VAGNUCCI, Iacopo
VAGNUCCI (Vannucci), Iacopo (Giacomo). – Secondogenito di Francesco, facoltoso mercante di lana che operava in società con il fratello Angelo, nacque a Cortona nel 1415-16, come si evince da una denuncia paterna resa al catasto fiorentino nel 1428. Attalmente resta sconosciuto il nome della madre.
La famiglia – il cui cognome deriva dal nomignolo di Giovanni detto [Gio]Vagnuccio, padre di Francesco – risiedeva nel terziere di S. Vincenzo, nella parte bassa della città, ma la tomba terragna dei due fratelli lanaioli si trova, ancora oggi, ai piedi dell’altare maggiore della chiesa di S. Francesco, mentre in tutte e quattro le principali chiese mariane di Cortona (la pieve di S. Maria poi duomo, la distrutta chiesa dei Servi, il Calcinaio e S. Maria Nuova) la casata ebbe il patronato di altrettante cappelle insignite di pregevoli opere d’arte: non per nulla, il filone francescano e quello mariano caratterizzarono in modo ricorrente l’esistenza e il mecenatismo del nostro.
Trascorsi alcuni anni di baccellierato a Perugia, ospite della famiglia dei Veli, e dopo nove mesi di ritiro nel monastero dei frati gesuati a Città di Castello, il giovane si portò a Firenze, presumibilmente intorno al 1436, richiamato dal soggiorno del papa ‘esule’ Eugenio IV Condulmer (in Toscana dal 1434 al 1443), ma soprattutto dalla presenza di un personaggio che fu determinante ai fini del suo inserimento nella corte pontificia: lo zio paterno fra Niccolò Vagnucci, priore della certosa fiorentina di Monte Acuto (1434-59), nonché intimo del confratello Niccolò Albergati, cardinale e vescovo di Bologna, e di Tommaso Parentucelli da Sarzana (futuro papa Niccolò V), segretario e familiare di Albergati. I tre religiosi erano appena rientrati da una legazione pontificia che, nel 1434-35, li aveva condotti in Francia e in Inghilterra, nel vano tentativo di porre fine alla guerra dei Cent’anni. Entrato nella casa di Albergati, sì da stringere con il sarzanese «un legame che si sarebbe rivelato denso di conseguenze» (Caracciolo, 2008, p. 24), Iacopo ne divenne l’auditore a Bologna, dove intanto poteva addottorarsi in utroque iure nella rinomata università cittadina e, contemporaneamente, seguire da vicino le traversie di papa Condulmer (dal suo arrivo nella città emiliana nell’aprile del 1437 alla convocazione a Ferrara del Concilio dei Greci, aperto proprio da Albergati nel gennaio del 1438). Vagnucci tornò a Firenze presso la corte entro il 1443, quando ottenne un canonicato coll’espettativa nel duomo di S. Maria del Fiore, nonostante già esercitasse, quale suo primo incarico in seno alla Curia, l’ufficio di registratore delle suppliche; il 1443 è anche l’anno in cui Eugenio IV decise di rientrare nella capitale pontificia (in marzo): è assai probabile, pertanto, che il cortonese accompagnasse la famiglia papale nel suo trasferimento a Roma, durante il quale il cardinale Albergati, caduto gravemente malato a Siena, mandò a chiamare lo zio di Iacopo, desiderando l’amico certosino al proprio capezzale e chiedendo di essere tumulato proprio nella certosa di Firenze (la stessa scena si ripeterà, nel 1455, alla morte di Niccolò V).
Nella capitale pontificia la carriera ecclesiastica di Vagnucci procedette, di carica in carica, parallelamente a quella di Parentucelli che, nominato vescovo di Bologna (1444), quindi asceso improvvisamente al soglio papale dopo appena tre mesi di cardinalato (1447), fece di Iacopo prima il suo auditore (nonché maestro del registro) e in seguito il suo cubiculario (nonché chierico di Camera), per poi elevarlo al vescovato di Rimini il 14 giugno 1448. L’esperienza riminese di Vagnucci, tuttavia, durò meno di un anno, poiché ben presto egli fu costretto a restituirsi alla corte pontificia, dove l’attendevano gravose mansioni di governo: luogotenente della Camera apostolica e vicecamerlengo (1449-52), ambasciatore e poi governatore a latere a Bologna (dove fu chiamato a gestire una delicatissima situazione politica alla fine del 1449), commissario del Patrimonio ecclesiastico (1450), comandante delle truppe pontificie (1451), tesoriere papale (1452-56).
Nel frattempo, il 27 ottobre 1449, Niccolò V aveva trasferito Vagnucci alla sede vescovile di Perugia, certo assecondando un desiderio del suo protetto, ma ancor più cogliendo l’opportunità, attraverso un episcopato forestiero e super partes, «di svincolare il seggio vescovile dai contenziosi locali e di rafforzare sulla città il dominio assai traballante della Curia romana» (Caracciolo, 2008, p. 27). Se l’investitura di Vagnucci era stata repentina, ad appena tre giorni dalla morte del suo predecessore (un Baglioni, la famiglia dei ‘signori occulti’ di Perugia), non avvenne altrettanto con la presa di possesso della nuova cattedra, avvenuta solo il 25 marzo 1456, quando la morte di Niccolò V e la successiva elezione del valenzano Callisto III Borgia (1455-58) comportarono un temporaneo allontanamento del cortonese dalla Curia (dove fu privato della carica di tesoriere), fattosi poi definitivo sotto il pontificato del senese Pio II Piccolomini (1458-64). Paradossalmente, infatti, Iacopo riuscì bene accetto persino al papa spagnolo (nonostante questi perseguisse una politica nepotistica ormai diventata un triste malcostume), ottenendo per sé l’ufficio di referendario, mentre il papa toscano, per quanto mantenesse con Vagnucci una certa familiarità basata anche sulla condivisione di analoghi interessi culturali, decise di non avvalersi della sua pluriennale esperienza e delle sue comprovate doti diplomatiche.
Diversamente, tra il 1458 e il 1460 si collocano due episodi che dimostrano «quanto Vagnucci fosse legato alla cara memoria del suo protettore e benefattore, il pontefice Niccolò V» (ibid., p. 33): dapprima, il 2 luglio 1458, il cortonese (rappresentato da un procuratore) fece dono alla propria città natale del Reliquiario Vagnucci (oggi conservato nel locale Museo diocesano), il cui piano iconografico e iconologico ruota tutto intorno alla figura di Parentucelli (di cui l’oggetto propone un ritratto fisiognomico che rappresenta un unicum nel panorama dell’oreficeria rinascimentale), finanche nella data che accompagna la dedica niellata alla base del tempietto esagonale, il 10 settembre 1457, festa di S. Nicola da Tolentino; quindi, il 30 settembre 1460, Iacopo prese parte, nella cattedrale di Sarzana, alla cerimonia di consacrazione di una cappella intitolata a S. Tommaso apostolo e voluta dal cardinale Filippo Calandrini, fratello uterino di Niccolò V e vescovo di Bologna.
Significativo che il Reliquiario Vagnucci sia caratterizzato da «una presenza dilagante del blasone di famiglia» (ibid., p. 219), ripetuto tre volte e replicato, in modo criptico, altre sei volte (i piccoli orsi accovacciati agli angoli del tempietto): proprio Niccolò V, nel febbraio del 1450, aveva concesso il titolo gentilizio alla famiglia del vescovo, assegnandole il feudo nobile di Petrignano del Lago (Trasimeno), privilegio subito confermato dall’imperatore Federico III d’Asburgo (settembre), con la facoltà per i Vagnucci di fregiarsi di uno stemma nobiliare: un orso coronato dal vello aureo, rampante verso sinistra su sfondo ceruleo, recante nella zampa anteriore destra un mazzo di tre rose: probabili richiami alla località di provenienza della famiglia (attuale Ossaia [Orsaia], nei pressi di Cortona), ai tre figli maschi dell’avo Giovagnuccio (Francesco, Angelo e Niccolò) e alla dignità ecclesiastica del nostro (i colori delle tre rose – bianco, verde e rosso – dovrebbero infatti alludere all’ordine gerarchico delle tre virtù teologali, mentre la parola R-O-S-A potrebbe essere l’anagramma di O-R-S-A).
Nei sei anni di stabile residenza nella diocesi perugina (1458-64), Iacopo si distinse essenzialmente per due vicende: la soppressione dell’autonomia dello Studio e delle libertà studentesche (1459-62), anticipatrice della riforma di Paolo II del 1467, e la fondazione, con il concorso dei francescani conventuali, del Monte dei poveri o di pietà (1462), di cui assunse la difesa, nell’ambito del vivace dibattito sul tema dell’usura, attraverso un consilium intitolato appunto De usuris e dedicato allo stesso Paolo II (dunque composto sotto il suo pontificato, ma purtroppo perduto).
Nel 1460-63 Pio II, grazie al sostegno militare di Federico di Montefeltro, signore di Urbino, annientò il potere dei Malatesta in Romagna, assegnando ai propri nipoti i vicariati sottratti a Sigismondo Pandolfo e al fratello Domenico. Alla morte del papa senese, Senigallia, desiderando tornare sotto il dominio diretto della Chiesa, si diede spontaneamente al nuovo pontefice Paolo II che, nel settembre del 1464, nominò Vagnucci governatore di Fano e di tutta la Romagna: incarico che egli ricoprì per due anni esatti, fino al settembre del 1466, quando fu mandato a governare i distretti di Spoleto, Narni e Amelia. Nel primo caso Iacopo fu coadiuvato dal fratello minore Pierlorenzo, che esercitò le funzioni prima di podestà e poi di castellano della città di Fano; nel secondo, invece, ebbe l’onore di ospitare, prima a Spoleto e poi a Perugia, l’imperatore Federico III d’Asburgo (inverno del 1468-69), in viaggio in Italia per la seconda volta, dopo l’incoronazione del 1452.
A Perugia Federico III era accompagnato, tra gli altri, da un frate francescano, il cardinale neocreato Francesco Della Rovere, di cui è ampiamente noto il rapporto strettissimo intessuto con la città umbra e con il suo vescovo, già prima dell’elevazione al soglio pontificio con il nome di Sisto IV (1471-84) e, anche in questo caso, con la mediazione di un cardinale, Bessarione, protettore dei francescani: «si ripeteva, in definitiva, quanto già era accaduto nella prima fase della carriera ecclesiastica del Vagnucci, caratterizzata da un “triangolo” di relazioni molto simile (allora il cardinale era l’Albergati e il futuro papa il Parentucelli)» (Caracciolo, 2008, p. 41).
Cinque sono gli episodi significativi della fase sistina dell’episcopato Vagnucci: nel 1472 Iacopo presenziò ai funerali di Battista Sforza, moglie di Federico di Montefeltro, il quale di lì a poco (1474) avrebbe suggellato un’alleanza politica e matrimoniale con il papa Della Rovere; l’anno dopo rivestì un ruolo di primissimo piano nella vicenda del Santo Anello, una reliquia di grande valore economico (in quanto capace di suscitare un imponente turismo religioso), rubata da un francescano tedesco a Chiusi, portata a Perugia e lì rimasta per volontà del pontefice, nonostante le ripetute minacce belliche della repubblica di Siena; nel 1478, all’indomani della fallita congiura dei Pazzi, venne inviato a Firenze a mediare per la scarcerazione del cardinale Raffaele Sansoni Riario, nipote del papa, nella vana speranza che egli potesse far valere la grande stima di cui godeva presso la famiglia Medici; nel 1478-79 fu ancora vicecamerlengo della Chiesa, venendo lasciato quale «supremo reggitore della Città Eterna» (Mancini, 1897, p. 337) nel luglio del 1478, durante una breve assenza del pontefice; infine nel 1482, nominato arcivescovo Niceno (il titolo che fu di Bessarione), Iacopo ottenne di rinunziare alla diocesi perugina in favore del nipote Dionisio (Dionigi) di Pietro, che gli subentrò il 29 maggio di quell’anno, mantenendo il diritto di regresso nella sede rinunziata, oltre che garantendosi un terzo delle rendite provenienti dall’episcopato perugino.
Vagnucci si ritirò nei pressi di Corciano, nel castello della pieve di S. Giovanni detta comunemente la Pieve del Vescovo (in quanto dimora estiva dei presuli perugini), che negli anni aveva contribuito a restaurare e ampliare, facendone il nucleo centrale di un’azienda agricola di proprietà dell’episcopato (una vertenza tra Iacopo e il Comune di Corciano, conclusasi a sfavore del primo nel 1472, è relativa a un tentativo fallito di ampliare il piviere a spese della comunità locale).
Strategicamente a metà strada tra Cortona e Perugia, il luogo prescelto permetteva a Vagnucci di mantenere i suoi legami sia con la città natale, dove nel settembre del 1483 donò un secondo reliquiario (purtroppo perduto) alla chiesa di S. Maria dei Servi, sia con la patria d’elezione (aveva la cittadinanza perugina sin dal 1460), dove nel giugno del 1484 non poté mancare alla consacrazione in duomo della cappella di famiglia intitolata a S. Onofrio (‘nume’ tutelare della casata cortonese, in quanto patrono fiorentino dei tintori di lana), per la quale aveva commissionato al conterraneo Luca Signorelli la tavola oggi conservata nel vicino Museo capitolare.
Iacopo morì il 28 gennaio 1487, all’età di settantuno anni circa. Dalla pieve di Corciano, il corpo del prelato venne traslato provvisoriamente nell’oratorio di S. Bernardino a Perugia (adiacente al complesso dei francescani conventuali), dal quale, il 30 gennaio, fu portato in processione sino alla cattedrale di S. Lorenzo, per essere poi tumulato nella cappella di S. Onofrio. La solenne cerimonia funebre, con ampio concorso di popolo e autorità, venne presieduta dal nipote Dionisio, le cui spoglie, il 10 aprile 1491, avrebbero raggiunto quelle dello zio nel sepolcro pavimentale della cappella Vagnucci.
Tralasciando il tema dei frequenti rapporti che il cortonese intratteneva con alcuni tra i più insigni umanisti del tempo (Girolamo Aliotti, Bessarione, Flavio Biondo, Poggio Bracciolini, Ambrogio Massari, Enea Silvio Piccolomini, Giorgio Trapezunzio, Lorenzo Valla, Maffeo Vegio, Comedio Venuti ecc.), un discorso a parte merita il grande capitolo del mecenatismo artistico di Vagnucci, appassionato di tutte le arti, dall’architettura alla scultura, dalla pittura alla miniatura, dall’oreficeria all’arte vetraria. L’episodio più rilevante e conosciuto è, indubbiamente, quello della commissione della Pala di S. Onofrio (1483-84) per l’omonima cappella della cattedrale perugina (oggi cappella di S. Stefano, nella testata del transetto destro), primo capolavoro certo e conservato di Luca Signorelli, in cui compare un ritratto fisiognomico assai realistico del prelato (che presta il proprio volto alla figura di s. Ercolano, vescovo e compatrono di Perugia): l’opera ‘dialogava’ in maniera serrata con la soprastante vetrata, realizzata su cartoni di Bartolomeo Caporali (e oggi conservata in stato frammentario nel Sacro Convento di Assisi), «a formare uno dei progetti decorativi più vasti, organici e coerenti di tutto il Rinascimento non solo perugino» (Caracciolo, 2008, p. 18). Al 1474-78 risale il messale miniato (ms. 10) attribuito a Pierantonio di Niccolò del Pocciolo e custodito sempre nel Museo capitolare, dove anche si conserva un altarolo a sportelli dipinto da Niccolò del Priore e inglobante, nella parte centrale del trittico, la replica in stucco dipinto di un prototipo di Benedetto da Maiano di grandissimo successo (1491-92). Di recente, inoltre, è comparsa sul mercato antiquario fiorentino una cassetta a urna, finemente dipinta, recante lo stemma prelatizio di Vagnucci e un’iscrizione dedicatoria conchiusa dalla data 1462 (Tornabuoni Arte, 2017, pp. 92-95).
Per quanto concerne invece il settore dell’oreficeria, oltre allo splendido Reliquiario Vagnucci di Cortona (firmato e datato nel 1457 e comprendente un Cristo portacroce che Iacopo aveva ricevuto in dono dal marchese di Ferrara Borso d’Este, probabilmente durante il Concilio dei Greci), dobbiamo lamentare la perdita del citato Reliquiario dei Servi (1483), oltre che di una grande Croce d’argento già custodita nella sacrestia del duomo laurenziano (1462-63): il primo e la terza furono realizzati dal medesimo artefice, l’orafo Giusto di Giovanni da Firenze, forse appartenente a una famiglia di artigiani immigrati dalla Germania (Picciau, 2001), circostanza capace di spiegare, oltre a certi tratti stilistici transalpini, la scelta di affidare a un chierico-notaio della diocesi di Colonia la stipula dell’atto di procura che precedette la donazione del reliquiario alla città di Cortona (1458).
Oltre alle opere di sicura committenza Vagnucci ve ne sono molte altre che, più o meno indirettamente, possono essere ricondotte al mecenatismo dei due prelati cortonesi: il Monumento Baglioni di Urbano da Cortona nella controfacciata del duomo di Perugia (1451); le opere realizzate da Agostino di Duccio tra Perugia e Amelia (a partire dal 1457), qui certamente chiamato dal più anziano dei Vagnucci dopo che questi ebbe incontrato lo scultore fiorentino a Rimini nel 1448, quando il primo era vescovo e il secondo lavorava al Tempio Malatestiano; la perduta statua di Paolo II, fusa da Vincenzo Bellano per la facciata laterale di S. Lorenzo (1466-67); il coro ligneo della cattedrale, scolpito e intarsiato da Giuliano da Maiano e Domenico del Tasso (1483-91); l’altare della cappella del Santo Anello di Domenico Buglioni nella prima campata sinistra del duomo (1487-88).
Tutte le opere citate hanno un comune denominatore, ossia il fatto di essere state realizzate da artisti di provenienza o comunque di formazione toscana e, nel caso di Perugia, di essere state destinate al monumento cui Vagnucci riservò gran parte delle proprie energie anche finanziarie, la cattedrale di S. Lorenzo: un edificio che nell’ottobre del 1449, alla nomina vescovile del cortonese, era ancora un cantiere aperto che si trascinava stancamente da un secolo e mezzo, ma che il 10 febbraio 1487, a distanza di pochi giorni dalla morte di Iacopo, venne solennemente inaugurato dal nipote e successore Dionisio.
Fonti e Bibl.: G. Mancini, Cortona nel Medio Evo, Firenze 1897, pp. 336-338; M. Collareta, Il Reliquiario Vagnucci di Cortona, in Bollettino d’arte, XLIII (1987), suppl., pp. 87-96; M. Picciau, Giusto da Firenze, in Dizionario biografico degli Italiani, LVII, Roma 2001, pp. 380-382; R. Caracciolo, I. V., vescovo e committente d’arte nel secondo Quattrocento, Perugia 2008 (cui si rimanda per la rassegna delle fonti archivistiche e manoscritte e per la bibliografia precedente); G. Zamagni - A. Turchini, I vescovi di Rimini del secondo millennio. Stemmi, iconografia, profili, Cesena 2013, ad ind.; Il carteggio della Signoria fiorentina all’epoca del cancellierato di Carlo Marsuppini (1444-1453), a cura di R.M. Zaccaria, Roma 2015, ad ind.; R. Caracciolo, La prima e tarda attività di Luca Signorelli: nuove indagini e acquisizioni, Perugia 2016, pp. 24, 77 s., 89-91, 162-218, 297-318, 382-384, 391 s. (cui si rimanda per altri documenti e ulteriore bibliografia); M. Zanchi, Signorelli, Firenze-Milano 2016, pp. 15-19; Tornabuoni Arte. Dipinti e arredi antichi, Firenze 2017, pp. 92-95.