Identità regionali e varietà linguistiche: Friuli Venezia Giulia e Sardegna
Friuli Venezia Giulia e Sardegna, due regioni ai lembi estremi dell’Italia. Distanti geograficamente, diverse per storia, culture ed economia. La prima incastonata nell’angolo orientale della penisola lungo la frontiera dove s’incontrano e scontrano da secoli cultura latina, germanica e slava. La seconda chiusa nella sua insularità mediterranea, anche se le sue coste furono spesso preda di molte potenze. La prima da qualche decennio piccola locomotiva di quel treno ad alta velocità che è il Nord-Est dal punto di vista economico, ma sempre rimasta periferia politica. La seconda con un’economia che sembra aver perso diverse opportunità di sviluppo negli stessi decenni in cui l’altra compiva il grande balzo, madrepatria però di ben due presidenti della Repubblica e due segretari del maggior partito d’opposizione italiano nel secolo scorso, oltre che di influenti uomini politici.
Due regioni che sembrano dunque aver poco in comune. Eppure dal punto di vista linguistico condividono più di un tratto. In entrambe le regioni esistono lingue autoctone (il friulano e il sardo) che, seppure minoritarie nel contesto unitario, sono maggioritarie nelle due regioni di insediamento storico. Entrambe le lingue hanno subito un processo di codificazione scritta che risale a molti secoli addietro. Del friulano, come del sardo, parla già Dante nel De vulgari eloquentia. Nel 1873 il linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) distingue il friulano dall’italiano, collocandolo nella sezione orientale dell’area linguistica ladina. Il sardo è stata una lingua amministrativa nel 12° sec. ed è rimasto una lingua del diritto consuetudinario sardo per molti secoli, sin quasi agli inizi del 19° secolo. In ambedue le lingue esiste una significativa letteratura. Il friulano e il sardo sono certamente le più diffuse tra le lingue minoritarie riconosciute dalla legge quadro nazionale 15 dic. 1999 nr. 482. Infine, tutte e due sono state investite da un processo di politicizzazione, sia da parte dell’istituzione regionale sia da parte di movimenti presenti nella società. In entrambi i casi l’obiettivo spesso non è stato solo la salvaguardia della lingua, ma la promozione di un’identità politica distinta o diversa da quella nazionale italiana. La diversità linguistica del Friuli e della Sardegna dal resto del Paese fa sì che le due aree condividano anche un problema, quello del rapporto fra lingua e identità. La lingua è un criterio utile per identificare un gruppo. Ma quanto e come la lingua forgia le identità dei componenti di quel gruppo?
La diversità linguistica del Friuli e della Sardegna, e il problema che da qui nasce, colloca queste due aree al centro del movimento tellurico che sta cambiando in molti stati europei la configurazione dei rapporti tra istituzioni centrali e autonomie regionali. Come in tutta Europa, anche in Italia e segnatamente nel caso della Sardegna e del Friuli, la spinta alla moltiplicazione dei livelli di governance sembra essersi accompagnata anche alla (ri)scoperta delle radici linguistiche e culturali. Analizzare il caso del Friuli e della Sardegna ci aiuta a capire meglio alcuni dei meccanismi che collegano lingua e processi di identificazione collettiva. Prima di mettere a confronto i due casi è però utile allargare lo sguardo al più generale movimento europeo di crescita delle autonomie regionali e identificare alcune dimensioni del rapporto complicato tra lingua e identità.
Nel secondo dopoguerra in molte democrazie la relazione tra territorio, politica e cultura ha assunto una nuova e diversa configurazione. La politica ha subito un processo di riterritorializzazione che ha modificato in profondità il rapporto tra le istituzioni del centro e quelle della periferia. La più recente letteratura sul tema evidenzia come dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi nella maggior parte dei Paesi europei le istituzioni che si frappongono tra il livello nazionale e quello locale sono cresciute di numero e nel contempo è aumentata la sfera di competenza dei loro organi di governo (Hooghe, Marks, Schakel 2010). All’origine del processo di regionalizzazione ci sarebbero ragioni di efficienza amministrativa, spinte democratiche dal basso che hanno imposto un abbassamento della soglia di rappresentanza, le politiche regionali dell’Unione Europea e la cultura della sussidiarietà che le ha ispirate e legittimate. Ma secondo questi studiosi all’origine della riterritorializzazione della politica c’è anche una domanda di autogoverno da parte di comunità locali, che (ri)scoprono di essere culturalmente e linguisticamente diverse dalla comunità nazionale, quindi portatrici – si assume – di identità distinte, diverse (o contrapposte) da quella di maggioranza. Un segno evidente di questa tendenza a una diversa configurazione del rapporto tra lo Stato e il pluralismo culturale esistente nel suo territorio è l’iniziativa del Consiglio d’Europa nel 1992 con la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e poi soprattutto con la Convenzione del 1995 (anche se non va dimenticato l’impatto delle coeve guerre balcaniche).
Se dall’Europa torniamo in Italia, un dato pare certo. La domanda di autogoverno da parte di comunità locali sulla base di motivazioni culturali, per non dire linguistiche, non sembra aver contato molto agli inizi del processo di regionalizzazione italiano. Infatti, come è ampiamente noto, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario non è stata influenzata dalla necessità di riconoscere le varietà di formazioni sociali economiche e culturali che caratterizzano storicamente l’identità italiana (Gambi 1963). Un ruolo decisamente più importante lo hanno avuto le dinamiche interne al sistema dei partiti nazionali. Una sorta di effetto collaterale di un sistema partitico frammentato e polarizzato, incapace di garantire alternanza di governo al centro, ma disposto ad accettare un concorso di responsabilità amministrative in periferia. Nemmeno le regioni a statuto speciale sono nate sotto questo segno, a eccezione della Provincia autonoma di Bolzano/Bozen e della Val d’Aosta/Val d’Aoste (Bin 2001). Per quanto riguarda in particolare la Sardegna e anche il Friuli Venezia Giulia, tra coloro che erano favorevoli al riconoscimento di un’autonomia rafforzata a queste due regioni non prevalevano certamente motivazioni di tipo culturale o linguistico. Torneremo su questo punto. Per il momento osserviamo che nel corso del tempo le tematiche culturali e identitarie, assenti all’inizio, sono entrate nel discorso regionale ististituzionale, soprattutto dagli anni Novanta in poi. Vi hanno concorso vari fattori, tra i quali la tardiva attuazione da parte del legislatore del dettato costituzionale in materia di protezione delle minoranze che ha prodotto, anche sulla spinta europea derivante dalla Convenzione del 1995, la già citata l. 482 del 1999 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. La legge attribuisce anche alle regioni, sia ordinarie che ad autonomia speciale, competenze specifiche in tema di tutela e promozione delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e dei parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. È plausibile che l’attenzione da parte del ceto politico nazionale e regionale al tema delle lingue e culture minoritarie sia anche connessa ai successi della Lega Nord o, meglio ancora, dell’interpretazione che di questi successi è stata data nel discorso pubblico.
Allo stesso modo ha contribuito anche il fatto che il tema importante della riforma federale dello Stato è entrato negli ultimi vent’anni nell’agenda di forze politiche di destra come di sinistra, anche se passando dalla porta stretta della competizione elettorale. Va infine tenuto conto che l’attenzione a queste tematiche forse è anche una conseguenza della stessa crisi e scomparsa dei partiti storici, che hanno perso la capacità di essere cerniera tra centro e periferia e lasciato le classi politiche locali libere di muoversi alla riscoperta/invenzione delle diversità culturali delle aree da loro amministrate in una ricerca del consenso. Il tema della tutela delle culture e lingue minoritarie è dunque stato al centro di diverse iniziative da parte di diverse regioni a statuto ordinario e anche delle due regioni a statuto speciale di cui ci occupiamo in questo saggio (Piergigli 2010). A tal punto che si è ritenuto di qualificare questo attivismo regionale come una «ricerca della loro identità culturale e storica» (S. Bartole, Le regioni alla ricerca della loro identità culturale e storica, 1999), ricerca che peraltro si è allargata a macchia d’olio anche quando non v’era nemmeno una minoranza di insediamento storico da rivendicare, a giudicare dai riferimenti identitari presenti in alcuni dei nuovi statuti regionali.
La ricomparsa nella sfera pubblica di tutta Europa di domande di riconoscimento linguistico-identitario ha attirato l’attenzione di una vasta letteratura che si divide tuttavia tra due prospettive, peraltro non nuove. La prima guarda al rapporto tra lingua minoritaria e identità come a un patrimonio da recuperare dall’oblio dei secoli e dall’«oppressione dello Stato centralista»; la seconda considera la saldatura tra lingua e identità come un prodotto da realizzare con politiche nella sostanza non diverse da quelle che hanno costruito un sentimento di appartenenza a una nazione unita per cultura, lingua e destino anche negli angoli più remoti del territorio statale. In entrambe le prospettive però la politica – attraverso i partiti etnoregionalisti, le istituzioni locali e le opportunità offerte dal processo di integrazione europeo – assume un ruolo decisivo nel connettere lingua e identità, difesa delle proprie diversità linguistiche e domanda di riconoscimento identitario (Caciagli 2006).
Michael Billig, a proposito del nesso tra lingua e identità nazionale, affermò che «il contadino medievale parla, ma l’individuo moderno non può semplicemente parlare, deve parlare qualcosa, una lingua» (Banal nationalism, 1995, p. 31). Cioè deve attribuire alla lingua che gli capita di parlare un valore non meramente comunicativo, ed è tale valore che innesca il processo di identificazione al gruppo che parla quella lingua. Anche nel caso del nesso tra lingua di minoranza e identità subnazionali, la prima acquisisce significati diversi per chi la parla a seconda di quali siano i processi di ideologizzazione e politicizzazione che subisce e di quali siano gli attori coinvolti: intellettuali, uomini di Chiesa, politici, movimenti, istituzioni amministrative. Da questo punto di vista, che si tratti di riscoperta o invenzione della diversità culturale e linguistica fa poca differenza. Il meccanismo è lo stesso. Ogni discorso pubblico, anche quello regionalista, ha sempre un potere performativo (Bourdieu 2001), potere che può agire sulla dimensione simbolica dei confini sociali tracciati dalla differenza linguistica, contribuendo a rendere rilevante e condiviso solo uno dei significati tra i tanti che la lingua minoritaria può assumere. Oltre a simbolo dell’omogeneità culturale di un popolo che occupa un territorio (criterio nazionale), infatti, la lingua minoritaria può rimandare alla continuità storica e biologica di chi la parla (criterio etnico) o essere vissuta come espressione della specificità culturale di un’area geografica (criterio subculturale). La lingua è dunque certamente uno dei criteri per definire un gruppo dotato di una sua identità culturale, ma la sua mera esistenza non è condizione necessaria e sufficiente perché l’identità di chi parla tale lingua acquisisca presso costoro il medesimo significato.
Nelle pagine che seguono – sulla base dei dati esistenti (più numerosi nel caso del Friuli e meno per la Sardegna) – si cerca di analizzare il nesso tra lingua, suoi significati e identità. A tale scopo si mettono a confronto la diffusione del friulano e del sardo tra gli abitanti delle due regioni, le iniziative delle istituzioni e della politica al fine di tutelare queste due lingue e gli esiti sul piano identitario.
La presenza del friulano è segnalata oggi in tre province della Regione Friuli Venezia Giulia, in quella di Udine, in gran parte di quella della destra del Tagliamento con capoluogo Pordenone, nei comuni a ovest dell’Isonzo della Provincia di Gorizia. Al di fuori della regione, il friulano è parlato in alcuni comuni della Provincia di Venezia, ciò che rimane probabilmente di una presenza in passato diffusa in un’area più vasta. Secondo i dati ISTAT le persone che in Friuli Venezia Giulia conoscono la lingua friulana sono 609.000, pari al 54,4% della popolazione di 6 anni e più che vive nella regione (ISTAT, Letture e linguaggio. Anno 2000, 2002, p. 106). Una indagine demoscopica più recente (Susič, Janežič, Medeot 2011) – che utilizza come indicatore la lingua materna (e non la competenza linguistica) e circoscrive la rilevazione ai residenti nella comunità friulanofona (178 comuni delle Province di Udine, Pordenone e Gorizia, come definiti dalla l. reg. 22 marzo 1996 nr. 15) – evidenzia una quota pari al 40,3% di persone che dichiarano che il friulano è la propria lingua materna. A costoro vanno aggiunti coloro che da bambini hanno appreso il friulano insieme all’italiano (10,8%). Si tratterebbe, nel complesso, di circa 350.000 persone. La differenza rispetto al dato precedente è dovuta al fatto che la competenza linguistica in friulano sì è estesa al di là della cerchia di chi ha imparato tale lingua in famiglia fin da bambino.
Sarebbe però un errore pensare che a un relativamente alto numero di parlanti il friulano corrisponda anche un suo uso frequente ed esteso. Il friulano viene utilizzato soprattutto in alcuni contesti (la socialità privata) e non in altri (la sfera pubblica). Come altre lingue minori, inoltre, anche l’uso del friulano è sempre meno diffuso tra le nuove generazioni: mediamente, in ogni generazione la perdita è del 10% (Picco 2001).
L’attenzione del governo regionale verso la tutela della lingua è molto recente. Nel dibattito in seno alla Costituente in merito all’attribuzione o meno di uno statuto ad autonomia speciale al Friuli furono decisamente prevalenti considerazioni circa il carattere di regione di confine in una delicata situazione internazionale e l’arretratezza socioeconomica di alcune aree. La nuova regione, alla fine, nasce nel 1963 come unione amministrativa di due aree molto diverse per lingua, cultura e storia. Paradossalmente fu proprio il matrimonio forzato con Trieste e la scelta di quest’ultima come capoluogo della nuova regione, che contribuì a far riscoprire l’identità friulana e quindi la necessità di promuoverne la marilenghe (madrelingua), come avremo modo di osservare tra breve.
È invece più di recente che la presenza del friulano accanto a una minoranza significativa di sloveni e, meno numerosa, di tedeschi viene valutata, in modo trasversale tra le forze politiche, come il fondamento che giustificherebbe la specialità della regione. In questa prospettiva si tende spesso a operare un’equiparazione tra minoranze nazionali, slovena e tedesca, e quella linguistica friulana. In questa direzione muovono la l. reg. nr. 15 del 1996, Norme per la tutela e promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie, e la successiva l. 18 dic. 2007 nr. 29, Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana. La prima fu approvata da una maggioranza di centrodestra e la seconda da una di centrosinistra. Va subito detto che la legge 29/2007 fu poi nel 2009 dichiarata incostituzionale (limitatamente ad alcuni articoli) con una importante sentenza (n. 159) della Corte costituzionale. Entrambe le leggi esplicitano con chiarezza che la protezione della lingua di minoranza va vista nel quadro di una più generale tutela dell’identità etnica e culturale dei friulani. L’art. 1 della legge regionale 15/1996 recita infatti: «La Regione, per esercitare una politica attiva di conservazione e sviluppo della lingua e della cultura friulane quali componenti essenziali dell’identità etnica e storica della comunità regionale, con la presente legge detta i principi fondamentali dell’azione volta alla realizzazione di tale politica». Simili le finalità della successiva legge del 2007.
Se dalle istituzioni passiamo alla società e alla politica, il tema della tutela del friulano e poi l’associazione tra questo tema e quello della difesa dell’identità dei friulani è presente da più tempo. La specificità linguistica costituisce, infatti, un elemento cruciale nella costruzione mito-simbolica del friulanismo (Roseano 1999). Ma il rapporto tra lingua e identità si è declinato in modi diversi nel tempo.
Per tutto il Risorgimento sino alla Prima guerra mondiale la specificità linguistica friulana venne vista come un elemento che testimoniava le ragioni della presenza italiana in un territorio di frontiera, in particolare nei confronti delle terre irredente. È solo dal secondo dopoguerra che la specificità linguistica appare come prerequisito di un’identità distinta da quella italiana. Se ne fanno interpreti intellettuali di diversa estrazione politica. Bisognerà però aspettare la mobilitazione culturale e politica degli anni Sessanta e (soprattutto) Settanta perché le forze dell’autonomismo friulano inizino a dare risalto alla differenza linguistica come elemento costitutivo dell’identità friulana. Importante in questo senso l’azione del clero locale. Esso ha svolto, con le attività dell’associazione Scuele Libare Furlane, una funzione di mobilitazione culturale intorno alla lingua e ai valori tradizionali e cristiani della friulanità. Al riguardo va ricordato il ruolo svolto dalla memoria del Patriarcato di Aquileia, incarnazione statale di una indipendente Patrie dal Friûl. Il Patriarcato era uno stato feudale vassallo dell’impero con al vertice per l’appunto un patriarca, spesso di lingua tedesca, e che fu poi conquistato dai Veneziani agli inizi del 15° secolo.
A testimonianza del ruolo del clero nella formazione dell’identità friulanista, 519 sacerdoti friulani nel 1967 sottoscrissero un documento che contestava la programmazione socioeconomica della neonata regione, che sembrava riservare al Friuli un ruolo subalterno. L’insoddisfazione nasceva dalle condizioni di arretratezza del Friuli, dalle servitù militari, ma anche dal ruolo di Trieste come capoluogo regionale, in nome di una percezione di una alterità culturale radicale tra il Friuli e Trieste. L’idea di settori importanti del clero friulano era che Trieste rappresentasse una sorta di minaccia verso l’identità profonda del Friuli in quanto città inventata, senza radici nel territorio, luogo di ibridazione e di secolarizzazione. L’insoddisfazione friulana si manifestò nelle elezioni regionali del 1968 attribuendo al Movimento Friuli il 5,1% dei voti a livello regionale e il 10,1% nella Provincia di Udine. Il Movimento Friuli era una formazione politica friulanista, nata solo due anni prima e nel quale confluirono un’ala cattolico-tradizionalista e una laico-socialista. Tra i suoi obiettivi politici vi erano la creazione di una regione friulana separata da Trieste, la riduzione delle servitù militari, la lotta all’emigrazione, lo sviluppo economico-industriale, le infrastrutture, l’università friulana.
Negli anni Settanta il Movimento Friuli adotta le teorie tipiche delle ideologie dei movimenti etnico-nazionali del periodo e inizia una rilettura della storia del Friuli degli ultimi secoli con la lente del colonialismo interno. È in questa fase che la specificità linguistica friulana, simbolo dell’identità del popolo che la parla, viene mobilitata politicamente. In questo contesto il punto di svolta è rappresentato dal terremoto del 1976. Da un lato la ricostruzione fece da volano alla crescita economica, dall’altro l’interesse per il recupero del proprio patrimonio architettonico divenne un’occasione per riscoprire le radici culturali e linguistiche. Nuovamente il clero svolse un ruolo importante nel saldare lingua e identità. In particolare va menzionata l’azione di Glesie furlane, un gruppo di giovani preti che emerge nel 1975 e che enfatizza l’esperienza spirituale e temporale del Patriarcato di Aquileia, definisce il Friuli come nazione e avanza richieste di riconoscimento dei diritti del gruppo linguistico friulano. Nel 1977 si avanzano le prime richieste di approvazione da parte della Santa Sede della traduzione in lingua friulana dei testi sacri. Approvazione negata fino alla fine degli anni Novanta, quando furono autorizzate traduzioni della Bibbia e del Lezionario. Come è stato osservato, la mancata approvazione rimandava proprio a questioni di tipo identitario e si basava «sulla preoccupazione di non incrinare l’unità nazionale e sull’idea mutuata dal dibattito politico di ‘concedere’ e non di ‘riconoscere’ la specifica autonomia linguistica» (Friuli-Chiesa: la lingua e il Lezionario, «Regno», 2000, 2, p. 11). Solo sul finire degli anni Settanta anche la classe politica locale – che aveva osteggiato i progetti autonomistici delle forze friulaniste – accolse la questione linguistica tra i suoi temi e nel 1977 fu costituita una commissione regionale per lo studio delle parlate minori.
Non possiamo addentrarci ulteriormente nella storia dell’autonomismo friulano. Ciò che vogliamo rimarcare è che – sebbene il Movimento Friuli sia nel tempo sparito dalla scena politica regionale (dal 1993 è assente dal Consiglio regionale) e l’universo friulanista sia oggi politicamente frammentato – la promozione dell’identità culturale e linguistica del Friuli è divenuta un leitmotiv, seppur declinato in forme diverse, trasversale alle forze politiche. Sembra oggi condivisa l’idea herderiana che la comunanza etnolinguistica sia la fonte di legami identitari autentici e profondi, ai quali corrisponde una domanda di riconoscimento sociale e politico della propria specificità.
Ma tale rappresentazione corrisponde a come le persone residenti in Friuli vivono la specificità linguistica dell’area? Per rispondere a questa domanda abbiamo a disposizione dati derivati da alcune indagini campionarie sulla popolazione residente in Friuli. Una ricerca condotta nel 2008 mostra per es. che l’identificazione esclusiva con il Friuli è tre volte più probabile tra chi dichiara il friulano lingua materna (3 su 10) rispetto a chi dichiara di avere una diversa lingua materna (1 su 10). Ma anche tra chi è di madre lingua friulana ben 6 su 10 si sentono anche italiani oltre che friulani. Tali dati smentiscono l’idea che parlare una lingua di minoranza sia di per sé motivo di identificazione esclusiva con il gruppo che quella lingua parla. Ma c’è di più. Per far lievitare veramente la probabilità di sviluppare un’identità friulana di tipo esclusivo o un atteggiamento favorevole a rivendicazioni autonomiste non basta essere di madre lingua friulana, ma è necessario attribuirvi un particolare significato (Lingua e identità 2008). Simona Guglielmi sulla base di dati relativi alla stessa survey mostra che i significati di una lingua possono essere molto diversi tra loro. Il 39% degli intervistati residenti in Friuli definisce il friulano come «la lingua delle tradizioni storiche e culturali del Friuli», il 17% opta per «la lingua delle mie origini familiari» e il 38% per «la lingua del popolo friulano». Ebbene, essere di madre lingua friulana o meno non aumenta la probabilità di accettare quest’ultimo significato, che chiaramente rimanda a una concezione della comunità friulana come gruppo nazionale. Contrariamente agli approcci primordialisti al fenomeno nazionale o etnoregionalista, tra chi è di madre lingua friulana prevale un’idea della lingua come lingua delle tradizioni familiari. Viceversa l’idea herderiana della lingua come anima di un popolo è associata a un’opinione favorevole a una maggiore autonomia politica del Friuli sia tra chi è di madre lingua friulana sia tra chi non lo è (Guglielmi 2010).
Non è una cosa nuova. Come in tutta la storia del fenomeno nazionale, anche in Friuli e alle soglie del 2000, a contare ai fini di un’identità politica non è la competenza linguistica in sé, ma l’idea che la lingua parlata identifichi un popolo che sulla base di tale appartenenza collettiva avanza una domanda di riconoscimento.
Un’ulteriore conferma di quanto i significati associati alla lingua contino non solo nella declinazione delle identità ma anche nella rilevanza politica di queste ultime, viene offerta dalle reazioni dell’opinione pubblica friulana alla legge 29/2007. Tale legge non si limitava a tutelare il friulano, ma aveva la dichiarata ambizione di collocare tale lingua su un piano di parità con l’italiano e nel contempo promuoveva una politica linguistica fondata sull’insegnamento del friulano e in friulano delle materie non linguistiche per tutti coloro che non avessero dichiarato formalmente la volontà di non avvalersene. Anche se diverse indagini condotte a partire dalla fine degli anni Settanta segnalano, con una certa stabilità nel tempo, il favore per l’insegnamento della lingua friulana nelle scuole da parte della stragrande maggioranza della popolazione, le reazioni dell’opinione pubblica a quella legge mostrano un aspetto sorprendente. In una indagine condotta nel 2006, cioè un anno prima dell’emanazione della suddetta legge, quattro residenti in Friuli su dieci dicevano di preferire una scuola nella quale al friulano fosse riconosciuto un ruolo pari a quello dell’italiano. Nel 2008, a legge approvata, la percentuale di favorevoli scende significativamente. La sorpresa sta nel fatto che calano i consensi sia tra chi è di lingua materna friulana sia tra chi non lo è. In particolare, tra i primi aumentano di numero coloro che pensano che l’insegnamento debba essere condotto solo in italiano. Tra chi invece non è di madrelingua friulana aumentano coloro che sono a favore di un curriculum scolastico nel quale il friulano abbia un ruolo riconosciuto, seppur subordinato e opzionale all’italiano. Difficile capire le ragioni di questi spostamenti (Lingua e identità, 2008). Forse tra i madrelingua friulani sono cresciute le considerazioni di tipo utilitaristico: il timore che i propri figli possano avere una istruzione non adeguata al mercato del lavoro. Infatti questo gruppo è caratterizzato da un livello di istruzione più basso rispetto alla media dei residenti. Mentre tra gli altri non di madrelingua si è fatta strada l’idea che vivendo in Friuli sia giusto anche appropriarsi simbolicamente delle caratteristiche culturali diffuse nel territorio.
Il cambiamento di opinione risente però soprattutto degli orientamenti politici. Nel 2006 tra gli elettori di centrodestra si riscontrava la quota più elevata di favorevoli all’introduzione del friulano obbligatorio nel sistema scolastico (44%) e la più bassa tra quelli di centro sinistra (37%), mentre nel 2008 troviamo un livellamento tra i gruppi con un grado di consenso che si attesta intorno al 31% dei casi (Lingua e identità, 2008). Quindi il cambiamento più elevato si registra tra quelli di centrodestra, cioè tra i non elettori della coalizione che ha promosso la legge di tutela del friulano del 2007.
Il caso friulano mostra, una volta di più, che la lingua, per quanto possa essere un criterio per identificare un gruppo di minoranza, di per sé non determina se si svilupperà poi un’identità che chiede un riconoscimento, che può a sua volta esprimersi su diversi piani, dalla richiesta di autonomia politica a quella di politiche educative plurilingue. Le stesse politiche linguistiche di tutela e di promozione delle lingue minoritarie possono generare reazioni contrarie alle aspettative.
Secondo i dati ISTAT «in Sardegna, 1.291.000 persone conoscono la lingua sarda, pari all’83,2% della popolazione di 6 anni e più che vive in Sardegna» (ISTAT, Letture e linguaggio. Anno 2000, 2002, p. 106). Il che farebbe dei sardi una delle più consistenti minoranze linguistiche d’Europa. Al contempo, secondo un rapporto condotto nel 1995 (Euromosaico, 1996), essa risulta però tra le lingue minoritarie europee meno utilizzate nei contesti informali e formali e con un basso livello di prestigio.
Studi condotti già sul finire degli anni Ottanta mostrano una notevole diffusione della conoscenza del sardo, ma anche un suo minor uso da parte delle generazioni più giovani. Tale tendenza è confermata, con l’aggiunta del dato (Euromosaico, 1996) secondo il quale l’uso del sardo è limitato all’ ambito della socialità ristretta (per questioni di prestigio e status sociale). La più recente e articolata indagine sociolinguistica, condotta nel 2007 (Le lingue dei sardi, 2008), mostra una certa continuità con tali dati, ma anche alcuni cambiamenti. La diffusione della conoscenza del sardo è ampiamente confermata: «il 68,3% degli intervistati afferma di saper parlare una qualche varietà locale, un 29% dichiara la sola competenza passiva e solo il 2,7% ha dichiarato di non essere in grado né di parlare né di capire il sardo. Meno rassicurante però è il dato sull’uso del sardo: se nelle conversazioni familiari circa il 60%, per rivolgersi ai fratelli e ai nonni, usa la lingua locale o entrambi i codici, la variante locale viene adoperata solo nel 9% dei casi per parlare col medico di famiglia e nel 6,5% per parlare col parroco» (Le lingue dei sardi, 2008, p. 15). Emerge una netta prevalenza dell’uso esclusivo dell’italiano al di fuori della stretta cerchia familiare e amicale, soprattutto per i più giovani, per i più istruiti e tra le donne.
Come per il Friuli l’attenzione al tema della lingua minoritaria da parte delle istituzioni locali è stata decisamente tardiva. Al momento del riconoscimento della specialità per la Regione Sardegna non vi è stato alcun riferimento alle peculiarità linguistiche dell’area, nonostante la presenza di un importante partito regionalista come il Partito sardo d’azione. Le ragioni della specialità furono ricondotte all’insularità, all’arretratezza economico-sociale dell’area e al contrasto alle spinte separatistiche, presenti nell’isola fin dalla «fusione perfetta» nel 1847 del Regno di Sardegna con gli Stati di Terraferma. Secondo Carlo Pala «se i poteri della Carta sarda apparivano estesi sul piano economico (pur con limiti in sede di applicazione concreta), lo statuto lasciava scoperto totalmente l’ambito sociale e culturale. L’art. 1 dello statuto, infatti, non fa alcun riferimento né alla nozione di “popolo sardo” né di “lingua sarda” […]. Manca il fondamento della soggettività di popolo che invece è previsto in altri statuti speciali. Per esempio, mancano i riconoscimenti di tipo etnolinguistico e culturale» (C. Pala, La Sardegna. Dalla “vertenza entrate” al federalismo fiscale?, «Istituzioni del Federalismo. Rivista di studi giuridici e politici», 2012, 1, p. 215).
Forse la ragione del tardivo riconoscimento della specificità linguistica sarda sta nel fatto che questo tema per un lungo tempo non è stato centrale nelle rivendicazioni autonomistiche. Per es., il Partito sardo d’azione introdurrà il riferimento alla lingua solo molto tempo dopo la sua comparsa sulla scena politica. Paradossalmente si potrebbe dire che se un problema linguistico è stato tematizzato dal primo sardismo è stato quello di promuovere la diffusione dell’italiano nella popolazione, per agevolarne la mobilità sociale ed economica. La questione della specificità etnolinguistica della Sardegna (sia essa presentata come varietà interna alla nazione italiana o come alternativa a essa), in effetti, è entrata a far parte del pensiero autonomistico sardo (e del sardismo in generale) solo nella seconda metà degli anni Sessanta all’interno del Partito sardo d’azione prima e nel movimentismo neosardista extrapartitico poi (Petrosino 1992; Contu, Casula 2008).
Da allora, in linea con il revival etnico europeo, diversi partiti, movimenti e associazioni culturali riscoprono l’identità linguistica sarda, attribuendogli non solo un valore positivo ma anche una rilevanza politica. A partire dalla metà degli anni Sessanta anche il Partito sardo d’azione si rinnova negli obiettivi, iniziando a fare proprie le idee etnonazionaliste di Antonio Simon Mossa (1916-1971, appartenente a una corrente fino allora minoritaria del partito), propugnatore di un «federalismo delle etnie» centrato sulla valorizzazione e difesa della storia, della cultura e della lingua. Il passaggio dall’autonomismo all’indipendentismo nel Partito sardo d’azione avviene nel 1979. Si tratta di un periodo anche di successi elettorali: nelle elezioni regionali del 1984 e del 1989 raggiunge rispettivamente il 13,8 e 12,4% dei voti, superando così la soglia del 3-4% su cui si era assestato dal 1969 dopo i successi del dopoguerra. Si tratta però di un successo temporaneo, destinato a ridursi drasticamente all’inizio degli anni Novanta.
A partire dalla fine degli anni Settanta i temi tipici dell’etnonazionalismo, compresa la questione linguistica, vengono via via mobilitati anche da un movimentismo extrapartitico (circolo Città-campagna, Su Populu sardu, Nazione sarda) e da diversi gruppi indipendentisti (il Movimento indipendentista rivoluzionario sardo, il Fronte di liberazione della Sardegna, il Fronte indipendentista sardo, fino al Partito indipendentista sardo). Alla fine il tema della lingua è diventato elemento centrale della mobilitazione neosardista, che si è rafforzato nel tempo. Basti pensare che nel 2012 il Partito sardo d’azione porta in Consiglio regionale una mozione per la dichiarazione di indipendenza della nazione Sardegna, in cui lingua e identità nazionale sono presentate come indissolubili: nel testo si denuncia «l’oppressione della lingua sarda» e «la politica d’assimilazione linguistica portata avanti dall’Italia in Sardegna» e si afferma «il diritto della nazione sarda alla propria lingua e all’insegnamento della storia, della cultura e della lingua sarda nelle scuole dell’Isola». Mozione che ha ottenuto ben 17 voti favorevoli su 40.
Solo a partire dagli anni Novanta si delinea una politica linguistica da parte della Regione. Nel 1997, due anni prima della legge nazionale, viene approvata la l. reg. 15 ott. 1997 nr. 26, Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna. L’impianto della legge, come per il caso friulano, si basa sulla saldatura tra lingua e identità regionale e attribuisce alla Regione un ruolo attivo in questo senso. All’art.1 si afferma che «La Regione Autonoma della Sardegna assume l’identità culturale del popolo sardo come bene primario da valorizzare […]. A tal fine garantisce, tutela e valorizza la libera e multiforme espressione delle identità, dei bisogni, dei linguaggi e delle produzioni culturali in Sardegna». Oltre al sardo, la tutela si applica anche al catalano di Alghero, al dialetto sassarese e a quello gallurese, nonché al tabarchino delle isole di Sulcis (minoranza non inclusa tra le lingue riconosciute dalla legge nazionale).
Una delle misure regionali più recenti che evidenziano l’impegno della Regione nella costruzione di una identità regionale comune intorno alla lingua sarda è senza dubbio la Limba sarda comuna (LSC), una lingua modello di riferimento da utilizzarsi in via sperimentale per la redazione dei documenti ufficiali, adottata dalla Regione nel 2006. La LSC sostituisce la Limba sarda unificada (LSU), che nasceva dalla precedente ipotesi di una Norma di unificazione linguistica sovradialettale, pubblicata nel 2001 sulla base dei lavori di una commissione di esperti nominata dalla Regione. Un’opera di ingegneria linguistica nella quale molti hanno visto non tanto una proposta di ortografia unificata, quanto un tentativo di normalizzazione della lingua che sacrificava la variante campidanese del sardo a favore di quella logudorese, in nome di una sua maggiore vicinanza al latino, purezza e arcaicità. Ne è scaturito un aspro e intenso dibattito che sarebbe troppo lungo illustrare (per una sintesi si veda Limba lingua language, 2001), ma che mostra bene come ogni codificazione linguistica incida in qualche misura sulla percezione che un gruppo ha della propria lingua, e quindi può chiamare in causa identità culturali. Tale proposta, per es., sembra aver contribuito non solo a rafforzare il senso di alterità e diversità linguistica tra loguduresi e campidanesi, ma anche a rivestirlo di significati socioculturali (La legislazione nazionale, 2002, p. 261), contrapponendo un’identità sarda «moderna e urbana» a una più «tradizionale e arcaica». Un effetto inatteso e perverso di una misura che mirava a rafforzare l’identità linguistica attraverso una lingua standard.
La proposta di Limba sarda comuna, che ha sostituito la tanto discussa Limba sarda unificada, rappresenta una sorta di compromesso, ma anch’essa non è stata esente da critiche. Al di là delle questioni sollevate (in cui si intrecciano contrasti scientifici, ideologie politiche, tradizioni e vissuti), ciò che vogliamo ora sottolineare è il modo in cui la Limba sarda comuna viene presentata dall’amministrazione regionale. Essa è intesa come uno strumento di comunicazione e di identificazione collettiva al tempo stesso: «un modello scritto comune cui ci si possa riferire» e «una “lingua bandiera”, uno strumento per potenziare la nostra identità collettiva» (Limba sarda comuna. Norme linguistiche di riferimento a carattere sperimentale per la lingua scritta dell’Amministrazione regionale, 2006).
Nuovamente ci si chiede se tali rappresentazioni, che saldano in maniera non problematica lingua e identità abbiano un riscontro nei vissuti e nelle opinioni dei sardi.
Confrontando i risultati delle (poche) indagini statistiche condotte negli ultimi vent’anni, sembra che le politiche di tutela degli ultimi anni abbiano avuto un effetto non tanto sulla dimensione comunicativa, ma su quella del significato che la lingua ha per chi la parla.
In primo luogo i dati evidenziano che se nel passato parlare sardo era un segno di arretratezza culturale, di deprivazione, ora questo sembra essere venuto meno. Rispetto al 1995 sembra pressoché «scomparsa la paura di essere considerati rozzi ed ignoranti perché incompetenti in italiano» (Le lingue dei sardi, 2008, p. 5). Le indagini più recenti disponibili mostrano anche che poco più della metà delle persone che conosce il sardo dichiara di sentirsi maggiormente legato a tale lingua che all’italiano. D’altro canto il sardo continua ad essere la lingua delle relazione calde, tra «affini» (Le lingue dei sardi, 2008). Il che fa pensare che l’esclusione della lingua materna dalla sfera pubblica non implichi una perdita di rilevanza simbolica e culturale della stessa. E forse anche in virtù di questi nuovi significati positivi che rivestono la lingua minoritaria, sembrano aumentare le situazioni comunicative in cui si mescolano entrambi i codici (italiano e sardo), anche in contesti extrafamiliari, in una sorta di bricolage linguistico di volta in volta costruito tra gli interlocutori per rimarcare complicità e autenticità nell’interazione. Tale doppio binario comunicativo sembra in qualche modo dare voce a quel sentimento di appartenenza che fa sentire buona parte dei sardi al tempo stesso italiani e sardi e che alcune recenti indagini hanno evidenziato. Per es. Gianmario Demuro e colleghi, attraverso una web-survey condotta nel 2009 (su un campione non rappresentativo della popolazione) registrano una marcata diffusione di identità duali: si sente sardo non italiano il 26% degli intervistati, più sardo che italiano il 27%, sia sardo sia italiano il 31%, più italiano che sardo il 5%, italiano non sardo l’1%. (Demuro, Mola, Ruggiu 2013).
Altre indagini testimoniano come presso i giovanissimi – che sempre meno imparano il sardo in famiglia – vada diffondendosi, soprattutto tra i maschi, un gergo in cui il sardo è presente in combinazione con l’italiano. Un gergo che sembra rafforzare l’identità giovanile (in contrasto con l’italiano usato dai genitori) e maschile (Bolognesi, Heeringa 2005). In questo caso la lingua sarda (o meglio il significato che essa assume nelle relazioni) è senza dubbio utilizzato per rimarcare un’appartenenza collettiva, che però non ha nulla a che vedere con la dimensione politica e territoriale. Compare qui quell’uso della lingua, già evidenziato dai lavori antropologici di Fredrik Barth (Ethnic groups and boudaries, 1969), come marcatore di un confine, principio organizzatore (contrastivo e relazionale) delle interazioni quotidiane e delle contrapposizioni noi/loro.
Un secondo livello di cambiamento dei significati attribuiti alla lingua minoritaria riguarda la diffusa convinzione che le istituzioni debbano farsi carico della promozione e sostegno della lingua minoritaria come tratto di un’identità. Per esempio nell’indagine condotta nel 2007 la quasi totalità del campione (poco meno del 90%) era d’accordo con l’affermazione secondo cui la lingua locale «deve essere promossa e sostenuta perché è parte della nostra identità» (Le lingue dei sardi, 2008, p. 48) e tale percentuale resta elevata (circa il 65%) quando è riferita ai non parlanti il sardo. Affermazione un po’ sorprendente se teniamo conto dello scarso uso del sardo. Tale contraddizione potrebbe essere dovuta dall’adozione di diversi significati della lingua sarda tra i parlanti (come i dati sul caso friulano hanno evidenziato), aspetto di cui però non abbiamo prove empiriche. Alcuni indizi possono però essere rintracciati nella web-survey prima citata (Demuro, Mola, Ruggiu 2013) in cui si evidenzia che una minoranza (30%) ritiene che si sia sardi solo per nascita, mentre la maggioranza concepisce l’identità sarda come un’identità acquisibile. Tra questi, però, solo il 15% ritiene che sia importante parlare il sardo per diventare sardi, mentre quote tra il 40 e il 45% ritengono importante la residenza in Sardegna o l’adozione delle tradizioni sarde.
Un’ulteriore contraddizione tra la concezione della lingua come segno distintivo dell’identità sarda e i vissuti individuali sembra riemergere quando si affronta il tema della valutazione delle politiche educative in Sardegna. Un’indagine condotta nel 1984 (citata in Pinna Catte 1992) evidenziava il favore presso la popolazione sarda per l’introduzione della lingua minoritaria nelle scuole (il 22% ne chiedeva l’insegnamento obbligatorio e il 54,7% quello facoltativo). Tale consenso resta elevato ancora oggi. Secondo dati aggiornati al 2007, più della metà degli intervistati (il 57,3%) si dichiara «del tutto favorevole» all’introduzione a scuola, accanto all’italiano, di una lingua locale. Meno favorevoli le persone più istruite e chi non parla il sardo (Le lingue dei sardi, 2008). Quando si cerca però di entrare nel dettaglio di come introdurre il sardo nelle scuole, emerge una chiara percezione di subalternità della lingua minoritaria rispetto all’italiano, che è considerata dalla stragrande maggioranza degli intervistati (e in particolare dai più istruiti) come il codice più adeguato per la trasmissione del sapere. Il riconoscimento della propria specificità linguistica contrasta con l’interesse individuale a garantire ai propri figli l’accesso a un sistema d’istruzione in grado di trasmettere competenze spendibili nel mercato del lavoro. Il che suggerisce che la scelta educativa dei cittadini possa venire condizionata da alcuni elementi di contesto, nella fattispecie dalle riflessioni e argomentazioni che attribuiscono significati differenti all’introduzione della lingua sarda nelle scuole, connettendola o meno alla salvaguardia dell’identità sarda o enfatizzando i pericoli in termini di ostacolo alla mobilità sociale. Quest’ultimo significato, tra l’ altro, è stato a lungo rilevante in Sardegna quando, in concomitanza con la spinta alla modernizzazione, parlare sardo cominciò a essere percepito come segno di arretratezza culturale e sociale.
In Friuli Venezia Giulia e in Sardegna esistono dunque ancora oggi comunità che parlano lingue diverse dall’italiano standard. Si tratta di un patrimonio culturale che arricchisce anzitutto le competenze linguistiche di chi le parla e che accresce la varietà di tessere che compongono il mosaico delle culture locali e regionali italiane. È un patrimonio che andrebbe tutelato meglio. Infatti, come altre lingue di minoranza, anche il friulano e il sardo sono a rischio, se non proprio di scomparsa, di mutamenti così profondi da rendere irriconoscibile il loro legame con la lingua dei padri. Eppure il discorso sull’uso di una lingua e sul suo destino non può finire qui. La lingua acquista, nella comunità che la parla, significati sociali, intellettuali e culturali. Tali significati sono il prodotto di processi di valorizzazione diversi, e talvolta contrapposti, che hanno natura extra-linguistica in quanto derivano dalle differenti idee che di quella lingua hanno le comunità sociali che la parlano, rectius le classi dirigenti di quelle comunità. Nei processi di costruzione di un’identità più che la competenza linguistica conta come si valuta la lingua che si parla, quale significato le si attribuisce.
Il rapporto tra lingua e identità collettiva si basa dunque su significati attribuiti alla lingua stessa che sono sempre o un prodotto dei processi di nazionalizzazione di massa o un elemento nuovo da valorizzare. Visto così il nesso tra lingua e identità appare come un rapporto molto meno naturale di quello che i costruttori di nazioni e i loro imitatori contemporanei hanno lasciato e lasciano intendere che sia. Perché, appunto, come diceva Billig, «l’uomo moderno una lingua deve parlare». La lingua solo se viene percepita come un oggetto con un proprio valore permette a chi la parla di identificarsi con una comunità che supera i confini angusti di quella basata su relazioni di prossimità.
Una riflessione sulla tutela del friulano e del sardo è dunque necessaria, ma non si può fare a meno di interrogarsi sul fatto che spesso le politiche di tutela delle lingue minoritarie promosse da istituzioni, forze politiche e movimenti sociali sono esplicitamente finalizzate alla costruzione di identità collettive distinte, diverse o addirittura contrapposte a quella nazionale italiana. Al riguardo è forse utile sottolineare un dato ovvio: una politica linguistica muove da un’idea di lingua e quindi dell’identità dei parlanti quella lingua. Se alcune idee di lingua – come si è visto in alcune dinamiche nei casi friulano e sardo – tendono a saldarsi a concezioni di identità di tipo esclusivo, altre consentono identità plurime in cui quella locale e quella nazionale non sono contrapposte tra loro. Il tema meriterebbe di essere affrontato, nella consapevolezza che la strada che conduce dalla tutela di una lingua all’identità di chi la parla è sempre ricca di alternative. È utile essere consapevoli delle conseguenze che la scelta di una o di un’altra possibilità può comportare.
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