Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Duecento, per impulso determinante degli ordini mendicanti, si diffonde un nuovo genere di poesia religiosa in volgare, la lauda. Essa veicola anche presso un pubblico di laici illitterati, cioè ignari del latino, i fondamenti biblici e teologici della fede cristiana. Le laude vengono normalmente raccolte nei laudari, ad uso delle confraternite di Laudesi e Disciplinati. Il principale autore di laude del Duecento è il francescano Iacopone da Todi, che inserisce nei suoi testi molti elementi autobiografici; tra i laudografi del Trecento emerge invece il Bianco da Siena.
Francesco d’Assisi
Cantico di frate Sole
Laudes creaturarum
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale enallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960
Iacopone da Todi
Canzone sacra dialettale
Senno me par e cortisia
Senno me par e cortisia
empazzir per lo bel Messia.
Ello me sa sì gran sapere
a cchi per Deo vòle empazzire,
en Parisi non se vide
cusì granne filosafia.
Chi pro Cristo va empazzato,
pare afflitto e tribulato,
ma el è magistro conventato
en natura e ’n teologia.
Chi pro Cristo ne va pazzo,
a la gente sì par matto;
chi non à provato el fatto,
par che sia for de la via.
Chi vòle entrare en questa scola,
trovarà dottrina nova;
tal pazzia, chi non la prova,
ià non sa que ben se scia.
Chi vòle entrare en questa danza
trova amor d’esmesuranza;
cento dì de perdunanza
a chi li dice vellania.
Chi girrà cercando onore,
no n’è degno del Suo amore,
cà Iesù ’nfra dui latruni
en mezzo la croce staìa.
Chi va cercando la vergogna,
bene me par che cetto iogna;
ià non vada plu a Bologna
per ’mparare altra mastrìa.
Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Roma-Bari, Laterza, 1974
Nella sua Cronica, composta alla fine del Duecento, il frate francescano Salimbene de Adam ricorda come san Francesco fosse solito “cantare in francese le lodi del Signore”: questa breve annotazione documenta il graduale passaggio, avvenuto nel Duecento, dal canto liturgico in latino alle preghiere nelle varie lingue volgari.
Lo stesso Salimbene attesta di avere udito a Parma, durante il grande moto devozionale che gli ordini mendicanti promossero nell’“anno dell’Alleluia” (1233), la predicazione di fra Benedetto, un uomo semplice e pio che iniziava le sue celebrazioni con tre brevi invocazioni di lode, in lingua volgare, alle Persone della Trinità, subito ripetute dalla moltitudine di bambini che lo seguivano.
Un’altra grande manifestazione di religiosità collettiva si ha nel 1260, quando, sull’onda della predicazione del frate perugino Raniero Fasani, numerosi gruppi di devoti percorrono le città dell’Italia centro-settentrionale flagellandosi in segno di penitenza e cantando preghiere latine e volgari in onore di Dio e della Vergine Maria.
I laici iniziano anche a riunirsi in confraternite presso le chiese e i conventi: in Toscana e Umbria, ma anche a Bologna e a Imola, si diffondono le compagnie dei Laudesi, il cui compito è quello di officiare ogni giorno un servizio serale nel quale, insieme ad altre preghiere, si cantano laude alla Madonna e ai santi patroni della città. Più vasta, soprattutto dopo il moto del 1260, è la diffusione delle compagnie dei Disciplinati (detti anche Flagellanti o Battuti), che si estendono pure a nord delle Alpi.
I membri di queste confraternite svolgono di solito i loro incontri alternando momenti di aspra penitenza, come espiazione dei propri peccati e partecipazione alle sofferenze di Cristo, a momenti di preghiera, in cui si tengono sermoni di esortazione al pentimento e si recitano salmi e laude. Queste ultime assumono ben presto la forma della ballata, per lo più secondo lo schema detto zagialesco (con ripresa XX e strofe AAAX BBBX...), che esisteva peraltro già nella poesia religiosa mediolatina; minoritarie sono altre forme, come quelle del sirventese e della quartina di doppi settenari o di doppi quinari, mentre a partire dal Trecento si avranno anche laude in sesta e ottava rima.
Nel favorire la diffusione della lauda presso il pubblico dei laici devoti, i Francescani possono rifarsi direttamente all’esempio del loro fondatore san Francesco, a cui si devono non solo alcune poesie latine, ma anche le Laudes creaturarum (o Canticum fratris Solis), fra i primi testi poetici della letteratura italiana.
Le preghiere latine, tutte intessute di echi scritturali, sono soprattutto canti di lode: a Dio, alla Vergine Maria, alle virtù. Le Laudes creaturarum, composte secondo la tradizione nel 1224, sono una prosa ritmica assonanzata, modellata sui salmi 148 e 150 e sul cantico dei tre fanciulli rinchiusi nella fornace riportato nel Libro di Daniele (3, 51-90). Come il salmista, Francesco loda Dio per le sue creature: il sole, la luna, le stelle, il vento, il cielo, l’acqua, il fuoco, la terra. Lo loda però anche per l’esempio luminoso di coloro che nel suo amore trovano la forza di perdonare, sopportando la malattia e la tribolazione, e persino per “sora morte”, che non deve incutere timore a chi è vissuto nell’amore di Dio. La parola “humilitate”, che conclude il cantico, sottolinea a pieno il riconoscimento della grandezza del creatore che si manifesta nello splendore delle sue opere, e l’abbandono fiducioso alla sua volontà.
Iacopo dei Benedetti da Todi, detto Iacopone, è un giovane, ricco notaio, che dopo la tragica morte della moglie lascia la sua vita gaudente e le sue ricchezze, e per dieci anni vive da “bezocone”, elemosinando e sottoponendosi pubblicamente a prove umilianti. Nel 1278 viene accolto tra i frati minori, ed entra a far parte della corrente degli Spirituali, fortemente osteggiata negli ambienti della curia romana. Dopo la breve parentesi di Celestino V, il nuovo papa Bonifacio VIII inizia a perseguitarli apertamente. Alcuni di loro, fra i quali Iacopone, si uniscono allora ai cardinali Jacopo e Pietro Colonna dichiarando illegittima l’elezione di Bonifacio.
Il papa, però, dopo avere scomunicato i suoi avversari, assedia e conquista Palestrina, roccaforte dei Colonna (settembre 1298). Iacopone è incarcerato e supplica invano di essere liberato dalla scomunica. Assolto infine dal successore di Bonifacio, Benedetto XI, nel 1303, trascorre gli ultimi anni in un monastero di Clarisse.
Oltre che delle laude in volgare, Iacopone è ritenuto autore di alcune opere latine: un Tractatus sull’unione mistica, una raccolta di Dicta, alcuni inni e, forse, la celebre sequenza Stabat Mater dolorosa.
Sotto il nome di Iacopone circolarono fra Trecento e Quattrocento moltissime laude. Oggi gli studiosi tendono a riconoscergli la paternità di circa 90 testi (ma non sono mancati convincenti proposte di ampliare questo corpus). Il laudario di Iacopone non nasce nell’ambito di una confraternita: per questo, anche se non mancano componimenti con scoperte finalità parenetiche, vi si narra, anzitutto, un personale percorso di ascesi che si apre a un confronto diretto con la storia e la società.
Molte laude sono così legate al travaglio vissuto dagli Spirituali: l’epistola in versi inviata al neoeletto Celestino V (Que farai, Pier da Morrone); l’indomito autoritratto dal carcere (Que farai, fra’ Iacovone); l’invettiva contro Bonifacio VIII (O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo), ma anche le accorate richieste di essere liberato dalla scomunica, per il timore della dannazione eterna (O papa Bonifazio; Lo pastor per meo peccato posto m’à for de l’ovile) e il doloroso biasimo della corruzione in cui versa la Sposa di Cristo (Iesù Cristo se lamenta de la Eclesia romana).
Le fonti teologiche delle laude sono molteplici: alla Sacra Scrittura, filtrata anche attraverso la liturgia, si affiancano i più diffusi testi spirituali patristici e del monachesimo medievale.
Il plurilinguismo di Iacopone mescola dialetto umbro e latinismi, stilemi cortesi della lirica siciliana e termini tecnici della lingua giuridica, in una sintassi per lo più paratattica, secca e incisiva.
Al centro del laudario sta la contemplazione della Passione di Cristo, che è rappresentata distesamente nell’incalzante partitura dialogica di Donna de Paradiso, il più antico esempio di lauda drammatica. La vita di Gesù è lo “specchio de veretate” nel quale il peccatore vede la propria incapacità di corrispondere all’amore divino, e comprende che non può rinascere in Dio se non è morto in sé, “annichilato en tutto”. Ma la furia autodistruttiva che caratterizza alcune laude è in realtà un “vilar per nobelire”, progredendo nella via dell’amore-virtù. Su questa via non c’è spazio né per gli effimeri diletti dei sensi, né per le gratificazioni terrene che sembrano tentare anche i religiosi: Iacopone attacca così sia la scienza mondana, che rischia di fare smarrire al teologo francescano l’umiltà del “fratecello desprezzato”, sia l’ipocrisia di chi si mostra “allumenato de fore” solo per ricevere la lode dei confratelli. Molti testi assumono la forma di contrasto, tra il demonio e il religioso tentato, l’anima e il corpo, il vivo e il morto, l’anima e gli angeli, Gesù e il peccatore, la Vergine Maria e il suo devoto: vi si rivela una fede come tensione continua e mai completamente appagata, salda in se stessa, ma assediata ovunque da nemici e sempre bisognosa di essere confermata dall’alto. Se Francesco – l’unico santo celebrato da Iacopone – è il modello da seguire, per la sua perfetta adesione a Cristo, tra le virtù che guidano l’anima verso Dio emergono la Castità e la Povertà, con la quale, donando a Dio il proprio volere, si diventa possessori di ogni cosa, trasformandosi in “ennamorata cortesia”. Cristo, impazzito per amore dell’umanità, coinvolge l’anima nella sua santa pazzia, che è però la vera sapienza. È allora che lo stesso linguaggio poetico trascende necessariamente la dimensione umana, esprimendosi per grida e balbettii, “parlanno esmesurato / de que sente calore”. Al vertice di questo itinerario mistico c’è l’inabissamento nella carità di Dio: un amore così intenso che, anziché pace e dolcezza, procura tormento, senso di estraneità al mondo, espropriazione totale di se stessi.
Le laude di Iacopone, così come quelle di tanti altri laudografi a lui coevi e successivi, rimasti per lo più anonimi, venivano raccolte in manoscritti detti laudari, dove erano ordinate in sezioni tematiche. Mentre ci restano decine di laudari tre-quattrocenteschi, per il Duecento abbiamo un unico testimone completo: il codice 91 della Biblioteca Comunale di Cortona, appartenuto alla fraternita di Santa Maria delle Laude e contenente 45 testi, tutti (tranne uno) accompagnati dalla melodia su cui si cantavano. La silloge si apre con 16 laude mariane e comprende sezioni di testi dedicati a vari santi e alle principali festività dell’anno liturgico.
La nota dominante del Laudario appare quella dell’amore “gioioso” e “gaudïoso” attuato dal sacrificio salvifico di Cristo che ha riconciliato l’uomo con Dio; non mancano però neppure i temi penitenziali. Le laude, ricche di riferimenti alla Bibbia e all’esegesi patristica e medievale, rielaborano originalmente il linguaggio cortese della lirica d’amore provenzale, siciliana e siculo-toscana. Quattro testi, tra cui la celebre lauda mariana Altissima luce – col grande splendore, portano la “firma” del loro supposto autore, Garzo.
Accanto ai tanti testi anonimi ci restano, per il Trecento, numerose laude d’autore. Significativa appare la presenza di laici, solitamente cultori di lirica “profana”, che si cimentano col genere laudistico: Sennuccio del Bene, a cui si deve la lauda mariana La Madre Vergin dolorosa piange; Giannozzo Sacchetti e Neri Pagliaresi, che risentono fortemente della spiritualità di santa Caterina da Siena; Jacopo da Montepulciano. Compongono inoltre rime devote all’epoca molto diffuse, anche se non si tratta propriamente di laude, Antonio da Ferrara, Antonio Pucci, e Simone Serdini, detto il Saviozzo. Tra i religiosi si segnalano Ugo Panziera e il Bianco da Siena. Del primo, francescano laico, conserviamo alcune laude cristologiche, stilisticamente assai curate; il secondo, discepolo del fondatore dei Gesuati, Giovanni Colombini, è autore di un vastissimo laudario, in cui si alternano parafrasi scritturali, farciture di preghiere, ammonizioni morali, versificazioni di trattati mistici, dotti compendi di teologia e mariologia, prefigurazioni di realtà escatologiche, ardenti resoconti di un personale itinerario spirituale. Il Bianco mostra di avere assimilato a fondo la lezione di Iacopone, che viene però ricondotta a una forma più piana e accessibile.
Oltre alla lauda lirica ha larga diffusione la lauda drammatica, che darà poi origine alla sacra rappresentazione, mentre si diffondono anche poemetti in terza e ottava rima di contenuto devoto.