Iconografia di Costantino
L’invenzione di una nuova immagine imperiale
Nel genere della ritrattistica romana il periodo costantiniano rappresenta un importante momento di riflessione e di rielaborazione, in cui si afferma un nuovo canone iconografico destinato a un successo duraturo: in quest’epoca, infatti, giunge a maturità la definizione di un autentico volto imperiale, espressione organica e compiuta del potere del principe. A partire da questo momento e per i successivi tre secoli, il ritratto imperiale si sviluppa in modo sempre più indipendente dalle fattezze individuali dei singoli sovrani; non è più la persona del principe a dover essere universalmente riconoscibile, ma piuttosto la sua carica e la sua funzione: il ritratto dell’imperatore si svincola dal riferimento a un volto realmente esistente, per diventare espressione della suprema autorità in quanto tale. Questa canonizzazione è il frutto di un processo creativo il cui impulso è ascrivibile in buona parte proprio a Costantino, e alla sua scelta (politica prima che estetica) di allontanarsi dal ritratto imperiale tetrarchico in favore del recupero idealizzato di forme artistiche precedenti; in queste pagine si cercherà di delineare i motivi e le implicazioni di tale scelta, seguendo l’evoluzione del ritratto di Costantino e mostrando le diverse tappe che condussero alla costruzione del nuovo volto imperiale1.
I primi ritratti di Costantino ci sono tramandati dalle emissioni monetali coniate a nome dell’imperatore prima come Cesare, poi come Augusto d’Occidente, e si possono suddividere in due gruppi ben diversificati. Le zecche situate nei territori governati dagli altri tetrarchi battono naturalmente moneta anche a nome di Costantino, ma i loro incisori non hanno né la possibilità di accedere a modelli di prima mano né tantomeno l’interesse a creare un tipo ritrattistico specifico per il nuovo imperatore. Esse propongono quindi un volto ancora perfettamente aderente al canone estetico geometrizzante tipico del ritratto tetrarchico2: una testa compatta di forma squadrata, dal profilo marcato e spigoloso, e un taglio di capelli militare, a spazzola con ciocche corte e diritte; nella maggior parte delle emissioni Costantino appare sbarbato, con allusione alla sua giovane età e alla dignità di Cesare, ma in alcuni casi è presente una corta barba, anch’essa di foggia militaresca secondo la tradizione tetrarchica. I conii delle zecche orientali sono del tutto privi di elementi fisionomici, mentre quelli prodotti nelle zecche d’Italia e d’Africa si segnalano per un certo grado di individualizzazione, ottenuta in particolare enfatizzando il naso aquilino, tratto caratteristico del volto dell’imperatore3. Assai diversi appaiono invece i ritratti monetali realizzati nella zecca di Treviri, la più importante nel territorio controllato da Costantino e l’unica che coniasse moneta anche in oro e in argento (le zecche di Londra e di Lione coniavano solo in bronzo). Nella capitale gallica esisteva già in epoca tetrarchica una tradizione di incisori di grande qualità, che avevano realizzato ritratti fortemente individualizzati dei diversi sovrani in uno stile, per il periodo, decisamente naturalistico. Con l’ascesa al trono di Costantino questa tendenza viene portata alle sue estreme conseguenze, abbandonando definitivamente le forme squadrate tetrarchiche per rivolgersi ad altri modelli iconografici e recuperare modi di autorappresentazione tipici di imperatori più antichi: innanzitutto Augusto, di cui viene ripreso il caratteristico motivo a tenaglia della capigliatura; poi Traiano, per le ciocche che ricadono diritte e parallele sulla fronte, con le punte rivolte verso l’interno; e infine i giovani principi del III secolo, in particolare Gallieno, per la forma allungata della testa, i tratti affilati del viso e la barba corta e curata che appare in alcuni esemplari4. Si riscontra dunque nelle emissioni monetali galliche, riconducibili più direttamente all’iniziativa di Costantino, una precisa volontà di distaccarsi dal ritratto standardizzato dell’arte tetrarchica e dal messaggio politico a esso sotteso, che privilegiava la collegialità della funzione imperiale a scapito dell’individualizzazione dei singoli sovrani: il nuovo imperatore si serve anzi della maggiore sensibilità naturalistica degli incisori gallici per affermare con forza la propria individualità. Tale scelta innovativa costituisce il primo atto della costruzione dell’immagine pubblica di Costantino e si esplica in due aspetti distinti e complementari. Da un lato, il nuovo sovrano adotta una foggia di barba e di capelli in netta opposizione rispetto alla moda allora in voga: Costantino si rivolge infatti a modelli e valori più antichi, abbandonando l’immaginario militaresco degli imperatori soldati per rifarsi all’esempio dei principi civili e urbani dell’epoca alto e medioimperiale. Il cambiamento nella scelta dei modelli si accompagna a un deciso ritorno all’individualizzazione, veicolata attraverso pochi elementi fisionomici fortemente caratterizzanti, quali il naso aquilino e il mento sporgente: questi tratti specifici della fisionomia reale dell’imperatore vengono fatti propri dagli artisti e trasformati in cifre iconografiche. Il naso adunco e il mento sporgente erano d’altronde le caratteristiche più riconoscibili del volto di Costanzo Cloro, quale ci è testimoniato, oltre che dalle emissioni monetali, da alcuni ritratti in marmo, tra cui spicca la replica, proveniente dal mercato antiquario romano, conservata a Berlino5. Costantino era stato acclamato imperatore dalle truppe fedeli al padre, proprio in quanto figlio naturale di Costanzo: è questa discendenza a fornire al giovane principe la legittimità per governare, a fronte di un’ascesa al trono avvenuta fuori dalle regole del sistema tetrarchico, per iniziativa dell’esercito, e riconosciuta dai colleghi solo a cose fatte. Fin dai primi ritratti monetali, dunque, Costantino non cerca affatto di accreditarsi come un tetrarca, anzi dichiara esplicitamente la propria estraneità al codice autorappresentativo condiviso dai suoi colleghi: egli preferisce piuttosto riconnettersi da un lato a modelli più antichi, caratteristici del periodo più felice della storia dell’Impero, e dall’altro alla fonte della sua legittimazione imperiale, la discendenza diretta dal defunto Augusto d’Occidente. Tale discendenza viene diffusa e propagandata fin dai primi anni di regno nel modo più immediato: facendo leva sulla somiglianza fisica tra padre e figlio, più volte sottolineata anche nei panegirici contemporanei6.
Il momento di svolta nella creazione del ritratto di Costantino si ha però qualche anno più tardi: è ancora la zecca di Treviri a fornire le prime testimonianze di un nuovo tipo ritrattistico con le emissioni celebrative dei quinquennali dell’imperatore, i cui festeggiamenti iniziarono alla fine del 3107. In questo momento Costantino si trova nella capitale gallica ed è verosimile che il nuovo ritratto sia stato patrocinato direttamente da lui: esso si caratterizza per un’eccezionale portata innovativa rispetto all’immagine imperiale allora in voga, che difficilmente potrà essere ricondotta solo alla creatività di un incisore, ma deve essere piuttosto messa in relazione con una scelta di rottura con la tradizione da parte del sovrano e del suo entourage. I tratti principali del nuovo volto di Costantino sono la definitiva abolizione della barba e l’adozione di un’acconciatura a ciocche lunghe e ondulate sulla fronte: per valutare appieno l’originalità di questa immagine, basterà ricordare che era dal tempo di Settimio Severo che un principe non teneva i capelli lunghi sulla fronte, mentre per ritrovare un imperatore adulto sbarbato bisogna risalire addirittura a Traiano. Il cambiamento coinvolge naturalmente in primo luogo il modo con cui Costantino appare nella realtà, e solo come conseguenza la sua rappresentazione artistica; per la prima volta dopo secoli, l’imperatore si presenta con un’immagine giovanile e non militaresca: si tratta di una novità rivoluzionaria, che gli incisori monetali, e più tardi gli scultori a tutto tondo, recepiscono e diffondono in tutto il mondo romano.
Bisogna però attendere qualche anno perché vengano pienamente esplorate le straordinarie potenzialità di questo tipo ritrattistico. Gli incisori gallici, infatti, per quanto eredi di una buona tradizione artistica, avevano comunque a disposizione mezzi espressivi limitati, sia dal punto di vista tecnico che da quello stilistico; è solo nel 312, dopo la conquista dell’Italia, che la volontà autorappresentativa di Costantino si incontra con la grande tradizione artistica urbana, mai venuta meno nonostante l’allontanamento della corte imperiale in epoca tetrarchica e fino a quel momento impegnata nella realizzazione dell’ambizioso programma architettonico di Massenzio. Gli scultori di Roma si appropriano del ritratto del nuovo sovrano, indagandone a fondo le implicazioni classicistiche: messi di fronte all’assenza della barba e all’adozione di un’acconciatura a ciocche più lunghe del solito, gli artisti esplorano nuove soluzioni espressive, recuperando modelli derivati da una tradizione più antica, rimasta silente negli ultimi due secoli. I ritratti monetali coniati nelle zecche di Roma e di Ostia ripropongono l’iconografia inventata due anni prima a Treviri sottoponendola a un radicale rinnovamento stilistico in senso classicista, che mantiene la potente concentrazione dello sguardo, tipica dei ritratti di III secolo, accompagnata però a una fisionomia molto più idealizzata, costruita per piani larghi, nitidamente disegnati8. Di questo periodo ci sono pervenuti però anche diversi ritratti a tutto tondo, alcuni dei quali vanno senz’altro annoverati tra i prodotti più riusciti della scultura costantiniana. Paul Zanker ha identificato una quindicina tra repliche e varianti di un tipo ritrattistico che presenta gli stessi caratteri iconografici attestati dalle immagini monetali dei quinquennali9. Particolarmente importanti, perché ben databili fra il 312 e il 315, sono i ritratti rilavorati nei rilievi dell’Arco di Costantino, eretto dal Senato per celebrare la vittoria su Massenzio e completato in occasione dei decennali dell’imperatore: quelli meglio conservati si trovano nei tondi con scene venatorie, in particolare quello raffigurante la caccia al cinghiale10. Il volto di Costantino è realizzato con un’altissima qualità scultorea, che unisce la ricerca di organicità anatomica a un’espressione di calma ideale. La struttura compatta della testa, costruita per volumi tondeggianti antitetici a quelli squadrati di tradizione tetrarchica, è alleggerita da una spiccata sensibilità per l’articolazione delle superfici, finemente modellate con piccoli passaggi di piano: il viso carnoso, dagli occhi grandi e profondi, sbarbato e incorniciato dalle ciocche di capelli che ricadono sulla fronte, è scavato da profonde pieghe sotto gli occhi e ai lati della bocca, che conferiscono al ritratto una notevole intensità espressiva.
La replica più famosa di questo tipo ritrattistico è però la testa colossale oggi conservata nel cortile del palazzo dei Conservatori, proveniente dalla basilica di Massenzio e pertinente alla statua di Costantino originariamente collocata nell’abside occidentale dell’edificio11. Il colosso, di cui restano una decina di frammenti, doveva raggiungere un’altezza tra 10 e 12 metri ed era realizzato in tecnica acrolitica: le parti nude erano in marmo pario, il mantello probabilmente in bronzo o stucco, il tutto appoggiato su una struttura portante fatta di travi di legno o metallo. L’imperatore era raffigurato nello schema iconografico del Giove Capitolino, seduto in trono, avvolto in un mantello che copriva le gambe e la spalla sinistra lasciando scoperto il torso; la mano destra, conservata, doveva reggere un attributo di forma allungata, presumibilmente uno scettro, mentre la sinistra teneva forse il globo. La testa, oggi montata su un collo moderno, è costituita in realtà solo dal volto: la parte occipitale aderiva al muro di fondo dell’abside e quindi non fu scolpita; anzi, il blocco di marmo appare scavato sul retro da tagli regolari, per alleggerire il peso e consentire l’alloggiamento di un perno che lo ancorava alla parete retrostante. Il volto dell’imperatore è raffigurato secondo il tipo dei quinquennali ed è ben confrontabile con i ritratti rilavorati sull’Arco di Costantino: la statua andrà dunque datata agli stessi anni e probabilmente fu completata insieme alla basilica, in occasione dei festeggiamenti per i decennali. Il colosso fu realizzato a partire da una statua preesistente: la testa presenta chiari segni di rilavorazione, in particolare per quanto riguarda l’acconciatura; è ben riconoscibile, per esempio, l’abbassamento della fronte a livello dell’attaccatura dei capelli. Sulle tempie, dove il materiale della scultura originaria non offriva lo spessore necessario alla rilavorazione, alcuni settori della capigliatura furono realizzati con inserti: i riccioli ai lati della fronte erano lavorati a parte e poi inseriti nel blocco principale (l’inserto sulla tempia destra è conservato, su quella sinistra resta l’alloggiamento); anche le caratteristiche basette di Costantino furono lavorate a parte e poi fissate davanti alle orecchie con perni quadrati, di cui restano gli alloggiamenti. Alcune ciocche sopra l’orecchio destro, non pertinenti alla tipologia del ritratto di Costantino, rappresentano un resto dell’acconciatura precedente e sono state ricondotte da Cécile Evers a un tipo ritrattistico di Adriano.
Il volto dell’imperatore è progettato per essere ammirato dal basso e presenta una lieve torsione verso sinistra; lo scultore ha tenuto conto dell’angolo di visuale e per compensare le distorsioni ha realizzato una testa lievemente asimmetrica: la metà sinistra del viso è più larga di quella destra, e il contrasto tra le superfici lisce e le pieghe appare più marcato. Dal punto di vista stilistico la testa si caratterizza per la tendenza all’astrazione e alla semplificazione dei volumi, particolarmente evidente nell’area delle guance e nella mascella squadrata; l’elemento di maggiore impatto è però costituito dagli occhi enormi e spalancati, che esprimono grande energia e intensa vitalità. Le pupille dilatate sono rivolte in direzione lievemente divergente rispetto alla testa, dando la sensazione di non poter essere incontrate dagli spettatori; questo accorgimento contribuisce a conferire allo sguardo del colosso un carattere sovrumano: l’occhio vigile dell’imperatore si posa sui sudditi, li attraversa come a scrutare le pieghe del loro animo, poi prosegue verso un orizzonte talmente vasto da includere il mondo intero12. La potenza dello sguardo è ulteriormente sottolineata dall’irrigidimento dei tratti fisionomici, tipico dei ritratti colossali, particolarmente evidente nella parte superiore del volto, in cui le orbite e le arcate sopraccigliari sono ricavate con tagli netti entro un volume complessivo costruito per grandi piani semplificati. La rigidità dei tratti fa sì che il volto dell’imperatore appaia distaccato dalle comuni preoccupazioni umane, immerso in pensieri superiori; la semplificazione dei piani, inoltre, rende particolarmente efficace il contrasto chiaroscurale fra le superfici distese delle guance e della fronte e le ombre profonde e fortemente pronunciate intorno agli occhi, al naso e alla bocca: quest’ultima, mossa e leggermente aperta, resta l’elemento di maggiore vitalità della testa, conferendo presenza tangibile al distante volto imperiale.
Un altro ritratto di Costantino di provenienza urbana è stato rinvenuto nel 2005 nel Foro di Traiano13. La testa, in marmo di Carrara, raffigura anch’essa l’imperatore nel tipo ritrattistico dei quinquennali; doveva far parte di una statua colossale, probabilmente loricata, che raggiungeva in origine i 4 metri di altezza. Le dimensioni di questa nuova testa (quasi 60 centimetri dalla base del collo alla cima della calotta cranica) la collocano in una posizione intermedia fra i ritratti dell’Arco di Costantino e il colosso dalla basilica di Massenzio. La stessa equidistanza tra queste due versioni del medesimo tipo è riscontrabile dal punto di vista stilistico: il volto scarno, in cui è molto visibile la struttura ossea, è simile a quello del tondo con la caccia al cinghiale, in particolare nel mento sporgente e negli zigomi pronunciati, che tendono la pelle delle guance fino a farle apparire scavate. La stilizzazione dell’acconciatura, con le ciocche disposte in rigoroso ordine paratattico convergente verso il centro, e i grandi occhi spalancati rispecchiano invece le convenzioni del genere colossale, già riscontrate nella testa dalla basilica di Massenzio; anche qui lo sguardo del sovrano è irrigidito, impenetrabile, diretto in lontananza ad abbracciare il mondo intero, ma privo dell’accigliata concentrazione dei ritratti tetrarchici: il volto di Costantino si stempera in un’espressione di quieta e serena imperturbabilità, una virtù celebrata anche nei panegirici contemporanei, che ne sottolineano l’importanza fondamentale per il buon rapporto con i sudditi14.
Questo ritratto presenta addirittura i segni di due successive fasi di rilavorazione: sono infatti riconoscibili tracce di una rielaborazione intermedia, che forse non era stata nemmeno portata a termine quando si decise di trasformare nuovamente la testa in un’immagine di Costantino. Come avviene di norma nei ritratti rilavorati, la redazione originale sopravvive nella parte posteriore dell’acconciatura e nel collo, che infatti è sovradimensionato rispetto al volto attuale; i resti della capigliatura permettono di datare la testa originaria a epoca giulio-claudia. La rilavorazione, iniziata probabilmente in età tetrarchica, portò all’asportazione e alla semplificazione delle ciocche sulla fronte, per ridurle alla capigliatura a spazzola tipica degli imperatori di III secolo. Una volta deciso di trasformare la testa in un ritratto di Costantino, l’artista fu costretto ad abbassare ancor più la fronte per ricavare la frangia dei capelli; il risultato non dovette essere del tutto soddisfacente e venne completato nella parte centrale da ciocche aggiunte in stucco, ulteriormente mascherate dall’applicazione (forse in un secondo momento) di un diadema metallico. Anche il caratteristico naso di Costantino non poteva essere ricavato da quello preesistente senza che risultasse sottodimensionato: l’artista risolse il problema asportando completamente il vecchio naso e sostituendolo con uno nuovo in stucco. Questa testa illustra molto bene come i fattori tecnici del procedimento di rilavorazione si riflettano nei modi di osservazione delle immagini di Costantino e della ritrattistica tardoantica in generale. Nei ritratti rilavorati come Costantino, per limitare al minimo l’intervento sul blocco di marmo, la maggior parte della capigliatura è lasciata immutata (il che permette sovente agli studiosi di proporre una datazione per il ritratto originario) e le modifiche coinvolgono solo le ciocche sulla fronte, le basette dinanzi alle orecchie, a volte la terminazione dei capelli sulla nuca; l’espressività del ritratto si basa quindi esclusivamente sulla visione frontale della maschera facciale, secondo una tendenza destinata a intensificarsi nell’evoluzione dell’arte tardoromana.
Il tipo ritrattistico dei quinquennali conobbe una vastissima diffusione, canonizzando il volto dell’imperatore per oltre due decenni. L’immagine di Costantino, sempre giovanile fino agli ultimi anni di regno, assume un carattere atemporale, basato su pochi ma inconfondibili caratteri fisionomici (il naso, il mento) e di costume (la frangia sulla fronte, le basette) indipendenti dall’avanzare dell’età. Mentre questi elementi restano inalterati, i lineamenti del viso appaiono spesso semplificati e rarefatti diventando quasi cifre astratte, in un processo per certi versi analogo al passaggio dal ritratto patetico di Ottaviano a quello quieto e distaccato di Augusto; l’immutabilità del ritratto imperiale e l’idealizzazione dei suoi tratti esprimono un messaggio rassicurante di pace e stabilità per l’Impero e i suoi abitanti, ben diverso dall’energica necessità d’azione che aveva ispirato l’immagine dei principi del III secolo. A questa semplificazione e astrazione dei caratteri fisionomici si accompagna la tendenza al gigantismo nelle statue imperiali, che Claudio Parisi Presicce ha definito «abbandono della moderazione»15, volta a esaltare l’immagine del sovrano oltre la misura tradizionale della comunicazione politica, giungendo a distaccarla progressivamente dalla stessa natura umana. La medesima tendenza è ricercata anche attraverso l’iconografia, per ora solo nell’arte di corte: un esempio eccezionale per qualità e committenza è il cosiddetto cammeo di Ada, prodotto fra il 317 e il 324 e reimpiegato per decorare la copertina di un evangeliario miniato carolingio16. Il cammeo, ispirato a esemplari di I e II secolo17, raffigura Costantino e i membri della famiglia imperiale (la moglie Fausta, la madre Elena, i figli Crispo e Costantino II) che si librano sulle ali di due aquile, secondo un’iconografia fino ad allora riservata agli imperatori morti e consacrati. L’appropriazione del linguaggio figurativo dell’apoteosi veicola un messaggio non dissimile da quello implicito nella tendenza al gigantismo della statuaria: entrambi i fenomeni esprimono un modo nuovo di interpretare la figura e il ruolo dell’imperatore, visto come una personalità soprannaturale e carismatica, distaccata dalla piccolezza delle preoccupazioni terrene e partecipe già in vita della compagnia degli dei.
Un elemento fondamentale della comunicazione politica di Costantino, presente sia nelle fonti letterarie sia nella documentazione iconografica fin dagli inizi del suo regno, è rappresentato, infatti, dalla religione. Costantino si presenta come il prediletto della divinità, con cui si pone in un rapporto di comunicazione privilegiata: essa gli invia messaggi attraverso sogni e visioni ed è sempre al suo fianco nelle campagne militari, assicurandogli la vittoria e il successo. Questa entità soprannaturale resta spesso alquanto generica, e solo in pochi casi prende le sembianze di una divinità ben precisa; quando ciò avviene, due sono gli dei a cui Costantino fa riferimento: il Sole, caro agli imperatori militari fin dal tempo di Aureliano, e il nuovo dio dei Cristiani, che in questo momento fa la sua prima comparsa come protettore di un principe.
Al Sole è affidato un ruolo essenziale per la comunicazione politica, sia nella retorica ufficiale, sia nelle iconografie monetali18. Come ha dimostrato Marianne Bergmann, la scelta del Sole come nume tutelare rappresenta un altro dei modi con cui Costantino cerca di porsi al di fuori della tradizione tetrarchica. Si è visto come, fin dai primi ritratti, il nuovo sovrano si rivolga a modelli di autorappresentazione diversi da quelli dei suoi predecessori, quasi a rivendicare la propria estraneità al sistema della tetrarchia in favore di un ritorno al principio di legittimità dinastica. Un ulteriore fattore di differenziazione è l’abbandono delle divinità care ai tetrarchi, Giove ed Ercole, archetipi divini del rapporto di devozione filiale che legava (almeno nella propaganda) i Cesari agli Augusti. Se nel cercare i modelli per il proprio ritratto Costantino torna indietro addirittura di tre secoli, riallacciandosi al fondatore dell’Impero, dal punto di vista della legittimità dinastica e della politica religiosa egli preferisce invece recuperare il collegamento con i sovrani che avevano regnato immediatamente prima della tetrarchia. Il ritorno a una concezione dinastica pretetrarchica, reso palese dall’invenzione di una discendenza della famiglia di Costantino dall’imperatore Claudio II, si rispecchia anche nel recupero dell’immaginario solare caro agli immediati successori di Claudio, Aureliano e Probo. Per impulso di questi sovrani il Sole, venerato con l’epiclesi invictus, aveva assunto un ruolo di primo rango come garante della protezione divina nei confronti dell’imperatore, che si esplicava essenzialmente nella garanzia del suo successo militare. L’immaginario solare fa la sua comparsa in epoca costantiniana in un panegirico recitato alla corte di Treviri nel 310. Nel racconto dell’anonimo retore, Costantino, muovendo con le truppe verso il Reno contro i barbari, effettua una deviazione per rendere omaggio a un santuario di Apollo (la cui identificazione con la divinità solare è abituale in questo periodo); qui egli assiste a un’epifania divina: gli appaiono infatti Apollo stesso e la Vittoria, che gli offrono corone d’alloro e gli predicono un regno di durata trentennale. Ma il panegirista si spinge oltre, arrivando a un’autentica assimilazione tra l’imperatore e la divinità: Costantino e Apollo si corrispondono e si riconoscono l’uno nell’altro; il principe rappresenta la manifestazione visibile e terrena del dio che regge il mondo intero. La climax retorica è coronata da un riferimento dotto alla ‘profetica’ IV egloga virgiliana: «Lo hai visto e hai riconosciuto te stesso nell’aspetto di colui al quale, secondo i divini versi dei poeti, spettano i regni del mondo intero. Io credo che questa profezia ora finalmente si sia avverata, poiché tu, o imperatore, sei, come lui, giovane, sereno, salvifico e bellissimo»19.
L’immaginario solare e la sovrapposizione tra l’immagine di Costantino e quella del Sole sono presenti nelle iconografie monetali soprattutto negli anni 310-315: la testimonianza più celebre è l’eccezionale multiplo da nove solidi coniato nel 313 dalla zecca di Ticino per celebrare l’adventus dell’imperatore a Milano, capitale dell’Occidente, dopo la sconfitta di Massenzio; qui egli si sarebbe incontrato con l’Augusto d’Oriente, Licinio, per sancire il reciproco riconoscimento e la fine delle guerre civili20. Il conio, che riprende un’iconografia utilizzata già venticinque anni prima da Probo, mostra i ritratti aggiogati di Costantino e del Sole: l’imperatore è in primo piano, armato con corazza, scudo e lancia; in secondo piano è il dio, riconoscibile grazie ai lunghi capelli e alla corona di raggi. Le teste dei personaggi sono accostate sullo stesso livello: la divinità è compagna (comes) dell’imperatore, come recitano le legende monetali del periodo. I due volti sono perfettamente sovrapponibili l’uno all’altro; tuttavia, mentre quello del Sole è un volto completamente ideale, il viso di Costantino, pur essendo costruito con le stesse proporzioni, è ben riconoscibile grazie alle sue caratteristiche tipiche, in particolare il naso adunco e le ciocche che ricadono sulla fronte. Con una sorta di mise en abîme, lo scudo dell’imperatore mostra a sua volta la quadriga solare, vista di fronte, inserita entro un quadro di dominio cosmico: a bordo del carro è ancora il Sole, con la corona radiata, affiancato dal sole e dalla luna (raffigurati come astri); ai piedi della quadriga sono invece le personificazioni della Terra e dell’Oceano. La legenda monetale, Invictus Constantinus Max(imus) Aug(ustus), trasferisce sull’imperatore la qualità del dio, assicurandogli l’invincibilità in guerra e la supremazia su tutti i nemici.
Accanto al Sole, divinità tradizionalmente legata al successo militare dei principi, fa però la sua comparsa in questo stesso periodo anche un’altra figura divina, Cristo, a cui Costantino sembra guardare come a un personale protettore già durante la campagna contro Massenzio. Assai discussa a questo proposito è la notizia, tramandata da Eusebio di Cesarea, secondo cui l’imperatore, dopo la presa di Roma, avrebbe fatto erigere nella capitale una propria statua con in mano un esplicito simbolo cristiano. Si cita qui sotto la descrizione inserita da Eusebio nella Storia ecclesiastica, ripresa in seguito in termini molto simili anche nella Vita di Costantino (Eus., v.C. I 40,2):
Ma lui, che ha in sé come innata la venerazione nei confronti di Dio, senza lasciarsi entusiasmare dalle acclamazioni né esaltare dalle lodi, ma al contrario essendo ben consapevole dell’aiuto ricevuto da Dio, immediatamente ordina di inserire nella mano di una sua statua il trofeo della passione del Salvatore; e dopo che hanno innalzato la sua immagine, con il simbolo della salvezza nella destra, nel più frequentato luogo di Roma, ordina loro di incidervi questa iscrizione, composta con parole sue nella lingua dei Romani: «Con questo segno salvifico, vero esempio di valore, ho liberato la vostra città dal giogo del tiranno, salvandola; inoltre ho ristabilito il senato e il popolo di Roma, dopo averli liberati, nel loro antico splendore e distinzione»21.
Si deve ad Andreas Alföldi22 il riconoscimento dell’attributo retto dalla statua, che Eusebio chiama «il trofeo della passione del Salvatore»: non, come si potrebbe pensare a una prima lettura, una croce (per la quale non esisterebbero confronti a questa data), bensì il labaro fatto realizzare dall’imperatore al momento di intraprendere la campagna contro Massenzio. Eusebio stesso dà una descrizione dettagliata di questo oggetto nella Vita di Costantino (Eus., v.C. I 29-31): si trattava di uno stendardo del tipo usato abitualmente dagli eserciti romani, recante l’immagine intessuta in oro di Costantino e sormontato da una corona d’oro, nella quale era inscritto il monogramma di Cristo. La statua a cui si riferisce Eusebio era dunque un’immagine di Costantino come generale vittorioso (imperator) recante in mano l’insegna del suo esercito, secondo un’iconografia ben attestata da una lunga tradizione: la monetazione costantiniana presenta spesso la figura dell’imperatore stante, in abito militare, con il labaro nella destra, accompagnata dalla legenda victor omnium gentium23. La statua descritta da Eusebio è in realtà un esempio eloquente di quella duttilità di messaggio che garantisce il successo della comunicazione politica di Costantino: la statua del principe acquista, infatti, significati diversi a seconda degli osservatori, che suppliscono con le rispettive convinzioni ideologiche alla genericità del messaggio figurativo. Per gli osservatori cristiani come Eusebio, l’insegna militare diventa nientemeno che il simbolo della passione del Salvatore: l’asta che sostiene il labaro, insieme con il braccio trasversale a cui è appeso il tessuto, forma agli occhi dei seguaci di Cristo una croce posta a protezione delle effigi imperiali; per tutti gli altri, Costantino tiene semplicemente in mano lo stendardo con cui ha condotto il suo esercito alla vittoria. La stessa ambiguità si riscontra nell’iscrizione della statua: il σήμειον grazie al quale Costantino ha sconfitto Massenzio, identificato da Eusebio con la croce, può anche essere interpretato semplicemente come l’insegna (signum) dell’esercito, ‘vero esempio del valore’ di Roma; al di là della lettura cristiana proposta da Eusebio, dal punto di vista religioso il testo dell’iscrizione (che presenta peraltro notevoli affinità con la retorica ufficiale dell’epoca24) è altrettanto generico di quello inciso sull’Arco di Costantino (CIL VI 1139), celebrante la comunicazione privilegiata dell’imperatore con una non meglio specificata entità divina. Se vi era un messaggio esplicitamente cristiano nella statua descritta da Eusebio, esso era affidato al monogramma inscritto entro la corona posta in cima al labaro; la presenza di questo simbolo in un’immagine ufficiale non costituisce un unicum: esso si ritrova negli stessi anni in un celebre medaglione d’argento coniato dalla zecca di Ticino, anche qui in posizione importante ma discreta, in cima all’elmo dell’imperatore25. Costantino, dunque, pone il proprio successo militare sotto la protezione della sua divinità tutelare, Cristo; la devozione privata del principe a una divinità non riconosciuta dalla religione pubblica, del resto, non è problematica per la mentalità politeistica romana: tant’è vero che una statua di Costantino con il labaro e il monogramma di Cristo poteva essere collocata, come dice Eusebio, «nel più frequentato luogo» della città.
Il tipo ritrattistico dei quinquennali stabilisce il canone dell’immagine imperiale per almeno un quindicennio; i primi tentativi di aggiornamento si datano infatti a partire dal 324, quando, dopo la guerra civile che portò alla sconfitta e all’uccisione del collega Licinio, Costantino resta unico padrone dell’Impero. A partire da questo momento, l’evoluzione del ritratto imperiale è sottoposta a stimoli contrastanti: da un lato, infatti, tende sempre più ad amplificarsi la tendenza all’astrazione che abbiamo visto già presente nel tipo dei quinquennali; dall’altro comincia invece a farsi più pressante l’esigenza di adeguare il ritratto ai cambiamenti intervenuti nel volto dell’imperatore, soprattutto per quanto riguarda i segni dell’età. Queste due tendenze portano dunque, nell’ultima parte del regno di Costantino, alla creazione di due nuovi tipi ritrattistici. L’evoluzione dell’immagine imperiale dopo la sconfitta di Licinio non è ben documentata per quanto riguarda la scultura a tutto tondo: il trasferimento della corte in Oriente, nella nuova capitale appena fondata sul Bosforo, portò certamente a un incontro fecondo tra la volontà autorappresentativa dell’imperatore e la ricca tradizione artistica asiatica; senza dubbio Costantino approfittò degli artisti che erano stati al servizio di Licinio a Nicomedia e delle soluzioni iconografiche e stilistiche da essi elaborate, come aveva fatto una dozzina d’anni prima con le botteghe urbane e ostiensi che avevano lavorato per Massenzio26. Diversamente da quanto era accaduto a Roma, tuttavia, i prodotti di questo incontro tra l’imperatore e la tradizione artistica orientale non ci sono purtroppo pervenuti, a causa della perdita di gran parte delle testimonianze della Costantinopoli preteodosiana. Questa mancanza può però in parte essere colmata grazie alle iconografie monetali, che presentano vistosi cambiamenti rispetto alle emissioni occidentali precedenti al 324. Il più evidente è senz’altro l’introduzione del diadema come simbolo di sovranità: inizialmente costituito da una semplice benda di stoffa, sul modello ellenistico, ben presto esso si canonizza nella forma del diadema gemmato, che resterà l’insegna distintiva della dignità imperiale per diversi decenni, prima di essere definitivamente sostituito dal diadema di perle nel tardo IV secolo.
L’adozione di questo nuovo simbolo di potere si accompagna però anche a una revisione complessiva dell’immagine e del volto stesso di Costantino: subito dopo la caduta di Licinio, per celebrare la riunificazione dell’Impero sotto un unico sovrano e in coincidenza con i festeggiamenti per i vicennali del regno, viene coniata una serie di emissioni in oro e in argento in cui il volto dell’imperatore, incoronato con il diadema, si caratterizza per l’idealizzazione dei tratti e la decisa torsione del collo verso l’alto, in un gesto che è insieme di eroica energia e di diretta comunicazione con la divinità27. Anche in questo caso ci si trova di fronte a una novità dirompente rispetto a una tradizione iconografica consolidata, da attribuire senz’altro a una precisa volontà del principe e della sua cerchia. Nella resa del volto di Costantino in queste emissioni si riconosce lo stile caratteristico delle zecche orientali, astratto e idealizzato, con scarso interesse per la caratterizzazione dei tratti individuali: l’inconfondibile gobba del naso viene raddrizzata, la linea volitiva della mascella è riportata a un geometrico arco di cerchio di ascendenza tetrarchica; anche l’acconciatura dei capelli è resa con una precisione disegnativa fortemente idealizzata: le ciocche corpose sulla fronte, tipiche del ritratto costantiniano, lasciano il passo nella calotta a lunghi capelli mossi, degni di un eroe mitologico. In effetti, l’immagine di Costantino presentata da queste monete è davvero letta attraverso un filtro eroico: il principe, che ha appena riunificato sotto il proprio governo la metà orientale dell’Impero, si fa raffigurare secondo il modello del condottiero vittorioso e del conquistatore dell’Oriente per eccellenza, Alessandro Magno; l’aspetto giovanile del viso, l’idealizzazione dei tratti fisionomici, la lunga chioma, la forte torsione del collo sono tutte caratteristiche tipiche dell’immagine del condottiero macedone. La conseguenza di questa scelta iconografica forte è però la rinuncia alla caratterizzazione individuale del volto di Costantino: l’immagine imperiale raffigurata su queste monete è quasi del tutto priva di tratti fisionomici. Prova ne è il fatto che lo stesso conio è utilizzato anche per altri personaggi: il nuovo tipo ritrattistico, giovanile e fortemente idealizzato, fin dalla sua invenzione viene infatti usato senza particolari adattamenti sia per Costantino, che all’epoca doveva aver passato la quarantina, sia per i Cesari suoi figli, il quasi ventenne Crispo e Costantino II, di nove o dieci anni. Lo stesso conio, d’altronde, verrà recuperato ancora alla fine del regno di Costantino, sempre per raffigurare i Cesari: i figli Costanzo II e Costante e il nipote Dalmazio28.
Quello dispiegato su queste monete è dunque un immaginario regale di stampo ellenistico, che ritrae Costantino nella veste di conquistatore dell’Oriente, emulo di Alessandro e, come lui, condottiero invincibile e semidivino. Anche su questa iconografia monetale ci è pervenuta una testimonianza di Eusebio, sempre attento agli aspetti figurativi della comunicazione politica del principe; nella Vita di Costantino, redatta poco dopo la morte del sovrano, egli dà la propria lettura del ritratto imperiale, proponendone un’interpretazione in chiave cristiana:
Quanto fosse grande la forza della fede ispirata da Dio che sosteneva la sua anima, lo si può constatare anche riflettendo su questo fatto: egli ordinò che nelle monete d’oro la sua immagine venisse raffigurata in modo che sembrasse rivolgere lo sguardo verso l’alto, nel modo di chi prega rivolto verso Dio29.
Come nel caso della statua eretta a Roma dopo la battaglia del ponte Milvio, anche in questo passo Eusebio ci fornisce una testimonianza eloquente della duttilità d’interpretazione dell’immagine imperiale: il ritratto monetale del sovrano circola, infatti, fra i cittadini di tutto l’Impero, e ciascuno di essi è autorizzato, nei limiti delle possibilità dell’epoca, a fornirne una propria lettura. Nel nostro caso Eusebio, e come lui senz’altro molti cristiani contemporanei, non sembra attribuire particolare importanza al modello di Alessandro Magno: lo sguardo levato verso il cielo è interpretato, al contrario, come un segno della straordinaria fede dell’imperatore e del suo rapporto privilegiato con il Dio dei cristiani. Anche questa possibilità, in ogni caso, doveva essere stata messa in conto da chi ideò la nuova iconografia imperiale: la stessa idealizzazione dell’immagine, insieme all’assenza di legenda, consente in effetti una molteplicità di possibili letture, declinabili sia in senso politico, attraverso il paragone con Alessandro, sia in senso più mistico e religioso. Anzi, da questo punto di vista, la mancanza di connotazioni religiose esplicite di questa immagine le consente di essere accettata con successo presso tutti i cittadini dell’Impero. Chi vuole leggervi un afflato religioso si trova infatti di fronte a un’immagine di generica comunicazione privilegiata con la divinità; l’assenza di specificazioni permette sostanzialmente a ciascun destinatario di intendere tale divinità nel modo che preferisce: Eusebio e i suoi correligionari possono leggervi un segno della fede cristiana di Costantino, mentre i pagani non avranno avuto problemi a interpretare lo sguardo rivolto al cielo come un devoto omaggio dell’imperatore al Sole Invitto o alle divinità tradizionali di Roma.
L’immagine di Costantino come Alessandro continua a essere usata nell’iconografia monetale per tutto il decennio successivo, fino alla morte dell’imperatore; la nuova immagine non sostituisce però completamente il vecchio tipo dei quinquennali, che resta fino all’inizio degli anni Trenta il modello più diffuso per la raffigurazione del volto imperiale. Solo intorno al 330 compaiono infatti le prime attestazioni di un ultimo tipo ritrattistico, che segna il ritorno a una minore idealizzazione30: il nuovo volto dell’imperatore sembra caratterizzato da una certa pinguedine, ben visibile nella plasticità dell’incarnato, che rende irriconoscibili il profilo del mento e la linea volitiva della mascella, saldandoli con il collo. I capelli appaiono ulteriormente allungati rispetto ai ritratti precedenti, soprattutto sulla fronte, dove ciocche più corte si alternano ad altre più lunghe dall’estremità arricciata, e sulla nuca, dove i capelli lunghi arrivano a coprire completamente la parte posteriore del collo, formando anche qui un ricciolo all’estremità. In contrasto con l’armoniosa disposizione della capigliatura, l’espressione del volto appare invece concentrata e quasi accigliata, grazie soprattutto alla bocca piccola, dalle labbra carnose, e al corrugamento della fronte, che segna profondamente la zona tra l’arcata sopraccigliare e la radice del naso. L’occhio, dalle palpebre spesse che ricadono pesantemente sulle guance, è tenuto fisso verso l’alto, nello schema consueto della comunicazione diretta con la divinità. Il generale appesantirsi dei tratti del volto può senz’altro essere interpretato come un segno dell’avanzamento d’età dell’imperatore, ormai avviato verso i cinquant’anni, ma va anche considerato nella sua autonomia stilistica e iconografica. Questa modalità rappresentativa, infatti, era tipica delle zecche della parte orientale dell’Impero fin dal periodo tetrarchico, e può quindi essere considerata come il naturale proseguimento di una lunga tradizione di immagini imperiali, che enfatizzava la pinguedine del principe come segno visibile dell’abbondanza e della prosperità che il suo buon governo e il suo buon rapporto con gli dei sapevano assicurare ai sudditi. In anni recenti questa scelta autorappresentativa era stata fatta propria da Licinio, che aveva fatto della grassezza un tratto distintivo della propria immagine: lo attesta in modo eloquente il famoso ritratto di questo principe rinvenuto nel teatro di Efeso, identificato da Roland Smith31; l’ultimo tipo ritrattistico di Costantino recupera dunque alcuni caratteri di un linguaggio figurativo caro agli artisti della parte orientale dell’Impero e ancora particolarmente funzionale per la comunicazione politica con i cittadini di quelle province.
Agli ultimi anni di regno di Costantino si data il ritratto colossale in bronzo conservato ai Musei Capitolini32 . La testa, montata su un collo moderno, è grande cinque volte il naturale, dunque è leggermente più piccola di quella marmorea dalla basilica di Massenzio, precedente di quasi vent’anni; a differenza di quest’ultima, inoltre, il ritratto bronzeo non presenta asimmetrie tra le due metà del volto: esso deve quindi essere stato progettato per una visione frontale e dal basso, anche se nessun elemento permette di stabilire lo schema iconografico della statua. La testa è priva della calotta e con ogni probabilità doveva essere completata con un attributo: lungo il bordo superiore è infatti riconoscibile una serie di piccoli fori quadrangolari, adatti all’inserimento di una corona radiata; in accordo con un’immagine solare dell’imperatore sono anche le tracce di doratura emerse nel corso del recente intervento di restauro. Nel volto ritroviamo i caratteri del quarto tipo ritrattistico di Costantino: il viso, allungato, ha forme carnose, soprattutto nelle guance e nel mento, ed è segnato da profonde pieghe alla radice del naso, sotto gli occhi e intorno alla bocca, che gli conferiscono una forte espressività; la maschera facciale è incorniciata dalla capigliatura, straordinariamente compatta, caratterizzata dalle lunghe ciocche arricciate all’estremità, tipiche degli ultimi ritratti di Costantino, in questo caso realizzate a parte e poi saldate. Gli studiosi hanno a lungo dibattuto se il colosso bronzeo sia un’immagine di Costantino o di uno dei suoi figli: il fatto stesso che sussista tale dubbio è una testimonianza eloquente del valore normativo assunto dall’ultimo tipo ritrattistico dell’imperatore, a cui le immagini dei successori si uniformarono al punto da mettere in secondo piano le fattezze individuali, privilegiando l’espressione di continuità dinastica a scapito dell’aderenza fisionomica. Nel caso della testa dei Musei Capitolini, i segni inequivocabili dell’età avanzata, particolarmente evidenti nella pelle cadente delle guance e nelle borse sotto gli occhi, inducono a interpretare il ritratto come un’immagine di Costantino anziano, realizzata probabilmente in occasione delle celebrazioni per il trentennale di regno. Merita di essere segnalata in proposito l’ipotesi avanzata da Claudio Parisi Presicce, che ha proposto la pertinenza della testa alla statua equestre di Costantino eretta nel Foro Romano nel 334, la cui iscrizione dedicatoria (CIL VI 1141) ci è conservata dall’anonimo di Einsiedeln: le fondazioni della base, tuttora in situ, hanno infatti dimensioni compatibili con la misura colossale della testa.
Il quarto tipo ritrattistico di Costantino rappresenta un ultimo riuscito compromesso fra la grande tradizione del realismo romano e le nuove istanze dell’estetica tardoantica, fra la tendenza alla dissoluzione della fisionomia in favore di una costruzione del volto geometrica e astratta, divenuta preponderante a partire dall’età tetrarchica, e la volontà di riprodurre la fisicità personale dell’imperatore, espressa ancora con organicità di impostazione e con stilemi naturalistici. Questa immagine carismatica e rarefatta, che incarna la maestà della funzione imperiale e contemporaneamente ne sottolinea il distacco dalla concreta realtà umana, costituirà il modello di riferimento per tutti i principi successivi. A partire dalla generazione dopo Costantino, tuttavia, il ritratto imperiale si caratterizza per il progressivo abbandono del naturalismo in favore di una definizione sintetica dei volumi, scomposti in larghi piani divisi da linee geometriche. I figli di Costantino risultano del tutto indistinguibili dal punto di vista fisionomico: dietro la loro espressione imperturbabile, che scruta al di là dello spettatore, essi risultano distaccati e assenti, privi dell’energia interna e della vitalità che caratterizzavano le immagini del padre. Un esempio di tale evoluzione è fornito dal ritratto colossale ai Musei Capitolini identificato come Costanzo II o Costante, in cui i diversi elementi fisionomici inseriti entro le ampie superfici del volto sono trattati ciascuno in modo indipendente, senza costituire un insieme organico33. Tra i numerosi ambiti in cui l’epoca costantiniana si dimostrò fondante per il futuro dell’Impero va dunque annoverata anche la canonizzazione del ritratto del principe; dopo tre secoli di assoluta libertà e varietà nelle scelte figurative dei singoli sovrani, le soluzioni iconografiche ideate da Costantino, semplificate e tipizzate dai suoi successori, si dimostrarono tanto efficaci da diventare subito normative: non solo per la creazione di una ritrattistica dinastica svincolata dalle differenze fisionomiche individuali, ma anche per la definizione dei caratteri di un volto imperiale rimasto valido fino alla fine dell’antichità, indipendentemente dai singoli sovrani e dalle singole dinastie.
Oltre alle testimonianze archeologiche, le fonti letterarie ci informano su alcune immagini imperiali che Costantino fece realizzare nell’ultima parte del suo regno a ornamento della nuova capitale sul Bosforo. Anche se queste opere sono andate perdute, le notizie che ne restano consentono comunque alcune riflessioni sulle scelte figurative dell’imperatore e sul modo in cui egli impose la propria presenza nella città di cui era allo stesso tempo sovrano ed eroe fondatore. La nuova capitale si offriva, infatti, alla volontà e alla fantasia dell’imperatore come un campo completamente libero: come ha sottolineato Franz Alto Bauer, Costantinopoli era priva dell’ingombrante presenza delle memorie dei principi del passato, che costituiva un pesante condizionamento per l’autorappresentazione imperiale sia a Roma, sia (pur se in misura assai minore) nelle recenti capitali tetrarchiche; le forme della comunicazione politica di Costantino ebbero quindi, nella città sul Bosforo, la possibilità di dispiegarsi libere da regole e costrizioni, e acquistano dunque un significato pregnante come espressione diretta della volontà artistica dell’imperatore.
La prima di queste immagini è un dipinto che Costantino fece realizzare all’ingresso del palazzo imperiale; ce ne dà una lunga descrizione di nuovo Eusebio di Cesarea nella Vita di Costantino, citandolo come ulteriore esempio della pubblica professione di fede cristiana da parte dell’imperatore:
Per questo motivo egli annunciava continuamente a tutti il Cristo figlio di Dio con la più grande libertà, senza nascondere affatto il nome salvifico, ma anzi andando orgoglioso di quanto faceva: si rendeva riconoscibile, ora imprimendo sul suo volto il segno della salvezza, ora invece mostrando orgogliosamente il trofeo della vittoria, che fece, infatti, raffigurare, perché potesse essere visto dagli occhi di tutti, in una tavola collocata in alto davanti al vestibolo del palazzo imperiale, rappresentando nella pittura il simbolo della salvezza posto al di sopra della propria testa e raffigurando la bestia nemica e ostile, che aveva cinto d’assedio la Chiesa di Dio durante la tirannia degli empi, sotto forma di drago mentre veniva trascinata nell’abisso. Infatti le Scritture, nei libri dei profeti di Dio, la definivano drago e serpente avvolto in spire. Perciò per mezzo del dipinto, realizzato a encausto, l’imperatore mostrava a tutti il drago, sotto i piedi di lui e dei suoi figli, trafitto da un dardo nel mezzo del corpo e gettato nelle profondità del mare, alludendo in questo modo all’invisibile nemico del genere umano, che egli faceva vedere ritirato negli abissi della rovina grazie alla potenza del trofeo della salvezza, collocato sopra la testa dell’imperatore. A questo dunque alludeva lo splendore dei colori dispiegati nel dipinto: quanto a me, rimasi stupito della grande saggezza dell’imperatore, di come per divina ispirazione raffigurava proprio ciò che le voci dei profeti così annunciavano riguardo a questa bestia, dicendo: «Dio abbatterà la sua spada grande e terribile sul drago, serpente avvolto in spire, sul drago, serpente che fugge, e annienterà il drago che abita nel mare». L’imperatore fece appunto raffigurare le immagini evocate da queste parole, rappresentandole in modo veritiero per mezzo della pittura34.
Ancora una volta Eusebio costruisce un quadro coerente di autorappresentazione imperiale cristiana, il cui protagonista è addirittura un Costantino esegeta delle Scritture, che fa raffigurare sulla porta del palazzo, a edificazione del suo popolo, il trionfo divino sul Male, descritto dai profeti e in particolare da Isaia (Is 27,1). La strumentalità dell’interpretazione eusebiana è più che mai evidente. Leggendo tra le righe si riesce tuttavia a ricostruire alcuni dati di fatto: innanzitutto, il dipinto si trovava «in alto, davanti al vestibolo del palazzo imperiale», dunque in un punto altamente rappresentativo della presenza del sovrano nella capitale, luogo di comunicazione tra lo spazio privato del palazzo e quello pubblico della città35. Inoltre, i principali elementi iconografici del dipinto sono ben delineati da Eusebio e hanno consentito vari tentativi di ricostruzione36. L’elemento centrale della scena, il labaro di Costantino che trafigge il serpente, trova confronto in alcune emissioni bronzee della zecca di Costantinopoli con legenda spes publica37: la coincidenza tra l’iconografia monetale e l’immagine descritta da Eusebio è evidente, e induce a ipotizzare che le monete ripropongano in forma semplificata la parte centrale della pittura collocata davanti al vestibolo del palazzo. Altri dettagli del dipinto non possono essere specificati, in particolare per quanto riguarda le immagini di Costantino e dei figli: essi erano certamente raffigurati sul labaro in forma di busti, ma il riferimento eusebiano al drago collocato sotto i piedi degli imperatori fa supporre che i tre personaggi fossero anche rappresentati a figura intera, probabilmente con Costantino che reggeva il labaro, affiancato dai due figli38; anche in questo caso i migliori confronti vengono dall’iconografia monetale, in particolare dai solidi con legenda victor omnium gentium citati poco fa. Più che l’illustrazione di un passo delle Scritture, come vorrebbe Eusebio, il dipinto presso l’ingresso del palazzo rappresentava una celebrazione della vittoria di Costantino, o meglio della sua condizione di eterno vincitore. La legenda spes publica che si trova nelle monete esplicita chiaramente il significato dell’immagine: essa celebra, da un lato, la vittoria su Licinio e insieme su tutte le forze che minavano l’ordine e l’unità dell’Impero, rappresentate dal serpente trafitto; e, dall’altro lato, l’istituzione di una dinastia, garanzia di stabilità di governo e quindi di prosperità, rappresentata dalle immagini dei Cesari collocate accanto a quella dell’Augusto. Questi due elementi hanno ridato la speranza a Roma e al mondo intero; significativamente, tale speranza è posta sotto la protezione del Dio dei cristiani, come dimostra l’enfasi con cui le monete sottolineano la presenza del monogramma di Cristo: il simbolo della divinità personale e familiare di Costantino campeggiava dunque presso l’ingresso della dimora imperiale, assicurando la protezione divina che rende il sovrano invincibile in battaglia, rafforza il suo ruolo di garante dell’unità dell’Impero, assicura la trasmissione del potere ai suoi successori. Cristo, divinità protettrice dell’imperatore e della sua famiglia, è utilizzato come elemento di un discorso politico-ideologico complesso, funzionale a una teologia della vittoria del tutto romana.
Come già era avvenuto dopo la sconfitta di Massenzio, anche dieci anni più tardi la devozione a una divinità personale e dinastica non impedisce a Costantino di guardare nello stesso tempo ad altri riferimenti soprannaturali. Se infatti all’ingresso della propria dimora l’imperatore si fa raffigurare insieme ai figli sotto la protezione di Cristo, nello spazio pubblico egli adotta modalità autorappresentative più legate alla religiosità tradizionale di Roma. È senz’altro vero, come ha riconosciuto Patrick Bruun, che l’immaginario solare si fa sempre più raro nella monetazione costantiniana a partire dal 320 circa39; a tale progressivo abbandono fa però da contraltare una presenza incisiva del Sole nel paesaggio urbano di Costantinopoli: qui infatti le immagini imperiali ripropongono la stessa sovrapposizione, se non vera e propria assimilazione, tra Costantino e la divinità solare che abbiamo incontrato nel panegirico del 310 e nel medaglione coniato a Ticino nel 313. L’immagine di Costantino come Sole contraddistingue due dei più importanti spazi pubblici della nuova capitale: il Foro, luogo fondante dell’identità civica, e il circo, teatro delle principali feste e commemorazioni e fondale privilegiato della comunicazione tra il sovrano e il suo popolo. Al centro del Foro l’imperatore fece innalzare una colonna di porfido, che doveva raggiungere in origine i 50 metri di altezza, ornata di corone d’alloro, realizzate in bronzo, che coprivano le giunzioni tra i rocchi40. La colonna, molto restaurata, è ancora in piedi, mentre è andata perduta la statua che la sormontava, abbattuta da una tempesta nel 1106 e più tardi sostituita da una croce; di essa è possibile però farsi un’idea abbastanza precisa grazie alle numerose fonti letterarie bizantine che ne fanno menzione, riunite da Theodor Preger in un articolo del 1901. Si trattava di una statua colossale in bronzo dorato, rivolta verso Oriente, raffigurante Costantino nello schema iconografico del dio Sole: con una mano reggeva la lancia, con l’altra il globo, mentre la testa era cinta da una corona di sette raggi; Giovanni Malalas, inoltre, precisa che la statua non era stata realizzata ex novo, ma che si trattava di una scultura più antica, proveniente da Ilio e reimpiegata da Costantino come immagine imperiale41. Le descrizioni delle fonti letterarie trovano conferma nella vignetta raffigurante Costantinopoli nella Tabula Peutingeriana42: in questa carta, copiata intorno al 1200 da un originale tardoantico, la personificazione della capitale imperiale indica con la mano destra la colonna di Costantino, riprodotta come simbolo della città; si distinguono chiaramente i rocchi della colonna, separati l’uno dall’altro dalle corone bronzee, ma soprattutto è raffigurata con grande precisione la statua in cima al monumento. La statua, nuda, è dotata degli stessi attributi citati dalle fonti letterarie: il globo nella mano destra allude alla sovranità sul mondo, che accomuna l’imperatore e il suo omologo celeste; la lancia nella sinistra invece non fa parte dell’iconografia solare, ma esprime l’origine militare del potere di Costantino e di Roma stessa, fondato sull’invincibilità in guerra. La statua sulla colonna di porfido era quindi portatrice di un messaggio ancora compiutamente e tradizionalmente pagano: non stupisce pertanto che non ne troviamo traccia in Eusebio, così attento, come si è visto, a rintracciare tutti i segni di un’autorappresentazione cristiana dell’imperatore. Anzi, è rimasta traccia nelle fonti letterarie di un culto tributato a questa statua di Costantino-Sole, non solo al momento della sua erezione43, ma almeno per tutto il IV secolo, anche da parte dei Cristiani44; non si può stabilire, data la scarsità di fonti, se si trattasse di un vero e proprio culto del Sole, di una forma di culto imperiale o di un culto dell’eroe fondatore della città: sicuramente a partire dal secolo successivo, dopo la cessazione dei riti pubblici pagani, diventerà preponderante il valore poliadico del monumento, come simbolo identitario della città e garanzia della sua sopravvivenza e della sua prosperità45.
Un’immagine simile, legata anch’essa alla fondazione di Costantinopoli, era invece protagonista di un rito celebrato l’11 maggio di ogni anno per commemorare l’inaugurazione della nuova capitale. In questa giornata festiva, come testimonia ancora una volta Giovanni Malalas46, prima delle corse dei carri veniva fatta sfilare nel circo una statua in legno dorato di Costantino, che reggeva nella destra la Tyche della città: l’immagine era trasportata a bordo di un carro fino di fronte alla loggia imperiale, dove veniva venerata dal sovrano in carica47. Quello descritto in questo passo non è altro che l’antico rituale della pompa circensis, la processione che apriva i giochi del circo; nella città di Roma questa processione era affollata non solo di simulacri di divinità pagane, ma anche di immagini degli imperatori del passato consacrati tra gli dei per decreto del Senato, le cui statue erano trasportate nel Circo Massimo a bordo di carri tirati da elefanti. Nella sua nuova capitale Costantino non doveva fare i conti con queste ingombranti presenze; ma, come testimonia il racconto di Malalas, Costantino stesso diventa a sua volta passato ingombrante dopo la morte, come fondatore della città e della dinastia e sovrano divinizzato a cui ogni successore dovrà rendere omaggio. La cerimonia cade in disuso dopo la fine del VI secolo48: le fonti patriografiche più tarde mostrano di non comprenderla più, e nel raccontare questo rito identificano la statua trasportata nel circo di volta in volta come un’immagine del dio Sole, o addirittura una statua femminile49. Queste discrepanze nella tradizione letteraria sono per noi preziose, poiché consentono di individuare lo schema iconografico della statua: come ha dimostrato Preger, le incomprensioni delle fonti si spiegano bene se si ipotizza che quella trasportata nel circo fosse un’immagine di Costantino nelle vesti del Sole, diversa però dal colosso bronzeo collocato in cima alla colonna. La statua in legno dorato, presumibilmente un’opera di nuova produzione e non di reimpiego, era infatti realizzata secondo l’iconografia tardoantica del Sole: l’imperatore era vestito con una tunica lunga, indumento tipico degli aurighi, fermata da una cintura sul petto e completata da una clamide drappeggiata sulla spalla sinistra. Una volta caduto in disuso il rituale e perduta la memoria del suo significato, questo costume lungo si prestò particolarmente bene a essere scambiato per una veste femminile.
Nello spazio pubblico della sua nuova capitale, quindi, Costantino adotta un linguaggio autorappresentativo che non ha nulla di cristiano. L’assimilazione dell’imperatore al Sole, del resto, è un tema che attraversa tutto il regno di Costantino (è già presente, come si è visto, nel panegirico del 310) e che esprime una concezione del principe come motore unico dell’Impero, garante del benessere e della sopravvivenza stessa dei suoi cittadini; in questa veste di sovrano partecipe di prerogative divine, Costantino non ha bisogno di porsi sotto la protezione di Cristo, la divinità che gli assicura il successo e la vittoria, e il cui simbolo è invece spesso presente quando l’imperatore si fa rappresentare come condottiero. Anche nell’appropriarsi di contenuti e iconografie tipici della tradizione religiosa pagana, però, Costantino si comporta in modo innovativo: fuori da Roma, libero dall’esempio e dal modello dei suoi predecessori, Costantino può permettersi infatti di ignorare le consuetudini che avevano regolato le modalità dell’autorappresentazione imperiale fino a quell’epoca. Lo si è visto con il cammeo di Ada, in cui la famiglia di Costantino viene celebrata per mezzo di un’iconografia di apoteosi fino ad allora riservata agli imperatori morti e consacrati; lo stesso avviene ora a Costantinopoli, dove l’imperatore fa addirittura sfilare nella pompa circensis la propria immagine nelle vesti di divinità solare, anche in questo caso adottando un linguaggio autorappresentativo che a Roma sarebbe stato considerato inaccettabile. Nella capitale dell’Impero, infatti, il principe poteva essere pubblicamente riconosciuto come dio solo dopo la morte e per decreto del Senato; alla sua corte e nella sua città Costantino può invece assimilarsi a una divinità da vivo, per propria decisione, non solo nella sfera privata della corte ma anche nello spazio pubblico. Si può quindi estendere l’idea di ‘abbandono della moderazione’, che Claudio Parisi Presicce ha coniato a proposito della colossalità dei ritratti imperiali dell’epoca costantiniana, anche all’ambito iconografico, dal momento che il linguaggio figurativo in essi adottato si pone in netto contrasto con la precedente tradizione delle immagini imperiali. Anche dal punto di vista iconografico dunque, e non solo da quello stilistico, l’epoca di Costantino rappresenta un punto di non ritorno nella ritrattistica romana: in questo momento, e per impulso di questo imperatore, l’arte figurativa trova i mezzi per esprimere una nuova concezione del principe e della sua funzione nella società, libera dalle convenzioni e dalle limitazioni che regolavano l’autorappresentazione del sovrano nell’Urbe. Costantino, protetto da Cristo ma allo stesso tempo divino egli stesso, apre dunque la strada, anche in ambito artistico, a una fase nuova dell’istituzione imperiale.
1 Bibliografia essenziale: H.P. L’Orange, Studien zur Geschichte des spätantiken Porträts, Oslo 1933, cap. II, pp. 47-65; W. von Sydow, Zur Kunstgeschichte des spätantiken Porträts im 4. Jahrhundert n. Chr., Bonn 1969, cap. II, pp. 22-43; R. Calza, Iconografia romana imperiale. Da Carausio a Giuliano (287-363 d.C.), Roma 1972, pp. 32-57 e 209-247; H.P. L’Orange, Das spätantike Herrscherbild von Diokletian bis zu den Konstantin-Söhnen, 284-361 n. Chr., Berlin 1984, pp. 37-91; K. Fittschen, P. Zanker, Katalog der römischen Porträts in den Capitolinischen Museen und den anderen kommunalen Sammlungen der Stadt Rom, I, Kaiser- und Prinzenbildnisse, Mainz 1985, pp. 143-157, cat. nn. 119-125; J. Meischner, Die Porträtkunst der ersten und zweiten Tetrarchie bis zur Alleinherrschaft Konstantins, 293 bis 324 n. Chr., in Archäologischer Anzeiger, 1986, pp. 223-250, in partic. 243-250; D.H. Wright, The True Face of Constantine the Great, in Dumbarton Oaks Papers, 61 (1987), pp. 493-507; S.E. Knudsen, The Portraits of Constantine the Great: Types and Chronology, AD 306-337, Ann Arbor 1988; R. Leeb, Konstantin und Christus: die Verchristlichung der imperialen Repräsentation unter Konstantin dem Großen als Spiegel seiner Kirchenpolitik und seines Selbstverständnisses als christlicher Kaiser, Berlin 1992; I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino: il ruolo delle officine urbane ed ostiensi nella creazione del ritratto costantiniano, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 100 (1999), pp. 197-228; E. La Rocca, Divina ispirazione, in Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana (catal.), a cura di S. Ensoli, E. La Rocca, Roma 2000, pp. 1-37, in partic. 24-27; C. Parisi Presicce, L’abbandono della moderazione. I ritratti di Costantino e della sua progenie, in Costantino il Grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente (catal.), a cura di A. Donati, G. Gentili, Cinisello Balsamo 2005, pp. 138-155; N. Hannestad, Die Porträtskulptur zur Zeit Konstantins des Grossen, in Konstantin der Grosse (catal.), hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Trier 2007, pp. 96-116. Non ho avuto modo di leggere il volume appena uscito di J. Bardill, Constantine, Divine Emperor of the Christian Golden Age, New York 2012, che tratta anche diversi problemi di natura iconografica.
2 RIC VI, Siscia, tav. 9, nn. 152 e 216; Serdica, tav. 10, n. 20; Tessalonica, tav. 11, n. 44C; Eraclea, tav. 12, nn. 31 e 60B; Nicomedia, tav. 13, n. 69C; Cizico, tav. 14, n. 67B; Antiochia, tav. 15, n. 164C; Alessandria, tav. 16, n. 138.
3 RIC VI, Ticino, tav. 4, nn. 70B e 117; Aquileia, tav. 5, n. 145; Roma, tav. 6, n. 141; Roma, tav. 7, nn. 285A e 356; Ostia, nn. 69 e 89; Cartagine, tav. 8, n. 49.
4 RIC VI, tav. 2, nn. 638 e 796. M. Radnoti-Alföldi, Die constantinische Goldprägung in Trier, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte, 9 (1958), pp. 99-139, in partic. 101-105; D.H. Wright, The True Face of Constantine, cit., 494-496; I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit., pp. 198-199.
5 Berlin, Staatliche Museen – Preußischer Kulturbesitz, Antikensammlung, inv. SK 1663. M. Bergmann, Studien zum römischen Porträt des 3. Jahrhunderts n. Chr., Bonn 1977, pp. 144-148; H.P. L’Orange, Das spätantike Herrscherbild, cit., pp. 28-31 e 110-112; I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit., pp. 208-210; Aurea Roma, cit., pp. 542-543, cat. n. 190; Costantino il Grande, cit., pp. 205-206, cat. n. 3. L’identificazione come Costanzo Cloro è stata messa in dubbio da S.E. Knudsen, The Portraits of Constantine, cit., che considera questo tipo un ritratto giovanile di Costantino; cfr. però le critiche di I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit., pp. 204-205.
6 Paneg. 6(7)3,3-4; 6(7)14,5; 7(6)4,3-4.
7 RIC VI, tav. 2, nn. 802 e 890. M. Radnoti-Alföldi, Die constantinische Goldprägung, cit., pp. 105-111; P. Bruun, Constantine’s Dies imperii and Quinquennalia in the Light of the Early Solidi of Trier, in The Numismatic Chronicle, 9 (1969), pp. 177-205 (ora in Id., Studies in Constantinian Numismatics. Papers from 1954 to 1988, Roma 1991, pp. 81-95); Id., Constantine’s Change of Dies Imperii, in Arctos, 9 (1975), pp. 11-29 (ora in Id., Studies in Constantinian Numismatics, cit., pp. 97-105); Id., Portrait of a Conspirator. Constantine’s Break with the Tetrarchy, in Arctos, 10 (1976), pp. 5-25 (ora in Id., Studies in Constantinian Numismatics, cit., pp. 107-117); D.H. Wright, The True Face of Constantine, cit., pp. 496-506; I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino cit., pp. 196-201; Aurea Roma, cit., pp. 570-571, cat. nn. 239-244.
8 RIC VI, Roma, tav. 7, n. 285; Ostia, tav. 7, n. 89. I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit., pp. 202-204.
9 K. Fittschen, P. Zanker, Katalog der römischen Porträts in den Capitolinischen Museen, cit., pp. 149-151 per una lista delle repliche del tipo, a cui va aggiunta almeno la testa colossale dal Foro di Traiano, rinvenuta nel 2005.
10 H.P. L’Orange, A. von Gerkan, Der spätantike Bildschmuck des Konstantinsbogens, Berlin 1939, pp. 161-183; M. Bergmann, Studien zum römischen Porträt, cit., pp. 143-144; C. Evers, Remarques sur l’iconographie de Constantin. À propos du remploi de portraits des «bons empereurs», in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 103 (1991), pp. 785-806, in partic. 786-793; G. Calcani, I tondi adrianei e l’Arco di Costantino, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, 19-20 (1996-1997), pp. 175-201; J. Rohmann, Die spätantiken Kaiserporträts am Konstantinsbogen in Rom, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 115 (1998), pp. 259-282; I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit., pp. 206-208. Per un’interpretazione complessiva del programma decorativo dell’arco si veda ora S. Faust, Original und Spolie. Interaktive Strategien im Bildprogramm des Konstantinsbogens, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 117 (2011), pp. 377-408.
11 Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, inv. 757. Bibliografia recente: K. Fittschen, P. Zanker, Katalog der römischen Porträts in den Capitolinischen Museen, cit., pp. 147-152, cat. n. 122 (con bibliografia precedente); C. Evers, Remarques sur l’iconographie de Constantin, cit., pp. 794-799; J. Deckers, Der Koloss des Konstantin, in Meisterwerke der antiken Kunst, hrsg. von L. Giuliani, München 2005, pp. 158-177; C. Parisi Presicce, L’abbandono della moderazione, cit., pp. 144-147; Id., Ritratti di Costantino in Campidoglio. 1. Il collo “moderno” e la mano del colosso marmoreo, in Bollettino dei Musei Comunali di Roma, n.s., 20 (2006), pp. 13-40; Id., Costantino come Giove. Proposta di ricostruzione grafica del colosso acrolitico dalla Basilica Costantiniana, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 107 (2006), pp. 127-161 (= Konstantin als Iuppiter. Die Kolossalstatue des Kaisers aus der Basilika an der Via Sacra, in Konstantin der Grosse (catal.), cit., pp. 117-131).
12 Sullo sguardo del principe che scruta i sudditi cfr. R.R.R. Smith, The Public Image of Licinius I: Portrait Sculpture and Imperial Ideology in the Early Fourth Century, in Journal of Roman Studies, 87 (1997), pp. 170-202, in partic. 180-182.
13 Roma, Museo dei fori imperiali, inv. FT 10337. E. La Rocca, P. Zanker, Il ritratto colossale di Costantino dal Foro di Traiano, in Res Bene Gestae. Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, a cura di A. Leone, D. Palombi, S. Walker, Roma 2007, pp. 145-168.
14 Paneg. 10(4)5,4: «Obtutus hominum benignus receptas, nec intuentem iniquus fulgor retundit, sed serenum lumen invitat» (Gli sguardi degli uomini li accogli con benevolenza, né abbagli con un fulgore eccessivo chi ti guarda, ma, piuttosto lo accogli con una luce serena; ed D. Lassandro, G. Micunco, Torino 2000); cfr. Paneg. 6(7)4,4: «in fronte gravitas, […] in oculis et in ore tranquillitas». Sul confronto tra l’immagine imperiale nella ritrattistica e nei panegirici cfr. le osservazioni di R.R.R. Smith, The Public Image of Licinius, cit., pp. 194-201.
15 C. Parisi Presicce, L’abbandono della moderazione, cit., pp. 140-143; Id., Costantino come Giove, cit., pp. 154-156.
16 Trier, Stadtbibliothek, cod. 22. Bibliografia recente: Spätantike und frühes Christentum (catal.), Frankfurt a.M. 1983, pp. 432-433, cat. n. 45; Schatzkunst Trier, Trier 1984, pp. 77-78, cat. n. 2; Trier, Kaiserresidenz und Bischofssitz. Die Stadt in spätantiker und frühchristlicher Zeit (catal.), Mainz 1984, pp. 117-118, cat. n. 34; E. Zwierlein-Diehl, Antike Gemmen und ihr Nachleben, Berlin 2007, pp. 202-204.
17 G. Sena Chiesa, Le arti suntuarie, in Costantino il Grande, cit., pp. 188-201, p. 197 propone di interpretarlo come rilavorazione di un cammeo di età giulio-claudia.
18 M. Bergmann, Die Strahlen der Herrscher. Theomorphes Herrscherbild und politische Symbolik im Hellenismus und in der römischen Kaiserzeit, Mainz 1998, pp. 282-290, in partic. 282-284; Id., Konstantin und der Sonnengott. Die Aussagen der Bildzeugnisse, in Konstantin der Grosse: Geschichte – Archäologie – Rezeption. Internationales Kolloquium vom 10.-15. Oktober 2005 an der Universität Trier, hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Trier 2006, pp. 143-161, in partic. 146-149.
19 Paneg. 6(7)21,5-6: «vidisti teque in illius specie recognovisti, cui totius mundi regna deberi vatum carmina divina cecinerunt. Quod ego nunc demum arbitror contigisse, cum tu sis, ut ille, iuvenis et laetus et salutifer et pulcherrimus, imperator».
20 Paris, Bibliothèque Nationale de France, Département des Monnaies, médailles et antiques, inv. Beistegui 233; J.M.C. Toynbee, Roman Medallions, New York 1943, pp. 108-109; J. Engemann, Ikonographie und Aussage von Münzbildern, in Konstantin der Grosse (catal.), cit., pp. 200-207, in partic. 205; Costantino il Grande, cit., p. 237, cat. n. 54. La stessa iconografia compare anche nei solidi emessi dalla zecca di Ticino negli anni 315-316: RIC VII, p. 363, n. 32; p. 368, n. 53; Costantino il Grande, cit., pp. 237-238, cat. n. 55.
21 Eus., h.e. IX 9,10-11: «ὃ δ᾽ ὥσπερ ἔμφυτον τὴν εἰς θεὸν εὐσέβειαν κεκτημένος, μηδ᾽ ὅλως ἐπὶ ταῖς βοαῖς ὑποσαλευόμενος μηδ᾽ ἐπαιρόμενος τοῖς ἐπαίνοις, εὖ μάλα τῆς ἐκ θεοῦ συνῃσθημένος βοηθείας, αὐτίκα τοῦ σωτηρίου τρόπαιον πάθους ὑπὸ χεῖρα ἰδίας εἰκόνος ἀνατεθῆναι προστάττει, καὶ δὴ τὸ σωτήριον σημεῖον ἐπὶ τῇ δεξιᾷ κατέχοντα αὐτὸν ἐν τῷ μάλιστα τῶν ἐπὶ ῾Ρώμης δεδημοσιευμένῳ τόπῳ στήσαντας αὐτὴν δὴ ταύτην προγραφὴν ἐντάξαι ῥήμασιν αὐτοῖς τῇ ῾Ρωμαίων ἐγκελεύεται φωνῇ· “τούτῳ τῷ σωτηριώδει σημείῳ, τῷ ἀληθεῖ ἐλέγχῳ τῆς ἀνδρείας τὴν πόλιν ὑμῶν ἀπὸ ζυγοῦ τοῦ τυράννου διασωθεῖσαν ἠλευθέρωσα, ἔτι μὴν καὶ τὴν σύγκλητον καὶ τὸν δῆμον ῾Ρωμαίων τῇ ἀρχαίᾳ ἐπιφανείᾳ καὶ λαμπρότητι ἐλευθερώσας ἀποκατέστησα”».
22 A. Alföldi, Hoc signo victor eris. Beiträge zur Geschichte der Bekehrung Konstantins des Großen, in Pisciculi: Studien zur Religion und Kultur des Altertums Franz Joseph Dölger zum sechzigsten Geburtstage dargeboten von Freunden, Verehrern und Schulern, Münster 1939, pp. 1-18, in partic. 7-8.
23 Cfr. RIC VII, (Treviri, 313-315), tav. 3, n. 30; (Tessalonica, 324), tav. 16, n. 135. La stessa iconografia verrà più tardi utilizzata anche per i Cesari, con la legenda principi iuventutis: RIC VII, (Treviri, 335-336), tav. 5, n. 575; (Siscia, 326-327), tav. 13, n. 209; (Siscia, 334), tav. 14, nn. 226-228; (Sirmio, 323-325), tav. 14, nn. 40 e 58; (Tessalonica, 324), tav. 15, n. 132.
24 Cfr. il contenuto dell’orazione tenuta da Costantino in Senato dopo la conquista di Roma, a cui fa riferimento l’anonimo retore di Paneg. 9(12)20,1: «nam quid ego de tuis in curia sententiis atque actis loquar? quibus senatui auctoritatem pristinam reddidisti».
25 München, Staatliche Münzsammlung. RIC VII, p. 364, n. 36; Spätantike und frühes Christentum, cit., pp. 639-642, cat. n. 224; Costantino il Grande, cit., p. 235, cat. n. 48.
26 Sulla continuità di tradizione artistica nella città di Roma tra l’epoca massenziana e il regno di Costantino si veda in particolare l’articolo di I. Romeo, Tra Massenzio e Costantino, cit.
27 J.M.C Toynbee, Roman Medallions, cit., pp. 175-176. Tra gli esempi di più alta qualità sono i multipli e i solidi coniati dalle zecche di Siscia (RIC VII, pp. 450-451, nn. 206-208; Costantino il Grande, cit., p. 237, cat. n. 53), Tessalonica (Ivi, p. 517, n. 145; pp. 520-521, nn. 163 e 166-168; Aurea Roma, cit., p. 566, cat. n. 226; Costantino il Grande, cit., p. 238, cat. n. 56), Nicomedia (Ivi, pp. 616-619, nn. 102-103, 110-113; pp. 621-622, nn. 132-133; pp. 624-625, nn. 151-152; p. 627, n. 164; p. 629, n. 171; p. 631, nn. 175-177; Aurea Roma, cit., pp. 571-572, cat. n. 245). Per le altre zecche cfr. RIC VII, Roma, tav. 8, n. 273; Ticino, tav. 11, n. 179; Costantinopoli, tav. 18, n. 2.
28 Alcune serie di solidi coniate dalle zecche di Ticino, Sirmio e Nicomedia nel 325-326 presentano al diritto lo stesso tipo ritrattistico, accompagnato al rovescio ora dal nome di Costantino Augusto, ora da quello di uno dei Cesari: Crispo, Costantino II o Costanzo II (RIC VII, p. 385, nn. 192-196; pp. 476-477, nn. 62-65; pp. 618-619, nn. 108-113). Dieci anni più tardi, nella monetazione in argento prodotta dalle zecche orientali nel 335-336, il ritratto è utilizzato sia per Costantino Augusto che per i Cesari Costantino II, Costanzo II, Dalmazio e Costante, sia presi singolarmente, sia in gruppo (in questo caso con la legenda Virtus Caesarum n(ostrum)): RIC VII, Tessalonica, p. 528, nn. 214-218; Costantinopoli, pp. 585-588, nn. 104-105, 124, 127-128, 136; Nicomedia, pp. 632-633, nn. 186-187; Antiochia, p. 696, nn. 105-107.
29 Eus., v.C. IV 15,1: «῾Όση δ᾽ αὐτοῦ τῇ ψυχῇ πίστεως ἐνθέου ὑπεστήρικτο δύναμις, μάθοι ἄν τις καὶ ἐκ τοῦδε λογιζόμενος, ὡς ἐν τοῖς χρυσοῖς νομίσμασι τὴν αὐτὸς αὐτοῦ εἰκόνα ὧδε γράφεσθαι διετύπου, ὡς ἄνω βλέπειν δοκεῖν ἀνατεταμένου πρὸς θεὸν τρόπον εὐχομένου».
30 Cfr. RIC VII, Treviri, tav. 5, n. 580; Tessalonica, tav. 16, n. 208; e gran parte della produzione della zecca di Costantinopoli a partire dal 330 circa (RIC VII, tav. 18, nn. 53, 58 e tav. 19).
31 Wien, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, inv. I 932; R.R.R. Smith, The Public Image of Licinius, cit.
32 Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, inv. 1072. K. Fittschen, P. Zanker, Katalog der römischen Porträts in den Capitolinischen Museen cit., pp. 152-155, cat. n. 123 (con bibliografia precedente); S. Ensoli, I colossi di bronzo a Roma in età tardoantica: dal Colosso di Nerone al Colosso di Costantino. A proposito dei tre frammenti bronzei dei Musei Capitolini, in Aurea Roma, cit., pp. 66-90 (proposta, alquanto discutibile, di identificare la testa in bronzo dei Capitolini con quella del colosso di Nerone riutilizzato da Costantino); C. Parisi Presicce, L’abbandono della moderazione, cit., pp. 150-153.
33 Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, inv. 2882. K. Fittschen, P. Zanker, Katalog der römischen Porträts in den Capitolinischen Museen cit., pp. 156-157, cat. n. 125 (con bibliografia precedente); Aurea Roma, cit., p. 547, cat. n. 199; C. Parisi Presicce, L’abbandono della moderazione, cit., p. 153; Costantino il Grande, cit., pp. 216-218, cat. n. 14.
34 Eus., v.C. III 2,2-3,3: «τοιγάρτοι τὸν Χριστὸν τοῦ θεοῦ σὺν παρρησίᾳ τῇ πάσῃ πρεσβεύων εἰς πάντας διετέλει, μηδὲν ἐγκαλυπτόμενος τὴν σωτήριον ἐπηγορίαν, σεμνολογούμενος δ᾽ ἐπὶ τῷ πράγματι φανερὸν ἑαυτὸν καθίστη, νῦν μὲν τὸ πρόσωπον τῷ σωτηρίῳ κατασφραγιζόμενος σημείῳ, νῦν δ᾽ ἐναβρυνόμενος τῷ νικητικῷ τροπαίῳ, ὃ δὴ καὶ ἐν ὑψηλοτάτῳ πίνακι πρὸ τῶν βασιλικῶν προθύρων ἀνακειμένῳ τοῖς πάντων ὀφθαλμοῖς ὁρᾶσθαι προὐτίθει, τὸ μὲν σωτήριον σημεῖον ὑπερκείμενον τῆς αὑτοῦ κεφαλῆς τῇ γραφῇ παραδούς, τὸν δ᾽ ἐχθρὸν καὶ πολέμιον θῆρα τὸν τὴν ἐκκλησίαν τοῦ θεοῦ διὰ τῆς τῶν ἀθέων πολιορκήσαντα τυραννίδος κατὰ βυθοῦ φερόμενον ποιήσας ἐν δράκοντος μορφῇ. δράκοντα γὰρ αὐτὸν καὶ σκολιὸν ὄφιν ἐν προφητῶν θεοῦ βίβλοις ἀνηγόρευε τὰ λόγια. διὸ καὶ βασιλεὺς ὑπὸ τοῖς αὐτοῦ τε καὶ τῶν αὐτοῦ παίδων ποσὶ βέλει πεπαρμένον κατὰ μέσου τοῦ κύτους βυθοῖς τε θαλάττης ἀπερριμένον διὰ τῆς κηροχύτου γραφῆς ἐδείκνυ τοῖς πᾶσι τὸν δράκοντα, ὧδέ πῃ τὸν ἀφανῇ τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους πολέμιον αἰνιττόμενος, ὃν καὶ δυνάμει τοῦ ὑπὲρ κεφαλῆς ἀνακειμένου σωτηρίου τροπαίου κατὰ βυθῶν ἀπωλείας κεχωρηκέναι ἐδήλου. ἀλλὰ ταῦτα μὲν ἄνθη χρωμάτων ᾐνίττετο διὰ τῆς εἰκόνος· ἐμὲ δὲ θαῦμα τῆς βασιλέως κατεῖχε μεγαλονοίας, ὡς ἐμπνεύσει θείᾳ ταῦτα διετύπου, ἃ δὴ φωναὶ προφητῶν ὧδέ που περὶ τοῦδε τοῦ θηρὸς ἐβόων, “ἐπάξειν τὸν θεόν” λέγουσαι “τὴν μάχαιραν τὴν μεγάλην καὶ φοβερὰν ἐπὶ τὸν δράκοντα ὄφιν τὸν σκολιόν, ἐπὶ τὸν δράκοντα ὄφιν τὸν φεύγοντα, καὶ ἀνελεῖν τὸν δράκοντα τὸν ἐν τῇ θαλάσσῃ”. εἰκόνας δὴ τοῦτων διετύπου βασιλεύς, ἀληθῶς ἐντιθεὶς μιμήματα τῇ σκιαγραφίᾳ».
35 Sul dipinto e la sua collocazione cfr. C. Mango, The Brazen House: A Study of the Vestibule of the Imperial Palace of Constantinople, København 1959, in partic. pp. 23-24.
36 Tra i più recenti quello di F. Bisconti, Monumenta picta. L’arte dei Costantinidi tra pittura e mosaico, in Costantino il Grande, cit., pp. 174-187, in partic. 182-183.
37 RIC VII, pp. 572-573, nn. 19 e 26.
38 Le monete con il serpente trafitto, databili agli anni 327-328, presentano sul labaro tre medaglioni, a rappresentare i ritratti di Costantino e dei Cesari Costantino II e Costanzo II; se anche il dipinto fosse stato realizzato prima della caduta in disgrazia e dell’esecuzione del Cesare Crispo, avvenuta all’inizio del 326, senza dubbio l’immagine di quest’ultimo sarebbe stata immediatamente colpita da damnatio memoriae.
39 P. Bruun, The Disappearance of Sol from the Coins of Constantine, in Arctos, 2 (1958), pp. 15-37 (= Id., Studies in Constantinian Numismatics, cit., pp. 37-48).
40 Fondamentali T. Preger, Konstantinos-Helios, in Hermes, 36 (1901), pp. 457-469, in partic. 457-465; e G. Dagron, Naissance d’une capitale: Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974, pp. 37-40. Fra gli studi più recenti: F.A. Bauer, Stadt, Platz und Denkmal in der Spätantike: Untersuchungen zur Ausstattung des öffentlichen Raums in den spätantiken Städten Rom, Konstantinopel und Ephesos, Mainz 1996, in partic. 167-187; M. Bergmann, Die Strahlen der Herrscher, cit., in partic. pp. 284-287; M. Falla Castelfranchi, Costantino e l’edilizia cristiana in Oriente, in Costantino il Grande, cit., pp. 106-123, in partic. 109-110; M. Bergmann, Konstantin und der Sonnengott, cit., in partic. pp. 153-159.
41 Malal., Chron. p. 320, ll. 9-13 (ed. Dindorf).
42 Wien, Österreichische Nationalbibliothek, cod. 324. E. Weber, Tabula Peutingeriana: Codex Vindobonensis 324. Kommentar, Graz 1976; L. Bosio, La Tabula Peutingeriana: una descrizione pittorica del mondo antico, Rimini 1983; Tabula Peutingeriana: le antiche vie del mondo, a cura di F. Prontera, Firenze 2003; R.J.A. Talbert, Rome’s World: The Peutinger Map Reconsidered, New York 2010.
43 Le Parastaseis Syntomoi Chronikai, redatte all’inizio dell’VIII secolo, descrivono i rituali che ebbero luogo nel Foro appena prima che la statua venisse issata sulla colonna (SOC, p. 56, ll. 15-17): «ἐν οἷς ἐν τῷ Φόρῳ τεθεῖσα καὶ πολλάς, ὡς προείρηται, ὑμνῳδίας δεξαμένη εἰς Τύχην τῆς πόλεως προσεκυνήθη παρὰ πάντων, ἐν οἷς τὰ ἐξέρκετα» (A questo punto la statua, collocata nel Foro e, come si è detto, onorata con inni, venne venerata come Tyche della città da tutti, compreso l’esercito). Cfr. T. Preger, Konstantinos-Helios, cit., pp. 464-465; Constantinople in the Early Eighth Century: The Parastaseis Syntomoi Chronikai. Introduction, Translation and Commentary, ed. by Av. Cameron, J. Herrin, Leiden 1984, pp. 242-245; F.A. Bauer, Stadtverkehr in Konstantinopel. Die Zeremonialisierung des Alltags, in Stadtverkehr in der antiken Welt. Internationales Kolloquium zur 175-Jahrfeier des Deustchen Archäologischen Instituts Rom, 21. bis 23. April 2004, hrsg. von D. Mertens, Wiesbaden 2008, pp. 193-211, in partic. 193.
44 Ne dava notizia all’inizio del V secolo lo storico ariano Filostorgio, conservatoci in epitome da Fozio (Philost., h.e. II 17, p. 28, ll. 4-8 ed. Bidez): «οὗτος ὁ θεομάχος καὶ τὴν Κωνσταντίνου εἰκόνα, τὴν ἐπὶ τοῦ πορφυροῦ κίονος ἱσταμένην, θυσίαις τε ἱλάσκεσθαι καὶ λυχνοκαΐαις καὶ θυμιάμασι τιμᾶν, καὶ εὐχὰς προσάγειν ὡς θεῷ καὶ ἀποτροπαίους ἱκετηρίας τῶν δεινῶν ἐπιτελεῖν τοὺς Χριστιανοὺς κατηγορεῖ» (Questo nemico di Dio racconta anche che i cristiani si propiziavano con sacrifici la statua di Costantino che si ergeva in cima alla colonna di porfido, la onoravano accendendo lampade e bruciando incenso, le innalzavano preghiere come a un dio e le rivolgevano suppliche per tenere lontane le disgrazie).
45 M. Bergmann, Die Strahlen der Herrscher, cit., p. 286; Id., Konstantin und der Sonnengott, cit., p. 159. La studiosa tuttavia, per difendere la coerenza cristiana di Costantino, si sforza di sminuire il carattere inequivocabilmente pagano di questo monumento.
46 Malal., Chron. p. 322, ll. 6-16 ed. Dindorf.
47 T. Preger, Konstantinos-Helios, cit., in partic. pp. 466-469; G. Dagron, Naissance d’une capitale, cit., pp. 40-41; F.A. Bauer, Stadtverkehr in Konstantinopel, cit., in partic. pp. 193-195; cfr. anche il contributo di B. Caseau in questa stessa opera.
48 Il Chronicon Paschale, redatto intorno alla metà del VII secolo, nel riprendere la descrizione della pompa circensis da Giovanni Malalas (Chron. Pasch. p. 530, ll. 2-11 ed. Dindorf) elimina il commento finale, in cui Malalas affermava che «quest’uso si è conservato fino a oggi».
49 Le Parastaseis Syntomoi Chronikai menzionano un’immagine del dio Sole (SOC, p. 41, l. 19; p. 42, l. 17); i più tardi Patria dello pseudo-Codino, redatti verso la fine del X secolo, dopo aver riproposto il brano delle Parastaseis che parla di un’immagine del Sole (SOC, p. 172, l. 16; p. 173, l. 6), riportano anche una seconda versione in cui compare una statua femminile (SOC, p. 195, l. 29; p. 196, l. 13).