Identità
Identità (dal latino tardo identitas, derivato di idem, "stessa cosa") indica in senso lato la perfetta uguaglianza, la qualificazione di una persona o di una cosa per cui essa è tale e non altra. In senso psicologico, con tale termine s'intende l'insieme delle istanze psichiche relative alla propria persona, che costituiscono il nucleo permanente della coscienza autoriflessiva (v. identificazione; sé). L'identità etnica è definita negli sviluppi recenti dell'antropologia culturale come l'esito di processi di ibridazione e 'negoziazione' reciproca, e dunque non come un fatto di natura o una categoria stabile nel tempo e nello spazio. Dimensione dai confini sfuggenti e bisognosa di continue verifiche, l'identità etnica si costruisce su una trama di variabili interne ed esterne, di fenomeni contingenti e dinamiche storiche talvolta imprevedibili. L'esigenza di marcare l'identità culturale si esprime attraverso una serie di strategie di ordine materiale e simbolico che sanciscono l'appartenenza al gruppo.
L'antropologia culturale ha sottoposto a critica, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del 20° secolo, buona parte del proprio repertorio teorico: concetti fondanti, qual è l'identità, sono stati ridefiniti nella loro natura convenzionale, mutevole e arbitraria, riconoscendo nella loro genealogia il ruolo determinante dei contesti osservativi e degli assunti propri della cultura occidentale, della nozione di Io e di coscienza in particolare (Wagner 1975; Fabietti 1995; Remotti 1996). Per i contributi del poststrutturalismo, del decostruzionismo e del femminismo, il corpo, nelle sue varie accezioni biologiche, fenomeniche, politiche o sociali, si è imposto come luogo teorico decisivo, in grado di contendere la centralità in precedenza occupata dall'analisi testuale e dallo studio delle pratiche discorsive: depositario di memorie incarnate, strumento primario per sentire e possedere un mondo, il corpo testimonia come pensare l'identità sia possibile solo a condizione di pensare la materia, le relazioni, la storia, e cessa di esistere per ciò stesso come categoria stabile nel tempo e nello spazio. Nozioni come 'etnia' e 'identità etnica' sono state oggetto di una parallela riconsiderazione che ha messo a nudo il dispositivo retorico e l'ideologia che vi erano riprodotti.
Alla luce di tali prospettive, gli 'etnonimi' sono stati ricondotti al loro statuto di 'eteronimi': nomi attribuiti cioè da parte di quanti - colonizzatori, tribù vicine, conquistatori - volevano mettere in rilievo, di un gruppo oppure di una popolazione, tratti identitari specifici, assumendoli poi come i soli pertinenti. Nell'uso di etichette che si pretendeva denotassero referenti reali sono emerse denominazioni non prive di malintesi linguistici o di deformazioni introdotte artatamente. È il caso, fra i molti esempi possibili, delle 'identità' tutsi, hutu e twa (Ruanda e Burundi), dove dubbie differenze relative a tratti somatici come pure all'organizzazione economica (allevatori in contrapposizione a coltivatori) sono state enfatizzate al prezzo di semplificazioni o pure invenzioni, come quella relativa alla presunta origine camitica dei tutsi (Chrétien 1985). In altri casi l'etnonimo riassumeva in sé le ragioni stesse e la giustificazione della violenza esercitata contro una popolazione: gli indios auca (Colombia, Perù) rappresentavano, per gli esploratori del 19° secolo, la quintessenza di un mondo selvaggio, abitato da individui nudi, ribelli, incestuosi e dediti alla magia (Taussig 1987).
Queste categorizzazioni non si discostano molto, nella loro logica, dalle precedenti classificazioni delle razze: tratti comportamentali e fisici venivano organizzati in gerarchie nelle quali gli altri erano generalmente approssimati al negativo e all'animalità, comunque disumanizzati. La 'razza', termine che compare nella lingua francese solamente agli inizi del 16° secolo, non designa più un legame giuridico di filiazione ma piùttosto l'improbabile equivalenza fra corpi, identità e geografie. All'etnicizzazione delle differenze e dei conflitti, alla reificazione dei profili identitari, ha fatto spesso seguito la drammatica dissoluzione di ogni possibile rapporto con l'Altro, sino al genocidio. Anche se non sempre ciò si è verificato, l'identità etnica assume comunque carattere disfunzionale e catastrofico laddove, trascurando altri profili fondamentali, si pretende ridurre a essa le polimorfe componenti che definiscono le caratteristiche di un individuo o di un gruppo (Devereux 1970).
Risituare senso e valore dell'identità etnica e dei suoi presunti confini diventa possibile soltanto se vengono riconosciuti gli aspetti contingenti e le dinamiche storiche talvolta imprevedibili che ne hanno segnato l'emergere o il declino. Nel caso dei bété della Costa d'Avorio, non esiste, per es., alcun tratto fisico o dell'organizzazione sociale e familiare che possa differenziare inequivocabilmente questo gruppo da quelli vicini; inoltre, il criterio territoriale della fondazione del villaggio non risulta utile, perché i limiti geografici adottati corrispondono a quelli delle province istituite dall'amministrazione coloniale; infine, anche la lingua solleva non poche riserve quanto alla sua autonomia: vi abbondano infatti derive e contaminazioni che contribuiscono a rendere più incerti e sfumati i confini linguistico-culturali. Tuttavia oggi i bété esistono, l'etnia ha assunto cioè un valore identitario sostanziale. Sebbene il termine bété fosse utilizzato già nei primi anni del 20° secolo da M. Delafosse e G. Thomann sulla base di una presunta unità linguistica e di una comune origine geografica (entrambe già allora messe in dubbio), è solo con il procedere della colonizzazione e il realizzarsi della pacificazione che il significato dell'etnonimo assume il suo vero valore: bété significa infatti "pace" o "perdono", e celebra l'avvenuta e tardiva sottomissione delle popolazioni di queste regioni al dominio francese. Nel corso del tempo i bété sono diventati essi stessi 'soggetti' di quell'enunciato, appropriandosi di un'identità in origine fittizia, poi rivendicata e valorizzata al fine di attuare l'autonomia politica nei confronti dello Stato ivoriano (Dozon 1985).
Abbiamo qui un caso esemplare di quanto il dare nomi possa avere effetti 'performativi' (Austin 1962), e del modo in cui variabili esterne e interne intervengano nella costruzione (etnogenesi) e nella percezione dell'identità etnica. Il caso dei bété induce a riflettere anche sui cambiamenti psicologici che possono realizzarsi, attraverso una progressiva introiezione e il parallelo emergere di un senso di appartenenza, nei singoli membri di un gruppo. La mole di lavori dedicati alla critica di tali concetti è espressione non solo di un'accresciuta sensibilità epistemologica o di nuove mode culturali, ma anche, specularmente, di problemi che si sono recentemente imposti alla nostra coscienza in forme spesso drammatiche.
A dispetto dei processi di globalizzazione e 'creolizzazione' si assiste infatti, nell'attuale panorama internazionale, a una recrudescenza di violenti localismi, di conflitti ancora impropriamente definiti interetnici. Il revival di movimenti etnici non deve sorprendere: la questione etnica è un problema connesso non tanto al passato o alle formazioni sociali tradizionali quanto al costituirsi degli Stati moderni e di poteri centralizzati, e la difesa di identità culturali, nazionali o etniche può assumere a volte il significato di resistenza contro rischi di egemonizzazione e omologazione culturale. Tali rischi (in particolare quello della scomparsa di differenze fra culture immaginate a guisa di aggregati monolitici) sono avvertiti anche in quei contesti, come le contemporanee società occidentali, nei quali diminuisce la portata identificatoria di simboli, miti e altri abituali punti di riferimento, e più debole diventa il legame sociale (Lowwitz 1994). Qualsivoglia definizione dell'identità culturale deve misurarsi pertanto con una situazione in apparenza ossimorica: da un lato il periodico insorgere di un bisogno di differenziazione e identificazione, dall'altro la presenza di un paesaggio sociale dominato da logiche meticce, che sembrano riprodurre un sincretismo originario dei costumi, delle culture, delle lingue (Amselle 1990).
Più che interrogarsi sull'esistenza o meno dell'identità etnica (il che lascerebbe nuovamente supporre uno statuto ontico dell'identità, o la possibilità di riconoscervi un carattere autentico e originario), bisogna chiedersi dunque in quali circostanze l''etnicità' possa giungere a definire il nucleo essenziale dell'identità e a dominare la natura delle interazioni fra gruppi o, specularmente, attraverso quali processi l'identità culturale possa assurgere a bisogno insopprimibile nei singoli individui. La nozione di identità etnica è stata introdotta, anche recentemente (Connor 1993), all'interno di prospettive che ne sottolineano il valore psicologico primordiale, 'al di là della ragione': legami di sangue e richiami alla comune terra d'origine sembrano fondare ancora su una dimensione prerazionale e materiale (il corpo, la filiazione o l'appartenenza genealogica) il senso dell'identità e dei suoi confini.
La teoria dell'autoattribuzione (self ascription) sostiene da parte sua che, data un'attribuzione categoriale con la quale le persone vengono classificate nei termini di un'identità fondamentale, queste costituiscono un gruppo etnico allorquando adottano tale criterio per categorizzare sé stesse e gli altri. Oggi prevalgono però modelli che riconducono il significato dell'identità etnica a quello del suo uso, preferendo mettere l'accento sulla dimensione strumentale (l'identità etnica creata, per es., da alcune élite, attraverso la manipolazione di materiali culturali, per meglio difendere i propri interessi), o sul fatto che i profili dell'identità non sono necessariamente coincidenti nella coscienza degli osservatori e in quella degli attori. Altri studiosi, nel sottolineare la difficoltà di distinguere nell'identità di un gruppo il ruolo esercitato da auto- ed eteroattribuzioni, spostano l'attenzione sui processi linguistici, economici, religiosi o sociali entro cui essa affiora come problema, come valore o come sorgente di conflitti, o al contrario sembra dissolversi per effetto di leggi o 'coscrizioni'.
È opportuno chiedersi se l'identità etnica possa rimanere salva anche dopo aver messo al bando la 'ragione etnologica', e se rappresenti qualcosa di più di una pura nozione-feticcio o di un semplice contenitore. Se la risposta, in considerazione di quanto si è detto sulla preminenza di variabili contestuali e di logiche convenzionali, appare scontata (l'identità costituisce sempre il prodotto di una decisione, di un processo rituale, di una negoziazione reciproca, non un fatto di natura), è pur vero che per comprendere vicende e casi particolari, e dar conto di fatti in apparenza contraddittori, è necessario avvalersi non di una singola teoria bensì di una serie di teorie. In quanto arbitraria e bisognosa di continue verifiche, l'identità costituisce una dimensione enigmatica dell'esistenza: non si è uomini in generale, ma sempre e soltanto soninké, yolmo, guaranì, mapuche, dogon, cioè uomini in un senso particolare. Non è un caso se gli altri, gli stranieri, in molte lingue sono denominati semplicemente non-uomini. Ma all'interno di una stessa cultura vi sono poi modi diversi di diventare uomini (Geertz 1973).
L'identità si pone dunque come l'arbitrario limite che separa il 'dentro' dal 'fuori', la fabbrica dove individui, gruppi e relazioni si costituiscono attraverso mascheramenti e giochi di specchio; ma la costituzione dell'identità, tanto individuale quanto collettiva, deriva largamente anche dalle peculiari configurazioni sociali e politiche, dunque in una certa misura dal potere, quali che siano le sue espressioni. Il corpo, alla confluenza dei legami di filiazione e d'alleanza, rappresenta il territorio privilegiato sul quale le strategie di disciplinamento esprimono per intero la loro potenza, il luogo nel quale le ideologie iscrivono nuove appartenenze generando quello che ogni ideologia produce sempre, cioè la coincidenza fra ragione individuale e ragione sociale. È opportuno allora chiedersi quali siano i materiali di questi processi, le particolari tecnologie di costruzione del Sé e dell'identità.
Nello strutturare confini, personalità, classi d'età, l'universo semiotico elabora strategie che esprimono il bisogno di marcare l'identità di gruppi e soggetti, di distinguere, ordinare, connettere. Tale bisogno si realizza attraverso l'intervento su registri simbolici, biologici ed economici. Nella storia delle società occidentali la confessione, la scrittura e il piacere di esporsi hanno svolto un ruolo determinante nella costruzione del Sé, dell'identità e dei 'rituali discorsivi' che la enunciavano (Foucault 1988).
Le tecniche del corpo descritte da M. Mauss (1950), le iscrizioni tegumentarie e la pratica del tatuaggio documentano in modo esemplare quanto il corpo sia "materia e forma del simbolismo a uno stesso tempo" (Augé 1988, p. 114). Il tatuaggio esprime significati molteplici: nel Magreb esso è marchio tribale o segno di avvenuta iniziazione, protezione contro le malattie e il malocchio o pura 'grammatica decorativa'. In quanto intervento trasformativo sul corpo, però, esso rimane avvolto in queste culture da forte ambivalenza: in alcuni hadith attribuiti a Maometto sono oggetto di condanna tanto il tatuaggio, considerato 'scrittura del demonio', quanto coloro che lo praticano come professione. Ma un carattere specifico del tatuaggio iniziatico, e in particolare del marchio tribale, deve essere sottolineato: l'iscrizione sui corpi dell'appartenenza al gruppo avviene nel dolore, nel corso di una pedagogia assertiva che, con quelle tracce indelebili, vuole scongiurare il rischio dell'oblio. L'iniziazione si accompagna sempre a un segreto, e al silenzio col quale il dolore deve essere sopportato. "Ciascuno di voi occupa fra noi lo stesso spazio e lo stesso luogo. Nessuno di voi è meno di noi, nessuno di voi è più di noi": la formula iniziatica degli indiani mandan mostrerebbe come il gruppo iscriva attraverso la tortura e la scarificazione, direttamente sui corpi dei membri, la propria legge, che è il divieto della diseguaglianza. Lo status di pari condiviso dagli iniziati è la metafora di un principio assoluto.
I segni sui corpi definirebbero in modo irreversibile la posizione reciproca di ogni membro e la loro identità sociale, la possibilità stessa di sopravvivenza del gruppo, i cui componenti, secondo P. Clastres (1974), sono messi così al riparo tanto dal desiderio di dominare quanto da quello di essere dominati. Si tratta però qui di una conclusione non generalizzabile, nella quale è presente un evoluzionismo implicito: non esiste a rigore società senza potere, né potere senza ideologia. Ogni iniziazione genera dunque un cambiamento di identità: si entra a far parte di una setta, si diventa guaritore o semplicemente donne e uomini in senso proprio, cioè pronti per la vita sociale, attraverso riti di passaggio che partecipano all'elaborazione simbolica di soglie, segnano l'incontro con registri particolari (per es. il sacro), introducono una temporalità ritualizzata in eventi come la nascita e la morte, il matrimonio o il viaggio: passaggi materiali dunque, non solo simbolici (Van Gennep 1909). Nei diversi riti che segnano questi eventi i simboli non esprimono però solo una funzione cognitiva, ordinatrice del cosmo o dell'esperienza: sono anche modi per risvegliare e addomesticare emozioni come odio, paura, affetto e dolore (Turner 1969).
Protagonista di questi percorsi 'identitari' rimane il corpo, che attraverso le prove iniziatiche (isolamento, digiuno, esperienza del dolore) costituisce la scena privilegiata di una vera e propria liturgia sociale; ma l'apparato psichico e la memoria del gruppo sono luoghi altrettanto decisivi, dove si conservano gli effetti duraturi (la 'metamorfosi identitaria') realizzati mediante complesse tecniche traumatiche. Grafie, incisioni e cicatrici iscrivono così sul corpo mutamenti e discontinuità, sanciscono appartenenze o permettono di riconoscere nel nuovo nato i segni di un antenato. Anche parti del corpo possono diventare marchi di identità o di stati particolari. Nei pittogrammi na-khi, nella Cina meridionale, i capelli, dapprima raccolti, vengono poi sciolti a indicare l'inizio della trance, mentre fra le donne rehamna (Marocco) le diverse acconciature corrispondono ai differenti stadi della vita: rasati quasi per intero sino alla pubertà, i capelli vengono lasciati crescere nell'adolescenza e raccolti in trecce dalla sposa. Nella sua interezza o nelle sue parti, il corpo mostra e allude: pieghe, deformità o tratti assumono lo statuto di un segno che deve essere riconosciuto e rinviano a significati che sono compresi da specialisti come aruspici o indovini.
Il corpo doppio e medesimo per eccellenza, quello che si invera con la nascita di gemelli, costituisce un evento che ha in sé dell'inquietante e del meraviglioso: che lo si tratti come presagio negativo o come dono divino, la gemellarità in molte culture africane richiede comunque un trattamento che ne controlli la portata fuori dell'ordinario. Fra i dogon, per es., i gemelli sono nel mito d'origine rappresentanti dei contrapposti ordini entro cui oscillano il mondo e l'esistenza: la fecondità e la sterilità, la legge e la trasgressione (l'incesto), la vita (la parola) e la morte (Calame-Griaule 1987). Il corpo non è tuttavia un mero veicolo di identità comunicate o il riflesso passivo di modelli culturali: in esso si vengono a cancellare dicotomie come quella fra significante e significato, e si mostra in tutta la sua evidenza la povertà delle teorie tradizionali sul simbolismo. I riti e le metamorfosi che vi si operano, se esprimono il nesso insopprimibile fra individuo e gruppo, rinviano infatti anche a un corpo che non si lascia irreggimentare passivamente, che resiste a ruoli e regole, e dal quale trabocca sempre la possibilità di un eccesso, di qualcosa che rimane incodificabile, o semplicemente di un desiderio che contrasta con le norme. L'acquisizione di una nuova identità, espressa nella voce dall'apprendimento di una lingua inconsueta e incomprensibile ai non iniziati, testimoniata nel corpo da particolari posture o stili deambulatori, rappresenta in molti casi una condizione di prestigio e di potere che consente un equilibrio altrimenti impossibile.
Così, nel rito di iniziazione kondi praticato dai giovani moba (Togo settentrionale), la società segreta di cui si diventa membri non solo promuove reciproca solidarietà o conferisce poteri che proteggono dai pericoli: essa offre alle donne che hanno rifiutato di sposare il marito scelto dalla famiglia un'identità sociale di compromesso, in ogni caso onorevole. Da parte loro i rituali cannibalici, al di là dei numerosi equivoci etnografici, stanno a metaforizzare in modo eccellente la costruzione dell'identità come processo che si nutre, materialmente, del corpo dell'altro (vittima sacrificale, nemico ecc.): e ciò spesso dopo che gli è stato concesso, solo in apparenza paradossalmente, di partecipare della vita del gruppo per un certo tempo, di condividerne le donne e le feste. Se i dispositivi che strutturano lo status identitario partecipano sempre alla riproduzione di ruoli, saperi e poteri, questo è tanto più vero allorquando l'identità da acquisire regola l'accesso alla vita adulta, alla riproduzione sessuale e sociale.
Il tabu dell'incesto rappresenterebbe secondo molti studiosi il principio universale che disciplina l'apertura di gruppi consanguinei allo scambio e alla reciprocità, ma un principio endogeno di delimitazione dei gruppi va riconosciuto in vari casi come altrettanto importante. I nafara del Senegal definiscono il fondamento della propria identità attraverso l'ultima tappa del ciclo iniziatico maschile (poro, che significa sia "iniziarsi" sia "sposarsi con"). Chi non ha compiuto questo rito non può essere definito propriamente un nafara. Il rito consiste nella realizzazione simbolica dell'incesto: i neofiti devono accoppiarsi in un bosco sacro con un bassorilievo in legno che rappresenta una donna nuda, Kafolo, la madre dei novizi. Questo incesto simbolico sarebbe l'espressione di un assunto preciso: la riproduzione incestuosa realizza di fatto la delimitazione biologica per eccellenza di un gruppo, e ciò è testimoniato dal fatto che solo dopo aver compiuto il ciclo iniziatico gli uomini possono essere considerati nafara a tutti gli effetti, scambiare donne ed esercitare la propria autorità.
Con la riproduzione sociale di coloro che vengono riconosciuti come individui nafara, il ciclo iniziatico fissa il confine identitario per l'intera società (Zempleni 1993). Circoncisione e infibulazione costituiscono un'espressione complessa dei processi identitari, radicata all'interno di simbologie e rappresentazioni della sessualità assai diverse (v. circoncisione). Nel caso della circoncisione femminile si abolirebbero i residui tratti anatomici maschili (con la clitoridectomia), mentre nella circoncisione maschile si rimuoverebbero quelli femminili (asportazione totale o parziale del prepuzio), come narrano i miti degli aborigeni della Terra di Arnhem (Australia) e quelli dogon (Mali); oppure si esalterebbero negli iniziandi i caratteri ritenuti propri della maschilità, come nel rituale della doppia circoncisione e dell'escissione simulata presso i dìì del Camerun, per i quali il prepuzio non ha, in quanto tale, una connotazione femminile e dove l'esaltazione del dolore associato alla circoncisione è la prova alla quale deve sottomettersi unicamente colui che è designato a diventare capo del villaggio (Muller 1993).
Riguardo alla circoncisione ebraica, essa non solo definisce, in quanto traumatismo culturale organizzato, una pratica di affiliazione del nuovo nato, ma sancisce e rinnova l'alleanza dell'intera comunità con il suo Dio: corpo individuale e corpo sociale partecipano simultaneamente di una continuità non solo biologica ma anche genealogica, e il corpo, ancora una volta, fa sì che identità del singolo e identità del gruppo si intersechino. In tutti questi casi si può parlare dunque di una vera e propria trasformazione ontologica o di antropopoiesi, come lascia pensare l'interrogazione, che accompagna il rito della circoncisione fra i banande dello Zaire, "che cos'è un uomo?" (Remotti 1996, p. 34).
Tali processi hanno un passaggio critico in quello stato transizionale nel corso del quale il corpo e la persona dell'iniziato sono assimilati a materia disorganizzata, a ciò che deve essere nascosto e mantenuto in una condizione limite di 'invisibilità strutturale': privi di qualsiasi status, i neofiti vengono camuffati con maschere o costumi grotteschi, e a essi sono negate insegne, espressioni di rango o posizioni nella parentela. Questa povertà rappresenta la condizione necessaria perché essi possano con successo venire "frantumati per essere interamente rimodellati e dotati di nuovi poteri" (Turner 1967, p. 132).
L'infibulazione, che viene ancora largamente praticata in Africa orientale, rappresenta un'ulteriore e drammatica espressione dei processi identitari. In questo caso si genera inoltre un paradosso fra la possibilità per ogni giovane donna di essere considerata donna in senso proprio, e vergine, dai membri della comunità (con una valorizzazione di tipo estetico, morale e funzionale, coerente con i locali canoni di bellezza, purezza, fecondità e igiene), e i gravi rischi per la salute che proprio tale immagine contraddicono, tra cui l'infertilità che può condurre al divorzio e alla marginalità. Nel cercare di dare risposta a questo paradosso è stato suggerito che la necessità di delimitare lo spazio fisico costituirebbe la premessa di un atto simbolico assertivo da parte delle donne che, trasformando l'utero in uno 'spazio sociale' i cui confini possono essere attraversati solamente all'interno di un preciso dispositivo di controllo, enfatizzerebbero la propria idea di femminilità e accrescerebbero il loro potere (Boddy 1982). Comprendere la natura di tale paradosso e il persistente radicamento di pratiche invalidanti è dunque possibile, ed è anche possibile immaginare l'infibulazione come l'alto prezzo che le donne devono pagare per realizzare in alcune società la propria identità: a condizione di situare quest'ultima in un contesto ben delineato, dove l'analisi simbolica del rituale e delle rappresentazioni del corpo si coniughi però a quella dei rapporti di potere che scandiscono i conflitti fra generi e le relazioni fra individui (prima fra tutte la relazione che fonda la struttura patrilineare).
Quanto si è detto sinora sull'identità trova una conferma nei processi di ibridazione e meticciato che si generano negli individui e nelle società a partire dai fenomeni migratori. Questi ultimi rappresentano infatti una sorta di laboratorio sociale e psicologico, al cui interno l'identità degli immigrati viene riprodotta e difesa ma, allo stesso tempo, assume nuovi profili e sembianze, mentre le società che accolgono gli immigrati aprono, mutano o chiudono a loro volta i propri confini simbolici. Ci si può chiedere cosa resti dell'identità di un immigrato o di una minoranza in un contesto di vita radicalmente diverso, dove il valore attribuito al gruppo e all'individuo viene spesso rovesciato.
Metamorfosi complesse e dolorose scandiscono queste esperienze: esse concernono la lingua madre, che dopo alcuni anni gli immigrati utilizzano sempre meno, con conseguenze in termini di diminuito potere espressivo; i legami di parentela, che si fanno tenui o si recidono; la percezione del proprio corpo. I conflitti rispetto alla propria cultura d'origine, avvertita dagli altri secondo modi spesso inconciliabili (dal paternalismo alla dichiarata ostilità, al razzismo), attivano riverberi psicologici imprevedibili. In una situazione spesso caratterizzata da vulnerabilità sociale e psicologica, gli immigrati che giungono nelle metropoli occidentali devono misurarsi con un processo di 'dis-affiliazione' generalizzato, dagli effetti devastanti. Alcuni studiosi ritengono che proprio in simili situazioni di difficoltà, di conflitto o di stress emergerebbero alla superficie della persona, come forma estrema di ancoraggio, i nuclei più profondi dell'identità (valori religiosi, modi in cui sono costruiti ed esperiti il tempo e lo spazio, nozioni della persona ecc.).
La società ospite partecipa di queste dinamiche, ne viene attraversata e lentamente trasformata. I corpi degli immigrati riflettono le tensioni fra tradizioni differenti (nutrizionali, terapeutiche ecc.); i sintomi che riferiscono diventano spesso la metafora di un transito incompiuto tra mondi diversi. Fra i wolof del Senegal, un figlio emigrato che non rispetti gli obblighi verso il gruppo, gli antenati o la famiglia, può diventare vittima di un sortilegio, il wootal, letteralmente "richiamo"; in questo caso egli deve ritornare, oppure rischiare la malattia, la follia. Nella cura di alcuni disturbi si rappresenta per intero questa irrisolta ambiguità, all'origine di un eclettismo medico che può assumere anche il valore di una resistenza alla cultura biomedica dominante, nel tentativo di adottare modelli esplicativi della sofferenza e della cura più familiari con le proprie rappresentazioni di malattia e salute. In alcuni casi, i soggetti affetti da disturbi mentali tornano nel paese d'origine, perché soltanto in quest'ultimo possono essere curati per un male che non troverebbe nei medici occidentali risposte adeguate. Questa impossibilità della cura rappresenta dunque la peculiare espressione di un quid che rimane incommensurabilmente altro, di quello 'scandalo dell'incomprensione reciproca' di cui parlava E. De Martino (1973).
Corpi e desideri in bilico, presi fra opposti universi, gli immigrati sono l'incarnazione vivente di una metamorfosi incessante che spesso li lascia nell'ibrido, e di una differenza che non è però mai quella costruita dal nostro immaginario e anzi confuta ogni demarcazione che separi 'loro' da 'noi'. Forse i difensori a oltranza dell'identità e dei suoi confini sono meno spaventati da un'alterità insopprimibile, di cui sembrano aver bisogno per nutrire la loro ideologia, che da questa ambivalenza irriducibile di corpi, gesti e linguaggi che, spesso nell'inerzia e nella marginalità, resistono ai significati e alle forme che si vorrebbe loro attribuire. I luoghi dell'identità diventano luoghi di conflitto, i rapporti di senso ritornano a essere rapporti di forza: le moderne società non sono spazi nei quali coesistono identità o mondi socioculturali paralleli, bensì mosaici nei quali vengono a intrecciarsi sistemi di significato e stili di conoscenza contraddittori (ed è questo aspetto che definisce propriamente il senso della 'creolizzazione'), dove il cerchio degli scambi si è definitivamente aperto.
La presenza degli stranieri, degli immigrati, sposta dunque il centro di gravità nella logica dello scambio e del dono, apre una frattura nella rete delle reciprocità e costringe a interrogarsi, con una radicalità forse sconosciuta, sul perché di frontiere e di chiusure, di confini e identità: in questo orizzonte, mutano le espressioni di quella strategia fondamentale attraverso la quale, da sempre, gli esseri umani cercherebbero di esorcizzare il pericolo inerente alle zone di passaggio e scongiurare la minaccia che nasce da transizioni dove s'incrociano il noto e l'ignoto (Bibeau 1996). Ma se un tempo zone di passaggio permettevano di immaginare spazi intermedi dove realizzare il confronto o lo scontro con l'altro, oggi questi incontri e i riti di riconoscimento che spesso li caratterizzavano si producono ovunque: nello specchio quotidiano e materiale (non solo mediatico) di culture diverse, di altre 'forme di vita' e di altri 'corpi-segni', l'identità di ciascuno si riflette come 'de-formata', e deve riconoscere tutto l'insolito e l'eteroclito di cui è fatta.
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