IBRIDO CELLULARE
Le cellule di organismi viventi possono fondersi e originare un'unica cellula con caratteristiche diverse da quelle delle cellule di partenza, dette anche parentali. Al fenomeno è stato dato il nome di fusione; se la fusione procede sino alla comparsa di un unico nucleo, si ottiene un ibrido cellulare.
La fusione di cellule può avvenire in modo naturale, per es. durante le prime fasi dell'embriogenesi con la formazione del sinciziotrofoblasto, oppure tra mioblasti durante la differenziazione muscolare, o a seguito di infezioni virali. Anche quella che ha luogo al momento della fecondazione è un'ibridazione cellulare, seppure di tipo particolare: la fusione avviene tra i gameti, cioè tra le cellule germinali di sesso opposto (spermi e ovuli), dotati di assetto cromosomico singolo, o aploide. Il suo prodotto, lo zigote, presenta un assetto cromosomico doppio o diploide, e potrà originare una struttura organizzata, l'embrione, in grado di differenziarsi, svilupparsi in un organismo completo e riprodursi.
Quando a fondersi sono invece le cellule che costituiscono il ''corpo'' o soma di un organismo, cioè le cellule cumulativamente indicabili come ''somatiche'' in quanto diverse dalle cellule germinali, si parla di ibridazione cellulare somatica. Questo tipo di fusione coinvolge cellule derivate da tessuti diversi di uno stesso organismo oppure cellule appartenenti a organismi diversi: è addirittura possibile ottenere la fusione di cellule di organismi che rappresentano i due diversi regni, animale e vegetale: sono state infatti ottenute cellule ibride da cellule umane coltivate in vitro (HeLa) e cellule di tabacco. L'ibrido somatico può essere coltivato in provetta, ma, in generale, non può svilupparsi in un organismo ibrido riproduttivamente funzionale. Infatti nei sistemi eucariotici, specialmente in quelli più evoluti e in particolar modo negli animali, il processo di differenziamento che ha portato alla comparsa delle cellule somatiche si ritiene abbia fatto perdere loro la cosiddetta ''totipotenza'', con ogni probabilità a seguito di inattivazione irreversibile di uno o più geni chiave.
Il fenomeno dell'ibridazione spontanea tra cellule in coltura si presenta con frequenze piuttosto basse, dell'ordine di una su diecimila. Soltanto quando se ne poté aumentare la frequenza e selezionarne i prodotti la tecnica riuscì a diffondersi e a diventare uno strumento molto utile tanto nella ricerca di base quanto in quella applicativa.
L'ibridazione somatica nasce verso la fine degli anni Cinquanta, dopo che alcuni ricercatori, in particolare J. Lederberg (1958) e G. Pontecorvo (1962), sottolinearono l'importanza di avviare lo studio della genetica delle cellule animali sulle orme già produttivamente tracciate dalla genetica delle cellule batteriche, e quindi sganciata dalle limitazioni della riproduzione sessuale. All'inizio degli anni Sessanta G. Barsky e colleghi scoprirono che colture miste di due tipi di cellule di topo a dotazione cromosomica anomala (cariotipo eteroploide) originavano una nuova linea cellulare a crescita più rapida delle linee parentali e a cariotipo uguale alla somma dei loro cariotipi. L'osservazione fu ignorata o accolta con scetticismo: Pontecorvo fu tra i pochi ad apprezzarla e poco dopo Ephrussi e colleghi la confermarono, la svilupparono e produssero il primo i. c. di topo a normale dotazione cromosomica diploide. L'introduzione di una tecnica che permettesse la crescita selettiva dei soli ibridi bloccando quella delle cellule parentali fu forse l'evento decisivo per la diffusione dell'ibridazione cellulare: venne elaborata da Szybalski, che nel 1962 mise a punto un terreno di crescita selettivo (HAT, dalle iniziali dei componenti essenziali, in inglese hypoxanthine, aminopterin, thymidine), che sfruttando blocchi enzimatici delle cellule parentali nella sintesi dei precursori purinici e pirimidinici degli acidi nucleici permetteva la crescita delle sole cellule ibride nelle quali le singole mutazioni delle due cellule parentali venivano complementate. Il terreno HAT è oggi ancora largamente usato.
Di pari importanza nella fase iniziale fu la scoperta che permise un incremento della frequenza d'ibridazione, descritta da Harris e Watkins nel 1965: l'esposizione a un virus agglutinante (Sendai) inattivato con i raggi UV. Probabilmente per azione di una o più glicoproteine virali le membrane delle cellule da fondere venivano alterate e così aumentava la frequenza di fusione.
Con lo sviluppo delle tecnologie per l'isolamento e la coltura di protoplasti (cellule private della rigida parete cellulare), nel 1972 l'ibridazione veniva estesa alle piante, grazie in particolare ai lavori di Carlson, Melchers e Cocking, che arrivarono a rigenerare piante ibride. Poco dopo da Migeon veniva ottenuta la prima ibridazione tra cellule umane diploidi, e nel 1975 Pontecorvo descriveva l'impiego di un agente fusogeno chimico, il polietilenglicol (PEG), che doveva rivoluzionare la tecnica dell'ibridazione. Con i più recenti lavori di Senda, a partire dal 1979 sono state introdotte le procedure che fanno uso di campi elettrici ad alto voltaggio (elettroporazione) per alterare in modo non ancora del tutto chiarito la porosità, e ottenere così un incremento nell'efficienza dei processi di fusione della membrana plasmatica; oppure di raggi laser, particolarmente utili per fusioni in vivo di specifiche cellule embrionali, usati con successo nello studio di nematodi.
L'ibridazione cellulare può essere schematicamente suddivisa in quattro eventi, presentati in figura. Le basi chimico-fisiche devono ancora essere in qualche misura chiarite e restano anche grosse incertezze su alcuni aspetti, come indicato nella didascalia della figura (vedi in particolare il punto 4).
Gli obiettivi perseguibili con l'ibridazione cellulare sono di duplice natura: ricerca di base e studi applicativi. Tra i primi basta ricordare qualche esempio: la natura fisico-chimica dei fenomeni di membrana che controllano la fusione di due cellule o, successivamente, dei nuclei; o gli eventi nucleari che dopo la fusione portano alla riattivazione di geni inattivi in uno dei due partners; o infine i meccanismi che causano la perdita progressiva riscontrata nel corso della crescita dell'ibrido a carico dei cromosomi di uno dei due partners nelle fusioni interspecifiche; occorre qui ricordare che con questa tecnica sono stati avviati i primi studi di mappatura genetica nell'uomo, che hanno portato alla localizzazione cromosomica di centinaia di geni, la cui attività era riscontrabile nell'ibrido che conservasse uno o pochi cromosomi umani insieme con tutti i cromosomi del roditore.
Tra le possibilità applicative aperte dall'ibridazione cellulare, occorre ricordare soprattutto la produzione di ibridomi (v. biotecnologia, in questa Appendice); oppure la possibilità d'introdurre strutture sub-cellulari e di altra natura anche macrocellulare nei cosiddetti ''fantasmi'' (ghosts) di eritrociti ottenuti per rottura osmotica: questi possono venire caricati di una serie di sostanze (enzimi, anticorpi, proteine varie e acidi nucleici), delle quali diventa quindi possibile studiare il comportamento sia in tessuti bersaglio, quale il fegato, sia all'interno di ibridi risultanti dalla fusione dell'eritrocita carico con altre cellule nucleate. Gli eritrociti diventano quindi veri e propri vettori cellulari per sostanze eventualmente dotate di proprietà farmacologiche in grado d'interagire con cellule, tessuti o parti dell'organismo, altrimenti di difficile accesso.
Oggi gli impieghi forse più estesi e promettenti sono quelli diretti allo studio di sistemi vegetali: sinora però solo per alcuni generi (Brassica, Solanum e altre) l'ibridazione somatica ha permesso la produzione di piante non ottenibili attraverso incroci sessuali. Particolarmente deludenti, benché tanto reclamizzati, sono stati i tentativi di fondere piante di patata e di pomodoro, per ottenere ibridi resistenti alle basse temperature come le patate e in più capaci di fornire insieme tuberi nella parte sotterranea e bacche in quella aerea.
D'interesse più limitato ma non per questo trascurabile è la produzione di ibridi in cui i due partners cellulari mettono in comune i compartimenti citoplasmatici con mitocondri e cloroplasti, ma conservano un solo nucleo parentale: a questi ibridi è stato dato il nome di ''cibridi'' proprio per indicare la partecipazione dei citoplasmi (e non dei due nuclei parentali) alla struttura ibrida. Particolare importanza sembra assumere l'impiego di cibridi nello studio della sterilità maschile associata a fattori citoplasmatici.
È però anche probabile che le variazioni di continuo introdotte nelle tecniche impiegate per la fusione cellulare e per la produzione di i.c. o somatici, o più semplicemente citoplasmatici, che hanno raggiunto un elevato grado di complessità e sofisticazione, permetteranno sempre più numerosi e interessanti impieghi nei diversi settori applicativi. Risulta quindi del tutto giustificata un'assimilazione dell'ibridazione cellulare alle tecnologie di manipolazione genetica molecolare: entrambe infatti possono portare a prodotti paragonabili, cioè a cellule dotate di patrimoni genetici modificati anche se nel caso dell'ibridazione cellulare le modificazioni non sono ancora altrettanto controllate. Può essere quindi appropriato parlare di fusioni e ibridazioni come di forme di ''ingegneria cellulare'', cioè come di una linea di ricerca convergente rispetto all'ingegneria genetica (vedi ingegneria genetica, in questa Appendice).
Bibl.: J. Lederberg, Genetic approaches to somatic cell variation: summary comment, in Journal of Cellular and Comparative Physiology, supplement 1, 1958, pp. 383-92; P. Carlson e altri, Parasexual interspecific plant hybridization, in Proceedings Nat. Acad. of Sciences, 69 (1972), pp. 2292-94; L. De Carli, Ibridazione delle cellule somatiche, in Enciclopedia della scienza e della tecnica, Milano 1974, pp. 209-16; M. Senda e altri, Induction of cell fusion of plant protoplasts by electrical stimulation, in Plant cell physiology, 20 (1979), pp. 1441-43; E. Schierenberg, Altered celldivision rates after laser induced cell fusion in nematode embryos, in Developmental Biology, 101 (1984), pp. 240-45; Cell fusion, a cura di A. E. Sowers, New York 1985; F. Sala, R. Cella, Trasferimento genico in cellule vegetali, Padova 1988; In situ hybridization, a cura di A.T. Haase e M.B. Oldstone, in Current topics in microbiology & immunology series, vol. 143 (1989); J.M. Polak, J.O'D. McGee, In situ hybridization: principles & practice, Oxford 1990; In situ hybridization: application to developmental biology and medicine, a cura di N. Harris e D.G. Wilkinson, in Society for experimental biology seminar series, n. 40 (1990).