SANNAZZARO (Sannazaro), Iacopo (Actius Syncerus)
Poeta, nato a Napoli il 28 luglio di un anno, che si può fissare ragionevolmente nel 1456; morto, pure a Napoli, il 24 aprile 1530. Discendeva da "quelli da santo Nazzaro di Pavia", che Dante recò (Convivio, IV, 29,3) come esempio di "nobilissimi" pur accusandoli di "non aver anima". Ma l'ebbero, un secolo appresso, due di loro che, seguendo "la laudevole impresa" di Carlo iII di Durazzo, trovarono loro fortuna nel regno di Napoli: sennonché questa durò poco, per il disfavore della regina Giovanna II; ed era quasi distrutta quando Iacopo nasceva. La madre, Masella della famiglia salernitana dei Santomango, ebbe cura della sua educazione; ella probabilmente dimorava in Napoli con i figli, mentre il marito, Cola, attendeva alle poche terre rimastegli; ma, dopo la morte di lui (1470 circa) pare che si sia ritirata nel feudo dotale di San Cipriano Picentino (Salerno); certo è che Iacopo più volte alluse alla sua infanzia trascorsa tra i monti, quasi a suggerirci che ne fu improntata per sempre l'arte sua di poeta bucolico; così come contrasse dall'assidua cura materna una quasi femminea sensibilità, e dalla nobiltà della schiatta l'indole fiera e cavalleresca. Sarà di origine letteraria quel suo amore infantile (a otto anni) per una bimba (Arcadia, Prosa VII), che i biografi identificano in una Carmosina della casa dei Bonifacio, che abitavano nello stesso quartiere di Portanova, al cui seggio nobiliare appartenevano anche i Sannazzaro. Il romanzesco episodio ci rivela tuttavia che Iacopo crebbe in Napoli, dove più tardi tornò definitivamente. Intorno al 1475 frequentava il magistero di Giuniano Maio, a cui si professò poi sempre devoto (Elegiae, II, 7); nel 1481 entrò a far parte della casa del duca di Calabria, forse per i buoni uffici del Pontano, che l'aveva già accolto nella sua sodalitas (v. pontano), imponendogli il nome un po' misterioso di Actius Syncerus (Actius forse perché sin da allora aveva composta qualche egloga piscatoria - acta "spiaggia" -; oppure per riferimento a S. Iacopo, la cui tomba è nel lido atlantico della Galizia; Syncerus perché "Nazaro" era ricollegato con l'ebraico nāzīr (nazareo), cui era attribuito il significato di "sincero"). Sincero rammenterà poi con orgoglio la fiducia dimostratagli dal Pontano, e accanto a lui prenderà parte alla guerra e ai trattati con Innocenzo VIII (1486). Da questa agiata esistenza di nobile cortigiano e di raffinato umanista lo trassero le triste vicende che colpirono la dinastia aragonese, cui era sinceramente affezionato; perché, quando al mite re Federico fu tolto il regno da Francia e da Spagna unite ai suoi danni, il S. fu dei pochi che lo sovvennero di aiuto e lo seguirono (settembre 1501) in Francia. Questo davvero "voluntario essiglio", per amaro che gli riuscisse, non fu senza utilità per le lettere: se non altro, perché ne ritornò con alcuni codici di antiche opere mal note o ignorate in Italia. Ne ritornò, dopo ch'ebbe chiusi gli occhi all'infelice suo re (1504), e riprese in Napoli la sua vita di studioso, seguitando a frequentare il palazzo delle superstiti regine, non stringendosi mai troppo con i nuovi padroni. Poiché frattanto era morto "il suo gran Pontano", la sodalitas pontaniana gravitava intorno a lui, che ne era il personaggio più illustre. La fama del poeta dell'Arcadia correva per tutta Italia, Isabella d'Este cercava d'attirarlo nel cerchio delle sue relazioni letterarie e disponeva perché un incisore ne ritraesse le sembianze in una medaglia; l'Ariosto lo pone, in grazia delle Piscatoriae, tra le donne e i cavalieri che attendono sul lido il ritorno del suo legno poetico; bastava che si credessero suoi, perché anche i versi mediocri (come narra B. Castiglione) venissero esaltati; il Bembo si dolse perché, passando per Venezia di ritorno dalla Francia, lo schivo S. non si era fatto corteggiare; i latinisti non esitavano a giudicarlo per l'arte vicino a Virgilio. Ma il S., così acerbo nei giudizî sul valore altrui come altamente conscio del proprio, preferiva vivere solitario nella dolce sua villa di Mergellina, dono gentile, se non munifico, del re Federico (1493), cesellando i suoi esametri operosi, assaporando i suoi classici, adunando preziose opere d'arte. Quando i pontaniani convenivano a lui, si leggevano i poeti e si discuteva di filologia. Non era però in lui il sereno equilibrio dei due che l'avevano preceduto nel governo della sodalitas; tormentato nella salute (morì d'una emottisi), affinato da un'incomparabile sensibilità morale, troppo lo irritavano le tristi vicende del Regno; e anche l'addolorò la sorte d'una gentildonna, già protetta dal suo re, Cassandra Marchese, che, andata sposa a uno dei marchesi Scanderbeg, era stata da costui ripudiata (1499). Fu una lunga lite, che si trascinò dai tempi di Alessandro VI a quelli di Leone X (1518), e in cui lottò contro potenti influenze gentilizie l'inerme cavalleria del poeta. Ma Cassandra perdette la lite, e a confortare il suo campione non rimase che un affetto gentile, forse più vivo che di padre a figlia, ma certo non di amante. Il vecchio poeta l'andava ogni giorno a visitare: una volta sorpreso dal male ristette nella casa di lei, e tra le sue braccia morì. Fu sepolto nella chiesetta da lui stesso fatta erigere a gloria di S. Maria del Parto, alla quale aveva dedicato anche l'ultima sua fatica di umanista e di devoto.
Le opere in volgare. - Dall'evento esterno del volontario esilio di Francia, la vita empirica e artistica del S. viene ovviamente divisa in due età: alla prima appartiene (per quanto è dato di saperne) la sua produzione in volgare; alla seconda, quella in latino; giacché Azio Sincero, a differenza di tanti altri poeti del suo tempo, trasse la prima nominanza da quella anziché da questa.
Appartengono alla sua attività di Corte certe "farse", ossia rappresentazioni sceniche immaginate per rallegrare nozze gentilizie (come quella perduta del 1480) o eventi dinastici (come le due del 1492 per la presa di Granata). In esse tutto il fascino era nell'apparato: le parole recitate dalle persone simboliche, che vi apparivano, hanno scarsa importanza. Il metro ne è l'endecasillabo legato dal rimalmezzo che è proprio della frottola. E in metro frottolato sono pure certe filastrocche (dette napoletanamente gliommeri "gomitoli") di motti e proverbî, che svariano d'un lieve sorriso la patetica produzione del S. Anche questi gliommeri, evidentemente recitativi, rientrano nelle cose scritte per la Corte. Giovanìli sono anche, almeno a detta del poeta, le Rime, che nella più copiosa raccolta raggiungono tra sonetti (80) e rime varie il centinaio. Scarseggiando le notizie atte a farcele intendere nei loro riferimenti reali, sia le politiche, o encomiastiche, o amicali, sia le amorose (perché del suo "sedicenne amore" proprio non sappiamo nulla), ci appaiono solo come rapsodie petrarchesche in cui il risonare di spunti, di cadenze, d'interi versi del modello, ci disturba anziché dilettarci. Per ciò forse nessuno le ha propriamente studiate, e restano ancora preziosa miniera di ricerche.
Giovanile è di certo, cioè della prima età se non proprio della "prima adolescenza", l'Arcadia: della quale, quanto va sino a tutta l'Egloga X deve assegnarsi agli anni tra il 1481 e l'86; il resto, tra il '91 e il '96.
Essa consta di un proemio, ove si giustifica la scelta della finzione pastorale, di dodici prose e d'altrettante egloghe, e d'un congedo Alla sampogna. In un luogo di raduno "ne la sommità di Partenio, non umile monte de la pastorale Arcadia" tra i pastori ivi convenuti giace Ergasto assorto in doglia amorosa (Prosa I), della quale si sfoga cantando con Selvaggio (Egl. I). Dopo più giorni il pastore Sincero, movendo il suo gregge, incontra Montano (Pr. II) del quale ascolta un canto amebeo in gara con Uranio (Egl. II). Il giorno appresso, cadendo la festa di Pale, i pastori convengono al tempio della dea e ne celebrano gli onori (Pr. III), finché Galicio canta in lode di Amaranta (Egl. III), che mostra di gradire l'omaggio. Dopo altri piaceri, Logisto ed Elpino depongono i pegni della gara di canto (Pr. IV) che chiude la giornata (Egl. IV). L'altro giorno i pastori giungono presso l'Erimanto, ove si stanno celebrando i funebri onori alla memoria di Androgeo, padre del malinconico Ergasto, il quale ne tesse l'elogio (Pr. V) e quindi ne canta la trenodia (Egl. V). Finita questa, giunge il bel Carino, che ha perduta una sua vacca; mentre il rusticissimo Ursacchio la va a cercare (Pr. VI) egli s'indugia ad ascoltare l'amebeo tra Serrano ed Opico (Egl. VI); quindi chiede a sincero la ragione della sua tristezza. E Sincero narra d'un infelice suo amore per il quale ha lasciato Napoli ed è venuto in volontario esilio in Arcadia (Pr. VII); chiude il racconto una sestina (Egl. VII). Carino lo conforta a bene sperare, con l'esempio del proprio amore, prima infelice e poi fortunato; quindi, trovata la vacca, se ne parte. Ed ecco giungere il barbuto innamorato Clonico (Pr. VIII). Il caso è grave, trattandosi di un cuore maturo; tenta di dargli saggi consigli Eugenio (Egl. VIII); ma ci vuol altro per guarirlo! I pastori risolvono dunque di non permettere che si affidi, come vorrebbe, a una fattucchiera, ma di guidarlo al tempio di Pan, sul Menalo, ove lo presentano a quel savio sacerdote Enareto (Pr. IX). Dopo un amebeo tra Ofelia ed Elenco (Egl. IX), Enareto espone i complicati riti ai quali sottoporrà Clonico per sanarlo. I pastori, lasciatolo colà, giungono con gli armenti al sepolcro di Massilia, "madre di Ergasto, la quale fu, mentre visse, da' pastori quasi divina sibilla reputata" (Pr. X). La sosta è occupata da un canto di Selvaggio in lode del poeta G. F. Caracciolo, ma grave di rimproveri ai costumi del tempo (Egl. X). Quindi Ergasto celebra con gare di giuochi i funebri onori a Massilia (Pr. XI) e li conclude, come per Androgeo, con una trenodia (Egl. XI). Ma oramai Sincero sente il richiamo della patria: condotto da una ninfa attraverso le grotte misteriose, ove hanno lor origine i fiumi, giunge lungo il Sebeto a Napoli, dove trova estinta la fanciulla amata (Pr. XII), e ode il compianto che ne fanno Barcinio e Summonzio ripetenti i versi di Meliseo (Egl. XII).
Il Caracciolo, Barcinio (B. Gareth di Barcellona), Summonzio (l'affettuoso editore dell'Arcadia), Meliseo (il Pontano), Androgeo e Massilia (i genitori del S.) rappresentano la realtà empirica introdotta nella favola; ma ciò non toglie che questa Arcadia sia un mondo di sogno, dove facilissima scorre la vita ai pastori, tra giuochi, conviti e riti pagani; così staccata dalla realtà che non sappiamo come Sincero vi sia pervenuto, e che solo per vie arcane può partirsene. Mondo di sogno, al quale si conviene quella lingua così aliena dall'uso comune; dove non c'è costrutto, immagine, epiteto che non si riconosca per volgarizzamento di autori latini o greci. Il che non è, o almeno non è tutto, un frigido giuoco letterario; perché, oltre che appagare l'orgoglioso proposito che fu dell'Umanesimo, di dedurre nella nuova lingua le eleganze delle antiche, costituisce con quella assidua suggestione di culte reminiscenze, con quel ritmo ampio e delicato della prosa boccaccesca, quasi un commento musicale della tenue e labile finzione. L'idea di ricreare dai modelli antichi codesto mondo bucolico non dovette sorgere già ben definita nella mente del S. Senza dire di alcune incongruenze dell'azione, si vede che le prime prose sono brevi e destinate solo a esporre la "ragione" delle egloghe, le quali costituivano nel principio l'essenza dell'opera. Ma a metà lavoro il S. si accorse che proprio nelle prose, invece, si veniva accentrando l'interesse della finzione, in quanto ne sorgeva - delineato nel paesaggio, nelle persone, nei fatti - quel mondo quasi mitico, che è il presupposto della bucolica lirica, e per ciò noto e sconosciuto, al tempo stesso, ma ad ogni modo interessante sia per i ricordi letterarî che suscitava sia per il senso della vita campestre che appagava. Così le egloghe si vanno riducendo a meri intermezzi lirici di un racconto, che si avvia ad acquistare la continuità d'un romanzo, l'attuosità d'un dramma. Il romanzo e la favola pastorale nascono infatti di lì; e questa è la ragione dell'immensa diffusione che l'Arcadia ebbe in Italia e presso gli stranieri.
Le poesie latine. - L'attenta cura rivolta a cogliere nei poeti latini il segreto della perfezione linguistica cominciò ad occupare il S. dal 1480, se nel 1518 egli poteva scrivere che vi durava da "trentaocto anni". Al geniale empirismo del Pontano succedeva dunque anche tra i pontaniani il criticismo filologico di L. Valla, che proprio a Napoli aveva elaborato i Libri Elegantiarum. Ma nei particolari la cronologia delle opere latine del S. non è stata ricostruita.
I tre libri degli Epigrammata riproducono la varietà di atteggiamenti dell'anima sua in un'ampia distesa di anni: ve n'ha di voluttuosi, ingegnosi, delicati - in morte di fanciulle e spose - al modo di quelli dell'Anthologia; ve n'ha di encomiastici, di pungenti e qualcuno perfino atroce, per es. contro i Borgia e contro il Poliziano. E sono in distici elegiaci, in endecasillabi catulliani, cui si frammischiano alcune squisite saffiche alla sua Mergellina, al suo S. Nazaro, invocato nell'esilio sul lido atlantico. Ma questa mescolanza e la sproporzione fra il terzo e i primi due libri indicano che la raccolta non fu curata da lui né lui vivente. Altrettale sproporzione è nei tre libri delle Elegiae; perché mentre il primo e il secondo contano dieci pezzi ciascuno, il terzo ne ha tre soli. Sono, queste Elegiae, la più perfetta e sincera espressione dell'indole malinconica e raccolta del S., che per questo lato giustamente fu paragonato al Tasso. Insistente vi ricorre infatti, accanto alle effusioni di amicizia, il presentimento della morte (I, 3). Anche il tenero affetto per Cassandra Marchese gli desta la visione dell'ora suprema; e di morte gli parlano - con voce nuova - le rovine di Cuma e di Roma. Anche ove tratta quei miti di trasformazioni, nei quali il Pontano indulgeva alle più accese rappresentazioni sensuali, si avverte che la sua musa è essenzialmente patetica. Nelle ninfe sorprese dai satiri (Salices, 1517), anziché la procacità delle forme è colto il verginale terrore dell'oltraggio e rappresentato nell'immobile atteggiamento dei salici, che ancora si protendono sul fiume.
Ma la sua vittoria retorica allora più esaltata furono le Piscatoriae: cioè cinque egloghe nelle quali ai pastori sono sostituiti i pescatori. Per entro la conformità ai modelli antichi e la conseguente uniformità delle finzioni umanistiche parve gran fatto il ritrovamento di questo motivo inusitato, per il quale la nuova poesia conquistava un campo che l'antica aveva ignorato. Non sappiamo quando il S. ne abbia avuta l'idea: se si accetta la ricordata spiegazione di Actius, si deve ritenere che ne componesse assai presto. Ma queste cinque, o almeno le ultime tre che alludono alle tristezze e alle speranze dell'esilio, sono di certo della seconda età: e non è senza significato che seguano al ritrovamento della Halieutica di Ovidio e delle elegie di Numanziano. Perché, mutate le condizioni degli attori, veniva a mutarsi anche tutto il materiale linguistico, e con esso le linee e i colori del paesaggio. Certo non vorremmo trovare qui maggiore verismo che nell'Arcadia; si tratta sempre di gare di canto (III), di compianti (I), di lamenti amorosi (II), di profezie politiche (IV), d'incantagioni (V), tutti motivi prettamente virgiliani; eppure a volte pare di avvertirvi qua e là il palpito ampio e quasi a dire l'odore salso della marina, come nell'Arcadia l'ardente effluvio "de la redolente estate"; ché se i monti salernitani hanno alcun poco riscaldata la freddezza letteraria di quella, ben può avere illuminato queste la veduta del lido, frequente di pescatori, dall'alto della villa di Mergellina. Ma s'intende che il gusto maggiore, per il poeta e per i raffinati lettori, era pur sempre il linguistico. In quel devoto culto umanistico, il latino "diventava una sorta di lingua sacra, profanamente o laicamente sacra, circonfusa d'amore e di riverenza": e tanto più quando fu sacro anche il tema assunto.
Il De Partu Virginis, ossia Il Natale, sorse da una lenta elaborazione durata vent'anni, benché il poemetto non raggiunga i 1500 esametri; e se tale ventennio si computa dall'anno in cui fu edito (1526), ne sarebbe da assegnare l'ideazione a dopo il ritorno di Francia, quando la vita gli diveniva più triste e severa.
Nella protasi il poeta prega i caelicolae perché gli rivelino le cagioni a loro rivelate del divino Natale; ma anche invoca le Muse, vergini e celesti pur esse, degne pertanto di celebrare la vergine celeste. L'Eterno Padre, essendo i tempi maturi al suo consiglio, invia Gabriele a recare il grande annuncio alla Venine, che ne resta in suo candore turbata; ma inchinatasi al divino comando, ecco una gran luce rischiarare l'umile stanzetta; la natura sospende per un attimo le sue leggi e l'arcano concepimento si compie. La commozione pervade anche gli antri inferni, ove Davide viene vaticinando agli aspettanti i misteri dolorosi di Cristo (libro I). Maria si reca a visitare Elisabetta: poi, avendo Augusto ordinato il censimento (quale vanto latino nell'ampia elencazione dei cento popoli soggetti al fatale imperio di Roma!), Maria con Giuseppe si avviano al paese loro: ma giunti a Betlemme vi nasce il divino infante (libro II). La Letizia scende sulla terra: cori di angeli, canti di pastori tripudiano intorno al sacro presepio: da lungi il nume del Giordano, circondato dalle sue ninfe leggiadre, rievoca la profezia di Proteo: come un giorno le acque del suo fiume sarebbero diventate più famose del Nilo e del Tevere, per avere lavato le membra del Redentore. Con il presagio dei misteri gaudiosi di Gesù si chiude il "poema sacro" (libro III).
Poema sacro, essenzialmente lirico, e non epico: la cui forma essenziale è la contemplazione del divino mistero; donde una tensione spirituale per tutto il triplice inno, un'alta "tragicità" nel nobile dettato. L'umile candore del mito assume un fastoso splendore; il rimprovero mosso da Erasmo di avere contaminato il sacro col pagano doveva riuscire ingiusto e quasi incomprensibile alla dotta pietà di Sincero e dei suoi eguali, per i quali la visione classica della bellezza era divenuta la forma stessa del loro spirito, che non poteva esprimersi altrimenti che per essa.
Ediz.: Opera latine scripta, Padova 1719, a cura dei fratelli Volpi; più ricca la raccolta, a cura di I. Bronkhusius, Amsterdam 1728. - Le Opere volgari, Padova 1723, pure a cura dei Volpi, con ricche annotazioni e la biografia del cinquecentista G. B. Crispo. Un manipolo di quaranta lettere ha pubblicato E. Nunziante in Un divorzio ai tempi di Leone X, Roma 1887. L'editio princeps dell'Arcadia è quella a cura di P. Summonte, Napoli 1504; il cui testo è fedelmente riprodotto dall'ediz. Utet, Torino 1926; poco utile l'edizione di M. Scherillo, ivi 1888. Delle Piscatoriae cfr. l'ed. a cura di W. P. Mustard, Baltimora o i volgarizzamenti di L. Grilli, Città di Castello 1899, e di G. Castello, Milano 1929. Cfr. infine: F. Scolari, Le opere latine di A. S. Sannazaro recate in versi italiani, Venezia 1844..
Bibl.: Gli studî biografici più recenti sono indicati da G. M. Monti, in Archivium Romanicum, XI (1927), p. 177 segg.; v. inoltre: E. Pèrcopo, Vita di I. S. (1894) edita postuma con aggiornamenti da G. Brognoligo, in Arch. stor. per le prov. napol., LVI (1931). V. anche V. Rossi, Il Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933, note al cap. IX. - Per l'umanesimo napoletano: E. Gothein, Die Culturentwickelung Süd-Italiens, Breslavia 1886 (trad. parziale ital. di T. Persico, Firenze 1915). Per il cognome: M. Zucchi, in Miscell. di storia ital., s. 3ª, XI (1906), contro l'opinione di chi volle raccostarlo ai Salazar di Spagna. Per Carmosina: E. Pèrcopo, Dragonetto Bonifacio, in Giorn. storico della lett. ital., X (1887), p. 206 segg. - Per G. Maio: id., in Arch. stor. per le prov. napol., XIX (1894), p. 470 segg. - Per la dimora in Francia: P. De Montera, in Études italiennes, n. s., II (1932), p. 133 segg. - Per lettere di ammiratori: id., in Miscell. Hauvette, Parigi 1934, p. 191 segg. - Per i rapporti con Isabella d'Este: A. Luzio-R. Renier, in Giorn. storico d. lett. it., XL (1902), p. 303 segg. - Per le predilezioni artistiche del S.: F. Nicolini, L'arte napoletana del Rinascimento e la lettera del Summonte a M. A. Michiel, Napoli 1925. - Per i rapporti con Cassandra Marchese: E. Nunziante, Un divorzio, ecc., cit.; M. Scherillo, in Giorn. storico della lett., ital., XI (1888), p. 131 segg. - Per la tomba: B. Croce, La tomba di I. S., ecc., Trani 1892 (poi in Storie e leggende napoletane, Bari 1919). - Per l'iconografia: L. Venturi, G. P. de Agostini a Napoli, in L'Arte, XXI (1917); Pèrcopo-Brognoligo, Vita, p. 177 segg. - Per le "farse", G. M. Monti, nel cit. art. dell'Archivum Romanicum, ove se ne trovano i testi, e si riassumono le ricerche di F. Torraca (Studi di storia napoletana, XL, 1884) e di B. Croce (I teatri di Napoli, ecc., 2ª ed., Bari 1916). - Per gli gliommeri: F. Torraca, in Giorn. storico d. lett. it., IV (1884), p. 209 segg.; B. Croce, in Arch. stor. per le prov. napol., LVI (1931), ove se ne pubblica uno in latino. - Per le date di composizione: E. Carrara, in Bull. della Soc. filologica romana, VII (1905), p. 25 seg. - Per le derivazioni letterarie: F. Torraca, La materia dell'"Arcadia", 1888, e l'introduz. di M. Scherillo alla citata ed. - Per il suo significato nella tradiz. bucolica: E. Carrata, La poesia pastorale, Milano 1909. - Per la sua fortuna: F. Torraca, Gli imitatori stranieri dell'"Arcadia", 1882 (poi in Scritti vari, Milano 1928). - Per una più intima ricerca della "poesia" nell'Arcadia: G. De Lisa, L'Arcadia del S., Salerno 1930; F. Flora, I. S., in Pègaso, II, ott. 1930; B. Fattori, Preludio a un centenario, in Convivium, II (1930); E. Carrarta, I. S., in Atti d. Accad. degli Arcadi, 1931. - Per le poesie latine: A. Sainati, La lirica latina di I. S., in La lirica latina del Rinascim., Pisa 1919; id., I. S. e Ioachim du Bellay, ivi 1915; B. Croce, La poesia latina del Rinascim., in La Critica, XXX (1932), p. 332 segg. (donde sono tratte le parole virgolate nel testo). - Per le Piscatoriae, W. Zabughin, Virgilio nel Rinascim. ital., Bologna 1923, I, p. 236 segg. - Per il De Partu Virginis: N. Di Lorenzo, Il De P. V., Pistoia 1900; W. Zabughin, Storia del Rinascim. cristiano, Milano 1924, p. 239 segg.; G. Calisti, Il De P. V., saggio sul poema sacro nel Rinascim., Città di Castello 1926; id., Autografi e pseudo-autografi del De P. V., in Giorn. storico d. lett. it., CII (1933), p. 48 segg.