ICONOCLASTIA
L'impulso alla distruzione delle immagini, in particolare le raffigurazioni di Dio e dei santi, o almeno a vietarne la produzione era insito nella spiritualità del cristianesimo. Anche coloro che non rifiutarono mai completamente le immagini sentirono l'esigenza di controllarne l'uso per premunirsi contro il pericolo dell'idolatria, il rischio che i fedeli potessero sostituire le icone a Dio come oggetto di devozione. Molto tempo prima che le tendenze iconoclastiche acquisissero nel mondo bizantino una forza tale da sfociare in un attacco ufficiale all'arte sacra, l'avversione nei confronti delle immagini era già emersa più volte.Sebbene nell'Occidente latino l'i. fosse stata arginata dal precetto di papa Gregorio I Magno (590-604), che difendeva le immagini in quanto libri degli illetterati (Registrum epistolarum, IX, 209), il loro uso rimase un problema aperto, come nel mondo bizantino, in particolare durante l'età carolingia e nel corso delle continue dispute circa la vera ascesi monastica.L'i. cristiana aveva le proprie radici nel rifiuto da parte degli ebrei di una produzione artistica mimetica, come viene espresso nel secondo comandamento e nei testi a esso collegati (Es. 20,4; Dt. 4, 15-19; Sal. 115 (113B), 2-8; Gv. 4, 23; Rm. 1, 18-23); essa venne rafforzata anche dallo scetticismo filosofico pagano circa il mondo fisico (Platone, Repubblica, 3, 10). Sebbene tale posizione venisse ulteriormente consolidata dall'iniziale ostilità del cristianesimo nei confronti del paganesimo, le cui divinità venivano identificate con gli idoli, essa non deve tuttavia essere mai stata determinante. A giudicare dalle diverse fonti testuali e dai monumenti conservati, quali l'edificio cristiano di Dura Europos e le catacombe di Roma, l'i. vera e propria si sviluppò gradualmente in concomitanza con il formarsi della Chiesa. Ciò non appare d'altro canto sorprendente, giacché anche il giudaismo, da cui il cristianesimo derivava, ebbe un'articolata cultura visiva nel suo periodo formativo.I primi apologisti attaccarono il culto pagano delle immagini come degradante venerazione di oggetti fisici infestati da demoni, e fu solo con il trionfo del cristianesimo nel 400 ca. che le antiche statue poterono essere accettate come monumenti artistici (Prudenzio, Contra orationem Symmachi, II; CSEL, LXI, 1926, pp. 244-288). Nello stesso tempo gli apologisti non rifiutavano l'arte cristiana nel suo complesso; se si pone attenzione agli sporadici riferimenti a un'ostilità nei confronti delle immagini prima del 500 ca., si osserva che ciascun caso ha un suo contesto specifico, generalmente legato all'arianesimo o a un'altra eresia. Coloro che erano ostili alle immagini potevano anche distinguere tra i generi di immagini a loro avviso sospette. Le statue degli dei pagani potevano venire distrutte e le rappresentazioni di Dio Padre o persino di Cristo essere rifiutate, ma era ancora permessa la rappresentazione degli eventi storici. Un esempio classico è quello di s. Nilo di Ancira, detto il Sinaita (m. nel 435 ca.), che, nella sua lettera al prefetto Olimpiodoro (430 ca.; Ep., IV, 61; Thümmel, 1992, p. 310), rifiutava come elementi distraenti i motivi puramente decorativi e quelli profani e raccomandava che le immagini di Cristo venissero evitate nell'abside, fulcro del culto, ma accettava in virtù del loro valore pedagogico le rappresentazioni a carattere narrativo tratte dall'Antico e dal Nuovo Testamento.Con l'accrescersi dell'importanza delle rappresentazioni di Cristo e dei santi, in particolare grazie alla committenza imperiale durante l'epoca di Giustiniano, si intensificarono gli attacchi alle immagini e, di conseguenza, anche le prese di posizione a loro giustificazione. Un secolo dopo s. Nilo, Ipazio di Efeso (m. nel 537-538) organizzò una più articolata difesa dell'arte in risposta ai tradizionali argomenti esposti da Giuliano di Atramizio (Sýmmikta, zetémata, 1,5; Thümmel, 1992, pp. 320-321). Pur ammettendo che le immagini non erano in grado di trasmettere l'essenza divina, Ipazio citava le Sacre Scritture e il Sancta Sanctorum costruito da Mosè per portare un esempio in cui l'arte figurativa poteva essere permessa come concessione ai semplici, che necessitavano di sostegni materiali per poter accedere alla sfera spirituale.All'incirca alla stessa epoca, gli ebrei mutarono il loro precedente atteggiamento di tolleranza e iniziarono a deturpare o a coprire le immagini delle loro sinagoghe; alla fine del sec. 6° l'i. veniva considerata una caratteristica degli ebrei, riflesso di una cieca adesione alla lettera della Legge. Così Gregorio di Tours (De gloria martyrum, 21; MGH. SS rer. Mer. I, 2, 1885, p. 599) narra che un ebreo che si preparava a bruciare un crocifisso rubato da una chiesa venne catturato perché la statua cominciò a sanguinare. Non è dunque un caso che la difesa sistematica delle immagini abbia avuto inizio nel corso del sec. 7° nel contesto delle polemiche giudaico-cristiane. La più antica testimonianza conservata è il Katá Iudáion di Leonzio di Napoli (primo terzo del sec. 7°; Déroche, 1994), il quale cita personaggi ed elenca oggetti venerati nella Sacre Scritture per concludere che le cose materiali, così come le reliquie e le immagini, possono servire come elementi di mediazione nel culto rivolto a Dio; egli distingue anche tra gli idoli pagani, che derivano da demoni, e le icone cristiane, i cui archetipi sono Cristo e i santi. Altri trattati polemici in funzione antigiudaica di Anastasio Sinaita, del terzo quarto del sec. 7°, Stefano di Bosra, degli inizi del sec. 8°, le Quaestiones ad Antiochum ducem, del quarto decennio del sec. 7°, e i Trofei di Damasco, della seconda metà del sec. 7° (Thümmel, 1992, pp. 354-367), ripresero numerosi degli stessi argomenti e ne introdussero di nuovi: si sosteneva per es. che l'adorazione accordata a Dio poteva essere distinta dalla venerazione rivolta alle cose materiali. Forse in risposta a veri e propri atteggiamenti iconoclastici alla fine del sec. 7°, Vertanes Kertogh riprese molti degli stessi argomenti di difesa all'interno del suo trattato sulle immagini (Thümmel, 1992, pp. 368-373); tuttavia, poiché non si rivolgeva agli ebrei, egli vi inserì numerose citazioni dai Padri della Chiesa.Lodando gli imperatori cristiani per aver distrutto le antiche statue, le Parastáseis sýntomoi chronikái rivelano come il timore degli idoli pagani persistesse fino al sec. 8° inoltrato. All'incirca alla stessa epoca il califfo Yazīd II (720-724) decretò che nel proprio territorio venissero distrutte le immagini cristiane (Grabar, 1957, p. 155ss.). Una testimonianza di veri e propri atti di distruzione di immagini cristiane avvenuti in Asia Minore in questo momento critico si ritrova in tre lettere attribuite a Germano, patriarca di Costantinopoli (715-730). Scritte a Giovanni di Synada (Thümmel, 1992, pp. 374-377), Costantino di Nacoleia (ivi, pp. 377-378) e a Tommaso di Claudiopoli (ivi, pp. 378-387), i quali sembra avessero invocato la distruzione delle immagini sulla base delle proibizioni delle Sacre Scritture, le lettere testimoniano una posizione contraria alla tesi iconoclastica secondo cui la Chiesa sarebbe caduta nell'idolatria a causa del culto delle immagini. Mentre in esse si riconosce che Dio è incircoscrivibile e quindi non può essere rappresentato, si ritiene tuttavia che le immagini servano a dimostrare la completezza dell'umanità di Cristo e quindi non debbano essere disprezzate. Dopo essere stato deposto nel 730, Germano condannò l'incipiente movimento iconoclastico nel suo De haeresibus et Synodis, definendolo 'un'innovazione' che non si conformava alla tradizione della Chiesa. Inizialmente sostenitore di Leone III, Germano se ne allontanò quando l'imperatore passò alla fazione contraria alle immagini; quando Leone, abbracciata ufficialmente la dottrina iconoclastica durante un'adunanza pubblica nel gennaio del 730, impose un decreto vincolante contro l'arte religiosa, Germano rifiutò di firmarlo e rassegnò le dimissioni dal suo ufficio.Quale che sia stato l'influsso esercitato sull'imperatore dalle idee dei tre iconoclasti dell'Asia Minore, Leone sembra aver dato l'avvio all'i. ufficiale bizantina per sue convinzioni personali. Nonostante gli sia attribuita la distruzione della famosa icona di Cristo sulla porta della Chalké, avvenuta nel 726, e nonostante egli abbia sicuramente appoggiato la campagna per distruggere le icone portatili e le pitture monumentali, Leone non fu tuttavia colpevole né del vandalismo che gli storici iconoduli di epoca successiva gli attribuirono, né delle eresie a cui si riferivano le sue prese di posizione.Alcune lettere indirizzate a Leone III l'Isaurico (717-741) e attribuite a papa Gregorio II (715-731) permettono di ipotizzare che la reazione ufficiale alla politica imperiale fosse inizialmente piuttosto morbida (Gouillard, 1968); esse asseriscono il diritto della Chiesa a stabilire la dottrina e ripercorrono le tradizionali affermazioni in favore delle immagini, quali per es. la loro origine antica, i miracoli da esse operati e il loro uso per suscitare memoria e compunzione.Più decisa fu la risposta di Giovanni Damasceno in numerosi trattati che confutavano gli iconoclasti, tra i quali ebbero particolare influenza le Contra imaginum calumniatores orationes tres, scritte intorno al 730. Facendo riferimento alle leggende e ai commentari patristici, il Damasceno concludeva che l'incarnazione di Cristo aveva abrogato le ingiunzioni delle Sacre Scritture relative alle immagini e che la venerazione di un'icona non costituiva l'adorazione dell'oggetto stesso, ma consentiva piuttosto un passaggio verso il prototipo. Inoltre, basando le proprie categorie in parte sugli scritti dello pseudo-Dionigi (secc. 5°-6°), egli classificò vari tipi di immagini e stabilì una loro gerarchia.È possibile che l'usurpatore Artavasde avesse ripristinato l'uso delle immagini durante il suo breve regno (742-743), forse nel contesto di una strategia mirante a garantirgli l'appoggio degli iconoduli; ma Costantino V Copronimo (741-775), figlio e successore di Leone, dopo aver riguadagnato il trono, rinnovò la politica iconoclastica del padre. Successivi trattati iconoduli, in particolare la Vita sancti Stephani iunioris (Rouan, 1981), asseriscono che Costantino non soltanto diede vita a un'ampia distruzione delle immagini, ma persino che giustiziò i loro propugnatori; va peraltro rilevato che certamente alcune immagini vennero distrutte ma non vi sono le prove di distruzioni sistematiche o di persecuzioni.Costantino V diede infine un nuovo fondamento teologico all'iconoclastia. Un testo anonimo conosciuto come Nuthesía ghérontos perí tón haghíon eikónon (Gero, 1977, p. 25ss.), scritto durante la prima parte del suo regno, dal punto di vista intellettuale appartiene ancora alla prima fase dell'i., poiché fonda l'attacco alle immagini su diretti pronunciamenti delle Sacre Scritture; intorno al sesto decennio del sec. 8°, tuttavia, Costantino stava elaborando un'i. più raffinata dal punto di vista teologico. Abbozzata inizialmente nelle Péuseis (Gero, 1977, p. 37ss.), cui era allegato un florilegio di citazioni patristiche correlate al soggetto, il suo assioma principale era che un'immagine, per essere appropriata, doveva essere della stessa sostanza del suo prototipo (ὁμο-ούσιοϚ). Tutte le immagini che rappresentavano Cristo separavano necessariamente la sua natura umana dalla sua divinità, dal momento che la natura divina non poteva essere circoscritta nel tempo, nello spazio e nella materia; le rappresentazioni pittoriche di Cristo rientravano quindi nell'eresia cristologica. Inoltre, poiché costituite di materia morta, le pitture offendevano la Vergine Maria e i santi, non rivelando la loro santità. Le Péuseis di Costantino V vennero discusse al concilio di Hieria da lui convocato nel 754 e la posizione iconoclastica venne stabilita nella definizione della fede, il c.d. Hóros (Gero, 1977, p. 68ss.).In questa definizione le icone cristiane erano assimilate agli idoli pagani e quindi oggetto delle censure bibliche. L'argomento cristologico di Costantino si raffinava basandosi sui precedenti dibattiti sulla natura dell'incarnazione ed enfatizzando il fatto che l'immagine testimoniava soltanto l'esteriorità, cioè l'aspetto materiale, del suo prototipo. Il concilio affermava anche che le immagini sostituivano la venerazione delle cose create alla venerazione del Creatore. Ugualmente duri nei confronti del culto delle reliquie, i pronunciamenti postulavano che soltanto l'eucaristia fosse la vera immagine di Cristo. Pertanto, in sostituzione delle raffigurazioni religiose, gli iconoclasti introdussero da un lato la croce, dall'altro soggetti a carattere profano.Un anonimo trattato scritto verso la fine del regno di Costantino e un tempo attribuito a Giovanni Damasceno, l'Oratio adversus Constantinum Caballinum, databile al terzo quarto del sec. 8°, offre una risposta di carattere iconodulo, asserendo che, al pari degli ebrei, gli iconoclasti negavano l'incarnazione di Cristo. Fu comunque soltanto dopo la morte dell'imperatore, nel 775, che gli iconoduli cominciarono nuovamente a riguadagnare posizioni, questa volta perché essi erano in grado di fornire risposte sistematiche e stringenti alle obiezioni degli iconoclasti. Assumendo la reggenza dopo la morte prematura del figlio di Costantino, Leone IV, avvenuta nel 780, la vedova Irene invitò il papa Adriano I (772-795) a convocare un concilio per riprendere nuovamente la questione delle immagini. Tenutosi a Nicea nel 787, il concilio pronunciò anatemi contro gli iconoclasti, adducendo testimonianze patristiche, scritturali e popolari in favore delle immagini, confutando la definizione del concilio di Hieria e gettando l'anatema su coloro che ne avessero accettato gli insegnamenti (Mansi, XII, coll. 951-1154; XIII, coll. 1-758). L'elemento più importante è che il secondo concilio di Nicea restaurò la venerazione delle icone, insistendo sul fatto che le immagini di Cristo erano dovute alla realtà della sua incarnazione e quindi la riaffermavano.La proclamazione di Leone V l'Armeno a imperatore, avvenuta nell'813, pose fine al periodo della restaurazione delle immagini e condusse a una seconda fase dell'i. bizantina. Costringendo il patriarca Niceforo, che non voleva rinunciare alla venerazione delle immagini, a dimettersi dalla sua carica, l'imperatore affidò il seggio costantinopolitano a Teodoto Melisseno e convocò un secondo concilio a Santa Sofia nell'815. Basandosi su fonti storiche più affidabili, i partecipanti al concilio riaffermarono gran parte delle definizioni del concilio di Hieria, ma abbandonarono l'equazione immagini-idoli, perfezionarono le vecchie argomentazioni e ne avanzarono di nuove. Essi sottolineavano, in particolare, come le icone non fossero sacre e non potessero pertanto rivelare la gloria della santità, proponendo l'idea che la vera immagine materiale di Dio fosse un cristiano che vivesse santamente. Vennero quindi riprese, sebbene con minore violenza, la persecuzione di coloro che veneravano le immagini e la distruzione delle stesse. Scrivendo dall'esilio nel terzo decennio del sec. 9°, Niceforo si propose di confutare nella sua Refutatio et eversio la definizione del concilio, sollevando dubbi sul suo florilegio patristico. Il successore di Leone, Michele II (820-829), mantenne in realtà una relativa neutralità in fatto di immagini, ma il figlio di questi, Teofilo (829-842), reiterò l'attacco, convocando nell'830 il concilio delle Blacherne e innalzando nell'837 al patriarcato l'iconoclasta Giovanni il Grammatico. Alla morte di Teofilo, avvenuta nell'842, quando il figlio, il futuro imperatore Michele III, aveva solo sei anni, divenne reggente la vedova Teodora. Quest'ultima convocò una conferenza dei gerarchi della Chiesa nell'843, restaurò il culto delle immagini e impose Metodio alla sede patriarcale. Questo trionfo finale delle immagini venne registrato nel synodikón c.d. dell'ortodossia e commemorato ogni anno nella omonima festa.La seconda fase dell'i. bizantina determinò una risposta di carattere più filosofico da parte degli iconoduli. Spesso definito come periodo scolastico della teoria iconodula per il suo fondarsi sulla logica aristotelica, il nuovo movimento di difesa delle immagini fu propugnato principalmente da Niceforo, nel suo Apologeticus Maior, nei tre Antirrhetici, nel Contra Eusebium et Epiphanidem, nell'Adversus iconomachos, e da Teodoro Studita (759-824), nei suoi tre Antirrhetici e in alcune lettere. Rifacendosi alla Fisica, alla Metafisica e ad altre opere, Niceforo tentò di dare alle argomentazioni di Giovanni Damasceno una solida base filosofica, definendo una relazione tra rappresentazione e soggetto della medesima, per es. nei termini delle categorie aristoteliche di causa.Il culto delle immagini continuò a essere discusso nei concili ecclesiastici dell'861, dell'869-870 e dell'879-880 (Mansi, XV, coll. 595-598; XVI, coll. 141-143); gli scritti di Areta di Cesarea (850 ca.-m. dopo il 933) indicano che l'i. costituiva un problema aperto ancora nel 10° secolo. Quando, verso la fine del sec. 11° l'imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) minacciò di fondere recipienti liturgici per il finanziamento della guerra contro i Normanni, la questione riaffiorò nuovamente. Leone di Calcedonia sfidò l'imperatore per aver distrutto le immagini impresse sugli oggetti, affermando che le figure materiali meritavano almeno una certa venerazione. Rimproverato in un concilio ecclesiastico, egli ritornò infine alla posizione ortodossa che distingueva l'immagine dalla sua realizzazione materiale (Glavinas, 1972, p. 167 ss.).Nelle regioni orientali dell'impero bizantino le tendenze iconoclastiche o per lo meno iconofobiche si svilupparono sotto la pressione degli ebrei e dei musulmani, come notava intorno all'800 Teodoro Abū Qurra, il vescovo melchita di Harran, nei pressi di Edessa, in un trattatello sulle immagini. Mentre Abū Qurra non sembra reagire ai coevi eventi della capitale, l'i. bizantina ebbe ripercussioni a grande distanza nell'Occidente latino.Beda, che sembra esserne venuto a conoscenza in Northumbria prima del 731, criticò già nel De templo (II; Corpus Christianorum Lat., CXIXA, 1969, pp. 212-213) la distruzione delle immagini. Come già Gregorio II, papa Gregorio III (731-741) si pose, e con lui tutta la Chiesa, contro l'i.; il concilio tenuto in Laterano nel 769 decretò che le immagini non dovevano essere adorate, ma potevano essere venerate allo stesso modo in cui lo erano la Croce o le reliquie. Sanzionando il secondo concilio di Nicea, papa Adriano I poneva fermamente la Chiesa romana nella sua tradizionale posizione iconodula. Nel fare ciò egli si appoggiava all'autorità di Gregorio Magno (Registrum epistolarum, IX, 209; XI, 10), che aveva stabilito le norme sulle immagini in risposta alla professione iconoclasta di Sereno di Marsiglia alla fine del sec. 6°, ritenuta dettata da buone intenzioni ma comunque erronea.Nonostante l'autorità papale, una diffidenza nei confronti delle immagini sacre emerse in epoca carolingia, prima nei Libri Carolini e quindi negli scritti di Claudio di Torino (primo quarto del sec. 9°) e di Agobardo di Lione (779-840). Scritti alla corte di Carlo Magno nel 790-793, probabilmente da Teodulfo di Orléans, i Libri Carolini costituivano una risposta ai decreti del concilio di Nicea, trasmessi in una non fedele traduzione latina. Pur permettendo l'arte per alcuni scopi pedagogici - non si può dunque parlare a rigor di termini di i. -, i Libri Carolini rifiutavano tutti gli usi sacri dell'arte. Nelle sue Epistolae, in risposta alla prima stesura dei Libri Carolini, Adriano I rimproverava blandamente l'autore e il committente, rifacendosi all'autorità dello pseudo-Dionigi, di Gregorio Magno e ai monumenti esistenti di Roma: il risultato fu che il documento ebbe una scarsa diffusione. Il tenore generale del sinodo riunito a Parigi nell'825 fu ostile alle immagini (MGH, Conc., II, 2, 1908, pp. 473-551); alcuni eccessi, come la pratica di mescolare il colore delle icone con il vino eucaristico, vennero rifiutati e la risposta di Adriano I venne sottoposta a critica. D'altra parte anche l'i. fu condannata e le lettere di Gregorio vennero citate a sostegno della via media carolingia, permettendo le pitture a carattere narrativo nelle parti più alte delle chiese come strumento pedagogico. Sebbene la realizzazione di immagini religiose non venisse promossa, tuttavia essa era permessa per memoria e istruzione degli illetterati; le immagini non dovevano essere comunque venerate. I. e idolatria erano mali di pari entità.Residui di i. persistettero comunque nei regni franchi e talvolta si manifestarono in veri attacchi alle immagini. In seguito al concilio di Parigi, Agobardo di Lione scrisse un breve trattato, De picturis et imaginibus, nel quale egli si appoggiava all'autorità di s. Agostino per affermare la superiorità delle cose dello spirito su quelle materiali e sottolineava come, in particolare tra i neofiti, le immagini potessero essere considerate alla stregua di idoli. Claudio di Torino, contemporaneo di Agobardo, si spinse oltre; facendo riferimento al secondo comandamento, egli stesso distrusse personalmente alcune immagini e ordinò la rimozione delle opere d'arte sacra dalle chiese della sua diocesi (Apologeticum atque rescriptum adversus Theutmirum abbatem). Quasi immediatamente, il monaco irlandese Dungalo, nei suoi Responsa contra perversas Claudii Taurinensis episcopi sententias, denunciò Claudio per aver disprezzato l'Incarnazione e la Passione di Cristo, riferendosi alle fonti tradizionali e persino al concilio di Parigi. Anche il De cultu imaginum composto da Giona di Orléans nell'840 costituiva una replica a Claudio, nel quale l'autore prendeva le distanze dal culto tributato in Oriente alle immagini sacre, ma propendeva per una loro moderata accettazione.Le discussioni dell'epoca carolingia sintetizzano la sostanza del problema delle immagini per l'Europa occidentale; la loro difesa, basata sul dictum di Gregorio, entrò nel Decretum Gratiani e in altri autorevoli testi; una conseguenza fu quella di relegare le immagini a un ruolo secondario, di servizio alla gente comune, non ai letterati e ai chierici, che avevano accesso alla parola di Dio; altra conseguenza fu quella di rafforzare il legame tra le immagini e il culto delle reliquie.Entrambi questi aspetti emergono nella reazione di Bernardo di Angers alla statua-reliquiario di s. Fede a Conques (Liber miraculorum sanctae Fidis). Scrivendo all'inizio del sec. 11°, egli narra di come avesse inizialmente considerato la realizzazione di tali statue un abuso per le persone illuminate e un superstizioso protrarsi dell'idolatria e di come avesse mutato opinione in virtù dei poteri di intercessione posseduti dall'immagine grazie alle reliquie in essa contenute.Inevitabilmente, il problema delle immagini si presentò nuovamente un secolo dopo nel corso delle dispute tra cristiani ed ebrei. A un ebreo che attaccava l'uso delle immagini da parte dei cristiani, Gilberto Crispino (m. nel 1117 ca.) citava i vasa sacra che Dio ordinò a Mosè e a Salomone di preparare (Disputatio Iudei et Christiani), e Ruperto di Deutz (1075-1130 ca.) adduceva analoghe argomentazioni per respingere accuse simili (Anulus sive Dialogus inter Christianum et Iudaeum, III; Arduini, 1979, pp. 233 ss., 306 ss.).Via via che il culto delle immagini andava consolidandosi, sempre più associato ai santi e quindi ai pellegrinaggi, sorsero nuovi problemi. Nel contesto di una generale concezione ascetica, l'Ordine cistercense iniziò a porre un limite a tutte le ornamentazioni ritenute stravaganti, ivi comprese le manifestazioni artistiche; s. Bernardo di Chiaravalle, promotore e guida dell'Ordine tra il 1115 e il 1153, elaborò una coerente sfida all'arte monastica. Nella sua Apologia ad Guillelmum Abbatem (XII, 28-30), scritta nel 1124-1125, s. Bernardo sosteneva che l'arte era inappropriata per un monastero perché costituiva una distrazione per lo spirito, secondo un concetto che può essere fatto risalire al trattato del sec. 5° di Cesario di Arles, Regula ad virgines (42; PL, LXVII, col. 1116). I vescovi potevano utilizzare le immagini per sollecitare la devozione del popolo carnale, ma esse risultavano superflue e inadatte per i religiosi. Il problema centrale in gioco qui è la inappropriatezza del lusso nei monasteri.S. Bonaventura da Bagnoregio e s. Tommaso d'Aquino affrontarono entrambi la questione se la Chiesa dovesse o meno permettere la rappresentazione di Cristo e dei santi e quale genere di devozione fosse appropriata a tali immagini. Nella Summa theologica e in altre opere s. Tommaso riaffermò le tradizionali posizioni dell'Occidente, asserendo cioè che soltanto a Dio fosse dovuta l'adorazione; egli distingueva però tra la pittura come oggetto e la pittura come immagine. Soltanto quest'ultima poteva essere venerata (Summa theol., III, 25, 3). Nel Commentum super IV Libros Sententiarum (III, 9, 1-2), egli elencò le argomentazioni tradizionali: le raffigurazioni erano permesse per l'insegnamento agli illetterati, per memoria e per spingere al ravvedimento.Alla generale accettazione delle immagini durante il sec. 13° fece seguito nel 14° una rinnovata disputa e persino una vera e propria iconoclastia. A Praga l'eccessiva devozione per le immagini e per le reliquie da parte dell'imperatore Carlo IV (1355-1378) provocò ancora una volta una disputa; Matteo di Janov (1353-1394) scrisse un trattato, ancora inedito (Belting, 1990, pp. 599-601), nel quale affermava che le immagini conducevano gli ingenui all'idolatria, portavano alla superstizione e incoraggiavano la fantasticheria artistica. Egli tuttavia accettava alcune icone venerabili e permetteva un uso controllato delle immagini; al sinodo di Praga del 1389, inoltre, Matteo riaffermò pubblicamente la tradizionale posizione sulle immagini.I tentativi comuni di lollardi, ussiti e valdesi di riformare la Chiesa alla fine del Medioevo diedero nuova vitalità all'i. vera e propria. Come era accaduto in precedenza per i Libri Carolini, John Wycliffe (1330-1384 ca.) e Jan Hus (1369-1415) accettarono, sia pure in maniera non pienamente convinta, la dottrina gregoriana sulle immagini e permisero il loro uso nel culto (Jan Hus, Super IV Sententiarum, III, 9, 3); i loro seguaci più radicali tuttavia affermarono che le Sacre Scritture proibivano le immagini e ne vietarono la venerazione. Come per molte altre questioni, l'atteggiamento verso le immagini espresso dai gruppi 'eretici' tardomedievali anticipava quello delle riforme protestanti, alcune delle quali rinnovarono gli attacchi iconoclastici.
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