Vedi IASOS dell'anno: 1961 - 1961 - 1995
IASOS (v. vol. IV, p. 69)
Città della Caria sul fondo del golfo di Mandalya, quasi di fronte all'odierno porto di Güllük, non lontano dall'antica Bargylia (v.). Nelle piante più antiche e nelle carte nautiche la località è detta Asin Kale con riferimento al castello bizantino che la domina, e più tardi Asin Kurin. Il villaggio moderno sorto sulle antiche rovine è stato recentemente denominato Kiyikişlacik (Muğla). La città occupa una piccola penisola collegata da un istmo alla terraferma dove si trovano le necropoli; in antico era separata dalla costa da un canale navigabile (Strab., XIV, 658).
La tradizione la considerava colonia di Argo (Pol., XVI, 12), ma gli scavi hanno dimostrato che era abitata fin dal Bronzo Antico forse da tribù carie e che nel Medio Bronzo vi si doveva essere stabilito un emporio cretese, come nella vicina Mileto, poi sostituito da un insediamento miceneo. Il nome greco, di origine argiva, risale probabilmente a questo periodo, come confermerebbe la tradizione, riportata dallo stesso Polibio, dell'aiuto fornito ai coloni di I. dal figlio di Neleos, fondatore di Mileto, contro le popolazioni indigene. Dopo la caduta dei regni micenei l'elemento cario sembra riprendere il sopravvento e in seguito il sincretismo delle due etnie appare consolidato nel culto di Zeus Mègistos, che ebbe particolare rilievo tra il V e il I sec. a.C., e nella testimonianza di numerose iscrizioni che riportano nomi carii. Più collegata a Rodi e alle isole del Dodecaneso nel periodo geometrico, I. sembra seguire poi le fortune di Mileto passando, dopo la distruzione di questa città, nella sfera d'influenza di Atene. Nel 450 a.C. risulta fra i contribuenti della lega delio-attica per la somma di un talento, poi portata a tre. Dalla parte di Atene nella guerra del Peloponneso, viene occupata dagli Spartani nel 412; nel 405 Lisandro ordina di distruggere la città facendo uccidere o esiliare un gran numero dei suoi cittadini (Diod. Sic., XIII, 104, 7). Rioccupata con l'aiuto di Cnido e di Rodi nel 394, dopo la pace di Antalcida del 387 a.C. entrò a far parte della signoria di Hekatomnos e poi di Mausolo. Venne liberata da Alessandro Magno. Dopo alterne vicende sotto i regni dei suoi successori, nel 125 fu incorporata dai Romani, come tutta la Caria, nella provincia d'Asia. Prospera nei primi secoli dell'impero, subì probabilmente danni dalle incursioni degli Eruli, ma ebbe ancora un periodo di floridità nei primi secoli dell'impero bizantino.
Il sito di I. fu visitato da viaggiatori e studiosi del secolo scorso (Laviosa, 1976). Nel 1960 Doro Levi iniziò gli scavi.
L'area della città comprende la penisola, che in antico era un'isola, e sulla terraferma una zona di pianura che termina con un promontorio a strapiombo sul mare. L'isola si estende per c.a 1 km, quasi parallela alla costa e da questo lato le balze rocciose scendono dalla sommità fino alla stretta fascia costiera, come avviene anche sul lato opposto di terraferma. Fra questi due costoni un lungo golfo, chiuso da due moli, di cui quello E è sormontato da una torre bizantina, costituiva il «porto piccolo» che attraverso un canale si collegava a E al «porto grande». Le iscrizioni e le fonti ricordano due «mari» e la loro pescosità, che era una delle principali fonti di ricchezza della città insieme - almeno a partire dal periodo romano - al marmo rosso detto appunto «iasio». Verso la punta Ν dell'isola, dalla forma che ricorda un delfino (simbolo ricorrente sulle monete di I.), si trova l'unico tratto pianeggiante di una certa ampiezza, utilizzato dal Bronzo Medio in poi per la parte principale della città e, certo dal periodo ellenistico, ma probabilmente fin dall'età arcaica, destinato all'adora.
Dal lato della terraferma una fertile pianura, un tempo attraversata da un torrente, si estende a Ν verso le alture che la separano dal territorio di Didyma e a NE verso quelle che la dividono da Euromos e da Milasa. In questa pianura e sulle pendici del promontorio sono state collocate le necropoli, lungo le vie di accesso alla città.
L'alto promontorio, ora sovrastato dalle costruzioni abbandonate di un villaggio turistico che ne hanno mutato il profilo danneggiando anche resti antichi, ha una sommità a contorno irregolare, ma abbastanza pianeggiante, circondata per buona parte da un'imponente muraglia, la c.d. cinta di terraferma. Ben conservata soprattutto nei tratti Ν e O, cioè verso l'interno della chòra iasia, essa aveva indotto alcuni autori a pensare che la cinta fosse stata costruita per difendere solo questa parte.
La struttura si sviluppa per c.a 6 km seguendo la forma della collina su un percorso a denti e a rientranze, con torri semicircolari allungate dotate di finestre per proteggere le porte di accesso, scale che conducono al cammino di ronda, feritoie e postierle. Tutta l'opera è costruita in grossi blocchi di scisto locale, ma con accorgimenti che sembrano indicare l'urgenza dettata da un pericolo imminente.
La grande porta principale fiancheggiata da torri si apre nel tratto meno impervio del lato N, verso la chòra, come a voler facilitare un rapido ingresso di abitanti dei dintorni in cerca di rifugio.
Uno dei primi risultati degli scavi è stata invece la scoperta del tratto di muro, con postierle, sul lato E dominante il «porto piccolo», con una grande torre all'estremità, di cui si conserva la forma nella roccia appositamente spianata. Da qui si dipartiva un altro tratto di muro, quello meridionale, ora quasi completamente scomparso salvo che per i tagli d'imposta delle fondazioni. Questo tratto di muro verso il golfo potrebbe essere stato abbattuto di proposito, forse da Lisandro, perché non fosse possibile ricostruire rapidamente una difesa dal lato verso il mare. D'altra parte, che la cinta dovesse chiudere l'intera sommità e non lasciare scoperto proprio il lato più facilmente aggredirle sembra logico, a qualunque periodo si attribuisca questa fortificazione.
La datazione e lo scopo della cinta sono stati oggetto di molte ipotesi; è esclusa ormai quella che la considerava appartenente alla I. arcaica, per l'assenza di edifici pubblici, che sono invece tutti sull'isola, e per la scarsa densità dell'abitato costituito da costruzioni di tipo cario-lelego a pianta ellittica o da complessi di struttura molto semplice, riconducibili piuttosto ad accantonamenti militari che a case di abitazione civile. Restano le considerazioni basate sui dati dei saggi di scavo finora condotti, che la farebbero ritenere un'opera di difesa della fine del V sec. a.C., resa inutilizzabile poco dopo dagli Spartani, o le ipotesi di varí studiosi fondate sul tipo di architettura militare adottata, che la farebbero situare nel III o anche nel II sec. a.C., in connessione con le lotte tra i successori di Alessandro Magno.
Nella pianura erano visibili all'inizio degli scavi una necropoli con tombe a camera di età ellenistica e romana, che risaliva anche le prime pendici del promontorio, tratti più o meno conservati di un acquedotto romano, resti interrati di alcuni grandi edifici romani o bizantini (uno dei quali, il «Balik bazar» o «Mercato del Pesce», era anch'esso un monumento funerario circondato da un quadriportico) e, parecchio più a NE, un altro gruppo di tombe romane dominato dalla «Torre dell'Orologio». La scoperta casuale, nel taglio di due grandi pozzi per l'irrigazione, di alcune tombe sezionate e dei primi vasi diede inizio allo scavo di un'ampia necropoli del Bronzo Antico, di cui sono state messe in luce un centinaio di tombe, a cista o a cassone rettangolare o leggermente trapezoidale, in genere coperte da un unico lastrone. Eccezionalmente alcune avevano forma tondeggiante; la più grande, con un setto verticale che separava un'altra deposizione, è stata ricomposta nel museo di Smirne. Il defunto è in posizione flessa, con la testa a E e le braccia piegate dinanzi al viso. Per lo più accanto alla testa erano gli oggetti di corredo: numerosi vasi d'impasto, spesso con decorazioni geometriche incise o sovradipinte in bianco, alcuni interessanti vasi di marmo bianco probabilmente importati dalle Cicladi e qualche oggetto metallico in lega di rame e arsenico, in piombo o in argento. La necropoli, che ha dato le prime testimonianze dei contatti fra le Cicladi e l'Anatolia, è stata inquadrata nel Bronzo Antico II e potrebbe riferirsi a un piccolo insediamento (non ancora individuato) su una delle alture circostanti perché altre tombe simili sono venute alla luce in un saggio sull'isola, nella zona del Santuario detto di Artemide Astiàs, indicando forse, per quell'epoca, una distribuzione sparsa di piccoli gruppi di abitanti.
La fascia pianeggiante di terraferma sembra essere stata sempre destinata in prevalenza alle necropoli; sono state individuate tombe a cista di età geometrica, forse tracce di seppellimenti di età arcaica o orientalizzante obliterate da una piantagione recente di agrumeti, e soprattutto di età ellenistica come le due grandi tombe monumentali della zona S della necropoli preistorica, che contenevano alàbastra di gesso alabastrino, raffinate figurine fittili e soprattutto il noto tesoro di oreficerie (collane, bracciali, anelli, orecchini, laminette decorate a rilievo) della fine del IV - inizio del III sec. a.C.
Per l'età romana sarcofagi del tipo detto «a festoni», urnette, seppellimenti in anfore addossate alle tombe a camera più antiche e piccoli edifici funerarî, indicano il perpetuarsi dell'uso sepolcrale anche se ai margini si installarono in quest'epoca piccoli insediamenti agricoli, come quello proprio al di sopra della necropoli preistorica, o attività di tipo industriale.
In età bizantina si estendono sul lato E dell'area edifici di culto (come la grande basilica subito a E del Mausoleo del «Balik Bazar»), purtroppo di difficile esplorazione per il rapido estendersi del villaggio moderno in questa zona che aveva già molto alterato nelle sue linee distributive, faticosamente ricostruite in una minuziosa ricerca, la necropoli a camere, in genere a cella unica, quadrangolare, con copertura a botte, che risale su due file le prime pendici del promontorio, la «pittoresca città di sepolcri», come la definì il Guidi ancora nel 1924 e come in parte è stata intravista dai primi membri della Missione Italiana agli inizî degli anni '60.
Il più imponente e meglio conservato degli edifici di terraferma resta il Mausoleo del «Balik bazar», dove da anni si vanno raccogliendo le numerosissime iscrizioni restituite dagli scavi, i frammenti architettonici che non è stato possibile ricollocare in posto (come la ricostruzione di un tratto di frons scaenae del bouleutèrion), nonché alcune statue e frammenti di sculture. Il Mausoleo, datato al II sec. d.C. anche per confronto con una struttura simile di Side e con alcuni edifici siriaci, è formato da un cortile quadrangolare al centro del quale si elevava su un alto podio un piccolo tempio corinzio tetrastilo con cella poco profonda e ampio pronao: vi si accede da E con una gradinata, mentre nella parte posteriore si apre una porta che dà nella camera funeraria con banchine e nicchie lungo i lati e basse colonne che sostengono il soffitto corrispondente al piano del tempietto superiore. I quattro porticati che circondano il cortile sono ad arcate, ma solo quello occidentale conserva l'originaria copertura a volta in opera cementizia. L'accesso principale è al centro del portico orientale e dà in un ampio cortile; nella parete di fondo del portico settentrionale si apre un'esedra con al centro una piattaforma a gradini che conteneva una sepoltura; un'esedra corrispondente si apre nel portico meridionale. Altri vani sono addossati all'esterno dei porticati S, E e N.
Attiguo alla parete di fondo del portico occidentale è invece un tratto ben conservato dell'acquedotto romano che attraversa per c.a mezzo chilometro la pianura, seguendo un percorso abbastanza tortuoso, probabilmente condizionato da preesistenze ancora in buona parte da chiarire. È interrotto da due porte connesse con le due vie di transito, una proveniente da Dydima e l'altra da Milasa, che si congiungevano attraversando l'istmo all'altezza del castello medievale costruito sull'angolo nordoccidentale della cinta dell'isola. Qui doveva essere il punto di arrivo dell'acquedotto venuto a integrare le risorse idriche della città, quando il canale che prima la separava dalla terraferma doveva essersi lentamente riempito di sabbia e di detriti trasportati da un corso d'acqua a regime torrentizio che seguiva il fondo valle.
La città si trovava sull'isola ed era circondata, almeno dal IV sec. a.C, da una cinta di mura in bei blocchi bugnati con torri quadrate, più o meno sporgenti dal filo delle mura, poste a distanza irregolare e conservate in alzato soprattutto sui lati Ν ed E, o solo in fondazione come buona parte della cinta, che risulterebbe essere stata invece completa fino al 1886-1887. Probabilmente i filari superiori furono allora asportati per la costruzione di un molo a Costantinopoli, come i sedili della cavea del teatro, alcune sculture e molte iscrizioni, salvate dall'allora direttore del museo di Costantinopoli, Osman Hamdi Bey, e conservate in quel museo. Le porte sono due, la principale presso l'angolo NO della cinta formava un dìpylon fiancheggiato da due torri e immetteva dall'istmo direttamente nell'agorà, nel tratto finale del porticato O; l'altra sul lato E, verso il porto commerciale, conduceva al Santuario di Zeus Mègistos, uno dei cui hòroi è iscritto sulla parte liscia di un blocco dello stipite N, e ai vicini quartieri di abitazione. Rialzata in età bizantina, riutilizzando blocchi e iscrizioni che erano nel santuario per portare la soglia al livello più tardo, è ad arco e si collega con uno dei tratti di mura rifatti nella stessa epoca.
Un altro accesso si doveva aprire alle spalle del bouleutèrion, dove correva una strada, accesso bloccato alla fine del III sec. d.C., probabilmente dopo l'incursione degli Eruli, utilizzando blocchi di epistilio decorato provenienti da un propileo, anch'esso chiuso, al termine S della stoà occidentale. Questi accessi verso il «porto piccolo» sono stati forse sostituiti da un passaggio al termine del complesso costituito dal Santuario di Artemide, dove il muro di cinta sembra interrompersi. Un'altra porta si apriva probabilmente verso la punta S dell'isola, in diretta comunicazione con il grande propilo tetrastilo e la strada a gradoni, in parte coperta, che risaliva verso l'acropoli e che in età romana era fiancheggiata da ville, fra cui la «Casa dei Mosaici».
Data la conformazione dell'isola, con i lati lunghi formati da aspre balze rocciose che difendevano naturalmente l'acropoli, l'abitato si è esteso nelle fasce pianeggianti costiere a O e a E e soprattutto nel tratto di pianura più esteso a N-NE dove si trova l'agorà. Sul lato E, il pendio meno scosceso ha permesso il risalire a terrazze dell'abitato fin oltre alla quota del teatro. Questo lato che guardava verso il mare interno era anche il più riparato e forse quello di vita più intensa in connessione con il porto commerciale di cui sono ancora visibili (ma non scavati) attrezzature portuali e ampi magazzini. Domina la collina la mole del castello bizantino, con le sue torri, le due porte e la grande cisterna. La costruzione del castello, che reimpiega largamente blocchi antichi, rocchi di colonne, metope e triglifi probabilmente appartenenti a un tempio che si trovava sulla sommità dell'acropoli, ha causato la distruzione quasi completa dei resti più antichi di cui si distingue solo, impostata sulla roccia, la fondazione di un propileo che verosimilmente dava accesso al santuario. Sulla terrazza sotto il castello, al di sopra del teatro, un complesso formato da un triplice muro con lastroni e piccoli blocchi scistosi corre per quel tratto della sommità che non è protetto dalle balze di roccia e poteva essere servito da difesa o da muro di terrazzamento per ampliare la terrazza superiore, sulla quale tuttavia si sono trovati modesti resti di abitazione, simili a quelli delle tre piccole terrazze subito sotto al triplice muro, con strette vie che si inerpicano perpendicolari a esse. Sia che questi resti di abitato siano scomparsi per il franare dei muri lungo il pendio, sia per l'abbandono da parte degli abitanti scesi in età romana verso le terrazze inferiori di più comodo accesso, solo una parte dell'area è stata occupata fino alla fine dell'età bizantina da una piccola basilica a tre absidi del V-VI sec. d.C., con pavimenti a mosaico, che conservava l'iscrizione del presbỳteros Artemisios. Sulla sua parte centrale si è poi impostata, forse nel IX sec., una piccola chiesa quadriconca del tipo delle chiese di Cappadocia, con intorno tina necropoli con tombe a cista e alla cappuccina che dagli scarsi materiali sembra essersi protratta fino al X-XI sec. d.C. La fortezza bizantina potrebbe essere stata in uso anche in età selgiuchide, se non altro come punto di vedetta.
Qualche frammento di ceramica di età neolitica e calcolitica e una sacca di terra in un'anfrattuosità della roccia con frammenti risalenti al Bronzo Antico, indicano l'occupazione di queste pendici anche nella preistoria; per la prima Età del Bronzo frammenti ceramici si sono trovati anche nelle terrazze più basse e sul fondo del grande saggio stratigrafico presso la «Basilica Est», il che farebbe pensare a un abitato, con acropoli sulla sommità dell'isola e necropoli nella fascia ai suoi piedi. I numerosi saggi stratigrafici solo di rado hanno potuto essere approfonditi fino alla quota del Bronzo Antico per l'affiorare di una notevole falda freatica che ha spesso reso difficile lo scavo anche dei livelli del Bronzo Medio.
Al Bronzo Medio risale la prima urbanizzazione della città, come hanno dimostrato i tre grandi saggi stratigrafici nelle zone principali della fascia pianeggiante. Il saggio nell'agorà, che è il più esteso, ha messo in luce un incrocio di strade lastricate o acciottolate che delimitano edifici con zoccolo in pietra. In particolare, un edificio che si trova al centro del complesso finora scavato ha una pianta quasi quadrata di io m per lato, con muri divisori interni e zone lastricate. La: struttura possente dei muri esterni, soprattutto il muro N, a grossi blocchi triangolari con la base verso l'esterno e il paramento interno a pietre più piccole, muro lungo il quale corre un marciapiede in blocchi prospiciente l'acciottolato della strada, richiama la tecnica delle costruzioni minoiche cui riporta anche la pianta dell'edificio simile a quella di alcune grandi case di Mallia e della Messarà, discostandosi dalle coeve strutture anatoliche.
Dentro questi vani si è rinvenuto materiale di importazione cretese in ceramica fine dipinta o in impasto grezzo, come i pìthoi a cordonature orizzontali e oblique, le lucernette a vasca rotonda, gli incensieri e utensili di uso domestico come le pentole tripodate, le olle e le numerose coppette coniche. Verosimilmente non costituivano oggetto di commercio ma erano fatte in loco come altri vasi di argilla locale che imitano le forme e le decorazioni minoiche. L'insieme sembra indicare uno stanziamento stabile di genti cretesi, probabilmente del periodo finale del Medio Minoico, che hanno impiantato un emporio di appoggio ai loro traffici marittimi in questa località dagli approdi ben protetti dove si potevano convogliare merci (minerali, metalli ma anche grano e altri cereali) provenienti dall'interno. Con quello di Mileto e altri sulla costa e nelle isole di fronte a essa, che gli scavi recenti vanno delineando, essi dovevano costituire una rete di basi presso le quali le navi che venivano da Creta e dalle altre isole dell'Egeo potevano anche essere ricoverate durante i periodi non adatti alla navigazione o essere riparate in caso di necessità, usufruendo dell'abbondante legname delle montagne della Caria.
Questo abitato non sembra aver subito interruzione all'avvento dei Micenei. Alcuni muri più tardi, caratterizzati dalla presenza di ceramica micenea dal continente o dalle vicine isole del Dodecaneso, si sovrappongono ai primi senza sensibili variazioni nell'orientamento dell'abitato. Un brusco cambiamento sembra invece aver avuto luogo alla fine del periodo miceneo, anche se il terreno molto umido per l'innalzarsi e l'abbassarsi della falda freatica non ha permesso per ora di trovare le tracce di una distruzione violenta. Ma il cambio di destinazione dell'area, dove sui resti dell'abitato si sovrappongono piccole strutture circolari in una delle quali giaceva uno scheletro, indica l'insediarsi in questa zona di una necropoli che continua per tutto il periodo geometrico.
I materiali, ancora in corso di studio, ci permettono solo di accennare all'alternarsi assai suggestivo, e denso di interrogativi, di un centinaio di tombe: a cassone, fatte di lastroni di pietra con grandi lastre di copertura o piccole ciste di forma simile, tra le quali si inseriscono grandi pìthoi in terracotta deposti orizzontalmente, con la bocca chiusa da una lastrina di pietra. Alcuni pìthoi arrivano quasi a contatto dei lastricati minoici, o spezzano muri di tale epoca, sia perché deposti in fosse più profonde sia perché il terreno, a causa dell'accumulo dei detriti delle strutture più antiche, aveva assunto un andamento ondulato con avvallamenti e piccoli rilievi. Queste tombe, al contrario dei tumuli sub-micenei, sono ricche di materiali, soprattutto di vasi dipinti di forme e con motivi geometrici insieme a vasi di impasto che ricordano quelli preistorici; ma sono presenti anche bracciali e gioielli in bronzo e alcune armi in ferro.
La durata di questa necropoli, che è ancora da determinare, costituisce anche la fine di tale destinazione per l'area; nel periodo seguente, che corrisponde alla formazione della pòlis e all'influenza milesia su I., la zona aveva forse già la destinazione ad agorà che manterrà nei secoli seguenti. I resti per ora messi in luce, come una bella fontana in blocchi squadrati addossata a un grosso muro di contenimento, circa al centro dell'area finora scavata, e un'altra fontana simile più a O, un basamento quadrangolare e condutture di tubi/fittili non contrastano con questa ipotesi. All'estremità E dell'agorà si trova una struttura, probabilmente di età classica, in grossi blocchi ben lavorati, messa parzialmente in luce sotto l'angolo SE di una basilica paleocristiana; uno dei vani, con quattro basi per pilastri agli angoli, ha restituito un'eschàra e un imponente deposito votivo di laminette in piombo, prevalentemente a forma di doppia ascia o di disco con puntini a rilievo, che indurrebbero a ipotizzare un culto dello Zeus cario anche in questa zona.
Grandi edifici di età arcaica e classica dovevano essere attigui all'agorà; ricordiamo sul lato S le fondazioni di un edificio sacro della seconda metà del VI sec. a.C., a cui può essere appartenuta la lastra, ora nel museo di Milas, di un bel fregio tipicamente ionico con corsa di bighe reimpiegata nel muro di fondo dell'agorà romana. Altri muri del V e del IV sec. sono stati individuati in un saggio in profondità a SE del bouleutèrion, saggio che negli strati più profondi ha reso numerosi frammenti di ceramica orientalizzante fra cui la ben nota oinochòe di stile rodio-milesio. Ancora più a S, nel saggio davanti alle esedre della stoà di Artemide, sembrano trovarsi resti di abitato di tali periodi, posto forse al margine del témenos del santuario della dea. Meno indagati sono per ora gli strati profondi sui lati E e Ν dell'agorà; tuttavia in un saggio all'estremità NE subito fuori dal perimetro dell'agorà romana, che anche qui coincide con quello ellenistico, si sono ritrovati tratti di muri e di pavimenti del periodo arcaico.
L'agorà ellenistica, corrispondente alla ricostruzione di I. dopo la pace di Antalcida o dopo la ritrovata autonomia sotto Alessandro Magno, sembra aver avuto all'incirca le dimensioni di quella di età romana; sui lati Ν ed E è delimitata da un muro di blocchi bugnati, la cui parte superiore risale al periodo romano. Sul lato S un muro analogo, ma con molti rifacimenti, divide l'agorà dal témenos attribuito ad Artemide e prosegue poi nelle strutture di fondo del bouleutèrion più antico, mentre sul lato O il muro di fondo del portico O dell'agorà coincide con il tracciato del muro di cinta. Un pavimento più antico, a spina di pesce, individuato in un saggio sotto la stoà S, si riferisce forse a questa fase più antica nella quale dietro la frons scaenae del bouleutèrion era collocata la stoà di Posidone, ricordata dalle iscrizioni, poi forse inglobata nella struttura del porticato S. Così i due grandi ambienti dell'angolo SO, in uno dei quali si rinvenne il tesoro di monete d'argento (circa 3.000 antoniniani coniati tra Caracalla e Gallieno), si impostano su ambienti dell'agorà ellenistica.
Nella piazza dovevano trovarsi varî piccoli edifici fra i quali è stato recentemente identificato un naìskos di accurata fattura, parzialmente inglobato e rimpiegato nella basilica paleocristiana; un altro basamento rotondo, forse per una statua, e uno a pianta rettangolare si trovano nella zona SE. Più a S, un gruppo di piccoli basamenti con uno o due gradini ricordano strutture simili di Xanthos e potrebbero riferirsi a quel santuario delle divinità indigene ricordato da un'iscrizione trovata anch'essa nell'agorà. Sotto al lastricato di fronte a uno di essi furono trovate due stipi colme di lucerne e di vasellame fine da mensa del I sec. a.C., sigillate, a giudicare dai materiali, all'inizio dell'età augustea.
A rifacimenti dell'agorà in questo periodo sembrano riferirsi rilievi con figure o con fregi vegetali, come quello con ghirlande e bucranì rinvenuto in più blocchi negli scavi del portico E, non lontano da un supposto heròon e dalla presunta porta E. La ristrutturazione monumentale dell'agorà risale a un periodo di particolare floridità per I. come per molte altre città dell'Asia Minore, cioè all'età di Adriano e Antonino Pio. I quattro porticati dell'agorà, come attestano le due monumentali iscrizioni sull'epistilio del porticato E, e buona parte del lastricato del piazzale, vennero rifatti in marmo bianco probabilmente importato come quello dei fregi decorati e delle cornici soprastanti che sembrano opera di scultori provenienti dalla scuola di Afrodisiade. I portici Ν e S sono doppi, con un colonnato centrale che reggeva il tetto, quelli E e O sono semplici e danno accesso a edifici legati ad attività dell'agorà, come l’agoranòmion, o a sedi di culto come il supposto «Cesareo» all'estremità SE, con ingresso a tre archi di cui quello centrale più alto, forse poi connesso al culto delle divinità egizie menzionato da alcune iscrizioni.
La decorazione marmorea, dono di due ricchi cittadini di I. forse non più residenti nella piccola città caria, Dionisio figlio di Teofilo e Ierocle figlio di Argeo, era dedicata ai due imperatori, ad Artemide Astiàs e alla «dolcissima patria lasos». Essa consisteva nei colonnati, con gli stilobati e i capitelli corinzi, negli architravi iscritti sul lato E, lisci nella parte finora scavata di quello Ν e forse ancora iscritti sul lato S (come testimonierebbe il frammento di una terza dedica), nel ricco fregio a girali di acanto con al centro protomi animali o busti di putti, intramezzate da figurette stanti, nelle cornici con dentelli, fregi di ovuli, palmette e teste leonine. L'opera, datata tra il 136 e il 138, non fu forse interamente compiuta a causa del terremoto del 140 d.C. o dovette essere parzialmente restaurata dopo questo evento.
Nel muro di fondo S dell'agorà una grande porta immette nel Santuario ipoteticamente attribuito ad Artemide Astiàs, la protettrice della pòlis, che sembra aver avuto particolare importanza in età arcaica e di nuovo nel periodo imperiale romano. L'area è formata da un ampio períbolo rettangolare delimitato da due stoài doriche chiuse in fondo da tre maestose esedre che risalgono al rifacimento dell'età di Commodo, offerto, come ricorda l'iscrizione che corre sulla loro facciata, da un cittadino iasio (di cui manca il nome) ad Artemide Astiàs e all'imperatore, per commemorare il defunto figlio Diokles, nominato stephanephòros. L'iscrizione e la vicinanza all'agorà sono gli unici elementi su cui poggia per ora l'identificazione di questo santuario, ricordato dalle fonti. La leggenda riportata da Polibio (XVI, 12,4) dice che era ipetrale, il che potrebbe giustificare la mancanza di strutture all'interno sinora osservata. Risale infatti a età ellenistica il piccolo tempio in antis posto quasi al centro del períbolo, che è stato attribuito ad Apollo il cui culto è spesso associato a quello di Artemide, perché lo stephanephòros eponimo era quello di Apollo ed è spesso menzionato nelle iscrizioni. Due grandi statue acefale rinvenute in esso possono far pensare che vi sia stato associato in età romana il culto imperiale.
Sempre sul lato S dell'agorà si trova il bouleutèrion del I sec. d.C. con rifacimenti, soprattutto della frons scaenae, della metà del II. L'edificio, ben conservato e in parte restaurato dopo gli scavi, ha pianta rettangolare e racchiude una gradinata divisa in tre kerkìdes aperta verso il proscenio alla stessa quota dell'orchestra. Si conservano nove gradini inferiori al di sopra dei quali correva il diàzoma, e le fondazioni degli ordini superiori. Un ambulacro a ferro di cavallo sotto alla cavea, due gradinate esterne e varí passaggi interni costituivano gli accessi. L'orchestra è pavimentata in marmi colorati, il frontescenio era a duplice ordine di colonne sul podio, edicole e tre porte.
Del bouleutèrion si vedeva all'inizio degli scavi solo la sommità del muro di fondo, bruciacchiata dall'incendio dei rovi e delle sterpaglie fatto appiccare dal Texier alla metà del secolo scorso per fare un rilievo dei resti della città, mentre il teatro del IV sec. a.C., che domina le pendici E, è stato sempre visibile e infatti ne sono stati interamente asportati i gradini di marmo. Circondato da un imponente muro di anàlemma a grossi blocchi bugnati intervallati da tre fasce di conci lisci (su uno dei quali l'iscrizione di Sopatros con dedica a Dioniso e alla cittadinanza iasia dà notizia del restauro avvenuto alla metà del II sec. a.C.), è rinforzato da due contrafforti sul lato SE, dove una scalinata sale fin quasi alla summa cavea, ed era accessibile oltre che dalle pàrodoi anche da un piazzale in alto, verso SO, che dava accesso alla summa cavea dal quartiere soprastante. La fronte della scena originaria è costituita da due corpi allungati con tre porte che comunicano con i vani retrostanti della skenothèke·, il proscenio romano fu invece avanzato fino a raggiungere l'altezza degli spigoli interni delle pàrodoi e decorato con tre nicchie separate da porte e fiancheggiate da pilastri; il tavolato del palcoscenico era retto da due file di colonnette, alcune sostituite da pilastri recanti iscrizioni relative ai contributi per gli spettacoli.
Ai lati del teatro si estendono quartieri di abitazione disposti su terrazze divise da una strada, più volte rimaneggiati dal VI sec. a.C. fino all'età imperiale. Un alto terrazzamento più in basso arriva fino alla fascia pianeggiante dove si trovavano di nuovo edifici di uso pubblico, come un ampio peristilio che ha su un lato una fontana, alle strutture del quale si sovrappone a E un complesso di ambienti attigui a una grande sala absidata. Esso ricorda come impianto l'Episcopio di Mileto ed era forse la residenza dei vescovi di I. che dal V all'VIII sec. d.C. parteciparono a varî concili.
Verso N, gli ambienti di età bizantina (sotto ai quali una serie di saggi in profondità ha messo in luce il sovrapporsi di strutture dal periodo romano all'Età del Bronzo) si sovrammettono alla parte finora scavata del Santuario di Zeus Mègistos, l'altro grande santuario attestato a I., delimitato dallo hòros iscritto sulla porta E della cinta. Ne è stata per ora scavata solo una parte che dalle iscrizioni appare dedicata, forse in un secondo tempo, anche al culto di Hera. In un piazzale lastricato delimitato da basi per dediche e iscrizioni si trova un elegante tempietto in antis di marmo, probabilmente un thesauròs. Tra gli ex voto si è salvato, perché nascosto tra una base e il muro di fondo, il torso di un kouros attico databile intorno al 520 a.C. Ai piedi del basamento, addossato alla parete del thesauròs e sotto al suo pavimento, più volte rifatto per successivi allargamenti, è stata scoperta la stipe più ricca di statuette, maschere fittili, vasi in ceramica che vanno dal VI sec. all'età ellenistica, fra cui un orlo di cratere attico con una lunga iscrizione caria. Il vasellame di alta qualità e di provenienza vaiiia indica la diffusione del culto di Zeus, che probabilmente succede a quello di una divinità femminile arcaica, forse poi assimilata a Hera.
Varî altri edifici non ancora scavati, fra cui un'interessante struttura quadrilobata di età bizantina, si trovano nel tratto di pianura tra il Santuario di Zeus e l'agorà e altri, meno conservati, tra quello detto di Artemide e la punta S dell'isola. Qui è stato scavato sull'ultima delle terrazze che digradano verso la punta il terzo santuario, attribuito a Demetra e Kore per la particolare struttura e per la quantità di statuette votive di idrofore, di coppie sedute di divinità femminili, e di ex voto a forma di pani, fiori e frutta. Al VI sec. a.C. risale l'eschàra, trovata piena di lucernette, e due ambienti a essa collegati poi inclusi, nella ricostruzione del IV sec., in una struttura quadrangolare più vasta, contenente una stoà e alcune stanze, con ingresso da N. Il culto sembra durare fino all'inizio dell'età imperiale, quando tutta la zona è stata occupata da un quartiere residenziale costituito da ville, la meglio nota delle quali è stata chiamata «Villa dei Mosaici». La pianta di questo complesso, che conserva elementi di tradizione ellenistica, come la pastàs aperta a Ν su tre stanze intercomunicanti con pavimenti a mosaico e collegata a O ad altri vani che conservano parte delle pareti affrescate, è arricchita da un grande peristilio su cui danno l'ingresso e altri vani decorati a mosaico. Un'altra casa signorile, sul livello più alto, ha resti di pareti dipinte.
Non sono stati identificati per ora edifici di età bizantina in questa parte dell'isola; diversamente sono numerosi sui lati E e Ν e sulla terraferma. Tra le basiliche ricordiamo lo scavo recente di quella sul lato E del piazzale dell'agorà: l'edificio a tre navate con nartece e annessi, del VI sec. d.C., riutilizza, oltre al naìskos già citato, blocchi e iscrizioni dell'agorà romana e ingloba un martỳrion più antico, probabile prima sede del culto cristiano. Distrutta questa basilica, il culto si restringe nella parte absidale della navata centrale, in un piccolo sacello, anch'esso absidato, con iconostasi marmorea e resti di affreschi con figure di Santi. Tutt'intorno un sepolcreto, con tre livelli di inumazioni, continua quello che già circondava la basilica più antica; gli oggetti di corredo vanno fino all'XI-XII sec. d.C., cioè fino al ritiro dell'impero di Bisanzio da queste regioni di fronte alla pressione selgiuchide.
I materiali provenienti dagli scavi di I. sono conservati nel museo di Smirne, per le prime quindici campagne, poi in quello di Bodrum e negli ultimi anni nel museo di Milas. È in corso di allestimento, con la partecipazione del Governo turco, un museo all'ingresso del sito, nel quadriportico del «Balik bazar».
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(C. Laviosa)
Il territorio di Iasos. - Dal 1988 è in corso una ricognizione archeologica, a cura di una missione italiana, che ha rimodellato la tradizionale idea di I. come città esclusivamente marittima (Strab., XIV, 2, 21). I., infatti, arrivò a controllare un ampio tratto dell'attuale golfo di Mandalya, ovvero la sponda settentrionale del Güllük Körfezi e il Çam Limam. Il confine verso l'entroterra era forse costituito dal crinale della catena del Grion - culminante nelle sommità del Paşali Dağ e del Karaoğlan Dağ - oltre la quale si stende la piana dell'attuale Ova Kişlacik, che spettava però con ogni probabilità a Chalchetor o a Euromos.
Zona di assodata pertinenza iasia, invece, erano ancora le cave del marmo omonimo, note dalle fonti e ora localizzate sull'Arigedigi Tepe, e di conseguenza la sponda sottostante del c.d. Mare Piccolo. Alessandro Magno, infatti, aveva risolto in favore di I. una (si presume) secolare vertenza con Bargylia a proposito di questo pescosissimo braccio di mare oggi trasformato dal meandrismo nella pianura di Alici e nella foce paludosa del Sari Çai, l'attuale Hocat Golii. A E la penisola che divide il Çam Limani dal Kazikli Limani doveva appartenere a I. perlomeno nel versante verso la baia di Alagün. È però difficile pensare che l'esigua lingua di terra fosse spartita lungo la linea del crinale con la città vicina, l'abitato antico oggi Kazikli (salvo scoprire che anche questo rientrava nel territorio di I.): è più probabile pertanto che il confine corresse più a N.
Nello studio dell'assetto urbano si è già trattato delle mura che difendevano l'abitato di I., ancora nel suo originario assetto di isola, e delle c.d. mura di terraferma, che cingono il Koilük Kalesi, una propaggine collinare immediatamente a O. Il territorio, a sua volta, era controllato da alcune fortezze dislocate sulle sommità delle colline a Ν della piana di lasos. Domina fra tutte la fortezza di Zindaf Kaie, che presenta almeno due fasi costruttive e tracce di un'occupazione stabile e prolungata nel tempo. A pianta irregolare e allungata come la sommità che la ospita, con i lati lunghi sostanzialmente paralleli e i lati corti arrotondati, la cinta è costituita da muratura a secco di pietrame di medie dimensioni, costruita con buona cura.
Il circuito attualmente visibile è costituito da tratti murari interrotti da risalti tanto modesti (mediamente m 0,90) che non sembra possano configurare veri e propri bastioni. Da notare l'originaria assenza di torri lungo il circuito, salvo, forse, due a guardia della porta orientale. In un secondo momento il lato occidentale fu rinforzato mediante l'aggiunta di almeno tre, forse quattro, poderose torri in rozza opera quadrata. All'interno del circuito, resti di strutture murarie orientate prevalentemente in senso parallelo all'asse maggiore della fortezza. Dall'area della fortezza proviene un frammento della testa di un kouros databile intorno alla metà del VI sec. a.C. Il materiale ceramico di superficie è per lo più di età ellenistica e tardoellenistica (anfore egee con ansa a doppio bastoncello). La presenza di ima calcara, e qualche frammento di ceramica gialla invetriata attestano la frequentazione medioevale del sito. L'assenza di particolari accorgimenti difensivi farebbe propendere per una datazione relativamente alta, non lontana da quella del kouros, dell'impianto della fortezza.
Un altro recinto fortificato, più piccolo e più rozzo, è mal conservato sulla sommità del Çanacik Tepe. Sono state inoltre segnalate, ma non ancora indagate, altre opere di fortificazione.
Innervava il territorio un sistema viario fortemente condizionato dall'orografia: percorso fondamentale è quello che attraversava la Kurin Ovasi in direzione NE, ovvero verso Didyma e Mileto. Questo percorso, costeggiato da tombe, edifici e cisterne, giunto al passo di Samicboğaz si biforcava verso l'abitato sul sito di Alagün, servendo insediamenti e ville rustiche.
Fra i tracciati secondari si segnala quello che legava la città al santuario del Çanacik Tepe: nel suo primo tratto attraversava in direzione Ν la piana alluvionale coltivata, immediatamente limitrofa alla città; giunto alle falde della collina toccava una fonte di acqua lievemente salmastra, originariamente monumentalizzata, manomessa ora per i lavori dell'acquedotto di Kiyikişlacik. Ai piedi della collina il percorso attraversava un'importante necropoli, che presenta una singolare mescolanza di tipologie: tombe rupestri (a pozzetto, a pseudo dolmen), tombe ad arcosolio, tombe monumentali (come la «Torre dell'Orologio», interessante sepolcro a due piani del tipo a edicola, e una sorta di basilichetta adiacente); toccava poi almeno un abitato abbastanza cospicuo prima di raggiungere il santuario extraurbano situato a mezza quota del versante meridionale del Çanacik Tepe. Di importanza non solo locale (vi sono state rinvenute monete argentee di Rodi, Alicarnasso e Myndos), il santuario si strutturò in epoca probabilmente remota intorno a una cavità naturale, racchiusa poi da un òikos a tre vani e vestibolo. Ostruita in seguito l'imboccatura del bòthros, nel vano centrale si installò il gruppo cultuale marmoreo raffigurante una dea in peplo stante tra due arieti. All'edificio di culto era coordinato un fabbricato a forma di L, composto di tre vani, evidentemente di servizio. Le strutture sono probabilmente posteriori all'installazione della statua, che è per ora il reperto più antico, datata al secondo quarto del III sec. a.C.; i materiali scendono fino agli inizî del III sec. d.C. È possibile che dal santuario un percorso di crinale portasse fino a Zindaf Kale, come testimoniano i c.d. recinti lelegi lungo il tracciato supposto, e la presenza di una porta della fortezza aperta in questa direzione.
Non sono stati identificati percorsi costieri: è d'altronde normale che un cabotaggio piccolo e medio svolgesse il grosso del traffico litoraneo. Anche il trasporto dei marmi dalla cava del Grion doveva avvenire per rotolamento fino al sottostante «mare piccolo», e poi via mare fino in città, ai laboratori o all'imbarco per ulteriori destinazioni.
E stato sinora accertato un solo insediamento importante nel territorio iasio ed è l'abitato per ora anonimo nel golfo di Alagün. A predominante facies bizantina, ha restituito materiale risalente fino all'ellenismo (importante rilievo con personificazione di Artemide in anakàlypsis, dinanzi a un pilastro che sorregge una statua di culto, che sembra ripetere il tipo della dea del Çanacik Tepe); si segnala inoltre la presenza, nelle immediate vicinanze, di tombe a cassa in lastre di scisto, con materiale ceramico di impasto e lavorato a stecca.
L'abitato si adagia essenzialmente sul lato O di una baia, che mostra imponenti installazioni portuali: una diga foranea che unisce alla punta O della baia l'isola antistante; tracce di banchine sulla sponda E, e probabilmente un grande bacino regolarizzato artificialmente e oggi interrato. L'esistenza di questo bacino giustifica la presenza di due impianti termali, attualmente distanti un centinaio di metri, che dovevano essere separati in antico dal canale di accesso al bacino più interno. Numerose sono le chiese bizantine, alcune di notevoli dimensioni, la cui originaria ricchezza è testimoniata dalle enormi calcare che punteggiano il litorale. Altri insediamenti complessi, ma non ancora indagati, si affacciano sulle altre piccole baie in cui si articola la sponda orientale del Çam Limani. La necropoli di età imperiale, con le tipiche tombe a camera voltate, è disposta sul crinale della collina che ospita l'abitato.
Anche nella baia di Zeitinli Köyu doveva esistere un abitato di un certo peso, almeno a giudicare dai resti di alcune chiese bizantine, oggi quasi scomparsi.
Il territorio è inoltre costellato dai c.d. recinti lelegi, case ovoidali in pietra, che sembrano attestarsi oltre il limite delle aree destinabili a uso agricolo, diventando via via più fitti nelle zone più impervie, fino a costituire una sorta di villaggio nei pressi di Zindaf Kale; è stato finora scavato solo un recinto, il cui abbandono sembra datato al V-IV sec. a.C. Potrebbe forse trattarsi di originari stanziamenti carii riutilizzati per la loro robustezza anche nei secoli seguenti dalla fascia di popolazione dedita ad attività pastorali e boschive.
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