Nazione, idea di
Nel corso degli ultimi due secoli la 'nazione' ha costituito un punto di riferimento fondamentale nei processi di formazione e di consolidamento delle identità collettive. Nello stesso tempo essa ha operato come una forza storica di prima grandezza, condizionando una parte assai rilevante degli sviluppi che si sono prodotti, su scala planetaria, dalla Rivoluzione francese alle due guerre mondiali e dai processi di decolonizzazione fino alle radicali trasformazioni che stanno attualmente investendo l'Europa centro-orientale dopo la caduta dei comunismi e la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Nonostante questa sua duplice importanza nelle formule dei suoi apologeti e dei suoi critici e nelle analisi elaborate dalle scienze storico-sociali la nazione rimane un oggetto estremamente complesso, concettualmente fluido e per ciò stesso altamente controverso: "un'idea chiara in apparenza, ma facile a essere gravemente fraintesa" come scrisse Ernest Renan nel testo della celebre conferenza, Che cos'è una nazione?, tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882.
Le ragioni di questa complessità meritano di essere indicate fin dal principio: da un lato per fissare in via preliminare le principali oscillazioni di senso che hanno caratterizzato le diverse grammatiche dell''idea di nazione'; dall'altro per definire in termini più generali la specifica funzione che una tale idea ha svolto nella storia delle nazioni e delle identità nazionali. In questa prospettiva risultano decisive tre differenti classi di problemi che riguardano rispettivamente: 1) l'estrema varietà dei fattori che possono di volta in volta determinare le strutture concrete delle nazioni e delle forme della coscienza nazionale; 2) i mutamenti che vengono a prodursi nella storia di tali strutture tra il XVIII e il XIX secolo; 3) il rapporto che lega la nazione all''idea di nazione'.
Nelle riflessioni di carattere più generale sul tema della nazione ricorrono con una certa frequenza due argomenti strettamente correlati. Il primo argomento è che la fisionomia delle nazioni viene di regola determinata dall'interazione di un complesso variabile di fattori eterogenei quali la razza, l'etnia, il territorio, la lingua, le tradizioni, la cultura, un'eredità di memorie condivise, un sistema di istituzioni politiche comuni. Il secondo argomento è che ogni singola nazione costituisce sempre il prodotto di circostanze uniche e irripetibili, di uno sviluppo storico specifico in cui i diversi elementi sopra indicati - o solo alcuni di essi - operano in modi e con esiti di volta in volta differenti. Classica, in entrambi i sensi, la definizione formulata da John Stuart Mill nel XVI capitolo delle Considerazioni sul governo rappresentativo (1861) a proposito delle "fonti del sentimento nazionale": "Qualche volta - si legge - tale sentimento è l'effetto di identità di razza e di spirito; sovente comunità di linguaggio e di religione contribuiscono a farlo nascere. I limiti geografici sono pure una delle sue fonti; ma la sorgente più viva è l'identità del progresso politico, il possesso di una storia nazionale e di conseguenza di una comunità di ricordi". La storia delle singole nazionalità e delle singole forme del sentimento nazionale - prosegue Mill - dimostra tuttavia che "nessuna di queste circostanze è indispensabile o sufficiente per se stessa in senso assoluto". Considerazioni simili ritornano, per citare solo un altro caso autorevole, nel capitolo teorico che Friedrich Meinecke pose al principio di Cosmopolitismo e Stato nazionale (1907): "Le Nazioni sono grandi e possenti comunità di vita sorte attraverso un lungo processo storico e sottoposte a movimenti e mutamenti ininterrotti; e perciò appunto c'è nella natura della Nazione qualche cosa di fluido. Sedi comuni, comune discendenza o, più esattamente, [...] uguale o simile mescolanza di sangue, lingua comune, vita spirituale comune, lega o federazione di parecchi Stati d'ugual natura: tutte queste possono essere caratteristiche importanti, essenziali, d'una Nazione; ma con ciò non è detto che una Nazione, per esser tale, debba possederle tutte insieme". I due argomenti contenuti in queste definizioni, pur essendo - come si è detto - strettamente correlati, sollevano due problemi distinti. Il fatto che la nazione sia in senso eminente un''individualità storica' è un dato di immediata evidenza, che si connette strutturalmente e per definizione alla stessa idea di nazione, la quale non a caso iniziò a essere consapevolmente elaborata nell'epoca in cui il "principio del particolare, del singolo" e il "senso dell'individuale" trionfarono sulle "tendenze generalizzatrici e universalizzanti" che avevano caratterizzato l'età dell'illuminismo (v. Chabod, 1961). Questa prima circostanza rende assai ardua e quasi sempre provvisoria l'impresa di determinare - di nuovo con le parole di Meinecke - "quel che v'ha di tipico e di generale nella natura delle Nazioni". E può altresì produrre, in alcuni casi, conclusioni di tipo relativistico, come accade in qualche misura nei due capitoli sulla nazione - uno dei quali rimasto significativamente incompiuto - che Max Weber scrisse per Economia e società (1922). Paradossalmente, però, il fatto che le nazioni siano individualità storicamente determinate non esclude ancora che esse possano in qualche modo costituire una classe sostanzialmente omogenea di relazioni sociali. Giambattista Vico, ad esempio, seppure in un contesto molto differente, teorizzava l'idea di una "comune natura delle nazioni" pur riconoscendo che ognuna di esse possiede dei caratteri rigorosamente individuali (v. Vico, 1725-1744). E così, lo stesso Meinecke riteneva che in ultima analisi alla radice delle molteplici forme storiche dell'esistenza nazionale vi dovesse sempre essere "un intimo nocciolo naturale nato dalla consanguineità" su cui vengono poi a svilupparsi "quella peculiare, profonda comunanza spirituale, quella più o meno chiara coscienza di essa, che elevano le varie stirpi riunite a dignità di Nazione".
Rispetto a questo primo nucleo di problemi, l'argomento secondo cui la fisionomia delle nazioni può dipendere da fattori di natura eterogenea introduce una prospettiva almeno in parte diversa. Esso suggerisce infatti - anche in questo caso con il conforto di numerose evidenze storico-empiriche - che le nazioni e le forme della coscienza nazionale, oltre ad avere una storia rigorosamente singolare, possono talora avere strutture radicalmente differenti. Sono tre, nel complesso, le variabili che delimitano in modo tipico lo spettro di queste oscillazioni di senso. Vi è in primo luogo la variabile naturale, in virtù della quale la nazione si definisce attraverso il riferimento a elementi quali la razza, l'etnia, la stirpe, la consanguineità o, più genericamente, un'origine comune. Vi è poi la variabile culturale, che lega la nazione e le forme della coscienza nazionale a fattori identitari quali la lingua, le tradizioni, la religione, le memorie storiche, lo 'spirito del popolo' oppure, ancora, a un complesso di relazioni più o meno stabili con un determinato territorio. E vi è infine la variabile politica, che pone al centro della nazione e dei meccanismi di riconoscimento da essa prodotti l'appartenenza - da realizzare o da consolidare - a un sistema di istituzioni politico-territoriali comuni o a una comune volontà politica. Naturalmente i confini fra questi tre poli sono sempre molto fluidi ed è assai raro che una nazione si costituisca e sussista come una comunità di carattere puramente etnico-naturale, culturale o politico. Ciò nondimeno - per citare solo alcuni casi - la nazione americana è sorta e continua tuttora a configurarsi come una nazione in primo luogo 'politica'. E così l'Italia e la Germania, rispettivamente fino al 1861 e al 1871, furono nazioni prevalentemente 'culturali', seppure con dei limiti molto precisi. Allo stesso modo, le nazioni antiche - su cui dovremo tornare tra poco - furono soprattutto nazioni 'etniche', fondate cioè sui legami naturali della stirpe o di una comune origine.
Analogamente, nelle teorie della nazione e, più in generale, nelle molteplici varianti dell'idea di nazione di regola non si trova quasi mai un riferimento esclusivo a uno solo dei tre poli sopra citati. Ciò non toglie, tuttavia, che l'accento possa cadere di volta in volta su uno di essi in particolare. Rousseau nel Contratto sociale (1762), John Stuart Mill nel già citato capitolo XVI delle Considerazioni sul governo rappresentativo, Jürgen Habermas (v., 1990) nella teoria del 'patriottismo costituzionale', e più in generale tutta la tradizione del 'patriottismo repubblicano' (v. Viroli, 1995) hanno ad esempio insistito in primo luogo sull'elemento politico. Lo stesso Rousseau nelle Considerazioni sul governo di Polonia (1771), Herder nelle Idee per la filosofia della storia dell'umanità (1784-1791), Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808), Stalin ne Il marxismo e la questione nazionale (1913), e ancora -ma con una fondamentale variante 'volontaristica' - Renan nel già citato Che cos'è una nazione? hanno invece posto in primo piano, in modi fra loro molto diversi, l'elemento storico-culturale. E così, infine, una gran parte delle rappresentazioni premoderne della nazione e, in forme più elaborate, le tesi dei cosiddetti 'primordialisti' e le più recenti teorie 'neoetniche' di Anthony D. Smith (v., 1986) e di Walker Connor (v., 1994) sono costruite innanzitutto sul riferimento all'idea di una comune discendenza o a elementi di tipo etnico. In alcuni casi, peraltro, queste oscillazioni possono determinare torsioni di significato estreme. È immediatamente evidente infatti - per citare un solo esempio - che tra l'idea di nazione puramente politica dell'abate Sieyès (la nazione è "un corpo di associati che vivono sotto una legge comune, rappresentati dalla stessa legislatura") e l'idea di nazione puramente naturalistico-razziale di Adolf Hitler ("la nazione, o più precisamente la razza, non consiste nella lingua, ma soltanto nel sangue") non vi è più alcuna relazione, vi sono differenze di sostanza e non di grado o di accento. Ed è questa, per l'appunto, una delle ragioni fondamentali della specifica complessità del problema della nazione e dell'idea di nazione. Accanto a essa, tuttavia, bisogna porre un nuovo e più articolato ordine di questioni.
Si è detto al principio che le nazioni iniziano a produrre identità e storia a partire grosso modo dall'epoca che si apre con la Rivoluzione francese. A ciò si deve ora aggiungere un dato ulteriore, e cioè che le nazioni moderne - non importa per il momento se consolidate entro una cornice statuale o saldamente strutturate in quanto comunità di lingua e di cultura oppure soltanto in via di formazione - tendono quasi invariabilmente a rivendicare il proprio radicamento in una storia di lungo periodo. È una rivendicazione legittima? Si possono davvero prendere come punti di riferimento delle origini delle nazioni attuali la vittoria di Arminio nella selva di Teutoburgo (9 d.C.), l'assedio dell'antica Alesia e la resistenza di Vercingetorige (52 a.C.), le imprese del lusitano Viriato (148-139 a.C.), il giuramento di Strasburgo (842) o, più avanti nel tempo, la 'domenica di Bouvines' (1214), la guerra dei Cent'anni, Giovanna d'Arco e la traduzione luterana della Bibbia in lingua tedesca? In breve: le nazioni sono davvero "antiche come la storia", come scriveva Walter Bagehot alla fine del secolo scorso? oppure iniziano a definirsi soltanto all'epoca della Grande Nation, semmai con qualche limitato slittamento all'indietro fino all'elvetismo settecentesco, a Rousseau, alle spartizioni della Polonia e alla Rivoluzione americana?
A questo insieme di domande sono state date risposte diverse e variamente argomentate. Nel quadro di una teoria di tipo 'funzionalistico' Ernest Gellner (v., 1983) ha sostenuto ad esempio che le nazioni e i nazionalismi acquistano il proprio senso specifico in relazione alla formazione e al consolidamento di una "società industriale orientata alla crescita" e che rappresentano dunque fenomeni tipici della modernità. A.D. Smith (v., 1986), invece, pur rigettando gli argomenti di coloro che collocano le origini delle nazioni moderne in legami 'primordiali' o 'perenni' di natura sociobiologica, ha insistito sul fatto che tali origini devono essere ricercate nella vicenda premoderna delle comunità etniche. Più recentemente Eric J. Hobsbawm (v., 1990), rovesciando in maniera esplicita l'assunto di Bagehot e riprendendo alcuni degli argomenti strategici di Gellner, è tornato a insistere sul tema della modernità della nazione, che costituirebbe per l'appunto "un nuovo arrivato di recentissima data nella storia degli uomini". In realtà, sia Gellner sia Hobsbawm fanno riferimento a una fase precisa dell'esistenza delle nazioni, vale a dire all'epoca in cui esse entrano in rapporto "con una forma determinata di Stato territoriale moderno, ossia lo 'Stato-nazione"'. È tuttavia innegabile - anche a prescindere dall'"invenzione della tradizione" e dai miti nazionali sui quali Hobsbawm e Gellner hanno giustamente insistito (v. Hobsbawm e Ranger, 1983) - che le nazioni e le prime rudimentali forme della coscienza nazionale iniziano per molti aspetti a enuclearsi, se non già all'epoca dell'antico Israele e dell'antica Grecia (v. Kohn, 1944), quantomeno nell'Europa medievale, in vari casi proprio attraverso una problematica relazione con la nascita e lo sviluppo degli Stati moderni (v. Schulze, 1994). È innegabile, insomma, che le nazioni, le forme della coscienza nazionale e, in qualche misura, la stessa idea di nazione hanno una storia che precede la vicenda delle nazioni e degli Stati-nazione del XVIII-XIX secolo. Il punto è, però, che tra quella storia e questa vicenda si viene comunque a produrre una frattura profonda e che le nazioni che si affermano e si consolidano a partire dall'epoca della Rivoluzione francese sono qualche cosa di diverso - perlopiù di radicalmente diverso - dalle nazioni esistenti prima di allora.
In questa nuova prospettiva i tre principî di struttura che abbiamo precedentemente fissato nei tipi della nazione etnico-naturale, culturale e politica hanno un potenziale esplicativo molto ridotto. Certo, in origine le nazioni possono fondarsi su relazioni di consanguineità o di stirpe sulle quali vengono poi a svilupparsi legami di appartenenza più propriamente culturali, spirituali e simbolici. Da tali vincoli, inoltre, può sorgere in seguito una specifica aspirazione delle nazioni a darsi un'esistenza territoriale garantita da istituzioni politico-statuali unitarie, come in effetti accade più volte nella storia del XIX e del XX secolo. Uno schema di questo genere - che ricorre di frequente nelle retoriche della nazione e dei nazionalismi e in alcune elaborazioni recenti e meno recenti delle stesse scienze storico-sociali - non definisce tuttavia una serie evolutiva che possa rivendicare una validità di carattere generale. Concettualmente problematico e storicamente poco accertabile è innanzitutto il punto di partenza di una tale ipotesi evolutiva: l'idea che all'origine delle nazioni vi sia quell'"intimo nocciolo naturale nato dalla consanguineità" di cui parlava Meinecke. Già Weber (v., 1922) aveva rilevato che concetti di tipo etnico quali quelli di 'stirpe' o di 'popolo' sono di regola costruiti artificialmente da comunità politiche consolidate che mirano a produrre condotte solidali più intense. E del resto, anche coloro che oggi sostengono la tesi delle origini etniche delle nazioni non identificano tali origini con elementi di tipo immediatamente naturalistico, ma con le elaborazioni mitiche e simboliche che le varie 'etnonazioni' producono e mantengono poi in vita in una storia di lunga durata: vale a dire, con elementi che appartengono più alla sfera della 'cultura' che a quella della 'natura' (v. Smith, 1986; v. Connor, 1994). Ma anche a prescindere da ciò, non tutte le nazioni e le forme della coscienza nazionale hanno un'origine etnica. Nello stesso tempo, le nazioni etniche non sono necessariamente residui atavici di un passato che viene in qualche modo cancellato dai processi di modernizzazione. Al contrario, le etnonazioni continuano ad avere un ruolo assai significativo sulla superficie e nel sottosuolo del mondo moderno e contemporaneo. In alcuni casi anzi - ma qui interviene un significativo cortocircuito tra nazione e idea di nazione - nazioni tipicamente moderne possono rivendicare una purezza di tipo naturalistico e subordinare a essa, come è avvenuto in forme estreme nel caso della nazione biologica hitleriana, le dimensioni più propriamente culturali e politiche della loro storia: la lingua e lo Stato al sangue. Altrettanto problematica è l'idea che le nazioni giungano infine, nella fase della loro piena maturità, a sottomettersi a una comune volontà politica, a costruirsi in nazioni-Stato o quantomeno ad avanzare una specifica pretesa in tal senso. Senza dubbio la storia degli ultimi due secoli è stata in buona parte la storia di questa pretesa, che ha generato trasformazioni radicali nella carta geopolitica del pianeta. E senza dubbio, ancora, è proprio nel XIX-XX secolo che gli Stati hanno iniziato a ricercare i fondamenti della propria legittimità nel principio di nazionalità, trasformandosi così, almeno tendenzialmente e comunque con rilevanti eccezioni, in Stati nazionali. Nonostante questo duplice movimento dalla nazione alla nazione-Stato e dallo Stato allo Stato-nazione, resta tuttavia il fatto che il numero delle 'nazioni senza Stato' o, come le chiama Gellner, delle "nazioni potenziali" è tuttora di gran lunga più elevato di quello degli Stati i quali, dunque, continuano a incorporare di regola una pluralità di 'nazioni' diverse. Ed è assai dubbio che una situazione di questo genere - accettata come un fatto naturale da Leopold von Ranke (v., 1836) e come un dato positivo da lord Acton (v., 1862) nella sua polemica contro il nazionalismo politico e da Karl Renner (v., 1918) - possa evolvere in modo sostanziale nella direzione indicata dal principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli. D'altra parte, se la nazione-Stato o lo Stato-nazione non costituiscono l'esito necessario della storia delle nazioni, è tutt'altro che infrequente il caso di nazioni che sorgono e si sviluppano all'interno di una preesistente comunità politica, di uno Stato originariamente senza nazione che in qualche modo 'costruisce' nel tempo la nazione stessa. È fondamentale, in questo senso, la distinzione introdotta da Meinecke tra "nazioni culturali" come la Germania e l'Italia e "nazioni territoriali" come la Francia e l'Inghilterra, vale a dire tra "nazioni fondate prevalentemente sopra un qualche possesso culturale conquistato con comune sforzo e nazioni che si fondano innanzitutto sulla virtù unificatrice d'una storia politica e d'una legislazione comuni". A ciò si deve aggiungere che di regola sono proprio gli Stati del XIX-XX secolo, attraverso le politiche di alfabetizzazione, il servizio militare e le ideologie nazionalistiche, a produrre un'effettiva nazionalizzazione delle masse e a creare quindi la nazione culturale in senso proprio, che da questo punto di vista è un prodotto e non un presupposto dei moderni Stati nazionali. Vedremo più avanti come in questa prospettiva risultino assai persuasive le tesi 'ingegneristiche' di Gellner e di Hobsbawm e, più in generale, di quegli autori che hanno insistito sulla natura artificiale, mitica o immaginaria della nazione.
Per il momento, tuttavia, si deve ribadire che i tre tipi di nazione - etnica, culturale e politica - non disegnano una linea evolutiva univoca e soprattutto non definiscono un criterio utile per cogliere il senso dei mutamenti che vennero a prodursi, tra il XVIII e il XIX secolo, nella storia delle nazioni e delle forme della coscienza nazionale. Essi fissano piuttosto tre principî di struttura che si possono rinvenire nelle più diverse fasi dello sviluppo storico e che tendono anzi a caricarsi di significati differenti a seconda che si riferiscano a un'epoca precedente o successiva rispetto a quella in cui si compiono tali mutamenti.
Per intendere la natura di questa svolta si deve fare riferimento a tre trasformazioni di carattere più generale. La prima riguarda la nascita e il consolidamento della società industriale, che si affermò per effetto dei radicali sovvertimenti generati da una prepotente esplosione demografica, da uno straordinario incremento della produttività agricola, dalla rivoluzione industriale, da massicci fenomeni di migrazione e di urbanizzazione e dalle nuove dimensioni assunte dalla mobilità di uomini, merci e notizie. La seconda trasformazione, per più aspetti strettamente correlata alla prima, riguarda il progressivo trionfo dei principî della sovranità popolare e della democrazia e si lega - oltre che ad alcune importanti elaborazioni filosofico-politiche - alle due esperienze epocali della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese, che posero all'ordine del giorno il problema di una radicale ridefinizione dei fondamenti della sovranità e dei principî della legittimità del potere. La terza trasformazione, infine, si riferisce a un'elaborazione di natura più propriamente intellettuale, e cioè alla nuova e rivoluzionaria 'idea di nazione' che la cultura europea iniziò a formulare, con molteplici varianti, nella seconda metà del XVIII secolo e che i nazionalismi s'incaricarono poi di trasformare in una potente ideologia di massa.
Sul ruolo e sulla portata di questi sviluppi le scienze storico-sociali hanno insistito con interpretazioni spesso assai diverse nel metodo e nei contenuti. In linea del tutto generale, tuttavia, si può dire che essi crearono complessivamente i presupposti strutturali, politici, culturali e ideologici di una 'rilevanza' sino allora inedita del riferimento alla nazione e alle identità nazionali.
Con ritmi e modalità differenti da paese a paese, la prima trasformazione - l'avvento della società industriale - distrusse alla radice le società agricole e cetuali della vecchia Europa, disintegrando sistemi di appartenenza che si erano fondati per secoli su ruoli rigidamente definiti, su insormontabili barriere di status, su una profonda frammentazione delle culture e su insuperabili distanze tra governanti e governati, di regola sancite da motivi di carattere religioso. Nello stesso tempo essa diede vita a nuovi attori collettivi e a società sempre più mobili, egualitarie, omogenee e massificate, producendo in tal modo quelle nuove esigenze di identità, di comunicazione sociale e di legittimazione politica a cui le nazioni e i nazionalismi - secondo la tesi funzionalistica e modernistica di Gellner - potevano dare, e diedero effettivamente, una risposta di straordinaria efficacia. In connessione con questo primo scenario, ma in parte indipendentemente da esso, la seconda trasformazione - il progressivo trionfo dei principî della sovranità popolare e del governo democratico - produsse a sua volta due effetti di grande rilievo storico-politico: da un lato legò in modo immediato e indissolubile il concetto di 'nazione' al concetto di 'popolo'; dall'altro pose la nazione stessa, così reinterpretata, a fondamento della legittimità dei poteri politici e, più in generale, di qualsiasi concezione autenticamente moderna della sovranità. Una tale identificazione - che acquistò una portata decisiva nel quadro dei processi di secolarizzazione da cui furono investite, con varia intensità, le società tardo-settecentesche (v. Chabot, 1986; v. Winkler, 1985) - alimentò a sua volta due principî solo in parte coincidenti: in primo luogo, il principio democratico dell'autogoverno dei cittadini, del 'popolo di uno Stato' che si riconosce vincolato a una legge comune entro una cornice politico-territoriale definita, secondo la linea argomentativa che lega la volonté générale di Rousseau alle dottrine dell'abate Sieyès e alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 (art. 3: "Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione"); in secondo luogo, il principio altrettanto democratico - ma concettualmente e praticamente assai più problematico - dell'autodeterminazione nazionale. Il quale non presuppone soltanto che il 'popolo' o la 'nazione' siano in qualche modo titolari della sovranità, ma implica anche che sia possibile individuare in via preliminare, sulla base di elementi prepolitici e a prescindere dal riferimento allo Stato, quali sono i soggetti o i gruppi che in senso proprio costituiscono la nazione stessa. È soprattutto in relazione a quest'ultimo e fondamentale problema che la terza delle trasformazioni che abbiamo indicato - l'affermazione dell'idea di nazione - esercitò un ruolo strategicamente decisivo. Vedremo più avanti quali siano state, nel corso dell'età contemporanea, le principali varianti di una tale idea, su cui hanno insistito da prospettive diverse autori come Carlton J.H. Hayes (v., 1931), Otto Vossler (v., 1937), Hans Kohn (v., 1944) e Federico Chabod (v., 1961). Per il momento è sufficiente sottolineare un dato di carattere più generale: che la formulazione stessa di una compiuta ed elaborata idea di nazione fu il segno più evidente e significativo dello straordinario rilievo che le nazioni e i sentimenti nazionali iniziarono ad assumere nell'Europa della 'grande rivoluzione', di Napoleone e della Restaurazione, dapprima tra élites intellettuali e politiche circoscritte e poi a livello di massa. Più esattamente, fu il segnale e al tempo stesso il motore di una nuova e più profonda consapevolezza, di una inedita e radicale volontà di essere nazione che costituisce - come ha scritto Friedrich Meinecke reinterpretando in questo senso la celebre formula di Renan della nazione come "plebiscito di tutti i giorni" - uno degli elementi più rilevanti della specifica 'modernità' delle nazioni e delle forme della coscienza nazionale.
Riconsiderando complessivamente la natura e gli effetti di queste trasformazioni - che mostrano tra l'altro come il concetto di nazione sia strutturalmente legato ad altre fondamentali categorie del lessico politico occidentale: democrazia, popolo, sovranità, Stato (v. Koselleck e altri, 1992) - si possono formulare tre conclusioni generali e provvisorie al tempo stesso. La prima conclusione è che a differenza delle 'nazioni degli antichi' - le quali produssero identificazioni deboli, intermittenti e di regola limitate ai ceti colti e/o politicamente attivi - le 'nazioni dei moderni' furono innanzitutto nazioni popolari, in grado cioè di generare identità forti e tendenzialmente esclusive in un pubblico di massa dai caratteri sempre più omogenei. La seconda conclusione è che le nazioni dei moderni, in ragione del loro carattere popolare e della coeva fortuna teorica e pratica delle dottrine democratiche, furono nel contempo nazioni sovrane o potenzialmente tali, che iniziarono a intrattenere rapporti assai problematici con la sfera della politica e dello Stato nei due significati definiti dai principî dell'autogoverno popolare e dell'autodeterminazione nazionale. E ciò, di nuovo, a differenza delle nazioni degli antichi, le quali da un punto di vista politico o furono del tutto inerti o esercitarono una qualche funzione ma solo come 'nazioni aristocratiche'. La terza conclusione è che in quanto nazioni popolari e sovrane, da un lato, e in virtù della definizione di una compiuta idea di nazione, dall'altro, le nazioni dei moderni furono ancora - secondo lo schema di Meinecke - nazioni coscienti, dotate cioè di una 'volontà di essere nazione' che fu sostanzialmente assente nelle nazioni 'vegetative', 'incoscienti' o 'semicoscienti' degli antichi.
Questa terza affermazione - su cui storici e scienziati sociali hanno più volte insistito - deve essere ulteriormente specificata alla luce di un ultimo ordine di problemi, il quale chiama direttamente in causa la questione del ruolo che l'idea di nazione svolge nella costruzione delle nazioni e delle identità nazionali.
Com'è noto, l'idea che la nazione non si fondi tanto su principî oggettivi o materiali quali la razza, la lingua o il territorio quanto piuttosto sulla coscienza e sulla volontà di essere nazione ricorre più volte, con varie sfumature, nella storia del pensiero politico ottocentesco, soprattutto in Italia e in Francia. Con una significativa oscillazione terminologica, Giuseppe Mazzini scrisse, ad esempio, nell'appello Ai giovani d'Italia del 1859 che "la Patria è prima di ogni altra cosa la coscienza della patria" e che senza una tale coscienza gli Italiani sarebbero "turba senza nome, non Nazione; gente, non popolo". In un quadro argomentativo del tutto simile Pasquale Stanislao Mancini, nella prolusione sul tema Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (1851), affermò che la comunanza di territorio, di origine e di lingua può "costituire compiutamente una Nazionalità" soltanto se a essa si lega una matura "coscienza della Nazionalità", che rappresenta "il Penso dunque esisto de' filosofi applicato alle Nazionalità". Fu poi Ernest Renan, nella celebre conferenza su Che cos'è una nazione?, a fissare questo tipo di argomentazione in una formula destinata a straordinaria fortuna. La nazione - vi si legge - lungi dal fondarsi sul principio 'zoologico' della razza, sulla lingua, sulla religione, su una comunanza di interessi o sulla 'geografia', altro non sarebbe che "un plebiscito di tutti i giorni", il "desiderio di vivere insieme" basato sul "comune possesso di una ricca eredità di ricordi" e sulla "volontà di continuare a far valere l'eredità ricevuta indivisa".
Naturalmente definizioni di questo genere si fondavano anche sulla percezione di problemi assai concreti. Renan, ad esempio, aveva in mente la drammatica questione del contrasto franco-tedesco sull'Alsazia-Lorena. E non è un caso, infatti, che proprio in quegli stessi anni intellettuali tedeschi del calibro di Heinrich von Treitschke e di Theodor Mommsen si sforzassero di indebolire il concetto volontaristico della nazione privilegiando elementi di carattere naturalistico e oggettivo, quali la razza o le tradizioni storiche, nel tentativo più o meno esplicito di legittimare il dominio del Reich sulle regioni conquistate all'epoca della guerra franco-prussiana. Al di là di questi dati contingenti, tuttavia, nell'argomento secondo cui la nazione consisterebbe innanzitutto nella coscienza e quindi nella volontà di essere nazione le scienze storico-sociali hanno progressivamente riconosciuto, sebbene da prospettive differenti, un principio dotato di una validità più ampia. E ciò non soltanto dal punto di vista della storia dell'idea di nazione - su cui ha insistito ad esempio Chabod introducendo la nota distinzione tra la tradizione naturalistico-oggettivistica prevalentemente tedesca (da Herder fino a Hitler) e la tradizione volontaristico-soggettivistica prevalentemente italiana e francese (da Mazzini a Renan) - ma anche dal punto di vista di una teoria più generale della nazione stessa. Si è già citato in precedenza Friedrich Meinecke, il quale riteneva che fosse la 'coscienza' a trasformare una 'stirpe' legata da vincoli di sangue e di spirito in una 'nazione' vera e propria. Si possono ora richiamare altri autori. Robert Michels ad esempio - andando in un certo senso oltre lo stesso Renan - scrisse nelle sue Note sui modi di accertare la nazionalità (1917) che essa "non consiste necessariamente né nella lingua, né nella religione, né in un passato comune, ma nella volontà di un popolo", che in alcuni casi può costituire un elemento in sé sufficiente per formare una nazionalità. Allo stesso modo Franz Oppenheimer, nel suo Sistema di sociologia (1923), sostenne che la nazione è il prodotto della coscienza nazionale e non viceversa. E così, ancora, uno psicologo come William B. Pillsbury, con un tratto di radicalismo che derivava in parte dal suo approccio disciplinare, affermò nel 1919 che "la nazionalità è uno stato spirituale" e che "l'unico modo di decidere se un individuo appartiene a una nazione piuttosto che a un'altra è di domandarglielo". Negli anni quaranta Hans Kohn ha nuovamente ripreso il punto di vista di Renan sostenendo che "la nazionalità è formata dalla decisione di formare una nazionalità". A questo argomento, tuttavia, egli legò due ulteriori passaggi concettuali: da un lato la tesi, almeno relativamente modernistica, secondo cui "nei tempi moderni è stata la potenza di un'idea, non il richiamo del sangue, che ha costituito e plasmato le nazionalità"; dall'altro la tesi secondo cui fu il nazionalismo - in quanto ideologia dello Stato nazionale - a farsi storicamente portatore di una tale idea. Sul primo di questi argomenti si è già posto l'accento in precedenza. Il secondo argomento, invece, apre una prospettiva che, soprattutto in questi ultimi due decenni, ha profondamente condizionato la ricerca sui temi della nazione, dell'identità nazionale e, quantomeno indirettamente, dell'idea di nazione.
È assai utile, in questo senso riprendere alcuni suggerimenti forniti, seppure in modo frammentario e incompleto, dai due capitoli sulla nazione e la nazionalità che Weber scrisse per Economia e società. Da essi emerge complessivamente una duplice argomentazione. Per un verso, e ancora una volta, l'idea che la nazione debba essere interpretata in ultima analisi come un fatto di coscienza, come qualche cosa di soggettivamente sentito, come uno specifico sentimento di solidarietà che appartiene in quanto tale a una sfera di valore e che può poi di volta in volta fondarsi - con intensità varie, ma di regola tanto più forti quanto più i sentimenti nazionali si legano al pathos specifico della 'potenza politica' - su patrimoni culturali di massa quali la lingua, la religione, elementi etnici reali o immaginati, la memoria di comuni destini politici. Per l'altro verso l'idea che i sentimenti nazionali non abbiano soltanto una presa diversa sui vari strati sociali che compongono una comunità nazionale, ma siano anche prodotti e socializzati da un ceto sociale preciso, che elabora in termini nazionali la 'leggenda' di una missione provvidenziale di civiltà: "come in una comunità politica l'idea di Stato è provocata da coloro che detengono la potenza, così in una 'comunità culturale' - nel senso di un gruppo di uomini ai quali, in virtù del loro carattere, sono in modo specifico accessibili determinate prestazioni considerate come 'beni culturali' - i soggetti specificamente predestinati a propagare l'idea 'nazionale' [sono] quelli che usurpano la funzione direttiva, cioè gli 'intellettuali"'.
L'analisi weberiana s'interrompe qui. Probabilmente non senza ragione, se si considera che lo stesso Weber - autore di quella celebre Prolusione di Friburgo (1895) in cui veniva pronunciata, per sua esplicita ammissione, una 'brutale' professione di fede nella missione storica dello Stato di potenza nazionale tedesco - fu uno degli 'intellettuali' che con maggior energia si fecero interpreti, nella Germania guglielmina, della variante tedesca di una tale 'leggenda'. L'idea secondo cui la nazione consiste in uno specifico sentimento di appartenenza di cui si fanno propagatori ceti intellettuali e - soprattutto nel caso di comunità politico-nazionali già definite - gruppi politicamente attivi è stata tuttavia variamente ripresa e rielaborata in anni più recenti, soprattutto in relazione all'analisi del nazionalismo. Per Gellner, ad esempio, "le nazioni come maniera naturale, indicata da Dio, di classificare gli uomini, come destino politico intrinseco anche se di là da venire, sono un mito; il nazionalismo, che talvolta prende le culture preesistenti e le trasforma in nazioni, talvolta inventa queste culture e spesso le annulla: questa è una realtà, nel bene e nel male, e in genere una realtà inevitabile". E così Hobsbawm ha scritto lapidario che "non sono le nazioni a fare gli Stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario". Sebbene in un quadro argomentativo assai diverso, Miroslav Hroch (v., 1985), attraverso lo studio comparato dei movimenti nazionali in Europa, ha costruito in questo senso un'utilissima successione tipico-ideale, ripresa poi dallo stesso Hobsbawm, che permette di specificare ulteriormente gli elementi ingegneristici sopra indicati articolandone le dinamiche in tre diverse fasi: una prima fase di natura puramente culturale e letteraria (la fase dei 'risvegliatori'), una seconda fase in cui attorno all'idea nazionale si costituisce una minoranza d'avanguardia che inizia a propagare tale idea (la fase dell'agitazione patriottica) e una terza fase in cui l'idea di nazione agitata dai nazionalisti raccoglie infine - di solito dopo la costruzione dello Stato nazionale - un consenso di massa (la fase del movimento di massa).
Una gran parte di questi sviluppi, e soprattutto la trasformazione dell'idea di nazione in una potente ideologia di massa, appartiene alla storia del nazionalismo e dei movimenti nazionalistici. Qui si deve piuttosto sottolineare un dato più generale. Se la nazione non è altro che una "comunità immaginata", secondo la formula che Benedict Anderson (v., 1983) ha elaborato in relazione ai processi di decolonizzazione; se la nazione è il prodotto di una coscienza nazionale che viene a sua volta plasmata da coloro che per esigenze di prestigio culturale o politico si fanno portatori con vario successo di una specifica idea di nazione; allora è dalla fisionomia di una tale idea che viene a dipendere in ultima analisi la fisionomia delle nazioni e delle identità nazionali. Naturalmente, l'invenzione della tradizione, l'oblio del passato e la costruzione dei miti nazionali hanno dei limiti ben precisi: non si producono nel vuoto ma sempre e comunque sul fondamento di una storia carica di memorie e di tradizioni condivise. Ciò non toglie tuttavia che le nazioni - in quanto veicoli di identità pervasive e di massa - non si affermano di regola naturalmente o per generazione spontanea. Al contrario, esse sorgono per l'impulso di un progetto consapevolmente agitato da ceti intellettualmente e/o politicamente eminenti e quindi, per l'appunto, in relazione a un'idea di nazione che viene poi a radicarsi con varia intensità nella coscienza collettiva.Un simile cortocircuito tra nazione e idea di nazione complica ulteriormente - come si diceva al principio - il quadro concettuale e tipologico definito nei due paragrafi precedenti. Ai tre tipi della nazione etnica, culturale e politica e alla dicotomia tra le nazioni degli antichi e le nazioni dei moderni esso sovrappone infatti una terza coordinata di tipo 'soggettivistico' e 'costruttivistico', che bisogna tener presente quando si considera il tema della nazione, quando si parla di nazioni etniche e di nazioni culturali, di nazioni popolari e di nazioni coscienti e, ancora, del preteso radicamento delle comunità nazionali in una storia di lungo periodo e di Stato nazionale. Nello stesso tempo, quel medesimo cortocircuito carica di significati forti la storia più specifica dell'idea di nazione. Che non fu soltanto la storia di un'idea o di un percorso concettuale di grande rilievo ma anche - con le parole di Henry Hauser (v., 1916) - la storia di una "profezia creatrice", di una parte costitutiva ed essenziale della storia stessa delle nazioni e delle identità nazionali.
Si è detto nei paragrafi precedenti che intorno alla seconda metà del XVIII secolo viene a prodursi nella storia delle nazioni e delle forme della coscienza nazionale una frattura profonda, di grande rilievo identitario e storico al tempo stesso. Fino ad allora le nazioni non rappresentarono quasi mai - se non in forme intermittenti, assai poco definite e perlopiù nella cerchia ristretta di piccole élites politiche e intellettuali (ma con particolare rilievo nelle storiografie 'nazionali' quattro-cinquecentesche) - un punto di riferimento forte per la formazione di sentimenti collettivi di appartenenza. Nello stesso tempo esse esercitarono un ruolo importante, ma comunque sempre secondario, nel lungo processo in cui si consumò la crisi delle grandi strutture universalistiche dell'impero e del papato e in cui iniziarono a consolidarsi le istituzioni dei moderni Stati territoriali. I quali ebbero infatti, almeno di regola, il proprio centro di gravità negli ordinamenti dinastici più che in un qualche compiuto o coerente principio di nazionalità. Dopo di allora, invece, la 'nazione' si è trasformata, in modo fino a oggi irreversibile, in un veicolo di appartenenza di grande efficacia, operando così come uno dei fattori determinanti della storia degli ultimi due secoli: come 'nazione di cittadini' e come 'nazione in armi' nella Francia della Rivoluzione e di Napoleone; come obiettivo delle lotte per l'indipendenza e la libertà che le nazionalità oppresse intrapresero nell'Europa della Restaurazione; come fondamento della costruzione di nuovi Stati nazionali quali, nel XIX secolo, l'Italia e la Germania; come motore della progressiva dissoluzione degli imperi sovranazionali asburgico e ottomano; come ideologia dei conflitti imperialistici che sconvolsero il pianeta tra il 1870 e il 1945; come punto di riferimento, in verità più conclamato che reale, dei processi di decolonizzazione nel secondo dopoguerra; come ostacolo inerziale rispetto ai progetti di ricomposizione federalista e di superamento dello Stato nazionale definiti nel quadro della Comunità e poi dell'Unione Europea; e, ancora, come criterio della profonda ristrutturazione della carta geopolitica che si va oggi compiendo nell'Europa centro-orientale dopo la fine della guerra fredda e del mondo bipolare, dopo la dissoluzione dell'impero sovietico e la caduta dei comunismi.
Negli stessi anni in cui si compie questa duplice svolta identitaria e storica si produce anche una profonda e significativa frattura nella storia delle rappresentazioni della nazione e delle identità nazionali, le cui ragioni sono state già in parte indicate in rapporto al problema delle relazioni strutturali che la nazione intrattiene con l'idea di nazione. Con una formula necessariamente un po' schematica, si può dire che per tutto il corso dell'età antica e medievale e per buona parte dell'età moderna la storia di queste rappresentazioni fu soprattutto la storia di una parola, di un 'termine-concetto' dai contenuti confusi, tutt'altro che univoci, e dotato di un potere evocativo nel complesso assai poco rilevante. A partire dalla tarda età moderna e per tutto il corso dell'età contemporanea la storia di quelle rappresentazioni divenne invece - quantomeno nelle sue forme più consapevoli - la storia di un'idea compiuta e argomentata che, pur suscettibile delle più diverse interpretazioni, fu dotata di uno straordinario potere di suggestione. Alla storia di questo termine-concetto e di questa idea sono dedicati, in modo inevitabilmente molto rapido, i due paragrafi in cui si articola il presente capitolo.
Il termine 'nazione' - di derivazione latina - ricorre fin dall'antichità con molteplici significati. Nel mondo romano natio (da nascor) indicava di regola un gruppo di persone legate da una nascita o da una discendenza comune. Il termine fu altresì impiegato anche in un senso più ampio. Cicerone, ad esempio, lo utilizzò varie volte per designare la classe aristocratica (la natio optimatium) oppure - con un uso attestato anche in Plinio - in relazione a una scuola filosofica (la natio epicureorum). Nel II libro delle Res rusticae Varrone lo impiegò anche in riferimento a razze (nationes) di bestiame più o meno "aptae ad pecuariam". In linea di massima, tuttavia, natio fu usato per indicare popolazioni, tribù o stirpi legate da vincoli di origine, di sangue o di lingua: senza che ciò implicasse un significato forte o problematico di appartenenza e, tanto meno, un riferimento a comunità di carattere più propriamente politico. Nella maggior parte dei casi, anzi, natio ricorre in contrapposizione a termini come populus e civitas proprio per designare gruppi specificamente privi di istituzioni comuni e dunque collocati a un livello di civiltà inferiore rispetto al populus romanus: in un significato grosso modo assimilabile a quello della parola 'nativi'. È in questo senso che Cicerone parla di "nationes servituti natae" (De provinciis consularibus) e Sallustio di "nationes ferae" (De Catilinae coniuratione). In una connessione molto simile la Vulgata contrappone il populus, il popolo eletto, alle nationes dei pagani. E così ancora, san Girolamo chiamò "nationes" o "ferocissimae nationes" le popolazioni barbariche della tarda antichità.In età medievale il termine natio iniziò ad assumere valenze almeno in parte diverse, continuando però a mantenere in primo luogo un generico significato etnico, socioculturale o geografico privo di rilevanti riferimenti al gruppo politico. Secondo l'uso classico, Isidoro di Siviglia nel VII secolo e Bernardo di Chiaravalle nel XII riservarono l'appellativo di 'natio' rispettivamente ai barbari e ai musulmani. Nationes erano altresì le corporazioni degli studenti universitari e più tardi, al concilio di Costanza (1414-1418), i gruppi di vescovi che avevano a disposizione un voto. In entrambi i casi, tuttavia, i criteri che definiscono la natio non coincidono affatto con le nostre moderne nazioni e nemmeno con un principio di sudditanza politica. Intorno alla metà del XIII secolo, per esempio, tra le varie 'nazioni universitarie' dell'Ateneo di Parigi, la nazione francese comprendeva studenti della Francia meridionale, della Spagna, dell'Italia e della Grecia e quella inglese studenti inglesi ma anche olandesi, tedeschi, scandinavi, ungheresi e slavi. Accanto a esse figuravano poi 'nazioni minori', come la nazione normanna e quella piccarda, a cui si possono aggiungere, se si fa riferimento all'Università di Bologna nel 1265, altre nationes come la provenzale, la borgognona, quella della Touraine e quella del Poitou. Allo stesso modo, delle quattro 'nazioni conciliari' di Costanza - Italia, Germania, Francia e Inghilterra - la prima comprendeva anche Ciprioti e Greci; la seconda Cechi, Polacchi, Ungheresi e Scandinavi; la terza sudditi dell'impero provenienti dalla Lorena, dalla Provenza e dalla Savoia; e la quarta - ma con forti contestazioni da parte di chi avrebbe voluto includerla nella nazione germanica - solo delegati inglesi. Se a ciò si aggiunge che i cardinali avanzarono la richiesta di votare come quinta 'nazione', emerge con ogni evidenza il quadro di un sistema di identità e di significati ancora molto incerto e confuso.In alcuni casi accade che nella parola 'nazione' vengano a sovrapporsi alle tradizionali valenze etniche, culturali e geografiche significati più propriamente politici: così ad esempio, nel XII secolo, in Giovanni di Salisbury e quindi, nel XIV secolo, in Guglielmo di Occam, a proposito delle regole per l'elezione imperiale. Si tratta tuttavia di eccezioni poco significative e ancora debolmente elaborate. Di regola, come ha osservato Federico Chabod, a quell'epoca gli autori designavano ciò che noi intendiamo oggi per nazione con il termine 'provincia': così Dante e, ancora nel XVI secolo, Machiavelli. I quali, del resto, più volte celebrati come apostoli e profeti di una presunta 'italianità', nutrirono in realtà una scarsa sensibilità per il tema della nazione e furono piuttosto legati il primo all'ideale dell'impero universale e il secondo a un interesse pressoché esclusivo per la politica e lo Stato.
Sotto la superficie di queste incertezze terminologiche e concettuali si possono altresì scorgere tendenze di segno diverso (v. Romeo, 1981). È ad esempio possibile constatare che già all'epoca di Carlo Magno e del giuramento di Strasburgo (842) cominciarono ad affermarsi - quantomeno a livello di ceti colti - identità nazionali relativamente stabili, di solito basate su una comunanza di lingua. A partire dal XXI secolo, poi, iniziò a delinearsi lo scenario fissato da Meinecke nelle due categorie della nazione territoriale e della nazione culturale: uno scenario decisivo, sul lungo periodo, per la storia delle nazioni e dell'idea di nazione (v. Schulze, 1994). Fu allora, infatti, che sotto lo stimolo delle ricomposizioni territoriali, linguistiche e culturali avviate da grandi e potenti dinastie alcune nazioni cominciarono ad assumere un profilo più definito e, nello stesso tempo, un più preciso rilievo politico. È quanto accadde soprattutto in Francia, Inghilterra e Spagna, dove la formazione dello Stato territoriale e il consolidamento almeno relativo della nazione si svolsero parallelamente alla progressiva dissoluzione dei particolarismi locali e dei poteri universali del papato e dell'impero. Furono decisivi in questo senso, come ha ricordato Rosario Romeo, i grandi conflitti 'nazionali' che segnarono il passaggio dall'età medievale all'età moderna: la guerra secolare della Spagna contro i musulmani e la guerra dei Cent'anni tra Inghilterra e Francia.
Per contro, dove fu assente l'impulso di una dinastia consolidata e orientata alla costruzione di uno Stato unitario - come doveva accadere ancora per lungo tempo nel mondo tedesco e italiano e quindi nell'Europa centro-orientale - il sorgere di una pur limitata coscienza nazionale fu di fatto affidato a processi identitari di tipo culturale e linguistico, secondo il modello della nazione culturale. Nel mondo tedesco furono decisive in questo senso la riscoperta della Germania di Tacito (1455) e poi, soprattutto, la Riforma e la traduzione luterana della Bibbia; in Italia ebbero un ruolo analogo la nascita di una lingua letteraria attraverso Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli, e la grande stagione del Rinascimento. In entrambi i casi, tuttavia, i sentimenti nazionali furono segnati da una fragilità strutturale. E non soltanto tra i ceti popolari, ma anche a livello di gruppi politicamente e/o intellettualmente eminenti, come dimostrano l'indifferenza e l'avversione universalistica per la nazione professata da Leibniz, da Lessing e da Schiller nel XVIII secolo e lo stesso amor di patria puramente politico di Federico II di Prussia nelle Briefe über die Vaterlandliebe (1779). Tale fragilità fu poi ulteriormente aggravata dalla forza comparativamente più intensa dell'appartenenza politica alle 'nazioni territoriali minori', in cui rimasero per secoli frammentate le più grandi nazioni culturali dell'Europa centrale, meridionale e orientale.
Ad ogni modo, fino al XVII secolo anche in Francia e in Inghilterra il senso della nazione continuò a rimanere complessivamente molto debole e, soprattutto, privo di una valenza politica significativa (v. Romeo, 1981). In Germania, peraltro, il termine 'nazione' fu impiegato in senso politico in relazione alle Adelsnationen, le 'nazioni nobiliari' di antico regime, ma anche in riferimento al 'Sacro romano impero della nazione tedesca' e alle ideologie del 'patriottismo imperiale'. In Italia il termine continuò a definire indifferentemente sia comunità politiche di carattere cittadino e/o regionale, sia l'Italia stessa in quanto comunità di una lingua letteraria, sia ancora l'Europa in quanto culla di una civiltà e di una cultura comuni.
Questa situazione iniziò a modificarsi in maniera sensibile tra la fine del XVII secolo e i primi decenni del secolo successivo, ma con modalità diverse nei differenti contesti storici. Soprattutto in Francia, la parola e poi il concetto di nazione cominciarono a caricarsi di significati coerentemente e compiutamente politici (v. Rutto e Traniello, 1995). Con l'argomento secondo cui la nazione consiste interamente nella persona del re, Luigi XIV trapiantò il lessico della nazione sul terreno della legittimazione degli ordinamenti assolutistici dello Stato territoriale. Alla nazione dinastica l'opposizione nobiliare e antiassolutistica - in particolare personaggi come Fénélon, Saint-Simon e Boulanvilliers - contrappose l'idea della nazione aristocratica, per la quale soltanto la nobiltà può rappresentare in modo legittimo gli interessi della nazione. Accanto al contributo dei philosophes in materia di patriottismo, furono poi i fisiocratici a teorizzare in termini democratici la centralità del 'cittadino proprietario' in relazione ai temi della nazione e della sovranità. E fu quindi Mably, intorno alla metà del XVIII secolo, a rielaborare questi concetti in una compiuta teoria della sovranità nazionale, identificando la nazione con la 'nazione dei cittadini'.
A questo primo concetto tipicamente politico nel corso del Settecento si affiancò progressivamente una seconda e diversa immagine della nazione, che non a caso trovò i suoi teorici più appassionati soprattutto nel mondo tedesco, con l'importante ma relativa eccezione di Rousseau. In questa seconda variante - che Chabod ha analizzato a partire dalle principali elaborazioni dell'elvetismo settecentesco (Beat Ludwig von Muralt e Albrecht von Haller) e dall'opera di autori come Justus Möser e Johann Georg Hamann - la nazione inizia a definirsi come una comunità popolare di carattere culturale e spirituale, priva di specifiche dimensioni politiche, ma radicata nelle proprie tradizioni, tenuta saldamente insieme da una comunanza di lingua, di costumi e di appartenenze territoriali, gelosa della propria individualità e della propria diversità. Una nazione che non vuole diventare nazione ma che scopre di essere tale da tempi immemorabili, molto spesso - così ad esempio in Möser - con profonde nostalgie per l'antico stato cetuale e, quindi, con una valenza politica tipicamente conservatrice.Nel momento in cui inizia a materializzarsi questa duplice immagine - da un lato la 'nazione dei cittadini' come realtà e come valore di carattere in primo luogo politico, dall'altro la 'nazione popolare' come realtà e come valore di carattere in primo luogo culturale - la storia della parola 'nazione' diviene altresì la storia di un'idea coscientemente e compiutamente elaborata. È quanto accade nell'opera di Rousseau e di Herder, da cui Carlton J.H. Hayes e Hans Kohn fanno iniziare l'epoca del nazionalismo moderno.
Nell'opera di Rousseau convivono, strettamente correlate, due diverse immagini della nazione. Nel Contratto sociale (1762) essa viene a identificarsi con la totalità di un corpo collettivo il quale, in quanto corpo politico e attraverso la volontà generale, è titolare della sovranità. In questo significato più propriamente politico la nazione si identifica con il popolo e in quanto tale - come accade nel caso della nazione dei cittadini di Mably - fu il veicolo di una radicale ridefinizione in senso democratico delle tradizionali concezioni dello Stato dinastico e della nazione aristocratica. Nelle Considerazioni sul governo di Polonia (1771) - ma anche nel Progetto di Costituzione per la Corsica (1765) e nella Lettera sugli spettacoli (1758) - emerge invece un concetto tipicamente romantico e antilluministico di nazione, molto vicino a quello elaborato dall'elvetismo settecentesco nella sua lotta contro l'egemonia francese. In questo secondo caso la nazione appare come un'entità storico-culturale di natura rigorosamente e positivamente individuale, che ha il sacro dovere di mantenersi fedele a se stessa e ai propri caratteri e che deve promuovere consapevolmente l'amor di patria e persino il pregiudizio contro lo straniero, opponendosi agli inganni di un cosmopolitismo il quale pretenderebbe di cancellare ogni carattere nazionale. In rapporto a questa seconda idea di nazione si è più volte detto che Rousseau sarebbe uno dei principali fondatori del moderno nazionalismo, nel senso peggiorativo del termine. In realtà, come è stato ancora di recente ribadito da Maurizio Viroli (v., 1995; ma v. anche Romeo, 1981), questo concetto della nazione rimase complessivamente subordinato in Rousseau all'idea della nazione democratica e della sovranità popolare: è solo attraverso le dinamiche della volontà generale che un popolo può diventare realmente libero, ma perché ciò avvenga è necessario che esso sia prima di tutto se stesso. Ed è questa, per l'appunto, la raccomandazione che l'autore delle Considerazioni rivolge enfaticamente ai Polacchi.
In Herder, al contrario, è del tutto assente il concetto politico della nazione. A differenza di Rousseau - che era ancora saldamente legato a quella secolare tradizione di patriottismo repubblicano che da Cicerone a Machiavelli, dai Levellers ai philosophes aveva esaltato nella repubblica le categorie prettamente politiche del bene comune, del buon governo e della virtù civile (v. Viroli, 1995) - egli vide nella nazione una comunità di carattere esclusivamente culturale, fondata in primo luogo sulla lingua in quanto espressione del modo di essere e di pensare di un popolo. È significativo che lo stesso termine 'patria', tradizionalmente interpretato in senso politico, ricorra più volte nella sua opera come sinonimo di nazione, vale a dire nel senso della cultura e della vita spirituale di un popolo. Ben oltre Rousseau, poi, Herder sottolineò con grande energia il valore positivo della radicale e insuperabile individualità delle nazioni, che rappresenta un dato naturale, originario e costitutivo della storia umana. Tale diversità, che viene di regola a depositarsi in quei tesori dell'anima di un popolo che sono le varie 'poesie nazionali', può certo divenire - come scrive Herder - il veicolo di un "gretto nazionalismo". Ma essa svolge in primo luogo una funzione positiva nello sviluppo della storia dei popoli e del loro spirito, e deve quindi essere assecondata in tutti i modi possibili e conservata come una proprietà preziosa, contro le suggestioni di una ragione astratta e universalistica che pretenderebbe di rendere tutto omogeneo. Sulla base di questi principî e fissando nel contempo alcuni temi in seguito mitizzati dalla cultura romantica, Herder esaltò infine la nazione tedesca. La sua lingua, innanzitutto - "creazione tutta specifica che ha affinità con altre, ma il proprio modello in sé". Ma anche quegli antichi costumi "selvaggi, forti e buoni" che in età medievale diedero nuova giovinezza al mondo romano. Nello stesso tempo, e con gli stessi argomenti, esaltò anche i caratteri semplici, primitivi e incorrotti dei popoli slavi, sollecitandone indirettamente la rinascita.
Con queste due diverse immagini della nazione e dei fondamenti della coscienza nazionale Rousseau e Herder fissarono due modelli argomentativi che, dopo l'esperienza della Rivoluzione francese e della Grande Nation, sarebbero rimasti sostanzialmente immutati nella storia ottocentesca dell'idea di nazione. Come si è già detto, Federico Chabod ha ricondotto la sostanza di questa storia all'opposizione tra due diversi modi di considerare il principio di nazionalità: da un lato quello naturalistico e oggettivistico, che fu proprio della tradizione soprattutto tedesca da Herder a Fichte, a Treitschke e poi a Hitler; dall'altro quello volontaristico e soggettivistico, che fu invece proprio della tradizione soprattutto francese e italiana da Rousseau a Mazzini, a Mancini, fino a Renan (con la rilevante eccezione, per quanto riguarda l'Italia, di Francesco Crispi). Sono state altresì suggerite altre suggestive ipotesi di classificazione. Carlton J.H., ad esempio, ha distinto sei diversi tipi di idea di nazione e quindi di 'nazionalismo': umanitario, giacobino, tradizionale, liberale, integrale ed economico. Otto Vossler ad esempio, nel suo lavoro su L'idea di nazione dal Rousseau al Ranke (1937), ha proposto di distinguere tre tipi fondamentali di idea di nazione: quella 'etica', di cui fu paladino per l'appunto Rousseau con la sua concezione del rapporto morale tra l'individuo e lo Stato; quella 'storica' elaborata da Burke, il quale proprio sulla storia e sulle tradizioni fondò quel medesimo rapporto; e ancora quella 'umana' o 'universalistica' di Fichte e di Jefferson, che affidarono ai destini della propria nazione una missione di carattere universale. Furono poi Mazzini, Hegel e Ranke, sempre nello schema di Vossler, a sintetizzare queste tre immagini in una teoria unitaria e più o meno coerente della nazione e dello Stato nazionale. Più recentemente Maurizio Viroli (v., 1995) ha proposto di rileggere la storia del nazionalismo e dell'idea di nazione alla luce della tradizione del patriottismo repubblicano, insistendo soprattutto sul tema della progressiva 'nazionalizzazione' dell'amore politico per la patria che, avviata dal 'repubblicano' Rousseau, già in Herder, in Vincenzo Cuoco e in Fichte risultò sostanzialmente compiuta. E così, ancora, Hans Kohn (v., 1944), Rosario Romeo (v., 1981) e più recentemente Hagen Schulze (v., 1994), sulla scorta della fondamentale distinzione meineckiana tra nazioni territoriali e nazioni culturali, hanno posto in evidenza soprattutto le profonde differenze che le storie delle nazioni, dei nazionalismi e dell'idea di nazione conobbero nell'Europa occidentale, centrale e orientale.
Al di là di queste diverse letture, occorre sottolineare un dato più generale. E cioè che dopo Herder e Rousseau, dopo gli anni dell'espansione rivoluzionaria della Grande Nation, dopo le sintesi di Fichte e di Mazzini, dopo che giunsero al termine i due processi dell'unificazione italiana e tedesca, l'idea di nazione, pur mantenendo nella sostanza le tre fondamentali sintassi della nazione politica, della nazione culturale e della nazione etnica che abbiamo indicato all'inizio, subì alcune rilevanti trasformazioni, in Europa e fuori d'Europa. Diventò innanzitutto, e in senso eminente, l'ideologia specifica dello Stato nazionale (v. Albertini, 1960). Al tempo stesso divenne anche una ideologia di massa di straordinaria potenza, che ebbe di fatto il suo unico reale antagonista ideologico e politico nelle dottrine e nei movimenti ispirati dal socialismo, dal comunismo e dall'internazionalismo contemporanei. Infine essa diventò il veicolo di un 'egoismo nazionale' e in alcuni casi del concetto di una missione prevaricatrice che furono sostanzialmente estranei alla cultura di Herder, di Fichte e di Mazzini, per i quali, anzi, la religione della nazione fu al tempo stesso una religione dell'Umanità e dell'Europa. In questa nuova prospettiva la storia dell'idea di nazione appartiene in senso forte alla storia del nazionalismo, a cui pertanto si deve fare riferimento. (V. anche Etnici, gruppi; Federalismo; Nazionalismo; Nazione).
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