini, ne ripropone le accuse; il secondo, di parte popolare, confuta le tesi guicciardiniane, individuandovi numerosi errori; a Marchetto, apparentemente neutrale, ma in realtà antimediceo, è affidata la funzione di mediare tra gli altri due. L’opera era suddivisa in tre parti, di cui è giunto soltanto il manoscritto, probabilmente autografo, della prima.
Negli ultimi anni della sua esistenza, Pitti si dedicò alla stesura della Istoria fiorentina. Il progetto originario, che prevedeva cinque libri, non fu portato a termine. Nell’unico testimone che ha tramandato l’opera, un manoscritto apografo del XVI secolo, solo i primi due libri risultano, infatti, completi. Il terzo è di sole cinque carte, il quinto consta di una carta, mentre un frammento di 16 righi costituisce, presumibilmente, la parte iniziale del quarto libro.
L’Istoria si apre con un commento sull’assedio di Firenze del 1529, evento catastrofico e insieme glorioso, che segnò in modo irreversibile le sorti della città. Nell’intento di indagare le cause che determinarono la sconfitta dei fiorentini e la conseguente perdita della libertà, si riparte dalle origini per arrivare rapidamente al 1215, anno cruciale, che dà inizio alle lotte di fazione. Il racconto si snoda poi per circa trecento anni, fino al 1509, mettendo in luce le complesse dinamiche interne, ricollegabili alla riforma istituzionale del 1494.
Il secondo libro dell’Istoria è dedicato al ventennio successivo e si conclude con la decisione dei fiorentini di opporsi con la forza al rientro dei Medici e alla perdita della libertà.
Il terzo libro non va al di là dell’intento di allargare il campo d’indagine all’Italia, all’Europa e oltre. Il frammento si concentra sulle aspettative degli altri Stati italiani che, nella ribellione di Firenze, intravedono la possibilità di affrancarsi dalla sudditanza all’imperatore e al pontefice. L’ultima parte, rimasta allo stato progettuale, avrebbe dovuto concentrarsi sulla situazione creatasi a Firenze dopo la restaurazione medicea; una situazione che si rivelò tutt’altro che soddisfacente anche per coloro che avevano favorito il rientro dei Medici.
Riaffiora così quella ‘malacontentezza’ che è il filo conduttore dell’opera. Utilizzando il metodo storiografico di Machiavelli e Guicciardini, Pitti entra nei pensieri dei personaggi, mette a nudo i processi logici che sono alla base delle loro scelte; drammatizza la narrazione, svela i retroscena degli eventi storici, spesso integrando, correggendo, ampliando di propria mano il manoscritto. Il risultato è una storia che si fa cronaca, biografia, microracconto, dramma, commedia, nel tentativo di fissare per sempre nella memoria un mondo scomparso, rappresentandolo in tutta la sua complessità.
Morì a Firenze il 24 maggio 1589.
I suoi scritti, tutti pubblicati postumi, rimasero a lungo inediti e videro la luce solo nel XIX secolo, grazie al marchese Gino Capponi, a cui furono segnalati dallo studioso Sebastiano Ciampi. Di alcuni di essi (le lezioni accademiche, i componimenti poetici e gli Annali dell’Accademia del Piano) elencati tra le opere perdute da Luigi Filippo Polidori, nella Prefazione alla princeps della Istoria fiorentina, non sembra esserci traccia. Sempre Polidori, sulla scorta del catalogo dei manoscritti posseduti da Gino Capponi, attribuisce a Pitti un opuscolo politico, intitolato Del ritorno di Gaio Ciavereo Pontefice Massimo dalli antipodi, in cui si immagina che gli accademici pianigiani, preoccupati per quanto sta accadendo a Firenze, mandino un’ambasceria a Gaio Ciavereo, nome accademico di Pitti, per convincerlo a tornare dagli antipodi. In realtà, la paternità dell’opera sembra doversi attribuire a Girolamo Mei (1519-1594), accademico pianigiano con lo pseudonimo di Decimo Coronella da Peretola.
Opere. Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., XXV.310: Vita di Antonio Giacomini Tebalducci, redazione del 1570; XXV.346: Vita di Antonio Giacomini Tebalducci (redazione del 1574); XXV.323: Apologia de’ Cappucci (prima parte); XXV.349: Istoria fiorentina; Istoria fiorentina, a cura di L.F. Polidori, Firenze 1842; Vita di Antonio Giacomini, a cura di C. Monzani, in Archivio storico italiano, IV (1853), 2, pp. 99-270; Apologia de’ Cappucci, a cura di C. Monzani, ibid., pp. 271-384; Istoria fiorentina, a cura di A. Mauriello, Napoli 2007.
Fonti e Bibl.: C. Monzani, Sulla vita di Antonio Giacomini e l’Apologia de’ Cappucci di Jacopo Pitti, in Archivio storico italiano, IV (1853), 2, pp. 79-98; A. Giorgetti, Il dialogo di Bartolomeo Cerretani fonte delle Istorie fiorentine di Jacopo P., in Miscellanea fiorentina di erudizione e storia, I (1886), pp. 65-70; E. Fueter, Storia della storiografia moderna, Napoli 1943, pp. 95-97; R. von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato, Torino 1970, pp. 334-339; E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981, pp. 283 s.; A. Montevecchi, La vita di Antonio Giacomini, in Id., Storici di Firenze. Studi su Nardi, Nerli e Varchi, Bologna 1989, pp. 54-69; M. Palumbo, Dell’ Istoria fiorentina di Jacopo P., in Storiografia repubblicana fiorentina, a cura di J.J. Marchand - J.C. Zancarini, Firenze 2003, pp. 325-341; A. Montevecchi, Biografia e storia nel rinascimento italiano, Bologna 2004, pp. 75-119.