Alchimia, iatrochimica e arti del fuoco
Con alchimia si indica un insieme di pratiche tra loro molto differenti, quali la trasmutazione dei metalli, la fabbricazione di pietre preziose artificiali, la preparazione dell’elisir e di medicine dalle straordinarie proprietà terapeutiche, come la quintessenza e l’oro potabile. Essa sfugge a una definizione univoca ed è oggetto di interpretazioni tra loro divergenti. In età premoderna i confini tra alchimia e chimica erano piuttosto labili: trasmutazione dei metalli e preparazione di potenti medicine erano spesso praticate insieme ad attività di distillazione, produzione di tinture, smalti e affinamento di metalli.
Anche se gli alchimisti adottavano pratiche di laboratorio e strumenti non dissimili da quelli usati da chi lavorava i metalli o preparava farmaci, l’alchimia aveva una sua specificità che la distingueva dalla chimica pratica, poiché adottava dottrine filosofiche e religiose, un linguaggio simbolico e tecniche di occultamento (Halleux 1986).
Di origine alessandrina (i primi scritti risalgono agli inizi dell’età cristiana), l’alchimia si è poi sviluppata nell’islam, per fare il suo ingresso nell’Occidente latino intorno al 12° secolo. Per la sua duplice natura di arte e di scienza, ovvero per la compresenza di una componente teorica e di una pratico-operativa, l’alchimia era difficilmente collocabile nelle classificazioni medievali delle scienze e rimase estranea ai curricula universitari. Gli alchimisti, grazie alla promessa di produrre artificialmente l’oro, erano accolti nelle corti; tuttavia filosofi, giuristi e teologi s’interrogavano sulla verità e liceità della trasmutazione dei metalli. Nella Divina Commedia (Inferno, XXIX, 109-139) Dante diede voce a una diffusa ostilità nei confronti dell’arte trasmutatoria, collocando due alchimisti (Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena) nella bolgia dei falsari, mentre Franco Sacchetti nel Trecentonovelle (scritto nel 1392) usò il termine archimia con il significato di inganno.
Fra la fine del Duecento e i primi decenni del secolo successivo, varie condanne dell’alchimia furono emanate dai capitoli generali degli ordini religiosi (sia domenicani che francescani); la decretale di Giovanni XXII Spondent quas non exhibent divitias, pauperes Alchymistae («Promettono, i disgraziati alchimisti, ricchezze che poi non sono in grado di produrre») del 1317 contiene una condanna delle pratiche trasmutatorie – illecite perché mirerebbero solo alla contraffazione di metalli preziosi. L’inquisitore d’Aragona Nicola Eymeric compose nel 1399 una requisitoria Contra alchymistas in cui sottolineò la differenza tra opere della natura e dell’arte e l’impossibilità di mutare artificialmente l’ordine naturale delle specie (L’arte del Sole e della Luna, 1996, pp. 249-61).
Malgrado le condanne, l’alchimia continuò a lungo a suscitare l’interesse di principi, così come di prelati. Guglielmo Fabri, giudice e segretario di Felice V, duca di Savoia e antipapa per dieci anni dal 1439, dedicò al pontefice un trattato dal titolo Liber de lapide philosophorum et de auro potabili (Crisciani 2002). Il sacerdote veneziano Giovanni Agostino Panteo pubblicò a Venezia, con il permesso del Consiglio dei Dieci e con dedica a Leone X, l’Ars transmutationis metallicae (1518), la prima opera di contenuto alchemico a essere stampata in Italia.
Nel Cinquecento proseguono le discussioni – già iniziate in epoca medioevale – sulla natura e verità dell’alchimia, così come sulla sua posizione nella classificazione delle scienze. Non sono pochi coloro che distinguono un’alchimia vera da una falsa, come l’ingegnere senese Vannoccio Biringuccio e il letterato Benedetto Varchi. In De la pirotechnia (1540), Biringuccio esprime un giudizio critico, ma non una condanna, nei confronti dell’alchimia: gli alchimisti operano generalmente senza seguire un metodo e per questa ragione il loro operare non darà mai i frutti sperati. Nel trattato del 1544, dal titolo Se l’archimia è vera o no questione, Varchi distingue tre tipi di alchimia: la vera, la sofistica e la falsa. La vera, che trasmuta i metalli nella loro sostanza, può essere praticata solo dall’alchimista che svolge il ruolo di ministro della natura. L’alchimia sofistica è da vietare: muta solo gli accidenti (come accade con i falsari) ed è perciò potenzialmente dannosa per la società. La terza è quella che pretende di vincere la natura, di produrre farmaci che consentono di guarire qualunque malattia o, addirittura, di conferire l’immortalità. Anch’essa è da condannare perché implica un commercio con il demonio. Una posizione cauta, non di condanna, è espressa da Pietro Pomponazzi, che, nelle lezioni universitarie dedicate alle Meteore aristoteliche, non nega la possibilità di realizzare la trasmutazione dei metalli, ma ritiene che la diffusione di tali ricerche sia da controllare poiché la produzione artificiale dell’oro provocherebbe disastrosi effetti sull’economia e la politica (Pereira 2001, pp. 173, 184-85, 193).
Sebbene estranee alla ratio studiorum dei gesuiti, nella seconda metà del Seicento, l’alchimia e la chimica medica sono oggetto di studio di vari membri dell’ordine, tra cui Athanasius Kircher, che al Collegio romano allestisce nel suo celebre museo un laboratorio chimico. Nel Mundus subterraneus (1665) Kircher condanna l’alchimia trasmutatoria, ma elogia la preparazione di medicine chimiche e l’estrazione di quintessenze da piante e minerali a scopo terapeutico. Meno cauto di Kircher, il gesuita Francesco Lana Terzi, che tra il 1652 e il 1654 aveva collaborato con Kircher, nel suo Magisterium naturae et artis (1684-1692) diede ampio spazio alla chimica sperimentale, a ricette alchemiche e finanche alla preparazione della pietra filosofale.
Oggetto d’interesse da parte di filosofi medioevali, l’alchimia non fu mai pienamente integrata nella filosofia scolastica (L’arte del Sole e della Luna, 1996). In ambienti influenzati dalla filosofia neoplatonica e dall’ermetismo si stabilì invece uno stretto legame tra alchimia e filosofia. Anche se piuttosto limitati, i riferimenti di Marsilio Ficino all’alchimia esercitarono una notevole influenza sugli sviluppi successivi dell’Arte. Ficino identifica lo spirito del mondo (sostanza intermedia tra l’anima e il corpo del mondo) con la quintessenza degli alchimisti e sostiene che, essendo principio di ogni generazione, lo spirito, se estratto dall’oro, può portare alla trasmutazione dei metalli in oro. L’interesse per opere e dottrine dell’antichità coinvolge anche l’alchimia producendo non solo la riscoperta di testi, quali ad es. lo pseudo-Democrito tradotto in latino da Domenico Pizzimenti (De arte magna, 1573), ma anche la diffusione di manoscritti alchemici, che in gran numero affluirono nelle biblioteche degli umanisti. Il ‘ritorno di Ermete’ comportò un rinnovato interesse per l’alchimia, ma anche il suo assorbimento nella tradizione magico-occulta e nella prisca sapientia, come mostrano gli scritti del poeta e cabalista Ludovico Lazzarelli, traduttore di testi ermetici, di Giulio Camillo Delminio, che inserisce l’alchimia in una più generale concezione panteistica, e del già citato Panteo, che nella Voarchadumia (1530) definisce la vera alchimia «cabala dei metalli» (Alchimie et philosophie à la Renaissance, 1993).
Umanista e corrispondente di Ficino, il riminese Giovanni Aurelio Augurello pubblica nel 1515 un poema latino (che imita le Georgiche virgiliane) dal titolo Chrysopoeia, il cui elegante stile assicura all’opera una straordinaria fortuna. Augurello inaugura l’interpretazione alchemica dei miti antichi, ripresa poi dall’alchimista Giovanni Bracesco (vissuto nella prima metà del 16° sec.), da Cesare della Riviera nel suo Il mondo magico de gli heroi (1603), nonché dall’alchimista tedesco Michael Maier (1568-1622). Forti legami con temi religiosi, uso di simboli, interpretazioni allegoriche dell’opus, così come riferimenti mitologici, che caratterizzano molti testi alchemici rinascimentali, contribuiscono a sviluppare una corrente dell’alchimia di tipo esoterico ed erudito (Alchimie: art, histoire et mythes, 1995).
Uno dei testi che esercitarono maggior influenza sull’alchimia metallurgica è la Summa perfectionis (fine 13° sec.) che circolava come opera di Geber, erroneamente identificato con l’alchimista arabo Ǧābir ibn Ḥayyān. L’opera è stata di recente attribuita a Paolo di Taranto, di cui si sa pochissimo – solo che era lettore dei frati minori ad Assisi. Nella Summa è confutata la principale obiezione contro l’alchimia (formulata da Avicenna), fondata sulla differenza ontologica tra prodotti artificiali e quelli naturali, da cui deriverebbe l’impossibilità dell’arte di uguagliare le opere della natura. Opponendosi ad Avicenna, l’autore della Summa opera una giustificazione della tecnologia affermando che le arti sono in grado di alterare e migliorare i prodotti della natura.
Sempre nella Summa egli stabilisce quella che poi diverrà la sequenza più comune dell’opus: sublimazione, distillazione, calcinazione, dissoluzione, coagulazione, fissazione, fluidificazione. Paolo, che adotta la teoria, formulata dagli alchimisti arabi, per la quale i metalli sono composti di zolfo e mercurio, interpreta la composizione dei metalli in termini di «parti minime» che permangono inalterate nel misto (il metallo). La perfezione dell’oro è spiegata come effetto della sua composizione: particelle minutissime e omogenee danno luogo a una struttura compatta – che è anche causa del suo elevato peso specifico. Il mercurio costituisce la componente principale dei metalli, ed è quella pura, mentre lo zolfo quella impura. Per questo, la trasmutazione dei metalli deve partire dalla purificazione del mercurio comune per produrre il cosiddetto mercurio filosofico. La Summa perfectionis si caratterizza per l’assenza di allegorie e di simboli e per le precise descrizioni dei processi chimici. L’opera di Paolo denota una considerevole conoscenza dei reagenti chimici e contiene una classificazione dei minerali basata su esperienze di laboratorio e su informazioni tratte dalle fonti arabe. L’influenza della Summa è duratura (giunge fino al primo Seicento) e non è limitata alla sola alchimia trasmutatoria, ma si estende anche a trattati con finalità eminentemente metallurgiche (The “Summa perfectionis” of Pseudo-Geber, ed. W.R. Newman, 1991).
Fra Tre e Quattrocento, nella penisola, per effetto dello sviluppo dell’industria mineraria, comincia a formarsi una manodopera specializzata nella lavorazione dei metalli. Gli esperti nell’attività estrattiva inizialmente sono soprattutto ‘tedeschi’ (termine che indica popolazioni che vanno dal Mare del Nord ai Carpazi, fino al Tirolo), la cui presenza è attestata non solo nell’Italia del Nord, ma anche in altre aree, fino alla Toscana e alla Sardegna. Nella metallurgia gli italiani acquistano solide competenze e già tra il 14° e il 15° sec. comincia a essere documentata l’attività di diversi esperti fiorentini e lombardi nell’Europa del Nord: assaggiatori italiani operano nelle zecche di Lubecca, Freiberg, Breslavia, mentre a Londra un piemontese riveste la carica di maestro di zecca fino al 1413.
Durante il 15° sec. nelle città dell’Italia centrale e settentrionale, e in particolare nelle botteghe degli artigiani fiorentini, si sviluppano la lavorazione dei metalli, le tecniche di fusione e, più in generale, le arti del fuoco. Da queste pratiche ha origine il trattato dal titolo De la pirotechnia del già citato Biringuccio, che fu sovrintendente alle miniere di Boccheggiano. È una delle prime opere a stampa a trattare in modo sistematico delle arti del fuoco: estrazione di minerali e metallurgia, lavorazione del vetro, costruzione di macchine per lavorare i metalli. L’opera, in volgare, dà organizzazione e fondamento teorico alle attività metallurgiche, tradizionalmente relegate a un ambito puramente artigianale ed empirico e, in polemica con gli alchimisti, propugna un’ampia diffusione delle conoscenze relative alle arti del fuoco. Nel De la pirotechnia è anche presente una parte teorica in cui l’autore spiega le proprietà dei metalli in base alla loro microstruttura. Adottando un compromesso tra la dottrina aristotelica degli elementi e una concezione protocorpuscolare, Biringuccio afferma che la perfezione dell’oro è dovuta alla proporzione tra le particelle dei quattro elementi e tra queste ultime e i pori (Bernardoni 2011, pp. 80-81).
Nell’Italia della seconda metà del 16° sec. lo studio dei minerali e dei metalli fu condotto con finalità descrittive e classificatorie da vari medici e naturalisti, quali Ulisse Aldrovandi, Francesco Calzolari, Andrea Bacci e Michele Mercati. Quest’ultimo, che fu archiatra pontificio, protonotario e curatore dell’orto vaticano dei semplici, creò in Vaticano una ricchissima collezione di minerali, fossili e metalli, di cui diede una descrizione nella Metallotheca, pubblicata postuma a cura di Lancisi nel 1717. Nel 1592 fu chiamato a Roma Andrea Cesalpino, di cui Mercati era stato discepolo a Pisa e poi collaboratore nelle ricerche naturalistiche. Nel 1596 Cesalpino pubblicò il De metallicis, in cui, all’interno di una concezione aristotelica, sono presenti dettagliate descrizioni delle origini e proprietà di metalli e minerali, incluso l’allume, la cui estrazione e commercio erano fonte di ricchezza per lo Stato pontificio. Il vetriolo (solfato di ferro), la sua preparazione e proprietà chimico-farmaceutiche costituivano temi centrali delle ricerche dei chimici tra la fine del 16° e l’inizio del 17° sec.: se ne occupò Pietro Maria Canepari di Crema nel suo De atramentis (1619), opera dedicata agli inchiostri che contiene importanti contributi alla chimica minerale, nonché lunghe digressioni su temi di alchimia. Sul vetriolo scrisse anche il vicentino Angelo Sala (Anatomia vitrioli, 1617) che, in quanto calvinista, dovette abbandonare l’Italia. Sala, che fu tra i più noti autori di testi di chimica pratica del primo Seicento, fu anche tra i primi a spiegare le reazioni chimiche in termini corpuscolari (Clericuzio 2000, pp. 21-23).
La preparazione di farmaci per mezzo della distillazione, già in uso tra i medici arabi, si era diffusa tra i latini, grazie soprattutto a Ruggero Bacone e Arnaldo da Villanova. Nell’Italia del Duecento la distillazione comincia a esser praticata da alcuni medici. L’aqua ardens (alcol) con l’aggiunta di erbe è impiegata dal medico Taddeo degli Alderotti (1215 ca.-1295) nella cura delle malattie provocate dall’eccesso di umore freddo e per il trattamento di varie patologie, tra le quali alopecia, scabbia, paralisi degli arti, cattiva digestione e malinconia. L’arte della distillazione si afferma nel Trecento, grazie all’opera del frate francescano e alchimista Giovanni di Rupescissa, nel cui trattato De consideratione quintae essentiae è descritta l’estrazione della quintessenza dal vino, da erbe medicinali, da animali, dal mercurio e dall’oro. La quintessenza è definita sostanza incorruttibile, estraibile dei corpi terrestri ma dotata di una virtù celeste, la quale conferisce incorruttibilità e può quindi conservare il corpo umano nello stato di salute.
Nel Quattrocento, il medico padovano Michele Savonarola (Libellus de aqua ardenti, 1484), esperto di distillazione, elogia le virtù terapeutiche dell’aqua ardens, che produce per mezzo di ripetute distillazioni. Successivamente, il naturalista Pietro Andrea Mattioli, che si era conquistato la fama di maestro dell’arte chimica, descrive e produce farmaci ottenuti con la distillazione e a base di sostanze minerali, che, a suo avviso, sono superiori ai decotti a base di erbe della tradizione galenica. Nel decimo libro della Magia naturalis (1568) – poi ripubblicato separatamente come De distillatione (1609) – Giovan Battista Della Porta (1535 ca.-1615) presenta una sintesi delle conoscenze relative alla distillazione. Oltre a descrivere gli strumenti, illustra i metodi di distillazione: per ascensum (quando la fonte di calore è in basso), per descensum (quando la fonte di calore è in alto e i vapori discendono verso il basso), per latus (quando fuoriescono lateralmente). Secondo Della Porta la distillazione consente di estrarre le virtù racchiuse nei corpi e di comporre farmaci capaci di curare malattie che i medici dell’antichità avevano considerato inguaribili (Multhauf 1956).
La distillazione, finalizzata alla preparazione di medicinali straordinari, di profumi e unguenti, è uno dei temi centrali dei ‘libri di segreti’, di origine per lo più tedesca e italiana che nel Cinquecento e poi ancora nel secolo successivo inondano il mercato librario. Gli autori, salvo qualche rara eccezione, sono estranei al mondo accademico, come Girolamo Ruscelli, Leonardo Fioravanti, Giovanni Battista Zapata. A Ruscelli è attribuita una delle più fortunate opere di questo genere, i Secreti del reverendo donno Alessio Piemontese (1555), che, oltre a ricette di numerosi rimedi terapeutici, include alcune medicine spagiriche e contiene ‘segreti’ di carattere tecnico-pratico, come ricette per fabbricare profumi, saponi e tinture per capelli, e per produrre pigmenti, coloranti per tessuti, colle, inchiostri. Il motivo che accomuna i libri dei segreti è l’insistenza sulla prova, sul controllo empirico quali garanzie della validità dei medicamenti o dei preparati descritti (Eamon 1994).
La iatrochimica paracelsiana si diffuse nella penisola a partire dalla seconda metà del Cinquecento, con alcuni decenni di ritardo rispetto ad altre aree dell’Europa. La messa all’Indice di alcune opere di Paracelso e la provenienza della gran parte dei testi a stampa paracelsiani dai più noti centri dell’editoria protestante ne limitarono la diffusione, ma certamente non la impedirono. Due elementi caratterizzano la ricezione di Paracelso in Italia. In primo luogo motivi cosmologici, filosofici e religiosi presenti nell’opera del medico svizzero ebbero scarsa diffusione e anche la teoria dei tre principi spagirici (sale, zolfo e mercurio) ebbe un impatto limitato. In secondo luogo, l’ingresso della farmacologia spagirica fu piuttosto lento; tuttavia, salvo rari casi, non suscitò forti opposizioni da parte delle autorità mediche, come invece accadde in Francia.
L’influenza di Paracelso è ipotizzabile, ma non certa, nell’opera e nelle attività del medico veneziano Angelo Forte, attivo nella prima metà del Cinquecento e autore di opere di alchimia, magia, astrologia e medicina, che si scagliò contro l’intera tradizione medica, da Ippocrate a Galeno, fino ad Avicenna, rifiutando la dottrina degli umori e la pratica della flebotomia. Forte, che produsse farmaci alchemici basati sulla quintessenza, condannò il carattere libresco dell’insegnamento della medicina e propose di fondare le conoscenze mediche sull’indagine diretta della natura e sull’esperienza acquisita viaggiando e informandosi sulle proprietà di erbe medicinali – temi tutti presenti nelle opere di Paracelso.
I primi aperti sostenitori delle idee e delle pratiche mediche paracelsiane furono il bolognese Fioravanti e il veronese Zefiriele Tommaso Bovio, che adottarono la medicina spagirica e si opposero a quella galenica. Anche se diede una forte impronta personale alla pratica medica, non v’è dubbio che Fioravanti seguisse gli ideali di riforma propugnati da Paracelso e ne adottasse non poche terapie. Abile chirurgo e distillatore, ma anche attento promotore delle proprie cure e farmaci (che al pari delle sue opere erano noti in tutta Europa), Fioravanti apprese la medicina viaggiando, attingendo a ogni possibile fonte di conoscenza e, soprattutto, dedicandosi con passione all’indagine empirica della natura. In tutti i luoghi che visitava si dedicava allo studio dell’aria, delle acque, dei venti, delle erbe e degli animali. Era convinto che la chimica fosse indispensabile alla medicina; esperto nelle arti pratiche, mise in discussione la tradizionale gerarchia delle arti e delle scienze, rivalutando le arti meno nobili, quelle dei meccanici, degli orafi, degli agricoltori, dei distillatori – tutte degne di essere coltivate poiché basate sull’esperienza. La sua fu una costante ed esplicita condanna del sapere libresco di cui si nutrivano i medici ‘razionali’, quei medici che in varie città lo avevano accusato di essere un ciarlatano senza scrupoli. Fioravanti introdusse nuovi farmaci, tra i quali preparati spagirici, come il ‘precipitato’ (ossido di mercurio, HgO), ed ebbe una posizione critica rispetto alla terapeutica tradizionale. Al pari di Paracelso non condivideva l’eccessivo ricorso alle diete, nutriva poca fiducia nella flebotomia e faceva uso di potenti purgativi ed emetici (soprattutto a base di antimonio) per purificare il corpo (Eamon 2010).
Ben più espliciti che in Fioravanti i richiami all’insegnamento di Paracelso presenti nell’opera di Bovio, che praticava la medicina pur essendo privo del titolo accademico. La lettura dei testi di Paracelso, che aveva ricevuto dal medico protestante Girolamo Donzellini, lo convinse della superiorità della medicina chimica rispetto alla galenica. Come Paracelso, sostenne che un’illuminazione divina è all’origine della vera medicina, che si nutre dell’esperienza e dell’alchimia. Da buon paracelsiano, si dichiarò «medico dei disperati e degli abbandonati», si dedicò alla cura degli appestati e fu avversario di quelli che definiva «medici rationali» – medici la cui erudizione puramente libresca si accompagnava a un’insaziabile sete di denaro (Bovio 1583).
Uno dei pochi avversari delle medicine spagiriche fu il veronese Giovanni Balcianelli, che nel 1603 si scagliò contro i nuovi farmaci dei chimici e in particolare contro l’uso interno dell’antimonio e del mercurio (Discorso contro l’abuso dell’antimonio preparato, 1603). Le sue condanne e il suo appello alle autorità sanitarie affinché impedissero la diffusione dei nuovi farmaci non riuscirono però a fermare un processo ormai in atto. Nella città di Verona rimedi chimici erano preparati da Bovio e venduti dal noto farmacista Francesco Calzolari. A Venezia fioriva il commercio di farmaci chimici proposti sia da ‘irregolari’, come Fioravanti, sia da membri del Collegio dei Medici, come il medico veneziano Zaccaria dal Pozzo. Nei primi decenni del nuovo secolo la farmacologia spagirica si affermò in gran parte della penisola, grazie all’influenza di Joseph Duchesne, detto Quercetanus, la cui Pharmacopea fu più volte stampata a Venezia e poi tradotta in italiano nel 1619. Quercetanus, come altri medici spagirici, insisteva sulla necessità di far uso di nuovi e più potenti farmaci per fronteggiare la diffusione di nuove malattie. L’insegnamento chimico-farmaceutico di Quercetanus è a fondamento della Pharmacopoea spagirica (1622) del medico francese Pierre Potier, che, stabilitosi a Bologna, annovera tra i propri pazienti e corrispondenti personaggi illustri quali Virginio Cesarini, Cassiano dal Pozzo e Nicolas Poussin. In occasione dell’epidemia di peste del 1630, di fronte al fallimento dei farmaci tradizionali, numerosi medici italiani cominciano a far ricorso a farmaci paracelsiani, come il tartaro, il mercurio, il vetriolo (solfato di ferro) e l’antimonio. Dagli anni Trenta del Seicento i rimedi chimici (balsami, tinture, elisir, essenze, spiriti, sali, preparati a base di metalli) iniziano a entrare nelle farmacopee ufficiali e nei numerosi antidotari pubblicati dai medici e farmacisti italiani, senza destare opposizioni (Clericuzio 2008).
Tra i sostenitori della medicina chimica nell’Italia della prima metà del Seicento spicca per l’originalità dei suoi contributi Pietro Castelli, che insegnò medicina a Roma e successivamente a Messina, dove fu anche direttore dell’Orto botanico, cui era annesso un laboratorio chimico. Castelli, cui si deve la preparazione di numerose medicine chimiche, interpretò le funzioni fisiologiche in termini di reazioni chimiche. Di particolare interesse i suoi studi sulla digestione, che ritenne essere prodotta dall’azione di un fermento acido presente nello stomaco, che libera le parti attive contenute nel cibo ingerito (Clericuzio 2010). Il «programma chimico» di Castelli non si limitò alla medicina: a seguito dell’eruzione del Vesuvio del 1631 pubblicò un trattato dal titolo Incendio del Monte Vesuvio (1632) nel quale propose spiegazioni di carattere meccanico e chimico dei fenomeni geotermici. Suppose l’esistenza di un fuoco contenuto nelle viscere della Terra, che, al pari del fuoco dei chimici, trasformerebbe la materia generando esplosioni.
A teorie ed esperimenti chimici fecero ricorso anche coloro che, come Giovanni Alfonso Borelli e Marcello Malpighi, applicavano concezioni meccaniciste allo studio degli organismi viventi. Salvo rare eccezioni, nella medicina italiana del Seicento la iatrochimica conviveva con teorie meccaniciste. In Italia, come nel resto d’Europa, la pubblicazione dell’Ortus medicinae (1648) del medico belga Jean Baptiste van Helmont diede ulteriore impulso al programma paracelsiano di fondazione della medicina su basi chimiche. Tra i più convinti sostenitori della medicina chimica helmontiana, Sebastiano Bartoli si oppose alle teorie e alle pratiche della medicina galenica, entrando in conflitto con il protomedico di Napoli, alla cui iniziativa si deve con molta probabilità la condanna da parte delle autorità ecclesiastiche dell’Astronomiae microcosmicae systema novum (1663) di Bartoli.
L’adesione dei medici italiani alla medicina paracelsiana ed helmontiana non si accompagnò a una svalutazione delle indagini anatomiche – ritenute invece di secondaria importanza da gran parte dei seguaci del medico svizzero. Castelli nel suo De optimo medico (1637) considerò l’anatomia e la chimica le due componenti fondamentali della nuova medicina; lo stesso punto di vista fu seguito da Marco Aurelio Severino, che fu tra i primi ad accettare la teoria della circolazione del sangue. Stabilitosi a Messina intorno al 1637, Borelli imparò la chimica da Castelli, con cui collaborò alla preparazione di numerosi farmaci a base di zolfo. Nel 1648 Borelli tenne presso l’Accademia della Fucina di Messina alcune lezioni sulle febbri, in occasione di un’epidemia di febbre tifoide che aveva colpito la Sicilia tra il 1646 e il 1647. Borelli rifiutò le spiegazioni fondate sugli umori o sull’influsso astrale e interpretò l’epidemia come l’effetto della diffusione nell’aria di particelle nocive prodotte da un processo chimico di distillazione e separazione:
Contenendo la nostra Terra gran copia di piante, animali, pietre, e succhi velenosi, con tanta farragine di minerali, e di metalli liquidi, e consistenti, è possibile che il Sole applicato dalla Natura, con artificio chimico, da quelli ne sollevi in aria, non solamente spiriti, e sottilissime quintessenze utili, e depurate; ma ancora altre esalationi estremamente prave, e velenose, corrosive e destrutti (Delle cagioni delle febbri maligne, 1649, pp. 106-07).
Come Castelli, Borelli spiega la digestione come un processo sia chimico sia meccanico: il cibo ingerito e sminuzzato è trasformato da un succo acido presente nello stomaco che opera allo stesso modo dei solventi di cui si fa uso in laboratorio, come ad es. il vetriolo. Le ricerche chimiche degli anni messinesi lasciarono una traccia profonda nell’opera scientifica di Borelli, che negli studi sul moto degli animali, confluiti nel De motu animalium pubblicato postumo nel 1680-81, spiega l’origine del battito cardiaco come effetto di reazioni chimiche e interazioni meccaniche. In quest’opera, in cui i movimenti degli animali sono studiati in termini geometrico-meccanici, Borelli attribuisce un ruolo di primo piano alle reazioni chimiche che hanno luogo negli organismi viventi, in particolare alla fermentazione degli spiriti – tema centrale della iatrochimica seicentesca e in particolare nelle opere di Castelli. Per Borelli, l’azione del fermento rompe il legame che tiene uniti i corpuscoli composti, chiamati moleculae, termine introdotto dal filosofo atomista francese Pierre Gassendi: «il legame di molecole eterogenee è dissolto e ciò non può avvenire se non interviene un fermento, vale a dire, una causa di moto» (De motu animalium, 1680-1681, parte II, p. 280). Borelli fa uso di spiegazioni chimiche anche nello studio del moto muscolare che – egli afferma – è prodotto dall’incontro delle particelle agitate del succo nervoso con il sangue. Si tratta di una reazione chimica, analoga alla fermentazione, cui segue l’ingresso di particelle effervescenti nei pori e nei filamenti muscolari.
Borelli fa uso di teorie chimiche nelle indagini sull’eruzione dell’Etna del 1669, sollecitate da Leopoldo de’ Medici e dalla Royal society di Londra. Le ricerche borelliane confluiscono nell’Historia et meteorologia incendii aetnaei (1670), in cui sostiene che i fuochi sotterranei sono prodotti da particelle di nitro e di zolfo, che si generano costantemente nelle viscere della terra.
Il programma scientifico di Robert Boyle (1627-1691), che mirava a trasformare la chimica da tecnica artigianale a parte integrante della filosofia naturale fondandola sulla teoria corpuscolare della materia, trovò in Italia un terreno fertile. Un’interpretazione corpuscolarista delle proprietà dei sali guida le ricerche del bolognese Domenico Guglielmini, che all’opera di Boyle si rifà in più occasioni.
La chimica corpuscolare era stata a fondamento delle ricerche mediche di Malpighi. Nello studio della respirazione, dei polmoni, delle ghiandole, dei reni e del cervello (per non citare che alcuni dei suoi contributi alla medicina teorica), Malpighi coniugò ricerche anatomiche, microscopiche, chimica e teorie meccaniche. Ciò non significò l’adozione di un paradigma rigorosamente meccanicistico, quale quello proposto da René Descartes, ma un’integrazione di teorie chimiche e meccaniche. Pur concependo il corpo umano e le sue parti come macchine (per la precisione, macchine idrauliche), Malpighi spiegò la respirazione come un processo di carattere essenzialmente chimico: un sale volatile o un principium fermentativum contenuto nell’aria entra nei polmoni dando vita a una serie di reazioni chimiche. Analoghe linee di ricerca furono alla base dei suoi studi sulle febbri, ricondotte a una reazione prodotta nel sangue dall’incontro di particelle di sale volatile con quelle di zolfo (Marcello Malpighi. Anatomist and physician, 1997).
Allievo di Malpighi, il modenese Ludovico Maria Barbieri sviluppò le indagini chimiche sulla respirazione cui avevano dato impulso i fisiologi di Oxford, in particolare John Mayow. Barbieri individuò in particelle di salnitro la sostanza vitale presente nell’aria. Allievo anch’egli di Malpighi, Giorgio Baglivi, medico personale di Innocenzo XII, segue invece un orientamento di carattere rigorosamente meccanicistico. Anche se non nega l’utilità della chimica nello studio dei fenomeni fisiologici, si concentra su forme, moti e strutture delle parti del corpo umano. Nel suo trattato De fibra motrice (1703) individua nelle più piccole fibre muscolari un complesso sistema di leve, cordicelle, carrucole, azionate dai globuli del sangue dotati di differenti forme, grandezze e velocità, che si muovono tra le strutture solide. Secondo Baglivi, tutte le parti dell’organismo sono in moto continuo; la maggior parte delle patologie deriva da una irregolare attività della fibra, ovvero da spasmi o atonia. Baglivi fu critico nei confronti della iatrochimica e in particolare della teoria acidi-alcali, secondo la quale tutte le sostanze sono acide o alcaline e quando reagiscono si genera calore, effervescenza e fermentazione; di conseguenza, in tutti i casi in cui si ha effervescenza o fermentazione si sarebbe verificato un ‘conflitto’ tra acidi e alcali. Questa teoria si era diffusa nel secondo Seicento grazie all’opera del chimico tedesco Otto Tachenius, che visse e operò a Venezia per gran parte della propria vita (Clericuzio 2000, pp. 173-77). Sostenitore della teoria acidi/alcali (anche se con alcune riserve) fu il medico lucchese Martino Poli, attivo a Roma all’inizio del Settecento. Fondandosi sulle opere boyleane, ritenne che questa teoria fosse da correggere inserendo un terzo gruppo di sostanze, di carattere neutro, né alcaline, né acide. Poli, che fu membro dell’Académie royale des sciences di Parigi, espresse forti riserve nei confronti della iatromeccanica e in particolare delle concezioni sostenute da Baglivi, affermando che nel corpo umano
i vasi operano come un vaso circolatorio, un alambicco, con cui i fluidi si distillano e trasudano per altre vie quei liquori escrementizi che per circolazioni, fermentazioni e digestioni sono separati dal fluido del sangue (Il trionfo degli acidi, 1706, p. 117).
Nel 16° e 17° sec. l’alchimia e la chimica medica si svilupparono soprattutto nelle corti e nelle accademie. Le corti ospitarono alchimisti e medici spagirici, offrendo loro la possibilità di costruire laboratori, di procurarsi materiali e libri per le proprie ricerche. Non si trattò di semplice mecenatismo, ma di un interesse specifico per la produzione artificiale dell’oro e di potenti farmaci. La corte che più di altre fu attiva nel mecenatismo dell’alchimia e della medicina chimica fu quella dei Medici. A Firenze, Cosimo I creò un laboratorio (la Fonderia) dove si distillavano piante e oli e si facevano esperimenti alchemici. I figli di Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I, erano anch’essi interessati all’alchimia, e ancor di più lo era don Antonio de’ Medici (figlio di Francesco e Bianca Cappello), che si dedicò alla sperimentazione chimica nel Casino di San Marco, dove era stata trasferita la Fonderia. Don Antonio, nella cui biblioteca erano presenti numerose opere paracelsiane, compose raccolte di ricette chimiche ed ebbe come operatore Antonio Neri (1576-1614), alchimista e autore della celebre Arte vetraria (1612). Il granduca Cosimo II condivise gli interessi dei suoi predecessori per l’alchimia e la medicina paracelsiana e, nel 1614, nominò il paracelsiano scozzese James Macollo prefetto dell’Orto botanico di Pisa, mentre il fratello John Macollo diresse il laboratorio chimico annesso all’orto. Oltre alla sperimentazione e produzione di farmaci, profumi e oli essenziali, nel laboratorio pisano si tenevano lezioni di chimica, che però non erano parte dei curricula universitari.
Ricerche di chimica fiorirono nel Regno di Napoli (forse a Salerno) intorno alla metà del Cinquecento, nell’Accademia Segreta, di cui fu promotore Girolamo Ruscelli e le cui attività erano finanziate probabilmente da Ferrante Sanseverino, principe di Salerno. L’Accademia di Ruscelli non era solo un luogo di discussione, ma anche di ricerca: oltre all’orto botanico, vi era un laboratorio chimico con forni e apparati di distillazione, nel quale lavoravano artigiani, orafi, distillatori e semplicisti. La sperimentazione chimica era parte integrante anche dell’Accademia dei Secreti, fondata intorno al 1560 da Della Porta nel suo palazzo napoletano. Il nome dell’accademia dellaportiana sembra indicare una continuità con l’Accademia descritta da Ruscelli, di cui condivideva l’indirizzo marcatamente sperimentale.
Nei primi decenni del Seicento la chimica e la medicina spagirica ricevono un forte impulso dall’Accademia dei Lincei, i cui fondatori si definivano esplicitamente seguaci di Paracelso. La medicina spagirica fu coltivata soprattutto da Johannes Eck, uno dei fondatori dell’Accademia, e da due Lincei tedeschi, Johann Faber e Johann Schreck. Il primo dei due condusse ricerche chimiche nell’Ospedale di S. Spirito in Sassia a Roma, il secondo produsse un Compendio della medicina paracelsiana, che non pubblicò e che sopravvive tra le carte lincee di Montpellier (Bibliothèque de l’École de médecine de Montpellier, ms. H.461, Fondo Albani).
L’Accademia del Cimento, fondata nel 1657 da Leopoldo de’ Medici e dal granduca Ferdinando II de’ Medici, è stata tradizionalmente considerata un prodotto della tradizione galileiana, quasi interamente finalizzata a studi di fisica. A un più attento esame delle sue attività, emerge invece che, non meno di altre accademie italiane ed europee del Seicento, il Cimento coltivò indagini di chimica pratica, ricerche sugli indicatori, sulle proprietà di vari sali, sul nitro, sul mercurio, su reazioni esotermiche ed endotermiche (Clericuzio 2009).
A Napoli, la chimica, che si era già diffusa a metà del 16° sec., ebbe un ruolo centrale nell’Accademia degli Investiganti, dove fu coltivata soprattutto da Leonardo di Capua e Sebastiano Bartoli. Nell’Accademia degli Investiganti, che era nota anche come Accademia chimica, di Capua tenne lezioni di chimica e gli Investiganti diedero alle stampe un’opera (probabilmente di Leonardo di Capua) dal titolo Discorso per difesa dell’arte chimica e de’ professori d’essa (1663) – difesa motivata dall’opposizione delle autorità mediche cittadine all’insegnamento della chimica.
Preparazione di medicinali e indagini sperimentali di chimica si svilupparono in numerose spezierie, incluso quelle annesse ai conventi e agli ospedali, come il S. Spirito a Roma e gli Incurabili a Napoli. Sempre a Napoli, all’inizio del 17° sec., fra’ Donato d’Eremita produceva medicine spagiriche a base di minerali e metalli nella spezieria del monastero di S. Caterina a Formiello.
Negli orti botanici delle università, così come in quelli creati da principi o cardinali, già nella seconda metà del 16° sec., si svilupparono ricerche in laboratori, dove si distillavano piante per la preparazione di medicinali. Laboratori chimici furono creati presso l’orto dell’Università di Padova da Giacomo Antonio Cortusio (nel 1590), a Pisa da Luca Ghini, e a Messina da Castelli. Oltre a Firenze, laboratori chimici furono costituiti nell’Orto di Ferrara per iniziativa di Alfonso II d’Este e a Roma nel giardino botanico del cardinale Odoardo Farnese al Palatino, dove nei primi decenni del Seicento operava Tobia Aldini.
A lungo estranea ai curricula accademici, la chimica comincia a essere introdotta come disciplina di insegnamento solo nel Settecento, unica eccezione gli Stati tedeschi, dove si registra, già nella prima metà del 17° sec., l’istituzione di alcune cattedre di chimica medica (Clericuzio 2010). Nell’Italia del 17° sec. comincia a svilupparsi l’insegnamento privato all’interno di alcune spezierie, con lo scopo di produrre farmaci più elaborati dei tradizionali decotti. Corsi di chimica sono impartiti, come abbiamo visto, nell’Orto pisano e presso l’Accademia degli Investiganti a Napoli, mentre a Padova il tedesco Jacob Barner dal 1670 al 1672 impartisce privatamente lezioni di chimica, il cui contenuto confluirà nella Chymia philosophica del 1689. Anche se non produce significative innovazioni sul piano teorico, nei primi decenni del Settecento la chimica (tecniche, laboratori e testi) si è ormai diffusa in vari centri della penisola e comincia lentamente a essere integrata nell’insegnamento universitario.
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