IBN ṬUFAIL, Abū Bakr Muḥammad ibn ‛abd al-Malik ibn Muḥammad
Medico e filosofo arabo musulmano di Spagna, nato a Guadix sul Guadalquivir verosimilmente nel primo decennio del sec. XII e morto a Marrākesh nel Marocco nel 581 èg., 1185-1186 d. C. Nel Marocco fu medico e consigliere del sovrano almohade Abū Ya‛qūb Yūsuf, che regnò dal 558 èg. (1163) al 580 (1184) e al quale egli presentò il suo più giovane amico Averroè (v.). Tenne anche pubblici uffici a Granata e Ceuta o Tangeri. Scrisse di medicina in prosa e in versi; ma la sua celebrità in Oriente e in Europa è dovuta alla Risālat Ḥayy ibn Yaqẓān (Il trattatello su Ḥayy ibn Yaqẓān), specie di romanzo filosofico, la cui portata e i cui intenti furono spesso inesattamente intesi.
Nel prologo I. Ṭ. immagina che un amico gli abbia chiesto di rivelargli quanto era possibile dei segreti della filosofia orientale (non "illuminativa", come parecchi moderni traducono), dei quali Avicenna fa menzione. Come appare chiaro da tutto il prologo, si tratta della mistica, della quale I. Ṭ. di recente ha fatto qualche diretta esperienza; essa è pericolosa per chi non abbia una solida preparazione intellettuale (filosofica), a causa delle illusioni che può far nascere in lui; in ogni caso non può essere data in pasto al volgo. Le cognizioni offerte dalla contemplazione mistica non contrastano con quelle che si ottengono per via razionale discorsiva; ma hanno assai maggiore chiarezza e procurano all'anima un senso ineffabile di delizia. Sennonché il linguaggio umano è impotente a esprimerle; se tenta di farlo, le altera e ricade nel genere speculativo. Perciò I. Ṭ. rivelerà all'amico non le conoscenze mistiche bensi il metodo che può condurre a esse; e a tale scopo gli narrerà la storia di Ḥayy ibn Yaqẓān, Asāl e Salāmān (personaggi che hanno soltanto il nome in comune con i protagonisti di due allegorie filosofico-mistiche d'Avicenna).
I. Ṭ. immagina che esistano due racconti diversi per spiegare come il neonato Ḥayy ibn Yaqẓān sia venuto a trovarsi in un'isola dell'India situata all'equatore e priva d'esseri umani: o abbandonato in mare dai suoi e colà trasportato da correnti marine, oppure nato per generazione spontanea dal fango, cosa possibile in quel clima. Una gazzella allatta e alleva per più di due anni il piccino, che, dotato di molto ingegno e di molto spirito d'osservazione, durante i primi tre settennî riesce a provvedere sempre meglio ai suoi bisogni materiali, ad acquistare cognizioni anatomiche, a rendersi conto dello spirito vitale che risiede nel cuore, ecc. Nel quarto settennio egli compie la conoscenza di quello che Aristotele chiama il mondo della generazione e della corruzione, ossia il mondo sublunare; si rende conto dell'unità dello spirito animale, arriva al concetto di essenza, di specie e d'individuo, distingue corporeità e forma, comprende l'esistenza dell'anima vegetativa e animale, il rapporto fra produttore e prodotto, la necessità di supporre una causa efficiente suprema; che nelle cose esistenti produce gli atti a esse attribuiti, e il carattere non eterno di tutto ciò che costituisce il mondo sublunare. I corpi e le sfere celesti e i loro movimenti sono il primo oggetto di considerazione nel quinto settennio, e da essi egli desume nettamente la necessità che esista un autore del mondo, inaccessibile ai sensi, incorporeo, eterno, causa di ogni cosa; rimane incerto soltanto se il mondo sia stato prodotto da quell'autore nel tempo oppure sin dall'eternità, così da essere posteriore all'autore non cronologicamente, ma per essenza (o, come noi diremmo, logicamente). Il sesto settennio porta Ḥayy ibn Yaqẓān a un approfondimento sempre maggiore della perfezione dell'Essere necessario e ad arguire l'esistenza dell'anima razionale, quella che costituisce la vera essenza dell'uomo e che è imperitura; da tutto ciò deduce la felicità dell'anima quando sia liberata dagl'impacci del corpo dopo la morte di questo e goda della visione permanente e in atto (non soltanto in potenza) dell'Essere necessario: in altre parole, riconosce l'esistenza della vita futura e la sua beatitudine spirituale, e ad essa appassionatamente aspira. Fin qui abbiamo un ingegnoso e piacevole quadro dell'aristotelismo arabo, spogliato del sistema cosmogonico emanazionista introdottovi da al-Fārābī (v.) e da Avicenna (v.) per influenza neoplatonica, e adattato al sistema della teologia speculativa musulmana, così da sopprimere, p. es., le cause seconde, per ammettere come causa efficiente soltanto l'Essere supremo. Anche il cammino percorso da Ḥayy è pienamente giustificato dalla teologia suddetta, che ammette sia la possibilità di arrivare alla conoscenza dell'esistenza e dell'unicità di Dio con le sole forze intellettuali, sia la fiṭrah, cioè una predisposizione naturale dell'uomo, sin dalla nascita, alla vera religione.
Il rimanente del sesto settennio e il settimo ci conducono nel campo dell'ascetico-mistica. Ḥayy comprende che la vita animale deve essere ridotta al minimo con riduzione degli alimenti e con regime quasi del tutto vegetariano; che egli deve imitare i corpi celesti nella loro purezza, nella loro benefica azione sugli esseri vegetali e animali del mondo sublunare, nel loro perfetto moto circolare; e così, con rapidi giri intorno a sé stesso (ricordanti la danza mistica un po' più tardi istituita da Gelāl ad-Dīn Rūmī), arriva a perdere quasi del tutto la sensazione del mondo corporeo, a conseguire talora ratti di estasi mistica e a prepararsi all'assimilazione all'Essere necessario. Dopo lunghi esercizî giunge a un tal concentramento del pensiero, da perdere la coscienza di sé e da immergersi completamente nella visione dell'Uno vero. Nell'estasi egli ha la netta conoscenza delle sostanze separate, ossia delle intelligenze delle sfere celesti, formanti una scala digradante da quella delle stelle fisse a quella della luna. Da ultimo arriva a essere in uno stato quasi permanente di unione mistica. Giunto Ḥayy al suo cinquantesimo anno, viene nella sua isola Asāl, pio credente che ha abbandonato un'altra isola governata dal suo amico il re Salāmān, allo scopo di darsi a vita esclusivamente ascetica fuori della società. I due s'incontrano; Asāl a poco a poco insegna a parlare a Ḥayy e da questo apprende la sua storia e le sue aspirazioni; riconosce con stupore il pieno accordo delle dottrine del solitario con la religione rivelata e parla di questa e del suo profeta a Ḥayy, il quale a sua volta non riscontra in tutto ciò nulla che contraddica il suo proprio sistema filosofico-teologico; solo non riesce a capire perché il profeta spesso si valga di parabole e d'immagini parlanti più ai sensi che allo spirito per esprimere le verità della religione positiva (senza dubbio allusione agli antropomorfismi del Corano, alle descrizioni sensuali della vita futura, ecc.), perché le pratiche del culto siano regolate in modo cosi minuzioso ed eguale per tutti, infine perché la religione (musulmana) invada il campo profano dei negozî giuridici, il cui fine è terreno ed estraneo a ogni spiritualità. Propone dunque che entrambi si rechino nell'isola di Asāl per richiamarne gli abitanti alla purezza della religione (musulmana). Dapprima sono accolti benissimo; ma quando Ḥayy tenta di esporre le verità religiose senza veli e di combattere le attività mondane suscita scandalo e perturbazione morale a tutto danno della fede. Gli appare chiara allora la sapienza profonda del linguaggio adoperato e delle pratiche insegnate dall'inviato di Dio; chiede scusa a quelle genti dei discorsi inopportuni ad esse tenuti e con Asāl torna alla propria isola per dedicarsi interamente alla vita mistica.
Il libro, che ha anche pregi artistici, non è dunque soltanto un quadro del modo con cui l'umanità si è andata incivilendo e l'intelligenza ha potuto conseguire grandi altezze. Esso si propone anche di mostrare la verità e necessità della religione rivelata, il suo accordo perfetto con la ragione umana e l'incapacità di quest'ultima ad approfondire certe verità sublimi, le quali invece si intendono nell'estasi mistica. Donde la legittimità della mistica (ṣūfismo) - avversata invece da molti filosofi e teologi - purché sia riservata ad anime elette e aventi quella preparazione intellettuale che le trattenga dall'errore di credere che l'unione estatica sia una reale unificazione della loro essenza con l'essenza di Dio.
Benché interpretato in modo unilaterale, come sopra fu avvertito, il libro ebbe nell'Occidente non musulmano un grande successo. Una versione ebraica fu commentata in ebraico da Mosè di Narbona nel secolo XIV e tradotta in latino, per suo uso personale, da Pico della Mirandola nella seconda metà del XV (v. U. Cassuto, Gli Ebrei a Firenze nell'età del Rinascimento, Firenze 1918, p. 322). Ma soprattutto fu grande la sua voga dopo che nel 1671 comparve a Oxford la versione latina fatta sull'arabo da Edoardo Pocock figlio, con introduzione e testo arabo dovuti a Edoardo Pocock padre (la presunta ristampa del 1700 non è che una nuova messa in circolazione dei vecchi fogli di stampa con frontispizio nuovo); nell'anno successivo uscivano due traduzioni inglesi fatte sul latino, delle quali una del quacchero G. Keith, che lo considerò come libro di edificazione. Dal latino dipendono anche la traduzione olandese anonima (1672 e 1701) e la tedesca del Pritius (1726). Invece sono fatte sull'arabo le inglesi di S. Ockley (1708, 1731, 1929) e di P. Brönnle (3ª ed. 1907, 4ª 1910, voltata in tedesco 1907), la spagnola di F. Pons Boigues (1900), la francese di L. Gauthier (accompagnata dalla migliore edizione esistente del testo arabo) e la russa di I. P. Kuzmin (1920).
Manca ancora uno studio esauriente delle dottrine di Ibn Ṭufail.
Bibl.: L. Gauthier, Ibn Thofail, sa vie, ses oeuvres, Parigi 1909; D. K. Petrov, in Zapiski kollegii vostokovedov pri Aziatskom Muzee, II, Leningrado 1926, pp. 73-90 (contro l'ipotesi che il personaggio di Andrenio nel Criticón di Baldassare Gracián derivi da Ḥayy ibn Yaqẓān); E. García Gómez, Un cuento árabe fuente común de Abentofáil y de Gracián, in Revista de archivos, bibliotecas y museos, XXX (1926) (indipendente dal Petrov; fonte comune sarebbe un racconto arabo, scoperto in un ms. di Spagna del 1521); C. A. Nallino, in Riv. d. studi orientali, X (1925), pp. 434-436, 438-440, 464-466.