idiotismi
Sugl'i., cioè su quei fiorentinismi colloquiali e di bassa estrazione sociale che D. usò nelle sue opere, si disputò a lungo, dal Bembo al Lenzoni al Casa al Muratori al Salvini e oltre, tendendo gli uni a considerarli volgarismi ineleganti, gli altri bellezze e ‛ proprietà ' della lingua. La disputa s'intrecciava con la questione della lingua italiana, e la difesa degl'i. danteschi confluiva nella difesa del volgare fiorentino in blocco contro le tesi eclettiche degli ‛ italianisti '.
Sulla loro strada i difensori di D. e del volgare fiorentino trovavano alcune affermazioni che lo stesso D. aveva fatto nel De vulg. Eloquentia. Nel primo libro del trattato, passando in rassegna i vari volgari italiani, D. non solo aveva escluso che il fiorentino potesse identificarsi col volgare illustre, ma l'aveva biasimato apertamente, assieme ad altri volgari toscani, citando in improperium la frase idiomatica: manichiamo introcque, che noi non facciamo altro (XIII 2).
La frase è portata con altre per mostrare quanto i municipalia vulgaria Tuscanorum distino dal volgare illustre. In che cosa consistesse, secondo D., l'idiotismo della frase e quali fossero gli elementi che ne portavano l'impronta più spiccata, è questione discussa. Pare comunque da restringersi alla prima parte, cioè ai due vocaboli manichiamo introcque: improbabile è la lezione facciàno atro, proposta dal Rajna, che mirerebbe ad arricchire la frase di altri due fiorentinismi.
Ora, è stato più volte osservato, a partire dal Cinquecento, che proprio i due vocaboli più esposti alla condanna, nell'esempio del trattato, ritornano nelle opere volgari dantesche: introcque in If XX 130, ‛ manicare ' in Rime CIII 32 (manduca), Cv I I 7 (si manuca), If XXXII 127 (si manduca), XXXIII 60 (manicar; e Fiore CIII 12, CXI 12). La circostanza, apparentemente contraddittoria, costituì uno degli argomenti sui quali i Fiorentini (per es. il Varchi, il Salvini) si basavano per impugnare l'autenticità del trattato. Più opportunamente altri filologi e dantisti (anche fiorentini: Lenzoni, I. Mazzoni) di fronte a vocaboli francamente bassi e plebei richiamavano il canone retorico del ‛ decoro ' per riconoscerne la liceità limitatamente a certi contesti. Oggi è comunemente ammesso che D., riservando nel De vulg. Eloq. il volgare illustre allo stile tragico, non intendeva certamente escludere, per gli altri stili, il ricorso al volgare mediocre e umile (II IV 6): i contesti di introcque e manicare lo confermano, corrispondendo, per lo più, a passi in cui la ‛ comicità ' della materia (ultimi canti dell'Inferno) o particolari esigenze espressive (rime petrose), concedono o suggeriscono una maggiore apertura lessicale (solo il manuca del Convivio non rientra in modo del tutto calzante in questo quadro).
Nella Commedia, e specialmente tra le rime aspre e chiocce di Malebolge, nelle rime per la donna Pietra, nonché nei sonetti giocosi della tenzone con Forese e nel Fiore, D. poteva certo trovare pretesti od occasioni stilistiche sufficienti per inserire nella sua scrittura forme e vocaboli municipali e plebei, i. che non avrebbe voluto né potuto usare, per es., nelle più rarefatte rime d'amore per Beatrice o nelle canzoni filosofiche. E in effetti i lettori di quelle opere vi hanno avvertito a più riprese la presenza dell'idiotismo. Si pensi, come esempio tipico, ai canti di Malebolge, dove, oltre il ‛ manicare ' e l'introcque citati, compaiono versi come Già veggia, per mezzul perdere o lulla (If XXVIII 22), che il Casa reputava comprensibile ai soli Fiorentini (Galateo, cap. XXII), oppure e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso (If XXIX 77), duramente biasimato, con altri, dal Bembo, che vede nel segnorso una " bassissima voce " e " per poco solamente dal volgo usata " (Prose della volgar lingua, II VI e XXI).
Nel riesaminare oggi giudizi come questi, bisogna naturalmente tenere in conto che, come abbiamo già avvertito all'inizio, essi furono formulati nel vivo delle polemiche sulla questione della lingua. Non tutte le parole o le forme che nel Cinquecento e nei secoli posteriori furono giudicate ‛ rancide ' e ‛ viete ' o provinciali, erano presumibilmente incorse in una tale svalutazione già al tempo di Dante. Lo Schiaffini ha fatto osservare una volta a chi, con occhi troppo moderni, considerava i. forme come corravamo per correvamo, che un ardavamo si trova perfino nel Canzoniere del Petrarca. Risalire alla reale situazione linguistica due-trecentesca, ancora e per larga parte inevitabilmente municipale, è d'altra parte, allo stato attuale degli studi, operazione assai delicata. Qualche indizio potremmo raccoglierlo confrontando attentamente i dati che ci offre, ai suoi vari livelli, la tradizione linguistica fiorentina e toscana precinquecentesca. Non sarà da trascurare, per es., il fatto che lo ‛ spingare ' di If XIX 20 si ritrovi in un rimatore comico come Rustico di Filippo e il Machiavelli lo ritenga ancora, un paio di secoli dopo, vocabolo tipicamente fiorentino e bisognoso di spiegazione (Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, ediz. Mazzoni-Casella, p. 774); o che già Guido da Pisa definisse fiorentini i succitati mezzule e lulla, e l'Anonimo, sulla fine del Trecento, antichi e volgari ‛ berza ' (If XVIII 37) e ‛ accaffare ' (XXI 54); che ‛ scuffare ', " mangiare avidamente " (XVIII 104) si ritrovi (nella forma " scuffiare ") in un testo programmaticamente aperto all'idiotismo come il Morgante; e così via per tanti altri casi. Ma, anche su questi fondamenti, non è sempre facile inquadrare i singoli vocaboli e le singole forme in un giudizio sicuro e definitivo.
Più vaghi indizi ci vengono dalla testimonianza di quegli esegeti che si misero alla ricerca di voci dantesche rare od oscure tra il popolo di Firenze o di altre parti della Toscana. Il Borghini osservava, per es., che rosta, " riparo " (If XIII 117) era inteso al suo tempo dai Fiorentini di pianura, " vicino all'Arno o al Bisenzio o all'Ombrone ", ma non di monte; e dichiarava, in altra occasione, di aver sentito ‛ brogliare ' (Pd XXVI 97) in bocca a " una balia di Casentino, credo, o di Mugello ". In tempi più recenti il Giuliani ritrovò rubecchio (Pg IV 64) nella montagna pistoiese, e ‛ piovorno ' (da cui il pïorno di Pg XXV 91, già attestato d'altronde nella frottola del Sacchetti sulla " lingua nuova ", v. 161: cfr. F. Ageno, in " Studi Filol. It. " X [1952] 413-454) in Val di Nievole. Può darsi che tra questi vocaboli si nasconda qualche fiorentinismo di livello popolare o familiare, ritiratosi in seguito in ambiti più ristretti o periferici; ma la scarsezza di testimonianze coeve non ci consente affermazioni troppo recise.
Bibl. - Sulle dispute pro e contro gl'i. danteschi si vedano i numerosi studi sulla fortuna di D. e sui suoi esegeti e commentatori, in particolare A. Vallone, L'interpretazione di D. nel Cinquecento, Firenze 1969, e U. Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e D. sullo scorcio del Cinque e durante il Seicento, in Con D. attraverso il Seicento, Bari 1946, 1-91. Sul passo del De vulg. Eloq. si veda il commento del Marigo nella sua ediz. dell'opera (Firenze 1957³), p. 112; e si aggiunga la nota di A. Castellani, in " Lingua Nostra " XI (1950) 31-34. Per lo stile comico v., sinteticamente, A. Schiaffini, A proposito dello ‛ stile comico ' di D., in Momenti di storia della lingua italiana, Roma 1953², 43-56. L'osservazione dello Schiaffini cit. sopra si trova nell'art. Note sul colorito dialettale della D.C., in " Studi d. " XIII (1928) 31-45, a p. 33 n. 1. Sui singoli vocaboli, oltre i dizionari e i glossari degli autori antichi, resta fondamentale lo studio di E.G. Parodi, La rima e i vocaboli in rima nella ‛ D.C. ', in Lingua 203-284. Per l'identificazione e la spiegazione dei singoli fiorentinismi (o toscanismi) v., fra gli altri, Studi sulla D.C. di G. Galilei, V. Borghini ed altri, pubblicati per cura ed opera di O. Gigli, Firenze 1855; V. Borghini, Ruscelleide ovvero D. difeso dalle accuse di G. Ruscelli. Note raccolte da C. Arlia, città di Castello 1898-99 (e il Saggio di scritti inediti di V. Borghini, a cura di P. Fanfani, in " L'Etruria " I [1851] 609-624 e 694-697); inoltre G.B. Giuliani, D. e il vivente linguaggio toscano, Firenze 1872 (e, dello stesso, Delizie del parlar toscano, I, ibid. 1912, passim); R. Caverini, Voci e modi nella D.C. dell'uso popolare toscano, ibid. 1877.