iato
Con questo termine s'intende normalmente lo stacco esistente tra due vocali contigue, quando esse appartengono a sillabe successive e vengono pronunciate distintamente, sia nel corpo di una parola, sia tra due parole separate (a patto che queste non siano divise da pause intermedie). Lo i., dunque, può essere ‛ intraverbale ' e ‛ interverbale ': il primo include la dieresi, anche se non si riduce a essa; e il secondo coincide, in metrica, con la dialefe. Bisogna però aggiungere che nel discorso in versi le cose non stanno esattamente come in prosa, in quanto, in taluni casi, lo i. può essere annullato dalla sineresi (es.: dal vostro Uccellatoio, che, com'è vinto [Pd XV 110], dove Uccellatoio è quadrisillabo) o dalla sinalefe (es.: guardare uno altro sotto nuova luna, If XV 19); e in altri casi può avvenire che vi sia i. interverbale nonostante la presenza di pause intermedie, a causa della serrata compagine del verso (es.: me tuttavia, e nol mi credea fare, If XXX 141; si può del resto affermare che la pausa, nell'ambito di un segmento metrico, solo in pochi casi raggiunge uno spicco tale da annullare lo i.; altrimenti si cadrebbe in una forma di lettura prosastica). Per i casi in cui lo i. s'identifica con la dieresi o la dialefe si rinvia alle singole voci.
Nella versificazione dantesca, lo i. viene largamente accolto, in conformità con le norme generalmente seguite nel Medioevo, e presenta una fenomenologia vastissima; sia per quanto riguarda la qualità dei suoni che entrano in contatto, sia per quanto concerne la tonicità o meno dei medesimi.
Riguardo al secondo aspetto (tonicità), sarà sufficiente osservare che gli i. intraverbali hanno sovente carattere ascendente (= atona + tonica; si vedono ma/estro, po/eta, pa/ura, le/one, traendo, Ca/ina, vï/aggio, sapï/enza, continü/ando, fï/ata, esperï/enza, ecc.), anche se non mancano casi di i. intraverbale discendente (= tonica + atona; cfr. cuo/io, Tro/ia, ecc.), e più ancora di i. intraverbale atono (cfr. le/onessa, po/etando, Anfï/arco, settentrï/onal, rï/avesse, orï/ental, ecc.). Carattere sempre discendente ha, ovviamente, lo i. finale, che si colloca tra la decima e l'undecima sillaba dell'endecasillabo (cfr. le rime in -u/i, -a/i, -o/ia, ecc.). È da notare il fatto che, mentre per quanto riguarda la dieresi il comportamento di D. presenta talvolta delle oscillazioni, negli altri casi lo i. intraverbale è di regola osservato.
Il numero di i. presenti in uno stesso verso è ovviamente variabile; non di rado se ne possono addensare fino a tre (es.: poi / è Cle/opatràs lussurï/osa, If V 63; a me / e / a miei primi e / a mia parte, X 47); come mostrò / una e / altra fï/ata, XXX 3). Naturalmente, quando D. si serve di parole latine, vengono rigorosamente rispettate le norme prosodiche di tale lingua, e ciò favorisce l'addensarsi degli i. nel verso (es.: ‛ Ecce / ancilla De/ï, propriamente, Pg X 44; ‛ Glorï/a / in excelsis ' tutti De/o ', XX 136).
Gli i possono anche essere successivi (es.: ch'avere inteso al cuo/io e / a lo spago, If XX 119; conducerlo a vederti e / a / udirti, Pg I 69).
Un'importante caratteristica dello i. è costituita dalla mobilità che esso talvolta possiede; vale a dire, dalla sua facoltà di collocarsi in sedi differenti del verso, a seconda della scansione adottata, realizzandosi spesso in tal modo un mutuo scambio tra i. intraverbale e i. interverbale.
In taluni casi questa mobilità non altera la sostanziale fisionomia ritmica del segmento metrico (es.: e / onde ogne scï/enza disfavilla, Pg XV 99, che però non è illecito scandire e / onde / ogne scienza disfavilla; così vid'ï/o la gloriosa rota, Pd X 145, che può anche essere così vid'io la glorï/osa rota; E / avvegna ch'io fossi al dubbiar mio, XX 79, che può anche essere E avvegna ch'ï/o fossi al dubbiar mio). Ma in altri casi tale fisionomia ritmica risulta considerevolmente modificata (es.: Però va' / oltre: i' ti verrò / a' panni, If XV 40, contrapposto a Però va' / oltre: / i' ti verrò a' panni; e ancora e quella parte / onde prima è preso, XXV 85, contrapposto a e quella parte onde prima / è preso).
È comunque evidente che, per un poeta di raffinata sensibilità ritmica com'è D., l'uso dello i. è sempre dettato da precise ragioni prosodiche; e queste costituiscono una guida efficace, nella maggior parte dei casi, alla scelta della scansione; per cui le situazioni veramente ambigue sono considerevolmente ridotte di numero. Non è detto, peraltro, che a tali ragioni prosodiche debbano necessariamente corrispondere delle specifiche valenze semantiche. In altre parole, il significato dello i., specie nella Commedia, va ricercato, piuttosto che sul piano dell'immediata significazione testuale, sul piano assai più vario, ma sempre coerentissimo, del tessuto ritmico (la corrispondenza allusiva fra scansione e immagine di e / al sì / e / al no discordi fensi, Pg X 63, deve ritenersi un caso limite).
Una riprova di tutto ciò si può cogliere nel comportamento che D. segue in rapporto alla cesura, e più in generale in rapporto alla pausa; che talvolta favorisce lo i., ma talaltra non impedisce che lo i. si collochi in altre sedi del verso (cfr. il caso particolarmente significativo di venir chiamando: ‛ Ov'è, / ov'è l'acerbo? ', If XXV 18, in cui la pausa è doppia, dal punto di vista di una lettura prosastica, e lo i. è uno solo; e ancora che disï/ava scusarmi, e scusava, XXX 140, dove lo i. non interessa la pausa pur marcata del verso).
Bisogna perciò guardarsi dall'attribuire comunque allo i. una funzione di stacco, al fine di ottenere un'articolazione lenta e spiccata. In D. lo i. è adoperato spesso per realizzare un effetto di legamento del materiale verbale (es.: Di contra, effigï/ata ad una vista, Pg X 67; e ancora: e, consolando, usava l'idï/oma, Pd XV 122; dove lo i. intraverbale, favorendo la sinalefe, riassorbe il potenziale stacco che si avrebbe sostituendo la dieresi con una dialefe tra contra ed effigiata e tra consolando e usava; e crea in tal modo un effetto di melodica fusione dei suoni). La prova più evidente di questo fatto è costituita dalla scarsissima presenza di i. nelle canzoni ‛ petrose ', che segnano anzi, a questo riguardo, nella produzione dantesca, il limite negativo. Ciò vuol dire che per D. la ricerca di sonorità aspre e poco scorrevoli verte in misura determinante sui timbri consonantici anziché su quelli vocalici.
Interessanti, al fine di un'eventuale tipologia, sono gli esiti che emergono da un esame statistico della distribuzione dello i. nell'opera poetica dantesca. Il dato più notevole concerne l'omogeneità quantitativa dei vari contesti. Infatti, il rapporto tra il numero dei versi esaminati e il numero degli i. individuati è rispettivamente il seguente: 3,48 per l'Inferno; 3,72 per il Purgatorio; 3,66 per il Paradiso; 3,76 per la Vita Nuova; solo le Rime si staccano dalla media con il loro 4,68 (nelle ‛ petrose ', addirittura, si raggiunge il 5,59).
Bisogna però notare che in realtà, al di sotto di questa omogeneità, si cela una sostanziale disparità qualitativa tra la Commedia da una parte e le opere minori dall'altra. Infatti, il 46,05% degli i. presenti nella Vita Nuova cadono tra la decima e l'undecima sillaba, con una percentuale più che doppia rispetto a quella che si riscontra nella Commedia (21,29% nell'Inferno; 21,11% nel Purgatorio; 21,73% nel Paradiso); assai elevata è anche la relativa percentuale delle Rime, che confermano così l'individualità della loro fisionomia (28,85%). Ciò significa con ogni probabilità che lo i. nella Vita Nuova, e ancora parzialmente nelle Rime, è adoperato col prevalente scopo di realizzare effetti eufonici mediante l'uso di armonie vocaliche a fine verso. Si può inoltre affermare che le Rime, dal punto di vista della distribuzione degli i. nell'ambito del verso, rappresentano una fase intermedia tra la Vita Nuova e la Commedia. All'interno di quest'ultima infine, come si è detto, vi è massima omogeneità stilistica; soprattutto tra le prime due cantiche, in cui le percentuali relative all'occorrenza di i. nelle varie sedi del verso si corrispondono quasi sempre in modo puntuale.
Bibl. - Non esiste una bibliografia specifica, per cui ci si dovrà valere prevalentemente di quella riguardante la dieresi e la dialefe. Si veda comunque: G. Mari, Riassunto e dizionarietto di metrica italiana con saggi dell'uso dantesco e petrarchesco, Torino 1901; A. Levi, Della versificazione, Genova 1931 (la cui concezione dello i. è peraltro diversa dalla nostra); Parodi, Lingua 203-284 (per la questione dello i. finale); P.M. Bertinetto, Ritmo e versificazione nella terzina dantesca, tesi di laurea, Torino 1970 (per i rilievi statistici).