BONAFOUS, Ignazio
Nacque, nel 1758 circa, da Francesco e da Elena Margherita, ad Alba, dove visse con la moglie Teresa Barelli da cui ebbe quattro figli, esercitando il commercio e amministrando le sue terre. Fino dal 1793 aveva aderito al club giacobino torinese, capeggiato da G. Cerise, divenendo anzi l'esponente principale del radicalismo rivoluzionario d'Alba, di Asti e delle terre circostanti.
Sosteneva allora apertamente che le istituzioni repubblicane erano assai più adatte di quelle monarchiche per incrementare il commercio e l'agricoltura di ogni paese, mettendosi in cattiva luce presso le autorità costituite anche per la sua opposizione al clero, che dal pulpito scagliava fulmini contro i Francesi.
Quando nella primavera del 1794 ebbe inizio l'offensiva francese contro il regno di Sardegna, il B. venne coinvolto nella cospirazione giacobina che aveva il centro a Torino e che avrebbe dovuto favorire l'avanzata dell'armata rivoluzionaria con la cattura o addirittura con l'uccisione del re e dei principi reali. Costretto a fuggire, con sentenza del 4 luglio 1795 venne condannato a morte in contumacia, mentre i suoi beni mobili e immobili venivano confiscati; i figli furono addirittura privati dei redditi di una cascina che era a loro intestata. Il B. cercò dapprima scampo presso le truppe francesi a Loano, quindi si recò a Oneglia, territorio piemontese sulla Riviera di Ponente, dove già si trovava il giacobino toscano F. Buonarroti, giunto al seguito dell'armata francese nella veste di commissario nazionale dei territori occupati. Ad Oneglia, poco dopo l'arrivo del B., cominciarono ad affluire numerosi esuli dalle varie parti d'Italia, ma soprattutto dal Piemonte e dal Regno di Napoli.
Fu in questo incontro di giacobini italiani dalla provenienza così diversa che si cominciò a pensare alla unificazione italiana in termini politici. Da Oneglia il B. - divenuto attivo agente dei Francesi - di conserva col Buonarroti avviò una intensa corrispondenza con i patrioti rimasti nel Piemonte, e tenne i contatti fra questi e quello anche quando il Buonarroti, il 15 marzo 1795, fu richiamato a Parigi dal governo termidorista e imprigionato fino all'ottobre. Nel frattempo il B. si era trasferito a Nizza, dove continuò a svolgere incarichi politici e militari, recandosi spesso a Genova e mantenendo nello stesso tempo i contatti col Buonarroti - uscito di prigione e già impegnato nella cospirazione egualitaria di Babeuf -, cui inviava periodicamente rapporti come portavoce qualificato dei patrioti italiani raccolti a Nizza.
Proprio dal contatto fra il gruppo di esuli raccolti a Nizza intorno al B. e quello operante a Parigi sotto la direzione del Buonarroti nacque il "Progetto di governo rivoluzionario ossia repubblicano provvisorio per il Piemonte" con lo scopo di dare un valido aiuto all'armata d'Italia in cambio di un impegno unitario della Francia. Il progetto, che aveva trovato un sostenitore nel generale d'Augereau, fu affidato al Buonarroti perché lo patrocinasse presso il Direttorio. Egli infatti ne espose le linee essenziali al nuovo commissario presso l'armata d'Italia, il corso Cristoforo Saliceti, anche lui ex seguace di Robespierre ed ex proscritto dalla reazione termidoriana. Su consiglio dello stesso Buonarroti i patrioti del gruppo di Nizza, capeggiati dal B., al fine di realizzare i loro progetti, si misero in diretto contatto - prima a Genova e poi a Nizza - con il Saliceti e con il nuovo comandante dell'armata d'Italia, il generale Bonaparte, che si accingeva a passare le Alpi per attaccare gli Austro-Piemontesi.
Quando l'armata francese si avvicinò ad Alba, evacuata dalle truppe piemontesi, il B., accompagnato dal giacobino vercellese A. Ranza, precedendo l'avanguardia francese, entrò in contatto con i suoi concittadini e li convinse a proclamare l'indipendenza e ad innalzare l'albero della libertà prima dell'arrivo dei Francesi. Sorse così ad Alba la prima repubblica giacobina italiana, vale a dire una "municipalità rivoluzionaria" che, secondo i progetti dei giacobini italiani, avrebbe dovuto costituire il primo nucleo della repubblica piemontese-lombarda e forse anche italiana, ma che ebbe fine il 6 maggio 1796.
Sotto l'occhio compiacente dell'Augereau il B. fu nominato maire, mentre il Ranza assunse la carica di segretario del governo rivoluzionario provvisorio. Parlando a nome dei rivoluzionari del Piemonte, il B. ed il Ranza lanciarono tre proclami: uno diretto "al popolo piemontese e lombardo", l'altro all'armata piemontese e napoletana stanziata in Lombardia con l'invito ai soldati di seguire la causa giacobina, ed infine il terzo rivolto "ai parroci del Piemonte e della Lombardia".
L'armistizio di Cherasco (28 apr. 1796) portò un grave colpo a questo primo nucleo della futura repubblica italiana. Attraverso il contado di Alba passava la linea di demarcazione tra il territorio occupato dalle truppe francesi e quello lasciato ai Piemontesi. Le comunità rurali situate sulla sinistra del Tanaro furono quindi, ai primi di maggio, rioccupate dai soldati del re di Sardegna, mentre il 4 maggio il Bonaparte inviava ad Alba il Sérurier, che modificò la composizione della municipalità reintroducendo sette membri del consiglio municipale precedente l'occupazione francese. Il B. mantenne la carica di maire, ma insieme con i colleghi della municipalità dovette fare atto di sottomissione alla Repubblica francese. In tale modo veniva sancita la fine della repubblica di Alba.
I patrioti italiani se ne resero ben conto, poiché lo stesso giorno i giacobini piemontesi e napoletani al seguito dell'armata napoleonica, che si erano raccolti a Borgo San Dalmazzo, si precipitarono ad Alba e con l'appoggio del B. e del Ranza cercarono di spingere la municipalità a proclamare la propria libertà e indipendenza. La maggioranza del consiglio però si oppose, ed il giorno successivo fece una nuova attestazione di fedeltà al Bonaparte.
Poco dopo fu nominato agente della Repubblica francese ad Alba il Villetard, amico dei patrioti, il quale - in piena armonia con il B. volle che ad Alba le contribuzioni di guerra fossero pagate soltanto dai ricchi. Nel frattempo - e precisamente il 24 maggio - un gruppo di giacobini, capeggiati dal Pellisseri, questa volta proveniente da Cuneo, fecero un ultimo e vano tentativo per proclamare l'indipendenza di Alba.
In base a quanto era stato stabilito nella pace di Parigi il 15 maggio 1796, Alba doveva essere riconsegnata a Vittorio Amedeo III, cosa che avvenne il 19 giugno. Il B. si ritirò allora nelle sue terre al di là del Tanaro, ma le autorità piemontesi - che avevano posto una taglia su di lui - lo arrestarono nonostante che si trovasse in territorio d'Occupazione francese, e non senza maltrattamenti lo tradussero nelle carceri di Torino, da cui uscì grazie all'intervento dei Francesi.
Durante l'arresto il B., sapendo di essere già gravato da una condanna a morte, scrisse una lettera al sovrano in cui rinnegava la sua attività di cospiratore e si proclamava pronto a collaborare con il legittimo governo sabaudo.
Una volta liberato, non poté per altro fermarsi in patria per le vessazioni e le minacce cui era sottoposto, e dovette nuovamente abbandonare famiglia e interessi rifugiandosi presso l'armata francese, che seguì nella marcia in Lombardia vivendo con i proventi di "fornitore" dell'esercito, non senza fastidi politici.
Lo stesso B. ci fa sapere che a Brescia il comandante francese lo fece arrestare "come sospetto di complotto e di misure contro la sicurezza dell'armata francese"; ciò farebbe supporre che egli fosse membro della "Società dei Raggi" che, assieme all'idea unitaria, cercava di fare rivivere in Italia il radicalismo del Robespierre sconfitto in Francia con la repressione di Termidoro e dei babuvisti. Di questa società del resto facevano parte amici intimi del B., come il Cerise ed il Pellisseri, anch'essi seguaci del Buonarroti fino dai tempi di Oneglia.
Nel 1798 il B. ottenne la cittadinanza cisalpina per benemerenze patriottiche; l'anno dopo però, in seguito ai rovesci francesi, dovette nascondersi, fuggire presso il generale Joubert e andare un'altra volta esule in Francia ed in Liguria. A Genova fu di nuovo arrestato, questa volta per debiti, in seguito alla denuncia di "una società di negozianti arrabbiati aristocratici" che non volevano tener conto della momentanea impossibilità da parte del B. a disporre dei beni posseduti in Piemonte e nel Mantovano. Tornato in Piemonte nel 1800 sotto il regime francese, fu considerato fra i "martiri"; forse per vivere in uno stato italiano indipendente, almeno di nome se non di fatto, egli preferì però trasferirsi nel Mantovano e precisamente a San Benedetto Po, dove aveva possedimenti e dove esercitò il mestiere di maestro di posta, non trascurando probabilmente nemmeno la mercatura. Dopo il periodo della municipalità di Alba, il B. - pur continuando a partecipare alla politica con assoluta fedeltà ai suoi principi unitari e democratici - cessò di essere una figura di primo piano.
Risale alla fine del 1814 la sua partecipazione, in contatto con i generali Giffienga e De Meester, alla cosidetta "congiura militare" promossa dalla "società dei Centri", emanazione della precedente "società dei Raggi". Scoperta la cospirazione, il B. riparò a Genova. Fece quindi ritorno nel Mantovano, dove visse ritirato nelle sue terre. Nondimeno, durante i moti piemontesi del 1821, fu sospettato dalla polizia austriaca di tenere i contatti fra i patrioti piemontesi e lombardi, nonché di assumersi per questi ultimi la fornitura di armi. Ugualmente, fu ancora sospettato di attiva partecipazione ai moti dell'Italia centrale nel 1831, e la sua casa venne perquisita; né è da escludere che quella clandestina fornitura d'armi che Ciro Menotti, secondo una sua lettera al Misley, era riuscito a procurarsi sullo scorcio del 1830 nel Mantovano, risalisse proprio al Bonafous.
Morì improvvisamente il 12 giugno del 1836 a San Benedetto Po.
Bibl.: C. Botta, Storia d'Italia dal 1789 al 1814, Parigi 1824, I, pp. 304 ss.; N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1778 al 1861, Torino 1877-1885, II, pp. 557 ss.; G. Roberti, Il cittadino Ranza, Torino 1880, passim; G. Sforza, L'indennità ai giacobini piemontesi, Torino 1909, ad Indicem; D. Olmo, La rivoluzione francese in Piemonte, in Rivista d'Italia, XVI (1913), 4, pp. 513 ss.; S. Pivano, Albori costituzionali d'Italia (1796), Torino 1913, passim. Questa bibliografia, impostata - salvo l'ultima voce - secondo gli schemi della storiografia sabauda, va integrata con gli studi più recenti del movimento patriottico-giacobino in Italia. Su di esso, ed in modo particolare sulla municipalità di,Alba, cfr. l'esauriente sintesi e la nota bibliografica in G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, I, Milano 1956, pp. 199-205, 419.
Essenziali inoltre sono P. Onnis, F. Buonarroti e i patrioti italiani dal 1794 al 1796, in Riv. stor. ital., s. 5, XXX (1937), 2, pp. 38-65; R. Soriga, L'idea nazionale italiana dal sec. XVIII all'unificazione, Modena 1941, ad Indicem; A. Saitta, F. Buonarroti e la municipalità provvisoria di Alba, in Belfagor, III (1948), pp. 587-595; Id., Struttura sociale e realtà politica nel progetto costituzionale dei giacobini piemontesi, in Società, V (1949), pp. 436-475; Id., F. Buonarroti, I-II, Roma 1950-1951, ad Indicem; A. Galante Garrone, Primo giacobinismo piemontese, in Il Ponte, V (1949), 8-9, p. 954.
Per l'attività patriottica del B. nel periodo successivo alla repubblica di Alba si vedano le notizie biografiche raccolte da D. Spadoni, Milano e la congiura militare nel 1814 per l'indipendenza italiana, Modena 1937, ad Indicem; nonché i brevi cenni in A. Bersano, L'abate F. Bonardi e i suoi tempi, Torino 1957, ad Indicem.