Pitti, Iacopo
Nacque a Firenze il 26 gennaio 1519 da Francesco e Ginevra Lanfredini. La famiglia era ricca e gravitava nell’orbita medicea. P. fu vicario a Pescia e senatore dal 1568; quattro anni dopo fece parte di un’ambasceria al papa Gregorio XIII. Nel 1549 aveva sposato Maddalena Gaddi, da cui ebbe cinque figli. Partecipò alla vita culturale, nell’Accademia fiorentina, di cui fu console nel 1567, e nell’Accademia del Piano, da lui fondata. Morì a Firenze nel 1589.
Pur aderendo al regime mediceo ormai consolidato, cercò di mantenere vivi nella memoria storica i valori dell’antica Repubblica, ma senza rivendicarli attivamente e senza negare la legittimità del potere mediceo, che appariva come l’inevitabile risultato dell’incapacità, dimostrata dai fiorentini, nel gestire l’ordinamento repubblicano.
Le opere di P. sono rimaste a lungo inedite, condividendo così la sorte di quasi tutta la produzione storica o biografica coeva. Della Vita di Antonio Giacomini Tebalducci, scritta e riveduta negli anni 1570-74, l’unica edizione esistente (curata da Cirillo Monzani nell’«Archivio storico italiano», 1853, 4 [d’ora in avanti ed. Monzani 1853], pp. 99- 270) si fonda sul cod. BNCF, Magliabechiano XXV 346, mentre versioni diverse e più brevi sono in altre tre copie nel medesimo codice e nel Magliabechiano XXV 310. L’opera è alquanto composita, poiché segue largamente la biografia di Iacopo Nardi (→), ma senza conseguirne la compattezza e l’organicità (Montevecchi 2004, pp. 98-119). A brani desunti quasi interamente da Nardi si alternano masse di documenti grezzi anche se interessanti, intercalati da analisi spesso acute della politica cittadina. Mentre Nardi, sul fondamento di saldi principi morali e civici, vede una forte rottura storica fra la vecchia società repubblicana, di cui Giacomini è stato un emblema, e l’attuale Signoria medicea, per P. i valori espressi dal condottiero possono essere praticati anche nella Firenze dei granduchi. Infatti, nella dedica dell’opera al granduca Cosimo (12 luglio 1570) gli attribuisce l’intenzione di far rinascere le antiche virtù militari, mentre in quella al successore Francesco (14 ag. 1574) lo ringrazia per avergli consentito l’accesso a nuovi documenti (ed. Monzani 1853, pp. 99-102). In questo spirito di pretesa continuità civica possono essere recuperate anche molte delle idee di M., come la critica all’indecisione della classe dirigente cittadina, il paragone dello Stato con un corpo umano e, particolarmente, il valore della milizia d’ordinanza, che è un’idea sostenuta anche da Giacomini. Un altro dei temi della biografia è la denuncia degli ottimati, che temono i migliori cittadini come Antonio e ne frustrano l’azione politica e militare. M. vi compare quando fa inviare Antonio al campo contro Pisa o appoggia la sua proposta ai Signori di «creare una ordinanza di giovani del contado e del distretto» (ed. Monzani 1853, pp. 239-40), nominandolo fra i responsabili: M. è presentato come un cittadino «di grande ingegno», quasi un alter ego di Giacomini, che «volteggiava per tutti li eserciti [...]» ordinando «li fanti» (pp. 247-49). Antonio, grazie alle sue grandi qualità, come la «virtù eroica» e il «giudizio» (pp. 242 e 250), riesce a vincere la battaglia di Torre San Vincenzo, ma questo non gli assicura la gratitudine dei cittadini, tanto che trascorrerà i suoi ultimi e tristi anni in alterni rapporti con i Medici (ma P., a differenza di Nardi, evita di criticare i Signori). La biografia si chiude, come in Nardi, con la citazione degli elogi di Giacomini espressi da M. (Discorsi III xvi 14-18 e Decennale II, vv. 34-45), cui P. aggiunge il testo delle Nature di uomini fiorentini. Nella citazione dal Decennale («tant’a fortuna chi ben fa dispiace») P. ripristina la parola fortuna al posto di tiranni che vi aveva inserito Nardi.
Gli umori polemici di P. si manifestano nel modo più virulento nell’Apologia de’ Cappucci, scritta forse negli anni 1570-75 (l’ed., curata sempre da Monzani nell’«Archivio storico italiano», 1853, 4, pp. 271-384, si fonda sul cod. BNCF, Magliabechiano XXV 323, confrontato con una copia, il Magliabechiano XXV 309). È un dialogo fra Marchetto Massimo, filomediceo (forse Bernardo de’ Medici), Publio Iuvenale, repubblicano (forse un Soderini) e Tito Graverotto, nipote di Francesco Guicciardini e suo difensore (si tratta probabilmente di Agnolo Guicciardini). Sia i nomi dei dialoganti, sia il loro linguaggio popolaresco e sboccato risentono forse del gergo proprio dell’Accademia del Piano. Il tema del dialogo è la difesa dei valori della Firenze repubblicana e dei popolani («Cappucci») e la conseguente condanna degli ottimati (oligarchi o «primati») per avere reso impossibile, con le loro ambizioni personali, la convivenza dei cittadini in un ordinamento garantito da leggi uguali per tutti. È soprattutto criticato, con argomentazioni spesso unilaterali ed eccessive, Francesco Guicciardini, il quale avrebbe falsificato le vicende di Firenze nella Storia d’Italia secondo le sue idee di oligarca, diffamando la resistenza dei repubblicani durante l’assedio ed esaltando i pretesi meriti dei «savi». Poiché Tito (Agnolo) è stato collaboratore dello zio nella revisione dell’opera (Bramanti 2003, pp. 84-88), è considerato personalmente corresponsabile delle presunte falsificazioni. Per Publio (il cui giudizio sostanzialmente coincide con quello di P.) l’avvento dei Medici rappresenta il male minore rispetto a un regime oligarchico, come quello che avrebbero voluto gli ottimati, e costituisce per loro una giusta e definitiva sconfitta. L’opera contiene anche un grossolano attacco a M. (il «Machia»), che nei Discorsi avrebbe assunto un orientamento repubblicano solo per far piacere agli amici degli Orti Oricellari; anche il Discursus florentinarum rerum è svalutato come opera gradita al cardinale Giulio de’ Medici. Per provare questa pretesa subalternità di M. ai ricchi e ai potenti sono citati i versi del prologo della Mandragola: «ancor che facci e sergieri a colui / che può portar miglior mantel di lui». L’illustrazione fatta da Publio del perfetto ordinamento repubblicano è tratta dalla Politica di Aristotele (tradotta e pubblicata a Firenze nel 1549 da Bernardo Segni), a prova del carattere colto e accademico dell’opera, sotto il velame vernacolare.
L’Istoria fiorentina è un’opera rimasta incompiuta, come dimostrano anche le numerose aggiunte emodifiche e la sproporzione tra le parti. È tramandata da un solo codice: BNCF, Magliabechiano XXV 349 (v. le edizioni a cura di Filippo Luigi Polidori, «Archivio storico italiano», 1842, 1, p. XXV, e a cura di Adriana Mauriello, 2007 [d’ora in avanti ed. Mauriello 2007], pp. 197-216). Il dettato, a differenza delle altre due opere, è pacato e uniforme, non interrotto da citazioni o documenti che forse dovevano esservi trasferiti dalla Vita, poiché questa e le Istorie costituiscono chiaramente un work in progress. L’opera, scritta negli ultimi anni di vita, può essere avvicinata alle storie di Nardi, Filippo de’ Nerli (→), Bernardo Segni (→) e forse anche, per certi aspetti, alle Storie fiorentine di Francesco Guicciardini (→): testimonianze dirette o indirette di fatti cui l’autore aveva assistito o, nel caso di P., racconto critico di eventi trascorsi da alcuni decenni, che l’autore vuole giudicare secondo una posizione politica precisa. Alcuni brani dell’Istoria (soprattutto nel secondo libro) seguono in parte il Dialogo della mutatione di Firenze di Bartolomeo Cerretani (cfr. l’ed. critica a cura di R. Mordenti, 1990, pp. VII, 49, 51, 92). Come nella Vita di Giacomini e nell’Apologia, P. identifica nella «mala contentezza» degli ottimati la fonte di quel sovvertimento ininterrotto dello Stato che ha minato la vita della Repubblica, dall’assassinio di Buondelmonte de’ Buondelmonti nel 1215 e dalla conseguente divisione della città tra guelfi e ghibellini (Palumbo 2003), fino al tumulto dei Ciompi. Il successivo ripristino del dominio oligarchico ha l’effetto di indebolire la città, le cui migliori energie saranno dissipate nelle lotte interne per il potere fra le principali famiglie: si avranno così la lotta di Rinaldo degli Albizzi e di altri oligarchi contro Cosimo il Vecchio, che porterà alla Signoria medicea, poi gli scontri tra Piero di Cosimo e gli ottimati avversi. Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e l’intervento straniero in Italia, la cacciata di Piero de’ Medici dà luogo ad altre lotte fra i palleschi e i repubblicani, fra i sostenitori di Girolamo Savonarola e gli oligarchi. Dopo la restaurazione medicea nel 1512, una soluzione equilibrata poteva essere costituita dal gonfalonierato di Giovanni Battista Ridolfi, se questi non fosse stato rovinato dall’ambizione. Contro le forze distruttive dell’ambizione e dell’invidia si levano le figure positive dei cittadini disinteressati e ligi al bene dello Stato: Michele di Lando, Giano della Bella, Piero Soderini, Antonio Giacomini, Girolamo Savonarola, Francesco Carducci.
L’opera fu progettata in cinque libri, di cui solo i primi due furono scritti per intero. Il libro I inizia dal 1529, cioè dalla guerra che la rinata Repubblica sostenne contro le truppe inviate da Carlo V per restaurare i Medici. P. conferma qui le idee esposte nell’Apologia:
Tra tutte quante le guerre fatte o sostenute dal popolo fiorentino, niuna, al parer mio, fu già mai né maggiore né più gloriosa per lui, quantunche con successo infelice, di quella che, l’anno 1529, lo cinse d’ogni intorno d’assedio, dove, trovandosi stretto dal ferro e vinto dalla fame, cedé finalmente, con orrevole capitolazione, alle forze del vincitore (ed. Mauriello 2007, p. 21).
Il racconto prosegue con una retrospezione che illustra la storia di Firenze, giudicata degna erede di Roma (p. 22), dalle prime origini fino alla conquista di Pisa nel 1509, che aveva segnato la conferma del dominio fiorentino. Il libro II, dopo un breve riepilogo, tratta gli avvenimenti dal 1509 al 1529; il libro III, brevissimo, contiene una premessa generale di metodo sul valore dello studio storico:
Gli uomini prudenti hanno sempremai giudicato che la lezione dell’istorie apporti gran giovamento a tutti coloro i quali ne’ maneggi degli stati specialmente si compiacciono, avenga che, con l’esperienza de’ passati, possono con maggior consiglio deliberare delle cose alla Republica necessarie e, con più sicurtà, proseguirle (ed. Mauriello 2007, p. 189).
Sono poi esposte le vicende delle principali potenze italiane e delle città del «dominio» fiorentino all’indomani della caduta dell’ultima Repubblica (1529-30). Vi è infine un brevissimo Frammento sulla riconquista di Volterra da parte di Francesco Ferrucci il 26 aprile 1530 e un libro «ultimo» che narra la fine dell’assedio di Firenze, l’assassinio del duca Alessandro da parte di Lorenzino de’ Medici (1537) e l’elezione di Cosimo a «capo della Republica», ciò che costituisce, come nota P., la fine del ramo principale dei Medici e l’avvento dell’altro, discendente da Lorenzo, detto il Popolano. Lo scrittore conferma la sua coerente ostilità per la «setta» oligarchica, e la sua preferenza, come minor male, per il principato mediceo. I «Senatori», in cuor loro pensano di prevaricare su quel «giovinetto»
per servirsene fino a tanto che, difesi dal primo impeto popolare, potessero convenire con li altri della loro setta, fuorusciti allora dello stato, e stabilirsi un governo sì spesso tentato da loro né però riuscito giammai. Ma Cosimo, accortosi, quantunche giovinetto, de’ loro così fatti concetti, appoggiatosi a Carlo quinto, si governò di maniera che, superati e presi i capi delli usciti [...] attese poi a purgare la Republica dalla tirannia delli altri [...]. Onde la parte maggiore di cotali Senatori, vedutisi scherniti di loro disegni [...] e, dal dolore dell’animo agghiacciati, senza altra pena di corpo, se ne passarono a quella vita dove ciascuno eternamente riceve il guidardone delle opere sue (libro ultimo, ed. Mauriello 2007, p. 196).
Dopo essersi compiaciuto di questo esito, che comporta la sconfitta della parte che egli ritiene peggiore e più colpevole della cittadinanza, P. si congeda pacatamente dalla storia successiva, quella del principato di Cosimo I, che sarà diversa e destinata a essere trattata da un altro autore, mentre si ripromette di completare la sua opera:
Queste azioni del duca Cosimo, essendo scritte dall’ingegnoso e dotto messer Giovambatista Adriani, saranno in quell’amplissima istoria da’ lettori considerate. E noi, col favore dell’uomini e de’ cieli, ci allargheremo in tutto quello che di sopra accennato ne aviamo (p. 196).
Lo scrittore intende la sua come una storia politica che si muove lontana dai particolari di cronaca ed è invece attenta ai retroscena, allo smascheramento delle cattive intenzioni dei protagonisti spesso nascoste dietro belle parole. In questo si sente la lezione di M., citato come inviato al re di Francia Luigi XII nel 1500 (ed. Mauriello 2007, p. 83) e come «scrittore delle storie» (p. 117), e anche l’influenza di metodo di Guicciardini, da cui però P. dissente (come si è visto) per ragioni ideali e di schieramento politico. Egli è citato come ambasciatore in Spagna (1512-13) e luogotenente del papa, ma anche, e con durezza, come «nimico del popolo fiorentino» (p. 159). A parte quelle lontane ispirazioni, la preoccupazione che P. non cessa di manifestare è quella di testimoniare con onestà la «pura verità delle cose», in aspra polemica contro quegli autori che, comportandosi come «avvocati dello stato de’ pochi» (p. 105) e non come storici sinceri, sono perfino riusciti a mutare «i veri nomi delle cose», tanto che si chiamano «Arrabbiati» i difensori della libertà «e li trafficanti di quella Ottimati» (p. 155). I termini usati da P. (anche nella Vita di Giacomini) in parte sono quelli della tradizione: «adormentare», «occasione», «fortuna», «i cieli», «riputazione», «colore»; in parte risentono della visione morale dell’autore: «invidia», «orgoglio» (contrapposto a «ragione»), «ambizione», «superbia». P. interviene nel racconto cercando spesso di identificare i pensieri e le intenzioni dei protagonisti, o con rapidi commenti o attraverso le orazioni. Conosciamo così il cupo arrovellarsi di Ludovico il Moro, «invidioso», «disperato» (pp. 71-74), «confuso» (p. 79), oppure l’ipocrisia di Clemente VII, «mente dipinta» (p. 153), l’indecisione e la falsità del gonfaloniere Niccolò Capponi, che consulta di notte, di nascosto, gli ottimati e i palleschi (p. 148), l’incapacità e odiosità di Piero de’ Medici, i vizi di Lorenzo de’ Medici il Giovane. Verifichiamo l’odio dei «fazionari» e dei «maligni» per il Consiglio grande e per Savonarola (p. 69), la malafede di quelli che «sfacciatissimamente» vendono la giustizia e lo Stato a chi possa pagarli (p. 124), le intenzioni dei congiurati antimedicei nel 1522, che sperano di rimanere anche nella Repubblica «riguardevoli assai» (p. 133). Spesso lunghi brani in discorso indiretto mostrano le opposte opinioni dei cittadini, come quando «alcuni» si fidano del papa mentre altri si oppongono, con Baldassarre Carducci che difende fieramente la libertà di Firenze, richiamandosi agli «antichi progenitori» romani, contro i fautori di un compromesso (pp. 156-58). Al termine del libro II vi è la vibrante orazione del gonfaloniere Francesco Carducci a segnare il congedo dell’autore dall’ultima Repubblica fiorentina:
Grave deliberazione e importante sopra di qualunche altra fatta, o da farsi già mai, o popolo fiorentino, è questa per la quale voi siate oggi, in sì frequente numero, stati in questo luogo congregati, conciosiaché trattare non ci si deve di allargare o di restringere i confini del vostro imperio [...] ; ma solamente è forza deliberare se ritornare volete pacificamente voi in quella servitù la quale, pur dianzi, per quindici anni provaste, o veramente conservarvi in questa libertà che, sì novella, più presto dalla bontà di Dio che dalla voglia degl’uomini, ricuperata avete (p. 185).
Bibliografia: Istoria fiorentina, a cura di F.L. Polidori, «Archivio storico italiano», 1842, 1, pp. 1-208; Vita di Antonio Giacomini Tebalducci e Apologia de’ Cappucci, a cura di C. Monzani, «Archivio storico italiano», 1853, 4, rispettiv. pp. 99-270, 271-384; Istoria fiorentina, a cura di A. Mauriello, Napoli 2007.
Per gli studi critici si vedano: B. Cerretani, Dialogo della mutatione di Firenze, ed. critica a cura di R. Mordenti, Roma 1990; V. Bramanti, Guicciardini Agnolo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 61° vol., Roma 2003, ad vocem; M. Palumbo, Dell’Istoria fiorentina di Jacopo Pitti, in Storiografia repubblicana fiorentina (1494-1570), a cura di J.-J. Marchand, J.-C. Zancarini, Firenze 2003, pp. 325-41; A. Montevecchi, Biografia e storia nel Rinascimento italiano, Bologna 2004.