Icho šašvi mgalobeli/Žil pevčij drozd
(URSS 1971, C'era una volta un merlo canterino, bianco e nero, 85m); regia: Otar Ioseliani; produzione: Gruzja Film/Kartuli filmi; sceneggiatura: Otar Ioseliani, Dmitrij Eristavi, Otar Merikšvili, Il′ja Nusinov, Senon Lungin; fotografia: Abesalom Maisuradze, Atvandil Maisuradze; montaggio: Giulia Bezuašvili; scenografia: Dmitrij Eristavi; costumi: R. Quchuloria; musica Temur Bakuradze.
Tbilisi, in Georgia. Il giovane Ghia, timpanista nell'orchestra del teatro dell'opera, si disperde in qualsiasi direzione, distratto da ogni fenomeno che possa suscitare la sua curiosità, in particolare le donne, le allegre bevute che condivide con gli amici, ma anche alcune concomitanze sfortunate che, talvolta, gli fanno sfiorare situazioni pericolose. Ghia arriva in disordine e perenne ritardo alle prove musicali, ma riesce miracolosamente a raggiungere all'ultimo minuto la sua orchestra, durante l'esecuzione del finale dell'opera; fissa un appuntamento con una ballerina, ma se ne dimentica per unirsi a un amico. Dopo aver inutilmente tentato di farsi perdonare dalla ragazza, il timpanista conduce gli amici a casa propria svegliando la madre nel cuore della notte. In seguito, anziché recarsi a un appuntamento con il direttore del teatro, fissatogli dal suo direttore d'orchestra, si distrae a parlare con la segretaria. Un amico orologiaio, dal quale si reca spesso e che aiuta occasionalmente nel suo lavoro, lo rimprovera per la sua condotta di vita, ma Ghia non sembra rendersene conto e risponde di non avere abbastanza tempo per assolvere i propri impegni. In una biblioteca, incontra un'amica e la segue all'Istituto di microbiologia, dove curiosa nel laboratorio. Poi continua a disertare le prove e a mancare a tutte le incombenze assegnategli. Un giorno, mentre attraversa la strada, si volta a guardare alcune ragazze e viene investito mortalmente da un camion. Proprio in quel momento, l'orologiaio riesce a riparare un vecchio ingranaggio.
Ghia Agaladze, il 'merlo canterino' protagonista del secondo lungometraggio di Otar Ioseliani, è la negazione assoluta del modello di individuo che la propaganda sovietica aveva imposto attraverso il cinema, il teatro, la letteratura e l'intero apparato iconografico del realismo socialista. La sua leggerezza assoluta lo conduce a sorvolare spontaneamente su qualsiasi dovere, orario, demarcazione, funzione pratica che rimandi alla società, ai suoi obblighi, ai suoi doveri. È una figura che vive e si muove nell'istantaneità passeggera delle passioni e degli impulsi, che agisce secondo un respiro diverso da quello del mondo che lo circonda, forse anche perché quel mondo ha i connotati di un'atroce dittatura quale fu il regime di Stalin e dei suoi successori. Come ha affermato Ioseliani, "la Georgia dei miei tempi era un lager dove nessuno era felice ma tutti erano allegri". All'orrore di ciò che incombe intorno (che il film non solo non può mostrare ma cui non può nemmeno alludere), Ghia oppone una vitalità affamata di esperienze casuali, reinventa continuamente il proprio itinerario assecondando ogni nuovo incontro imprevisto gli capiti sul cammino (ragazze da corteggiare, amici con cui bere e ridere). È proprio scialacquando il proprio tempo in mille rivoli di distrazione che Ghia, in effetti, trova un implicito appagamento esistenziale, perché, come ha affermato l'autore stesso, "è molto meglio non fare nulla che fare nel nulla". L'adesione dell'autore al proprio personaggio, del resto, è ravvisabile anche dai connotati ridicoli o sottilmente sgradevoli che, invece, egli assegna alle figure 'istituzionali' che attorniano l'innocenza di Ghia, dove si addensano i tratti autobiografici. Se è vero che le maglie della censura non avrebbero consentito a Ioseliani di essere più esplicito nei confronti delle strutture statali e dei suoi rappresentanti (i quali, comunque, bloccarono il film, togliendolo dagli schermi dopo appena una settimana di proiezioni), l'indeterminatezza dell'opprimente universo sovietico che Ghia esautora di senso e valore ‒ non con una ribellione ideologica, ma semplicemente con la propria forma di esistenza ‒ conferisce alla figura del timpanista una dimensione più universale, una serena, radicale anarchia fanciullesca che asseconda esclusivamente le fantasie e i desideri dell'istante.
La disposizione aleatoria del personaggio, cui corrisponde la struttura aperta e frammentaria del film, che sembra poter continuare indefinitamente aprendosi a ventaglio su episodi ulteriori (come sarà per molti successivi lavori di Ioseliani), sottende una illimitata permeabilità alle contingenze della realtà, da cui Ghia si lascia irretire sull'onda di un'ebbrezza alcolica che ispira risate, convivialità e l'effimera complicità con i compagni di sbornia. Se la grazia ironica e il disincanto malinconico del regista georgiano permeano, nei film più recenti, la contemplazione di un mondo al tramonto (La chasse aux papillons ‒ Caccia alle farfalle, 1992), il feroce iterarsi della Storia (Brigands, chapitre VII ‒ Briganti, 1996) e i giochi del caso in una giostra umana dominata dall'avidità (Adieu, plancher des vaches! ‒ Addio terraferma, 1999), in Icho šašvi mgalobeli la soave e calamitosa incoscienza di Ghia è il segno di un'anima inassimilabile all'ingranaggio sociale, ostinatamente irriducibile nella sua serena, ludica diversità.
Un'anima che ha peculiarità tipicamente slave, più precisamente georgiane, e che si ritroverà, in varianti diverse, lungo l'intero cinema di Ioseliani, nell'aria svagata e ironica di una solitaria figura lunare che gode del puro privilegio della libertà ma che, qui, è destinata a vita breve. Sulla incosciente svagatezza di Ghia, infatti, incombe la realtà, ossia la morte. La morte si annuncia inizialmente sotto le mentite spoglie di accidenti tragicomici ‒ la caduta di un vaso da una finestra, il veleno che Ghia sta per bere, una botola che si apre sotto i suoi piedi in un palcoscenico. La comicità di queste gag a lieto fine, sospese su pericoli letali, rivela il proprio senso amaro e crudele solo alla fine, quando una situazione altrettanto 'buffa' ‒ Ghia non vede l'arrivo di un camion perché si è voltato a guardare alcune ragazze ‒ si converte brutalmente nella tragedia di una morte gratuita. Si scopre così, alla fine, che quelle piccole disavventure divagatorie e prive di rilievo non erano ironici pretesti per far scaturire le risate dal pericolo, ma sinistri campanelli d'allarme che non proteggevano l'eroe scapestrato dalla caduta nel baratro (come accade agli eroi indistruttibili dello slapstick), ma ve lo sospingevano. Il film, distribuito in patria nelle versioni georgiana e russa, è stato presentato nel 1974 alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes e alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
Interpreti e personaggi: Gela Kandelaki (Ghia Agladze), Irina Džandieri, Giansug Kachidze, Marina Karcivadze, Zurab Nižaradze, Maka Macharadze, Gogi Čkeidze, Robert Sturna.
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Ioseliani secondo Ioseliani. Addio terraferma, a cura di L. Barcaroli, C. Hintermann, D. Villa, Milano 1999.
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