Il 1848 e dopo
"Sarà difficile al futuro storico della rivoluzione", scriveva nel luglio 1848 nel suo diario Carlo Leoni, un patriota - e storico - padovano che era riparato a Venezia dopo la riconquista austriaca della sua città, "render cagione della subitaneità e rapidità del movimento dopo 33 anni di profondo sopore massimamente nel Veneto ove da secoli non s'era compiuta nessuna ribellione ad opera del popolo"(1). Tre anni più tardi Niccolò Tommaseo dipingerà in versi la rivoluzione del 1848, della quale era stato a Venezia uno dei protagonisti, come un "sol novello", che "ratto gigante dal mar si levò: / non ebbe aurora; e, orribilmente bello, / l'aria e la terra di fiamma inondò: / poi, come in acqua fa spranga rovente, / lungo-stridente nel mar si tuffò"(2).
Due letture rapsodiche del 1848 diverse nella forma e nell'ispirazione, ma che hanno in comune il riconoscimento di una contrapposizione radicale tra l'età della Restaurazione e la rivoluzione di metà secolo: da una parte la pace, il "profondo sopore", le tenebre; dall'altra la guerra d'indipendenza, il risveglio, la luce splendente del "sol novello". Che il "gigante" della rivoluzione non avesse conosciuto "aurora" è certamente vero nel senso che da un lato, come ha sottolineato Marco Meriggi in relazione a tutto il Regno lombardo-veneto, "le insurrezioni di Milano e di Venezia [giunsero] inattese nelle loro modalità", senza che i gruppi dirigenti, che si posero alla loro testa, avessero elaborato un progetto eversivo di un qualche genere(3) e, dall'altro, il reciso rifiuto delle autorità austriache di intraprendere quella strada delle riforme sulla quale si erano incamminati, più o meno di buon grado, gli altri Stati della penisola nel 1847-1848, fece sì che il crollo improvviso del regime assolutista di Metternich fosse il detonatore di una deflagrazione generale, che consumò nel giro di pochi giorni, se non di poche ore, la possibilità di gettare un ponte qualsiasi tra il fantasmatico governo costituzionale di Vienna e le aspirazioni dei patrioti italiani.
Se ciò vale anche per il caso veneziano, è tuttavia opportuno ricordare che nella città lagunare il tornante istituzionale del marzo 1848, vale a dire la proclamazione - per Daniele Manin: il ripristino - di una Repubblica veneta, fu interpretato, su un altro piano, quale uno sbocco coerente, anzi il coronamento, dell'ultima fase della Restaurazione, di un periodo che a Venezia era stato di notevole espansione demografica (gli abitanti erano aumentati, tra il 1832 e il 1846, da meno di 99.000 a quasi 128.000)(4) e di vivacità economica. Anche se quest'ultima linea di tendenza era stata in larga misura un riflesso del trend ascensionale della monarchia austriaca negli anni 1830 e 1840(5), mutuandone non a caso i limiti, dal ritmo non certo incalzante alle difficoltà di reperire dei capitali, tuttavia, dal momento che rappresentava in ogni caso, al di là delle sue contraddizioni, una radicale inversione di tendenza rispetto alla stagnazione dei primi decenni della Restaurazione, aveva comunque indotto, come si vedrà meglio più avanti, ad attribuire un'identità e un'immagine all'ex Dominante quanto mai contrastanti con quelle fino ad allora correnti.
Che la variante veneziana della rivoluzione del 1848, pur condividendo le cause, le caratteristiche e gli esiti dei moti delle altre aree dell'Europa investite dall'ondata insurrezionale(6), risultasse, proprio perché calata nello stampo della storia locale, più una continuazione che una negazione della Restaurazione, lo avrebbe messo in evidenza il 23 marzo 1848 Tommaso Locatelli, il proprietario-redattore della "Gazzetta Privilegiata di Venezia", su un giornale che all'indomani della proclamazione della Repubblica veneta aveva rinunciato al privilegio asburgico per diventare il "Foglio uffiziale" del nuovo governo: "il mondo, che non molto addietro chiamava Venezia caduta, che da poco incominciava a chiamarla risorta, or può dirla redenta; ed ella si redense da sé, senz'altro aiuto che quello del suo coraggio, della sua fede in sé stessa"(7).
"Venezia caduta": il quadro particolarmente depresso e deprimente della città lagunare negli anni della prima Restaurazione ("dappertutto palazzi cadenti, dappertutto rovine, dappertutto sfaccendati e schiere di mendicanti", scriveva tra il 1816 e il 1817 l'arciduca Ranieri d'Asburgo, il futuro viceré del Lombardo-Veneto)(8) appare un fenomeno affatto tipico, nella sua radicalità, di Venezia, che non trova, ad esempio, un parallelo nella storia primo-ottocentesca dell'altra ex Dominante, Genova, e neppure nelle contemporanee vicende economico-sociali delle maggiori città della terraferma veneta. Ancora a metà degli anni 1830 il compilatore di un manuale ad uso dei viaggiatori dipingeva Venezia come un repertorio di "images de ruine et de désolation [...] dans tous les détails moraux et physiques": il turista doveva affrettarsi a visitarla prima che la città collassasse su se stessa(9).
L'irresistibile decadenza di Venezia non era diventata soltanto un diffusissimo luogo comune della letteratura romantica, da George Byron a Percy Bysshe Shelley(10), ma aveva anche influenzato la politica austriaca nei confronti della città. Quando, a metà degli anni 1820, l'allora patriarca di Venezia Giovanni Ladislao Pyrker si recò a perorare a Vienna la causa delle sue povere pecorelle (due veneziani su cinque erano in condizioni tali che avevano il diritto di beneficiare dell'assistenza pubblica)(11), dovette superare l'opposizione di un influente esponente della corte asburgica, il quale era convinto che fosse del tutto inutile adottare dei provvedimenti a favore della città lagunare, dal momento che "di lì a 40 o 50 anni si sarebbe ridotta ad un mucchio di sassi"(12).
Il topos della Venezia in cammino "verso la sua rovina finale"(13) continuò a godere di una certa fortuna anche nei prosperi anni 1840. Lo testimonia uno scrittore amico di Théophile Gautier, Arsène Houssaye, che visitò la città nel settembre del 1846. Venezia era "un glorieux sépulcre, comme Jérusalem", "une ville qui s'éteint", "plutôt le souvenir de la vie que la vie elle-même". Nei teatri della città erano messe in scena "des représentations données par des ombres à un rêveur demeuré par hasard debout sur les ruines du monde", mentre il carnevale non era altro che "une procession de spectres qui chantent un De profundis sur tout ce qui fut beau et amoureux à Venise, quand Venise était la reine du monde". Houssaye non ignorava i tentativi di riimmettere la città nel circuito della modernità, ma, "dans l'état où est tombée Venise", perfino "ce chemin de fer semble moins destiné à y conduire qu'à sauver les débris de la ville à son dernier jour". In conclusione, secondo lo scrittore francese "on tente en vain de sauver Venise d'une mort prochaine", perché "il n'y a plus de ville là où l'on n'entend plus battre le cœur du peuple". In altre parole, era la crisi 'morale', identitaria, all'origine della crisi 'fisica' di Venezia. La città scontava la scomparsa del "peuple de la République", di quel popolo che si era guardato bene dallo svegliarsi "pour mourir, [...] écriant comme le poëte: 'Qui vivra sera libre, et qui meurt l'est déjà!'". Dov'era finita "la République de Venise? Dans la tabatière de M. de Metternich"(14).
Il 1848 avrebbe mandato in pezzi, tra le altre cose, anche la tabacchiera del cancelliere, la Repubblica veneta sarebbe stata restituita alla storia e il "peuple de la République" si sarebbe comportato come aveva preteso il poeta citato da Houssaye. Ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a far svanire dagli orizzonti il fantasma della Venezia caduta, di una Venezia condannata ad un'estenuante agonia. Avrebbe continuato a rievocarlo, tra gli altri, John Ruskin in un'opera che riproponeva la tesi di Houssaye in termini cronologici ancora più impegnativi (la causa della decadenza di Venezia non era più fatta risalire alla fine della Repubblica marciana, ma era retrodatata al Quattrocento, all'epoca in cui la fede religiosa e lo stile gotico erano stati soppiantati dal classicismo paganeggiante) e accentuava la divaricazione tra le pietre, le "deboli immagini della città perduta, mille volte più fastosa di quella che esiste ora", affascinanti testimonianze del passato nonostante che fossero - anzi forse proprio perché erano - in rovina, e gli uomini, gli abitanti della Venezia contemporanea che erano dipinti, se appartenenti alla classe media, mentre "s'infingardiscono" nei caffè "leggendo giornali vuoti di contenuto" e, se usciti dalle "classi più basse", "oziosi e trascurati [...], tutto il giorno sdraiati al sole come lucertole"(15).
Pietre - o meglio lapidi - e uomini: un'opposizione che sarebbe ritornata pochi anni dopo sotto la penna di Ippolito Nievo per delineare un contesto assai diverso, quello del graduale recupero di un'identità cittadina. Quando Campoformido aveva decretato la fine della Repubblica, Venezia "cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere, ma quello che era veramente. Se questo primo esame di coscienza generò un frattempo di avvilimento, fu indizio di senno civile e di salutare vergogna". Nel corso della Restaurazione i "morti solo da ieri, già cominciarono a rivivere". Tuttavia, "non potendo migliorare le istituzioni, e studiare e amare gli uomini", essendo loro interdette le vie della politica, i "nostri letterati" imboccarono la strada dell'erudizione, tentarono di "rianimare le mummie", si prodigarono nella salvaguardia delle memorie del passato ("scavare antiche lapidi")(16), con l'obiettivo di sottrarre quanto rimaneva della grandezza di un tempo alla rovina che lo minacciava.
Anche a detta di qualche osservatore straniero il grande merito della Venezia del primo Ottocento era stato quello di aprire "quelques refuges", quali l'Accademia di Belle Arti e gli archivi dei Frari, "les plus vastes du monde", a "divers monuments", che altrimenti la città avrebbe perduto, monumenti per un certo verso preservati anche da operazioni editoriali quali Le fabbriche più cospicue di Venezia - "il testamento" della città a detta di Antonio Selva, uno dei curatori dell'iniziativa - e le Inscrizioni veneziane di Emmanuele Antonio Cicogna(17). Come sottolineava la "Gazzetta Privilegiata di Venezia" nel 1835, anche sul piano urbanistico le autorità veneziane s'erano proposte di conservare la città "quanto si può ai posteri quale a noi l'ebbero lasciata i nostri padri": era stato quindi necessario "riparar[la]" e "assicura[rla] in ciascheduna delle più cospicue sue fabbriche" affinché "sino alla remota età dura[sse] meraviglia del mondo".
Il quotidiano intendeva spezzare una lancia contro quelle "gazzette e giornali, ecc. i quali escono alla luce in paesi non italiani", che dipingevano una Venezia "tutta rovinosa e impraticabile pressocché in ogni sua strada e in ogni suo canale" e, soprattutto, contro l'altrettanto diffusa convinzione che "tanto deperimento" fosse "colpa dell'attuale Governo"(18). Anche se non mancavano alcuni accenni alla "graziosissima sovrana concessione del Porto-Franco", allo scavo del porto, "al più facile tragitto de' navigli" e al nuovo cimitero nato dall'unione delle isole di S. Michele e di S. Cristoforo, che si voleva potesse "rivaleggiare con quegli altri Cimiteri delle nostre vicine città, i quali divennero omai celebratissimi", vale a dire sui tentativi di restituire a Venezia una funzione commerciale e di trasformarla in una città di servizi nella scia di quanto avveniva in terraferma, è evidente che l'accento della "Gazzetta" cadeva sul restauro e sulla conservazione di quanto era stato ereditato dal passato(19).
La convinzione, cara all'erudito Giovanni Rossi, che Venezia "è museo a sé stessa"(20) e che di conseguenza il nuovo doveva essere posposto alla preservazione del vecchio, fu ribadita con forza, quando si discusse in consiglio comunale circa il "monumento da erigersi in [...] onore" dell'imperatore Ferdinando I in visita alla città. Il progetto di un ponte di ferro tra S. Maria Zobenigo e S. Gregorio sostenuto da Antonio Zen fu abbandonato a favore del restauro di Ca' Foscari: in quell'occasione fu un altro nobile veneziano, il conte Tomà Mocenigo Soranzo, che fece prevalere la tesi che "in Venezia doversi prima pensare alla conservazione degli antichi monumenti periclitanti" e poi si poteva pensare a "innalzarne di nuovi"(21).
Quando, un lustro più tardi, Jules Lecomte rievocò la polemica, insinuando che "il progetto del ponte" era stato abbandonato perché troppo costoso, i curatori veneziani dell'opera aggiunsero al passo una nota, che precisava che in quell'occasione non era stata d'ostacolo "la cospicuità del dispendio", tanto che il Comune aveva deciso in un secondo tempo sia di restaurare "radicalmente il palazzo Foscari" che di "mandare ad esecuzione il grandioso divisamento" relativo al ponte(22). Nel 1844 Venezia era convinta di aver ormai voltato pagina: la gelosa gestione dell'eredità materiale e immateriale della Repubblica aristocratica, la lotta contro il degrado dei suoi palazzi e monumenti e le falsificazioni della sua storia, non solo non erano più considerate alternative ad un progetto di convinta modernizzazione, ma quest'ultimo veniva ad assumere una valenza identitaria. "Venezia un istante prostrata, muta sulle gloriose sue sponde, or ripiglia l'allegra sua vesta, torna con le sue feste a vivere nel passato", avrebbe scritto la "Gazzetta Privilegiata di Venezia" l'anno successivo, tirando, in sede di commento del successo dei rinnovati riti della tombola e della regata, le somme del nuovo corso. "Tutte accettando le più recenti conquiste della industria o della scienza a' civili bisogni si riconforta d'agi un tempo ignoti il vivere cittadino. Non infida al mare, cui apre più sicuro e libero il seno, ella stende a più stretto connubio alla terra la mano"(23).
La trasformazione della "città morta o che muore" della prima Restaurazione in una "città ben viva e che ha di che godere la vita" si era chiaramente profilata nel 1840, quando la "Gazzetta" era ancora una volta insorta contro l'ennesimo tentativo di offrire in pasto all'opinione pubblica straniera una Venezia "caduta". Ma in questo caso il quotidiano aveva soltanto alluso ai "tanti interni ristauri" e aveva invece preferito elencare tutti quei "sintomi di prosperità o progresso nella pubblica ricchezza", che avrebbero dovuto convincere l'interlocutore a mandare per sempre in soffitta lo stereotipo della "povera Venezia", dalla "Società mercantile che negozierà di parecchi milioni" alla "grandiosa fabbrica di panni, che gareggierà con le più sontuose straniere, e darà lavoro a centinaia e centinaia di braccia", dal progetto di illuminazione a gas, che omologava la città lagunare alle "più splendide metropoli" "come metropoli ch'ella è", alle "nuove opere della diga e della strada di ferro" e alle sei navi costruite "nel giro di pochi mesi"(24).
La Venezia degli anni 1840 continuava senza dubbio ad "attinge[re] nella grandezza di sue memorie una gran parte della sua attuale importanza", ma appariva nello stesso tempo "apparecchiata a nuovi ed avventurosi destini"(25), era diventata la protagonista di un "risorgimento"(26) talmente promettente da indurre Agostino Sagredo a commuoversi di fronte alla "nuova prosperità" dell'ex regina dell'Adriatico, "prosperità continua, crescente, gagliarda, comune ad ogni cittadino e tale da parere miracolosa"(27). La stupefacente parabola dalla "Venezia caduta" alla "Venezia [...] risorta", da una "Palmyre de la mer" condannata dalla natura e dalla storia ad essere "reprise par l'élément vengeur sur qui elle était une conquête" ad una "belle cité" nuovamente al centro di una rete di comunicazioni e di traffici internazionali e, su un piano più generale, restituita al progresso e alla contemporaneità, si consumava in maniera alquanto curiosa nell'edizione del 1842 di una guida per turisti, Venise et ses environs, redatta da Valery alias Antoine Claude Pasquin, bibliotecario del re dei francesi Luigi Filippo ai palazzi di Versailles e di Trianon.
Mentre il testo della guida riproponeva l'immagine di un "cadavre de ville [...] déjà froid aux extrémités" che non aveva "plus de chaleur et de vie qu'au cœur", tra S. Marco e Rialto, una Venezia in lutto percorsa da "tous ces gondoles tendues de noir, espèces de petits sépulcres flottants" e alla quale "un bon observateur" concedeva, alla luce della "rapidité de son déclin", tutt'al più sessant'anni di vita(28), in una nota datata 1841 Valery ritrattava "les prophéties de malheur prononcées dans les précédentes éditions des Voyages, contre cette belle cité, et qui alors n'étaient que trop vraisemblables". Quali erano i motivi che avevano indotto il bibliotecario a cambiare idea? "Le port franc a ranimé Venise. La population qui baissait, s'est quelque peu accrue [...]. L'importance qu'a reprise l'Orient s'y fait de nouveau sentir; on vient d'instituer une société pour le commerce des Indes; une digue s'élève pour abriter les bâtiments étrangers; enfin, le chemin de fer de Milan doit en huit heures faire communiquer Venise avec la plus opulente des capitales de l'Italie"(29).
Il ponte ferroviario sulla laguna - inaugurato nel 1846 - doveva diventare il tornante emblematico del "risorgimento" di Venezia, di una città che abbandonava, per un certo verso, la sua insularità a favore di un'inedita scelta 'continentale': il ponte "crea condizioni nuove, allarga i rapporti mercantili e sociali, allaccia il continente alle nostre marine", anticipava sulla "Gazzetta" Jacopo Pezzato, uno degli uomini più vicini a Manin prima e durante il 1848-1849(30), "e se un tempo miravamo soltanto a quelle acque, che s'incurvarono sotto il peso delle nostre conquiste e dei nostri commerci, d'ora innanzi dovremo rivolgerci all'occidente, da dove le formidabili locomotive ci recheranno ogni dì le migliaia di viaggiatori e le migliaia di produzioni, e verranno a ricevere altre migliaia di viaggiatori e i carichi delle navi"(31). Sagredo andava ancora più in là, pronosticando che "il regno [...] formerà una città sola quando la strada ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta sarà compiuta interamente"(32). Quel che contava, in ogni caso, era che Venezia, come avrebbe insistito Pezzato, non fosse "convertita in un freddo museo"(33), che non fosse soltanto "la città delle grandi memorie", ma anche quella "delle grandi speranze e dell'avvenire"(34).
La lettura venezianocentrica del 1848 - dal "risorgimento" economico-sociale cittadino, causa e conseguenza di una ritrovata autostima di Venezia, ad un Risorgimento politico ad un tempo frutto "della sua fede in sé stessa" e inveramento "delle grandi speranze" nutrite negli anni precedenti - che Locatelli aveva proposto all'indomani della rivoluzione del 22 marzo, non sarebbe sopravvissuta, come è intuibile, alla resa della città agli austriaci. Karl von Schönhals, l'anziano aiutante generale del maresciallo Johann Joseph von Radetzky, avrebbe sì accolto la sequenza ternaria individuata dal giornalista veneziano - caduta, "risorgimento", rivoluzione - ma l'avrebbe declinata in modo da attribuire il merito del "risorgimento" a Vienna e da stigmatizzare la ribellione.
"La superba città delle Lagune, la cui decadenza trasse a lord Byron sospiri ed accuse, quanto naturali, ingiuste", avrebbe scritto nelle Memorie della guerra d'Italia degli anni 1848-1849 di un veterano austriaco, "era pressoché sepolta nelle rovine quando passò in mano dell'Austria. L'Imperatore la dichiarò porto-franco, ed i suoi palagi destituiti d'ogni valore trovarono nuovamente chi li comprasse, le sue cadenti fondamenta furono restaurate, e cominciava a riprender fiore, quando colla sua pazza rivoluzione annientò tutte quelle ridenti speranze [...]. Immensa ingratitudine fu il compenso che ottennero le sollecite cure dell'Austria per far rinascere a novella vita quella città". L'evento emblematico delle pulsioni masochistiche indotte dalla "pazza rivoluzione" era stata la distruzione della "stupenda opera del ponte [ferroviario] sulla laguna" da parte di "quella stessa popolazione al cui vantaggio era stata consacrata"(35).
Fuori del perimetro dell'Impero asburgico la rivoluzione veneziana del 1848 trovò invece degli ammiratori anche nelle file di coloro che non avevano dimostrato molto entusiasmo per la cosiddetta "primavera dei popoli". Di regola l'eroica difesa fu celebrata come una manifestazione del ricupero della grandezza del passato repubblicano. Inevitabile corollario di questa tesi fu un giudizio negativo emesso a carico della Restaurazione e, ancora prima, della decadenza settecentesca, che vennero considerate un avvilente intermezzo in una storia illuminata dalla gloria(36). "Venezia", scrisse ad esempio il francese Alexandre Le Masson, il quale pure non lesinava affatto i giudizi critici nei confronti di Manin e degli altri "uomini che l'opinione pubblica aveva chiamati al potere" nel 1848, "non ha imitato né la folle presunzione di Milano, né la sfrontatezza demagogica di Roma, né l'apatia di Firenze; sarebbesi detto che la saggezza dell'Italia si fosse, come nel medio evo, circoscritta nel recinto delle lagune [...]. Essa si è sinceramente consacrata alla propria causa e a quella d'Italia, ed è forse l'unica fra tutti i paesi insorti che meritasse miglior sorte [...]. Venezia, che non era ormai stimata che per le sue maraviglie artistiche, ha provato che il regime di compressione sotto il quale gemeva dopo il 1815 non valse ad estinguere in essa il sentimento d'indipendenza, né a farle dimenticare le sue tradizioni e la grandezza del suo passato. Essa diede una mentita alla sua fama di città molle, annegghittita nei divertimenti"(37).
Sulla stessa falsariga il verdetto emesso dal moderatissimo "Times" all'indomani del ritorno della città sotto il controllo degli austriaci: "la recente difesa della regina dell'Adriatico aggiunge un'altra pagina ad una storia in cui molte valorose azioni di guerra e molti risultati di una prudente linea di condotta sono riportati per l'ammirazione dei posteri. Non si conosce altro esempio nella storia di uno Stato - poiché Venezia isolata nel mezzo della sua laguna è uno Stato - che dopo un tale lungo periodo di frustrazione, nel quale era come se lo spirito nazionale fosse estinto, si sia risollevata dal torpore con tanto vigoroso effetto. Venezia e i suoi abitanti erano diventati quasi sinonimo di mollezza ed effeminatezza [...]. Ma mai un popolo reclamò la sua volontà di partecipare al consorzio delle genti virili d'Europa con uno spirito tanto determinato o in modo più efficace"(38).
Da una "città molle", effeminata, decadente ad una città "virile", valorosa, determinata, da una città "stimata" unicamente "per le sue maraviglie artistiche", per le sue pietre ad una città che, grazie al suo popolo, agli uomini, aveva ricuperato l'identità politica ed era ritornata ad essere Stato. "Ces deux années de luttes, d'épreuves et de sacrifices ne seront pas perdues" per Venezia, era la consolante conclusione dell'Histoire de la République de Venise sous Manin di Anatole de La Forge, "en rappelant l'attention publique sur une nation injustement dédaignée, elles ont montré au monde que Venise était digne encore de reprendre et de conserver la jouissance de ses droits historiques consacrés par quatorze cents ans d'indépendance"(39). Questo il lascito del 1848 veneziano per il mondo: quanto alla Venezia ritornata suddita austriaca, va segnalato che in uno degli ultimi discorsi, che tenne prima di prendere la via dell'esilio, Manin dichiarò, stando ad una cronaca coeva, che "lasciava la Patria per sempre [...], ma bramava di lasciare uomini probi e intelligenti, i quali volessero e sapessero mettere a profitto le libertà, onde promuovere specialmente gli interessi materiali"(40). In altre parole, il Risorgimento veneziano, se era stato sconfitto sul piano politico-militare, aveva avuto, in ogni caso, il merito di aver plasmato una nuova classe dirigente, quegli "uomini probi e intelligenti", dai quali ci si aspettava che si sarebbero impegnati, cogliendo le opportunità offerte da un'Austria formalmente ancora costituzionale, a favore dell'economia cittadina. Una volta tramontato il "sol novello" della rivoluzione, i veneziani ritrovavano, facendo di necessità virtù, un'identità nel "risorgimento" economico-sociale, in quella "prosperità materiale di questo paese" che Manin aveva cercato di promuovere, "secondo le [sue] forze", negli anni precedenti la crisi del 1848(41).
Il 10 giugno 1847 Manin intervenne all'Ateneo Veneto per proporre l'istituzione di una commissione che doveva individuare i "mezzi di ravvivare il commercio di Venezia"(42). L'intervento dell'accademia veneziana in un ambito che fino ad allora non aveva mai frequentato fu giustificato "con l'obbligo che hanno gli uomini di scienza e di parola di stimolare gli uomini d'azione"(43). Distinguendo - e ponendo in un rapporto dialettico - "gli uomini di scienza e di parola" da, e con, "gli uomini d'azione", Manin ci offre innanzittutto una chiave per comprendere il suo itinerario biografico - dall'uomo "di scienza e di parola" degli anni precedenti il 1847 all'uomo "d'azione" maturato tra il 1847 e il 1848 e impostosi con la rivoluzione del 22 marzo - ma illumina anche la dinamica dei rapporti vigenti all'interno della società veneziana più direttamente impegnata nel "risorgimento" degli anni 1840 e nella "redenzione" del 1848.
Manin era nato nel 1804 da un avvocato di modeste fortune, Pietro, "non ultimo fra gli avvocati del Veneto foro, il quale assai per tempo [gl]'inspirò e coltivò l'amore per lo studio, e principalmente per quello della giurisprudenza"(44). Il nonno paterno, Samuel Medina, si era convertito dall'ebraismo al cattolicesimo, assumendo il nome e cognome del suo padrino al fonte battesimale, il futuro doge Ludovico Manin(45). La Forge testimoniò che il padre di Daniele, un convinto patriota avverso all'Austria come alla Francia, era "blessé dans ses sentiments les plus intimes par le souvenir de la conduite honteuse du dernier doge de Venise" e che il "désir de voir cette tache effacée de son nom" sarebbe stato trasmesso al figlio(46): quel che è certo è che la lotta politica di Manin trovò una molla anche nella volontà di smentire tutto ciò che il comportamento dell'ultimo doge autorizzava ad attribuire al carattere dei veneziani(47). Daniele a tredici anni "aveva già terminato il corso degli studi ginnasiali e filosofici, ed in età d'anni diciasette quello degli studi politici e legali, e aveva ottenuta la laurea dottorale in quella facoltà" all'Università di Padova(48).
Il carattere assai avanzato della formazione intellettuale del giovane Manin(49) emerse al momento di scegliere l'argomento della tesi di laurea, che Daniele avrebbe voluto fosse sulla - o, meglio, contro la - pena di morte e che il padre ottenne invece che riguardasse la lex regia, una meno impegnativa ("una tesi facilissima anche per ogni più ignorante donniciuola", la definì Pietro) e più asettica questione del diritto romano. Da una frase di una lettera del padre ("è vero che si può perfino stampare contro li principii ammessi dal Governo, ma chi lo fa vien sempre preso di mira")(50) si ricava che Daniele non esitava di fronte alla prospettiva di urtare le autorità politiche, stiracchiando pericolosamente quei pochi spazi che sotto l'Austria erano concessi al dissenso: tale atteggiamento, se non può essere certamente considerato una precoce anticipazione di una lotta legale che l'avvocato veneziano avrebbe ingaggiato soltanto a partire dalla metà del 1847, segnala in ogni caso il robusto filo conduttore che connette il giovane Manin al futuro protagonista della rivoluzione del 1848.
Una delle obiezioni rivolte da Pietro al tema della pena di morte riguardava il fatto che si trattava "di cosa affatto straniera alla [...] destinazione" del ragazzo(51), una "destinazione" che va con tutta probabilità identificata, nei desideri del padre, con la professione di avvocato civilista. Tuttavia Daniele aveva anche altre frecce ed altri interessi nella sua faretra. Il primo impiego, che cercò di farsi assegnare una volta laureato, fu quello di coadiutore nella Biblioteca Marciana: tra i meriti filologici che si riconobbe nella domanda, fu la conoscenza di molte lingue straniere ("latina, francese, inglese, tedesca, greca ed ebraica"; si sa che aveva intrapreso lo studio dell'arabo) e una versione dal greco di un libro attribuito a Enoch, Degli Egregori, pubblicata nel 1820. L'interesse per le lingue era rivolto anche allo studio del dialetto veneziano: ne compilò una grammatica, presentò all'Ateneo Veneto, al quale fu aggregato quale socio corrispondente nel 1823, una memoria sulle sue origini, promosse la stampa del Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio.
Se si escludono i sette mesi trascorsi nel 1822 quale alunno di concetto gratuito presso la delegazione di Venezia, un incarico abbandonato a causa di una grave malattia agli occhi, che lo aveva colpito fin dall'anno precedente (ne era talmente afflitto che si era convinto che sarebbe ben presto diventato cieco e aveva quindi preso la decisione di suicidarsi prima di perdere del tutto la vista: aveva scritto "una lettera per la [sua] famiglia, ed una suggellata per Carolina" Fossati, il suo primo amore), nei dieci anni successivi alla laurea Manin fu un "uomo di scienza" non privo di capacità imprenditoriali. In questi anni di "speculazioni letterarie" la sua fonte principale di reddito fu un'opera massiccia su Le pandette di Giustiniano, che tradusse e stampò tra il 1824 e il 1828.
Nel 1823, quando morì un carissimo amico, Renier Zen, di cui condivideva il "modo di pensare", Manin lo ricordò in un necrologio, che fu anche un'occasione per tracciare un proprio bilancio personale. "Affliggevano sommamente" l'alter ego di Manin "il vitupero d'Italia, l'avanzare in fortuna dei peggiori, e la preclusa strada ad ogni fortuna dei giovani di qualche talento che non volessero avvilirsi"(52). Erano ben presenti a Daniele gli aspetti negativi strutturali di un sistema, quello austriaco, che offriva pochi e marginali spazi ai giovani laureati soprattutto se, come era il suo caso, il "qualche talento" non poteva essere opportunamente 'valorizzato' da una posizione sociale di primo piano(53). Nel 1825 ottenne dapprima un decreto che lo dichiarava maggiorenne, e poi si sposò con Teresa Perissinotti, che apparteneva ad una famiglia borghese di una condizione simile a quella dei Manin. Quattro anni più tardi morirono a Daniele entrambi i genitori: fu forse la speranza di ereditare la clientela del padre che l'indusse a sostenere l'anno seguente l'esame di avvocato.
Dopo diversi inutili tentativi ottenne nel 1831 un posto di avvocato a Mestre; due anni più tardi fu accolta la sua domanda di "traslocazione" a Venezia. Mentre era ancora un avvocato in potenza, Manin diffuse insieme ad alcuni amici, a quanto raccontò La Forge, un manifesto diretto a suscitare un'insurrezione a Venezia del tipo di quelle scoppiate nell'Italia centrale(54): fu in ogni caso l'unica concessione che fece al patriottismo di tipo romantico. Il Manin "uomo [...] di parola" volò basso negli anni 1830: fu il "risorgimento" economico degli anni 1840, che gli garantì una certa visibilità. Non si sa se La Forge riferì una convinzione di Manin, quando sostenne che le "manœuvres des banquiers" relative alla ferrovia Ferdinandea furono l'innesco della "longue bataille légale, économique et industrielle, soutenue contre l'Autriche par Manin et Tommaseo, afin d'arriver, en entraînant les masses, à reconquérir l'indépendance nationale" e che pertanto dovevano essere considerate "l'origine véritable de la révolution de Venise"(55).
Quel che è certo è che le più importanti iniziative finanziarie e industriali, che furono promosse a Venezia a cavallo dei decenni 1830 e 1840 (la Ferdinandea, la Società Veneta Commerciale, la fabbrica di panni feltrati...) e che videro Manin coinvolto in qualità di legale e - nel caso della Ferdinandea - di pubblicista a nome e per conto di uno dei 'partiti' di azionisti che si disputavano il controllo di queste società, contribuirono in misura significativa ad una ridefinizione del sistema delle relazioni interne alla costellazione dei gruppi dirigenti veneziani che, se per se stessa non influì più che tanto sulla genesi di una rivoluzione sovranazionale come quella del 1848, ne condizionò certamente gli sviluppi e gli esiti.
La novità più importante introdotta dal "risorgimento" ai piani alti della società veneziana fu l'abbandono della logica dell'apartheid, che informava il quadro istituzionale locale e che rifletteva a sua volta le scelte strategiche in campo politico-sociale operate dall'Austria nel Lombardo-Veneto(56). Nello specifico veneziano si possono distinguere, alla luce dei privilegi riconosciuti al censo, dei meccanismi e delle pratiche elettorali e della tassonomia politico-amministrativa - il sistema asburgico concedeva un diritto di rappresentanza, a seconda delle istituzioni, ai "maggiori degli estimati" (in larga maggioranza possidenti agrari) e ai proprietari di "un rilevante stabilimento d'industria o di commercio" (spettava a questi ultimi un terzo dei posti di consigliere municipale, mentre, come è ovvio, il loro braccio secolare era la Camera di commercio) oppure agli estimati nobili e non nobili (era il caso delle congregazioni centrale e provinciale) - sei gruppi principali: l'élite degli ex patrizi ai quali era stato riconosciuto nei primi anni della Restaurazione il titolo di conte dell'Impero(57); lo strato, più numeroso e generalmente meno abbiente, degli ex nobiluomini trasformati in nobili tout court; la nobiltà di estrazione diversa da quella patrizia (a Venezia in buona parte costituita da case appartenute prima del 1797 all'ordine dei segretari); i possidenti non nobili; i 'commercianti' non ebrei; e i 'commercianti' ebrei.
A Venezia i conti ex patrizi dominavano pressoché incontrastati il campo 'costituzionale', erano il gruppo dirigente delle istituzioni rappresentative(58): spettava ad essi di fatto la carica di podestà (va segnalato che lungo i decenni della Restaurazione soltanto i Municipi di Venezia e di Belluno ebbero una guida esclusivamente nobiliare), una quota parte elevata dei posti di assessore (a Venezia gli assessori non nobili furono meno di un nono del totale, mentre nel resto del Veneto furono poco meno della metà; nel 1848 a Venezia quattro dei sei seggi di assessore erano occupati da conti ex patrizi) e la maggioranza dei seggi di consigliere municipale, mentre prevalevano in seno alla congregazione provinciale (gli ex patrizi veneziani approfittarono più dei nobili della terraferma dell'opportunità concessa loro di essere presenti nel consiglio anche in qualità di deputati della città: la quota complessiva dei non nobili nella congregazione provinciale di Venezia fu pari ad un quarto del totale, mentre in quelle delle altre province il rapporto fu inferiore ad un terzo del totale; nel 1848 quattro seggi su sette erano occupati da ex patrizi ed un quinto da un nobile appartenente ad una casa di ex segretari) e a quella centrale (nella componente veneziana i nobili superarono i non nobili con un rapporto di sette ad uno, mentre per il Veneto nel suo complesso l'indice fu di poco superiore a quattro ad uno; nel 1848 due dei tre deputati erano conti ex patrizi e il terzo un nobile uscito da una casa di ex segretari)(59).
I conti ex patrizi controllavano anche le istituzioni veneziane di beneficenza, uno snodo fondamentale del potere locale: nel 1848 occupavano la metà dei posti nella commissione generale di beneficenza in Venezia, al cui vertice era collocato, dopo il patriarca, che ne era per statuto il presidente, il conte Daniele Renier, il più abile e influente degli ex patrizi veneziani lungo tutta la prima metà dell'Ottocento, mentre la commissione che dirigeva gli asili di carità (un istituto, quest'ultimo, di grande rilievo, in quanto ospitava più di milleduecento bambini) era composta unicamente da ex nobiluomini. Nella commissione generale di beneficenza erano presenti anche alcuni 'industriali' tra i maggiormente abbienti, da Giuseppe Maria Reali a Valentino Comello, da Spiridione Papadopoli a Pietro Bigaglia, ma in una condizione evidentemente subalterna, così come altrettanto subalterno appariva il ruolo assegnato al terzo dei consiglieri presenti in Municipio in rappresentanza dei 'commercianti'.
Si sa che a causa dei divieti di legge gli ebrei, gli ecclesiastici e gli impiegati dello Stato erano esclusi dalle istituzioni rappresentative e da quelle che ne erano una diretta emanazione, ma non va dimenticato che un'altra componente importante della vita cittadina era colpita di fatto da un'analoga interdizione, gli "uomini di scienza e di parola" evocati da Manin. In consiglio comunale gli avvocati, i medici e gli appartenenti alle altre professioni liberali erano delle mosche bianche e in ogni caso erano presenti in quanto possidenti. Quanto agli "uomini di scienza", se si considera tali quelli ufficialmente consacrati dall'Imperial Regio Istituto di Scienze, Lettere ed Arti(60), si scopre che soltanto uno dei ventisei soci effettivi e corrispondenti dell'Istituto residenti a Venezia (tra i quali quattro ex patrizi), Agostino Sagredo, era anche consigliere municipale, mentre un altro, Girolamo Venanzio, era deputato provinciale per i non nobili: un esito che non sorprende data la presenza nelle file dei soci di non pochi ebrei, ecclesiastici, impiegati dello Stato (insegnanti, ma anche ingegneri come Pietro Paleocapa e addetti ai tribunali come Cicogna) o del Comune (medici).
In una prima fase della sua storia(61) la Ferdinandea non uscì dai binari della logica 'separatista': espressione della Camera di commercio, vide alla sua testa nella fase aurorale una commissione di cinque 'commercianti', un vertice di cui il primo congresso dell'agosto 1837 consolidò il profilo, affiancando, all'interno di quella che era diventata, dopo l'ingresso dei milanesi, la sezione veneta della società, a Reali e a Francesco Zucchelli esponenti di primo piano dell'imprenditoria locale quali Papadopoli, Bigaglia e Jacopo Treves de' Bonfili, un quintetto riconfermato in blocco in occasione del congresso del 1840. Nel corso del 1841 quello che era stato fino ad allora gestito come "un affare di pecunia" divenne, come scrisse Pezzato, "un affare di patria"(62): il dibattito, sostanzialmente tecnico, sui percorsi della ferrovia (la linea delle città o la linea delle campagne? per Bergamo o per Treviglio?) si convertì in un'accesa discussione 'nazionalista', in quanto si individuò un duplice attacco degli 'stranieri' agli interessi lombardo-veneti, quello che era portato dai banchieri viennesi, che avevano investito nella società unicamente a fini speculativi, e quello, in larga misura coincidente con il primo, che veniva da coloro che si proponevano di ottenere un contributo da parte dello Stato, se non la statalizzazione dell'impresa. In entrambi i casi il 'nemico', il partito "antinazionale", poteva contare nella stessa Venezia su una quinta colonna formata da quei 'commercianti' che erano "preoccupati solo di seguire le variazioni dei listini".
Una campagna d'opinione, alla quale contribuì anche Manin insieme a Pezzato e ad un altro avvocato, Valentino Pasini, cercò di garantirsi "una maggioranza tutta italiana" in un congresso, quello nell'agosto del 1841, che sarebbe stato sospeso per le intemperanze degli azionisti(63). "Non seulement Manin et ses amis combattaient pour la justice, ils combattaient encore, et surtout pour la dignité et la réhabilitation morale des Vénitiens"(64) e dei lombardo-veneti in genere, in quanto erano convinti che la ferrovia dovesse essere un'opera "eminentemente nazionale", costituisse un banco di prova per "il paese", un'occasione per dimostrare che era "maturo alla civiltà del suo secolo"(65). Conseguentemente "il paese" doveva mobilitarsi per strappare il controllo della società ai finanzieri; bisognava "metter fede nei nostri signori, e ispirar loro coraggio": non solo i proprietari terrieri, ma anche i "forensi", gli "statistici" e le "persone d'affari" dovevano diventare azionisti della società; "la massa delle azioni" doveva essere "suddivisa nel maggior possibile numero di possessori"(66).
L'invito rivolto ai "signori", alla grande possidenza agraria, fu accolto dal conte Alvise Francesco Mocenigo, "uomo brillante ed ambizioso", "una delle figure più interessanti della Restaurazione a Venezia"(67). Nato nel 1799, dopo essersi laureato in legge, una scelta quanto mai singolare per l'erede di una delle più ricche case dell'ex patriziato, aveva tentato, senza molto successo, di fare carriera nella diplomazia asburgica; ritornato a Venezia, aveva sposato la figlia del governatore della Lombardia (e prima ancora del Veneto) Johann Baptist Spaur. Perfino quella mala lingua di Tommaseo ne avrebbe tracciato, nonostante la moglie austriaca, un ritratto piuttosto lusinghiero: "uomo notabile per ingegno acuto, facondia pronta, e ritraente de' vecchi gentiluomini, se non la dignità, l'amabile e composta eleganza"(68).
Mocenigo - avrebbe scritto La Forge, riflettendo con tutta probabilità l'opinione di Manin - era "assez ambitieux pour aimer l'éclat d'un rôle politique" ed era considerato "orateur éloquent et chef de l'aristocratie libérale"(69), una fama che nel 1844 avrebbe indotto Emilio Bandiera, che non lo conosceva di persona, ad indirizzargli una lettera da Corfù - dove l'alfiere di fregata era riparato dopo che era stata scoperta la società segreta Esperia, che con il fratello maggiore Attilio aveva costituito pochi anni prima in seno alla marina militare e che aveva poi affiliato alla Giovine Italia - nella quale lo proclamava, d'accordo con Giuseppe Mazzini, "l'Italiano cittadino di Venezia, cui al giorno delle opere", vale a dire quando sarebbe stata realizzata "una rivoluzione puramente democratica", "si potranno affidare i destini di questa cospicua città". Naturalmente il genero di Spaur si sarebbe guardato bene dal gettarsi in un'avventura rivoluzionaria patrocinata da Mazzini e avrebbe consegnato la lettera alla polizia(70).
Dal 1841 al 1845 Mocenigo fu il maggior punto di riferimento della componente veneziana del 'partito di Treviglio', lo schieramento 'nazionale' appoggiato da Manin. Sul finire del 1841 il conte riuscì ad ottenere che il Comune di Venezia approvasse l'acquisto di azioni di una Ferdinandea promossa nell'occasione a "nazionale impresa": anche se la delibera non ebbe alcuna conseguenza pratica (il governo l'annullò in quanto era stata approvata da consiglieri che erano anche azionisti della Ferdinandea), è evidente il significato simbolico del provvedimento. Al congresso della società del 1842 il 'partito di Treviglio' riportò una netta vittoria grazie all'assenza del grosso dei capitalisti stranieri. La nuova direzione della sezione veneta, sempre egemone in tutti questi anni nei confronti di quella lombarda, fu affidata ad un'inedita intesa tra l'élite 'rappresentativa' e due componenti estranee, di fatto o di diritto, all'area della rappresentanza. Furono eletti ai vertici della sezione due conti ex patrizi, Mocenigo e Pietro Francesco Giovanelli (nel 1847 sarebbe stato innalzato dall'imperatore al rango di principe, un titolo che riconosceva la posizione di spicco della casa in seno alla nobiltà veneta), due 'commercianti' israeliti, tra i quali Treves, e Lodovico Pasini, un fratello di Valentino, che era sì figlio di un industriale, ma che era anche un noto geologo e il segretario dell'Istituto Veneto, quindi il primo uomo "di scienza" cooptato dagli "uomini d'azione".
Tuttavia il sostanziale fallimento dei tentativi di convincere i "signori" ad impegnarsi sul terreno industriale e di creare un azionariato diffuso, coinvolgendo la media borghesia, le innumerevoli difficoltà e traversie incontrate dalla società e la politica ferroviaria di Vienna tendente ad una statalizzazione 'morbida' del sistema ferroviario austriaco congiurarono nel favorire la riscossa dei 'commercianti': al congresso del 1845, al quale Manin partecipò grazie ad una procura fattagli avere da Mocenigo, ritornarono ai vertici della società Reali, Papadopoli e Zucchelli(71). Nei primi anni 1840 Manin fu coinvolto anche nelle vicende della Società Veneta Commerciale, anche in questo caso in appoggio a quei conti ex patrizi come Alessandro Marcello e Carlo Albrizzi, che investivano anche in imprese commerciali e industriali, e "contre des banquiers viennois intéressés à l'affaire, et qui exigeaient la dissolution immédiate de la société en accomandite"(72).
Non si può affermare che l'amalgama 'nazionale' promosso da Manin e che riconosceva il suo asse nelle relazioni tra gli ex patrizi particolarmente abbienti e gli "uomini di parola" ad essi vicini talvolta 'organicamente' più spesso congiunturalmente (tra gli "uomini di parola", che avrebbero avuto un ruolo importante nel 1848, da Giovan Francesco Avesani a Giacomo Castelli e ad Angelo Mengaldo, i primi due furono consulenti di Reali nella questione della strada ferrata, ma affiancarono Manin nei congressi della Società Veneta Commerciale) fosse stato coronato dal successo. Le peripezie della Ferdinandea avevano senza dubbio dimostrato che la 'vera' Venezia non coincideva affatto con quella listata a lutto della mitologia romantica e che anzi la città lagunare era perfino in grado di dare dei punti, in quanto ad intraprendenza e vivacità, alla stessa Milano. Tuttavia alla resa dei conti le più importanti iniziative 'patriottiche' si erano rivelate di corto respiro oppure erano sfuggite al controllo di un capitalismo lagunare che oscillava tra le chiusure 'nazionaliste' e la tendenza a mettersi a rimorchio degli 'esteri' egemoni sui mercati finanziari.
Il bilancio in larga misura fallimentare della mobilitazione finanziaria 'nazionale' promossa da Manin, prima ancora che la congiuntura negativa che caratterizzò gli ultimi anni della Restaurazione in tutta Europa(73) e che mieté numerose vittime anche a Venezia (l'inflazione andò alle stelle: il prezzo del grano raddoppiò tra il 1845 e il 1847)(74), giustifica forse la nota funerea che l'avvocato, dopo aver segnalato alcune "strad[e] al risorgimento" del commercio veneziano ("una scuola di commercio e di nautica mercantile", approfittare del "ritorno del commercio Indiano all'antica via", ottenere il "passaggio della Valigia Indiana per Venezia", "l'istituzione d'un giornale di commercio"), collocò in coda all'intervento del 10 giugno 1847 all'Ateneo Veneto: "il Manin spera che il nostro non sia letargo di morte; ma ad ogni modo crede dovere e gloria il prolungare almeno questa agonia"(75). Non è forse un caso che sette giorni più tardi Manin presentasse, "ad illustrazione di ciò ch'avea detto l'altra tornata", il proclama della Serenissima del 2 settembre 1784, con il quale i "nobili allora sovrani" erano stati invitati "a prender parte o interesse col nome e coi capitali proprii" ad ogni "genere d'industria"(76). Ancora una volta gli "uomini d'azione" erano identificati, in primo luogo, con gli ex patrizi: la novità dell'intervento di Manin risiedeva nella cornice istituzionale prescelta, l'Ateneo, che consentiva, oltre al coinvolgimento degli "uomini di scienza", di abbandonare il terreno delle iniziative economiche specifiche a favore di un progetto che riflettesse gli interessi 'generali' della città e che proprio per queste sue caratteristiche potesse essere appoggiato da uno schieramento trasversale rispetto alle divisioni e contrapposizioni sociali e istituzionali della Venezia asburgica.
Le prove generali di questo schieramento erano già state fatte in marzo, quando Manin aveva redatto una supplica per chiedere che "la valigia delle Indie passi per Venezia" corredata della firma di sessantadue "cittadini", tra i quali il podestà Giovanni Correr, i sei assessori municipali, Mocenigo e altri ex patrizi di primo piano come Andrea Giovanelli, il fratello maggiore di Pietro, 'commercianti' quali Papadopoli e l'israelita Leone Pincherle, un amico intimo di Manin, e "uomini di scienza" come Lodovico Pasini(77). Sulla stessa linea il banchetto, dato il 21 giugno 1847, in onore di Richard Cobden, l'inglese promotore della libertà di commercio: promosso da Manin, Pincherle, Pasini, Avesani, Giovanelli, Sagredo e da molti altri veneziani, fu presieduto da Nicolò Priuli (Cobden aveva un interesse particolare per gli asili d'infanzia) e fu legittimato dalla presenza del podestà(78). Pochi giorni più tardi, l'8 luglio, Avesani tenne all'Ateneo "un suo discorso intitolato: Cenni intorno al principio proclamato da Cobden", che attaccava il protezionismo austriaco e in particolare il divieto di importare ferro estero: Manin ne appoggiò la proposta di costituire una commissione che "si desse a raccoglier fatti che provassero se la libertà di commercio sia utile o no". La seduta si chiuse con la recitazione di un "sonetto sulla morte di [Daniel] O'Connell a Genova, e la venuta di Cobden a Venezia"(79), i "deux agitateurs", di cui Manin era un "admirateur passionné" e di cui condivideva il principio "qu'on ne peut arriver à la liberté que par la légalité"(80).
L'iniziativa veneziana del 1847 di maggior rilievo fu il IX congresso degli scienziati italiani(81), che si tenne nel settembre di quell'anno con il sostegno finanziario del Comune e che vide una partecipazione di 'massa' (quasi millecinquecento 'dotti') ancora una volta sotto il segno, per quel che riguardava la componente lagunare, di una stretta collaborazione tra gli "uomini di scienza e di parola" e gli "uomini d'azione". Nella scia di una tradizione ormai consolidata, il consiglio comunale offrì "agli Scienziati venuti nella nostra città a tenervi il loro nono congresso, la descrizione di quanto in essa v'ha di più importante e curioso a sapere"(82): fu stampata, a cura di una commissione composta dal podestà, da due altri autorevoli ex patrizi, Priuli e Sagredo, e dai segretari dell'Istituto Veneto e dell'Ateneo Veneto, un'opera collettiva, Venezia e le sue lagune, in larga misura redatta dai soci delle due istituzioni culturali veneziane, tra i quali Sagredo, cui si deve la Storia civile e politica della Serenissima e lo stesso Manin, che si occupò della Giurisprudenza veneta(83).
Come ha sottolineato Gaetano Cozzi, Venezia e le sue lagune è "una grande opera: frutto di quella volontà di rialzare la testa, di ritrovare una propria strada [...] e della sua cultura, della sua passione civile; espressione di una città che non vuol più riconoscersi nell'immagine, per dirla con Gino Benzoni, di 'vedova derelitta avvolta in lugubri gramaglie' [...], che aveva assunto dalla fine del secolo" precedente(84), in altre parole va considerato il contributo culturale che suggellava il "risorgimento". E lo suggellava in una versione in linea con la strategia perseguita da Manin in qualità di "uomo di parola". In particolare nel suo saggio storico Sagredo, il cantore dei recenti "ammiglioramenti" della città lagunare, un "nobile borghesizzante" che condivideva "la visione di una società mobile e progressiva", vestiva il patriziato della Repubblica marciana con i panni di un'"attiva borghesia urbana"(85): i Mocenigo e i Giovanelli ne erano i legittimi discendenti.
Il titolo della guida segnalava che era "la nostra città" l'orizzonte prescelto dagli organizzatori del congresso: mentre tre anni prima in una circostanza analoga Milano si era presentata quale capitale della Lombardia(86), Venezia si rinchiudeva nelle sue lagune. Era una scelta dettata, più che dall'eventuale influenza di una chiusa ideologia municipalistica, dalla convinzione che Venezia fosse, come l'aveva celebrata nel Cinquecento Francesco Sansovino, una città "singolarissima", che aveva poco o nulla da spartire con la terraferma veneta e che, in ogni caso, la storia e la geografia congiurassero nell'assegnarle un'indiscutibile posizione egemone nei confronti delle 'sue' province. Venezia e le sue lagune anticipava, sotto questo profilo, uno dei limiti più evidenti della politica di Manin e, più in generale, della classe dirigente veneziana che la rivoluzione del 1848 avrebbe portato al potere, una visione dei rapporti tra Venezia e il Veneto dimentica dell'amara lezione del 1797 e, in ogni caso, incline a rimuovere il loro carattere problematico.
Il IX congresso degli scienziati consacrò Manin, agli occhi della polizia austriaca, che già lo teneva d'occhio e che aveva indotto il governatore del Veneto Aloys Pálffy von Erdöd ad intervenire per evitare che l'avvocato pronunciasse un discorso in occasione del banchetto in onore di Cobden, quale pericoloso "campione degli interessi nazionali italiani"(87). E, in effetti, "attentif à ne pas laisser échapper une occasion, l'orateur populaire de Venise demandait la parole sur toutes les questions de bienfaisance, de douanes, de commerce ou d'économie, afin d'enflammer la discussion". Alle spalle di Manin, secondo La Forge, "le comte de Thun, gentilhomme du Tyrol italien et le comte Mocenigo formaient le principal corps de bataille"(88). Quel che è certo è che nella sezione di agronomia, l'unica che consentisse un dibattito su temi economici, Manin si ritrovò in compagnia di Treves, Papadopoli, Reali e Valentino Pasini(89). Tra l'altro l'avvocato propose "l'istituzione in Venezia di un'associazione promotrice dell'agricoltura e della industria manifatturiera e commerciale" e insistette "sull'importanza di portare ad un punto comune l'azione delle associazioni agrarie"(90). L'obiettivo della "prosperità materiale di questo paese", la bandiera sotto la quale Manin avrebbe ricondotto i suoi interventi pubblici degli anni 1840(91), comportava la creazione e il consolidamento di una rete associativa a valenza economico-sociale parallela a quella disegnata dalle istituzioni ufficiali e, diversamente da quest'ultima, in grado di far convergere su un fronte comune i gruppi dirigenti della società veneziana.
Questa linea fu abbandonata o, meglio, aggiornata da Manin nell'ultimo scorcio del 1847, quando l'"agitazione legale" prese una piega manifestamente politica e gli sforzi principali furono diretti a rilanciare il ruolo delle istituzioni rappresentative, congregazioni centrali in testa, per far sì che anche il Lombardo-Veneto intraprendesse, nella scia degli altri Stati italiani, il cammino delle riforme. Manin aveva accarezzato un intervento in questa direzione fin da giugno, da quando cioè Leoni aveva proposto a Tommaseo una petizione che chiedesse la soppressione del lotto; il letterato aveva controbattuto con una supplica a favore di un "allargamento delle strettezze censorie" e l'avvocato, che aveva appena redatto o stava per finire di redigere il saggio sulla giurisprudenza veneziana destinato a Venezia e le sue lagune, aveva a sua volta suggerito una "riformazione" del processo penale. In quell'occasione Tommaseo e Manin s'erano detti convinti che in ogni caso la loro "vigilanza civile" non avrebbe dato frutti immediati ("le domande saranno fatte ire a vuoto, ma crede[vano] cosa debita che pur si domandi"), mentre il primo aveva individuato nelle contraddizioni tra "la legge censoria, qual giace in carta", che era "ampia assai", e una prassi quanto mai 'stretta' il grimaldello nelle mani dei riformatori(92).
Tutte e tre le petizioni - quella di Leoni a favore della soppressione del lotto, quella di Tommaseo sulla mitigazione della censura e quella di Manin sulla riforma del processo penale - si erano perse per strada(93) e quando, il 21 dicembre, Manin accese nel Veneto il fuoco dell'"agitazione legale", presentando alla congregazione centrale di Venezia la richiesta che, seguendo "l'esempio della sorella Lombarda", "nominasse una commissione" che "indagasse le cagioni" del "malcontento delle popolazioni", ne "studiasse i rimedi" e facesse "conoscere al Governo i bisogni e i desideri del paese"(94), andò evidentemente a rimorchio dell'analoga richiesta avanzata l'8 dicembre dal deputato centrale lombardo Giambattista Nazzari(95). Manin aveva tentato, invano, di convincere il deputato centrale Francesco Stecchini a diventare il Nazzari veneto e si era quindi risolto a presentare egli stesso l'istanza(96). Che l'avvocato non fosse, in ogni caso, un isolato Don Chisciotte, ma che potesse contare, al contrario, sull'appoggio di una componente importante dell'élite ex patrizia, che dominava gli spazi 'costituzionali' veneziani, lo avrebbero dimostrato gli interventi fiancheggiatori, tra il 28 e il 30 dicembre, del deputato provinciale Giambattista Nicolò Morosini, di cinque consiglieri municipali di Venezia (quattro dei quali ex patrizi) capeggiati da Mocenigo e della stessa deputazione municipale della città lagunare. Le istanze di Mocenigo e del Comune indicavano alla congregazione centrale un metodo, dal quale discendeva, sul piano dei contenuti, la proposta di una rifondazione costituzionale: il loro auspicio era infatti che le congregazioni veneta e lombarda collaborassero "per istudiare e dettare le uniformi proposte e domande da rassegnarsi a Cesare a vantaggio del Regno"(97), che, in altre parole, si creasse un fronte comune lombardo-veneto nella prospettiva di un superamento della logica dualistica adottata dalla patente del 1815.
Il 30 dicembre Tommaseo tenne un discorso all'Ateneo Veneto Dello stato presente delle lettere italiane, in cui ritornò sulla questione della censura nei termini anticipati sei mesi prima e che sfociò in una petizione all'imperatore(98): nel giro di pochi giorni quest'ultima fu sottoscritta da 321 cittadini(99), un indice eloquente della capacità di mobilitazione dell'"opinione legale" - come l'avrebbe definita lo stesso Tommaseo(100) - da parte degli "uomini di scienza e di parola" diventati, nella scia di Manin e dello scrittore, "uomini d'azione". Il 4 gennaio Tommaseo inviò le copie del suo discorso e della petizione corredata delle firme al barone Karl Friedrich Kübeck von Kübau, il presidente della Camera aulica generale (in effetti il Ministero delle Finanze) viennese, il quale era forse considerato un interlocutore affidabile non tanto a causa delle sue origini borghesi quanto per il ruolo che aveva avuto nel decidere i destini della Ferdinandea. Nella lettera a Kübeck furono anticipate le richieste dei veneti: "governo conforme all'indole della nazione - deputati che rappresentino efficacemente la volontà d'essa nazione - facoltà di manifestare ciascun cittadino i proprii e comuni desiderii in istampa"(101).
Quello stesso giorno Morosini presentò alla congregazione provinciale di Venezia un voto in effetti redatto da Manin, che illustrava, alla luce della patente del 1815, quanto aveva scritto Tommaseo nella lettera al ministro austriaco(102): la mozione fu approvata all'unanimità dalla congregazione. Il giorno seguente la congregazione centrale, che era presieduta, non va dimenticato, dal governatore, cedette di fronte alle pressioni delle istituzioni 'subalterne' e nominò una commissione che prendesse in esame "i bisogni e desideri di provvedimenti e riforme in materia di pubblica amministrazione"(103). L'8 gennaio Manin, che il giorno prima aveva indirizzato un'istanza a Pálffy, in cui gli faceva presente, ripetendo quanto aveva detto a voce al capo della polizia il 5 gennaio(104), che, se voleva che "l'ordine materiale non [fosse] turbato", era necessario "conceder molto, conceder presto, dichiarar subito la volontà di concedere", tornò alla carica presso la congregazione centrale elencando "le riforme che la condizione delle cose esige e la pubblica opinione domanda".
Le richieste, articolate in sedici punti, tendevano a trasformare il Regno lombardo-veneto in un "regno veramente nazionale ed italiano, con un monarca austriaco" e un viceré, "assistito da un consiglio di ministri" e "indipendente affatto" dai "dicasteri aulici di Vienna": le forze armate dovevano essere composte unicamente da italiani, separate le finanze del Regno da quelle dell'Impero e ridotto il debito pubblico. Le due congregazioni centrali dovevano fondersi in "una Dieta di regno, che riveda l'annuo budget, voti le imposte, i prestiti, le leggi nuove"; inoltre, dovevano essere "ampliate le attribuzioni delle congregazioni provinciali" e dei Comuni, "riformate le leggi elettorali" in modo che fossero "notabilmente estesi" "il diritto di elezione e la capacità d'essere eletto", concessa la libertà di stampa, riformati i processi, limitati i poteri della polizia, istituita la guardia civica, "emancipati gl'israeliti", inserito il Regno nella lega doganale italiana, riviste le leggi per adattarle alle esigenze del Regno. In coda ai sedici punti Manin collocava "tre desideri", che riguardavano dei "bisogni di prosperità materiale", la ferrovia Verona-Kufstein, il completamento dei lavori nel porto di Malamocco e il riconoscimento dell'indipendenza del magistrato di sanità di Venezia: anche se l'avvocato si attendeva da essi un "utile generale", era evidente che riflettevano soprattutto gli interessi della città lagunare(105).
Si trattava, nel complesso, di un progetto riformatore che, come lo stesso Manin avrebbe sottolineato, andava ben al di là delle "semplici riforme amministrative" (la linea moderata, sulla quale invece si sarebbe sostanzialmente arrestata la congregazione centrale lombarda)(106), ma tendeva ad omologare il Lombardo-Veneto agli altri Stati italiani, che avevano concesso o stavano per concedere la costituzione(107). In particolare la riforma delle leggi elettorali puntava ad un sensibile incremento del numero dei 'cittadini' "col diminuire la misura del censo" e "con l'aggiungere altre classi di persone, che per la condizione loro presentassero guarentigia d'intelligenza e di amore dell'ordine"(108): era prefigurato un nuovo quadro politico aperto anche alla partecipazione della borghesia delle professioni. Anche se, a quanto pare, questa istanza di Manin fu trattenuta in un cassetto dal governatore(109), l'avvocato riuscì comunque a diffonderla ampiamente e a discuterne il contenuto con due deputati centrali, Pietro Fabris e Angelo Doglioni(110).
Alla vigilia del loro arresto, mentre Tommaseo si muoveva in un ambito esterno rispetto alle istituzioni rappresentative, rivolgendosi ai frequentatori dell'Ateneo Veneto e più in generale all'opinione pubblica (avrebbe cercato anche di coinvolgere nel movimento patriottico i vescovi veneti con una lettera, che non fece in tempo a spedire)(111), Manin privilegiava i contatti con i centri 'politici' lagunari. In quale misura anche dopo la sua seconda istanza alla congregazione centrale si possa continuare a scorgere nell'avvocato soprattutto il portavoce e il consulente legale dell'ala liberale dell'ex patriziato, riesce assai difficile stabilirlo. È certo che Giovanni Minotto, un ex patrizio grandissimo amico di Manin (era uno dei tre che avevano preso parte al 'complotto' del 1831)(112), ebbe la sera dell'8 gennaio una "discussione [...] alquanto viva" con l'avvocato, al quale rimproverava di aver presentato delle "domande [...] esagerate e diceva che in tale opinione concorrevano molti altri"(113).
Tuttavia va osservato che Manin continuò a beneficiare di uno stretto rapporto con Mocenigo (alla vigilia dell'arresto dell'avvocato, il conte, che - non va dimenticato - era il genero del governatore della Lombardia, teneva Manin al corrente "delle pratiche di S[ua] E[ccellenza] il conte [Karl Ludwig von] Fi[c]quelmont", il braccio destro di Metternich, che il cancelliere aveva inviato a Milano con il compito di suggerire una riforma del Regno(114), con alcune personalità milanesi, che Ficquelmont aveva incaricato di redigere una "memoria ragionata" circa i problemi sul tappeto)(115) e che in un'informativa al tribunale il direttore generale della polizia di Venezia faceva sapere che "in Toscana si ritiene che l'agitazione che regna in queste Provincie è in gran parte opera di Manin, anche per maneggi privati, e vi si parla delle conferenze, che avrebbero avuto luogo di sera nello studio Manin ed Avesani, ove, oltre il deputato provinciale nob[ile] Morosini ed il conte Mocenigo, sarebbero intervenuti anche gli assessori municipali [Dataico] Medin e [Giambattista] Giustinian, ed altri trascinati dalle parole calde di riforme dell'avvocato Manin"(116).
Inoltre, quando, il 27 gennaio, Teresa Manin avrebbe presentato al direttore generale della polizia la richiesta di concedere al marito la libertà provvisoria, avrebbe potuto accompagnarla con un attestato, sottoscritto da una novantina di "ragguardevoli personaggi", che garantiva che l'avvocato, "posto ch'egli sia in libertà, non sarà per allontanarsi da Venezia, o per tenersi nascosto, finché non siano ultimate le investigazioni incamminate contro di lui". Tra i firmatari figuravano in primo piano i membri della congregazione municipale al completo, seguiti da una dozzina di ex patrizi di rango (da Mocenigo a Pietro Francesco Giovanelli, dai fratelli Martinengo a Vincenzo Girolamo Gradenigo, da Nicolò Bentivoglio a Sagredo, da Morosini a Minotto), da una marea di avvocati e notai (da un paio d'anni si erano organizzati in una società di mutuo soccorso), da una rappresentanza assai qualificata dei 'commercianti' consiglieri comunali (tra gli altri: Reali, Zucchelli, Spiridione Papadopoli, Antonio Missiaglia, Antonio Luigi Ivancich) e da un drappello di israeliti (tra essi: Treves, Abramo Errera, Samuele Della Vida)(117): in sintesi, forse non "tous les hommes les plus estimés de la ville", come avrebbe preteso La Forge, che avrebbe in ogni caso sottolineato il rifiuto del patriarca Jacopo Monico di dare il suo nome(118), ma certamente l'élite 'costituzionale' e sociale di Venezia(119).
Che, in ogni caso, l'asse primario tra i conti ex patrizi e gli avvocati liberali continuasse a dare i suoi frutti, l'avrebbe indicato la genesi dell'istanza che Avesani presentò il 14 gennaio alla congregazione centrale. Dopo che era stata installata il 5 gennaio la commissione suggerita da Manin due settimane prima, "uno dei deputati centrali, il conte [Giacomo] Benzon, si era rivolto all'avv[ocato] Avesani per essere da lui assistito in questo grave argomento. L'avv[ocato] Avesani stese per lui una carta in forma di voto e la lesse poscia al conte Benzon, il quale rifiutò di servirsene, allegando modestamente che sarebbe troppo facilmente riconosciuto che non era sua. Allora Avesani divisò riformare la carta e presentarla alla congregazione centrale in nome suo"(120). Redatta in appoggio all'istanza di Manin, quella di Avesani dimostrava, stiracchiando parecchio la storia, che molte delle richieste avanzate l'8 gennaio non erano un'"utopia impraticabile", dal momento che erano state accolte dal Regno d'Italia napoleonico(121).
L'"agitazione legale" promossa da Manin e Tommaseo aveva trovato in Pálffy e nelle altre autorità austriache nel Veneto una sponda senza dubbio ostile, ma anche incapace di arrestare, soprattutto a causa del precedente che si era creato a Milano, la macchina 'rappresentativa' messa in moto dall'intesa tra l'avvocato e alcuni ex patrizi assai influenti. Non erano mancati i tentativi di tenere sotto pressione quei personaggi, da Manin a Morosini e a Avesani, e quelle istituzioni, l'Ateneo Veneto(122), che erano in prima fila nella mobilitazione patriottica, ma, fintantoché a Vienna non prevalse, con l'appoggio determinante di Metternich, la linea dura auspicata da Radetzky e dai militari in genere e avversata da Ficquelmont, dal viceré Ranieri e da Spaur, il governo di Venezia procedette con una certa cautela. Il proclama imperiale del 9 gennaio, che giustificava di fatto la sanguinosa repressione dello 'sciopero del tabacco' avvenuta a Milano pochi giorni prima e che affidava unicamente alla "fedele devozione" dell'esercito il controllo del Regno(123), chiudendo in tal modo a doppia mandata la porta delle riforme(124), indusse la direzione generale di polizia a rompere gli indugi. Il 18 gennaio furono arrestati Manin e Tommaseo e aperto un procedimento contro Avesani e altri tre indiziati, una volta esclusa dal tribunale di Milano l'ipotesi del delitto di alto tradimento, di quello "di perturbazione della pubblica tranquillità"(125).
Anche se la svolta del 18 gennaio non interruppe i lavori della congregazione centrale veneta, che finirono per concludersi il mese successivo con l'approvazione di "un pacchetto composito di richieste"(126), è evidente che la brevissima stagione dell'"agitazione legale" si era esaurita. Gli spazi e i tempi favorevoli ad una mediazione erano stati bruciati dalla decisione di Vienna di cercare di impedire la rivoluzione del Regno tramite l'esibizione della forza militare e la repressione poliziesca. A Venezia e nel Lombardo-Veneto in genere l'"agitazione legale" non poteva che cedere il passo, in sintonia con - e in conseguenza di - quanto stava avvenendo in Italia, in Francia, in Germania e nello stesso Impero asburgico, ad un'agitazione rivoluzionaria destinata a travolgere il mondo della Restaurazione.
Il 19 febbraio 1848 Manin rese una lunga deposizione al tribunale criminale di Venezia, nel corso della quale spiegò che "il malcontento degli abitanti del Regno Lombardo-Veneto non [era] cosa nuova, né recente" e che, se il fuoco aveva continuato a lungo a covare sotto la cenere, ciò era stato determinato "da tre cagioni: 1. Dalla paura delle spie e dei processi della Polizia; 2. Dalla voce del Clero e del suo Capo, che predicava sommessione cieca, che censurava come contrario a religione ogni sentimento liberale, comprendendo sotto questo nome ogni desiderio di miglioramenti sociali; 3. Dal confronto con le condizioni degli altri Stati d'Italia, i quali tutti, eccetto forse la Toscana, si trovavano a peggior partito". L'elezione di Pio IX e le riforme del papa e degli altri sovrani italiani avevano tolto "i due ultimi sovraccennati impedimenti alla manifestazione del sentimento popolare in questo Regno", un sentimento che si era rapidamente tradotto in "innumerevoli [...] iscrizioni di W Pio IX, e non poche di: morte ai Tedeschi". Manin si era adoperato per scongiurare il "conflitto cruento", la "rivoluzione", che sarebbero stati l'esito inevitabile di uno scontro tra "la grande potenza militare dell'Austria" e i "molti" lombardo-veneti che ritenevano che "non poteva questo paese migliorare le sue condizioni se non sottraendosi alla dominazione austriaca". "Calmare gli animi, mostrando la possibilità di miglioramenti, senza rivoluzioni e senza sangue" e "persuadere i governanti ch'era giusto, necessario, urgente far concessioni": questo il doppio registro che aveva informato l'"agitazione legale" promossa da Manin(127).
Che "il malcontento degli abitanti del Regno Lombardo-Veneto" fosse diffuso e radicato ben prima del 1847-1848 lo avrebbe sostenuto anche l'ex commissario distrettuale Fortunato Sceriman in una rassegna Dei difetti del reggime austriaco data alle stampe nel 1849. "Non vi [era] né Corpo pubblico, né pubblico stabilimento, né classe alcuna di persone immune da fastidio e da malcontento o per la quasi privazione dei politici diritti, o per l'inceppamento dell'esercizio dei diritti civili o municipali" o "per l'enormità o mala distribuzione dei pubblici carichi" o "pei procrastinati giudizii, e tutti poi pel misticismo, l'insensibilità e il meccanismo coi quali ne' pubblici Uffizii si disimpegnavan i più vitali e pressanti affari". "Tuttociò", concludeva Sceriman, "alienava e i corpi morali e le masse e gl'individui sempre più dall'Imperiale governo, guastando ed adombrando l'effetto di numerosi sapientissimi provvedimenti e di quella crescente prosperità, della quale le nostre provincie e questa bella Venezia rendeano cospicua testimonianza"(128). Più precisamente fu il contrasto tra il ciclo decennale della "crescente prosperità"(129), con tutte le aspettative collettive e individuali che aveva suscitato, e la congiuntura negativa dell'ultima fase della Restaurazione che fece da volano alla diffusione del nazionalismo a Venezia e pose le basi della rivoluzione.
Si potrebbero ritenere a diverso titolo strumentali le affermazioni di Manin e di Sceriman riguardo al "malcontento" dei lombardo-veneti in generale e dei veneziani in particolare nei confronti dell'Austria. Ma anche nella lettera che Monico, un personaggio alieno da qualsiasi cedimento nei confronti dell'ideologia liberal-nazionalista, inviò il 14 febbraio a Ferdinando I, fu data per scontata la "diffusa esacerbazione" della "massa della popolazione", "una generale inquietudine" che rifletteva principalmente i "desideri di miglioramenti legittimi". Monico riconosceva anch'egli che "le forze preponderanti di Vostra Maestà [potevano] comprimere attualmente ogni aperta rivolta", ma faceva anche capire che, se gli eventi avessero richiesto "la cooperazione spontanea e fedele dei sudditi", il regime imperiale sarebbe stato spazzato via senza misericordia. A Vienna non solo ci si guardò bene dall'accogliere l'invito del patriarca a soddisfare "i giusti e modesti desideri di molti"(130), così come non conseguì alcun risultato la contemporanea missione - anch'essa "pour soliciter des concessions urgentes" - di una qualificata delegazione veneziana (la componevano il podestà, il delegato provinciale Johann Baptist Marzani von Steinnhof und Neuhaus e Andrea Giovanelli) nella capitale austriaca(131), ma si decise di adottare una linea ancora più dura, arrivando a promulgare, pochi giorni più tardi, la legge marziale(132).
La strategia del muro contro muro lasciava aperto soltanto un terreno di confronto tra Vienna e, nel nostro caso, Venezia, quello militare. L'esito sembrava scontato in partenza, dal momento che "la grande potenza militare dell'Austria" godeva di un vantaggio supplementare, il fatto cioè che "la città di Venezia offr[iva] per natura minori vantaggi di alcun'altra all'insurrezione del popolo". "Tosto che la guarnigione possiede la piazza S. Marco e la riva degli Schiavoni, ossia il molo, e che ne vengono barricati gli accessi, ossia le bocche di piazza", avrebbe scritto Giambattista Cavedalis, il maggior responsabile della difesa di Venezia nel 1848-1849, "il popolo rimane nelle angustissime vie o calli, imbarazzato in ogni suo movimento e tanto più se le truppe tengono l'arsenale, il ponte di Rialto e alcuni campi principali, come S. Salvatore, S. Luca, S. Stefano. Dei fucilieri sulle logge del palazzo dei dogi e nelle nuove Procuratie con qualche pezzo d'artiglieria sulla piazzetta, qualche scialuppa cannoniera sul Canal grande, la difesa riesce agevole e sicura e, col mezzo dei forti, s'interrompe affatto l'approvvigionamento delle vettovaglie e dell'acqua agli abitanti, intanto che la guarnigione fornita verrebbe dalla parte del mare"(133).
Ma questo scenario non teneva conto di alcuni fattori che, nel caso di Venezia, trasformavano "la grande potenza militare dell'Austria" in una tigre di carta, fattori che erano invece ben presenti al tenente-maresciallo conte Ferdinand Zichy, il comandante della fortezza di Venezia. In primo luogo, le forze armate nella città lagunare erano ben lontane, a causa della loro composizione etnica, dall'essere affidabili. È vero che Francesco I avrebbe voluto che i suoi popoli, che riteneva, giustamente, "estranei l'un l'altro", potessero controllarsi a vicenda, ad esempio inviando "gli ungheresi in Italia e gli italiani in Ungheria", ma in effetti la regola del divide et impera in campo militare era rimasta in larga misura inapplicata sotto il suo regno e sotto quello di suo figlio Ferdinando(134). Nei giorni della rivoluzione Venezia era presidiata da poco più di ottomila uomini, più o meno equamente divisi tra italiani (per lo più veneti) e altri sudditi imperiali(135). Si sa che tra gli ufficiali dell'esercito gli italiani e, in particolare, i veneti erano poco numerosi(136), ma in compenso la marina doveva essere considerata, come aveva scritto Zichy nel 1842, non austriaca, ma italiana(137), anzi, per quel che riguardava la maggioranza dei gradi intermedi e inferiori, veneziana e quindi la guarnigione che presidiava la città lagunare rischiava di trovarsi presa tra due fuochi. Infine, l'Arsenale, il maggior deposito di armi e di munizioni della città, dove lavoravano in una situazione di grande tensione più di milleduecento uomini tra operai veneziani e galeotti, era obiettivamente uno degli anelli più deboli del sistema militare asburgico.
A partire dal 18 gennaio, il giorno dell'arresto di Manin e di Tommaseo, Zichy tempestò di rapporti sempre più allarmanti Radetzky e le autorità viennesi. A Venezia cresceva il numero degli uomini "senza pane e senza lavoro", gli operai dell'Arsenale erano irritatissimi con una direzione che negava loro un aumento delle paghe che tenesse il passo dell'inflazione e che aveva imposto, ad opera del capitano di vascello e aiutante di marina Giovanni Marinovich, "d'origine dalmata, ma vestito della durezza austriaca, uomo probo e giusto e di sapere, ma aspro e pedante"(138), procedure e pratiche ritenute vessatorie, ci si aspettava che "la maggior parte della marina" si ribellasse "alla prima occasione", mentre le notizie del diffondersi dell'ondata rivoluzionaria da Palermo a Napoli e a Parigi infiammavano sempre più gli animi dei veneziani. Venezia era diventata, agli inizi di marzo, "una terra radicalmente ostile"; secondo Zichy erano assolutamente necessari altri quindicimila uomini per poter sperare di conservarne il possesso: una cifra abnorme, se si tiene conto del fatto che Radetzky aveva ai suoi ordini poco più di ottantamila uomini, e che di per se stessa denunciava il fallimento della politica del muro contro muro. Tutto ciò che il tenente-maresciallo ottenne dal comandante generale del Lombardo-Veneto, che rimase fino all'ultimo pervicacemente convinto che la situazione, a Venezia come a Milano, fosse del tutto sotto controllo, fu un battaglione di Grenzer (milletrecento uomini), che fu accasermato all'Arsenale, mentre un reggimento, che gli era stato promesso, fu bloccato a Trieste in seguito alla crisi seguita alla caduta di Metternich(139).
I quadri sempre più "foschi" - come egli stesso li definiva - dipinti dal governatore militare della città lagunare tenevano conto di un moltiplicarsi di segnali e di sintomi, che accomunavano Venezia a Milano e alle altre città del Lombardo-Veneto, quelle universitarie di Padova e di Pavia in testa a tutte, che si erano impegnate tra la fine del 1847 e la primavera del 1848 nella contestazione del regime austriaco, dallo sciopero del tabacco a quello del lotto, dalle collette a favore dei feriti nei moti di Milano e di Pavia al dilagare delle scritte patriottiche sui muri, dalle manifestazioni nei teatri (la più clamorosa ebbe luogo alla Fenice, quando il 6 febbraio arrivò la notizia che il re di Napoli aveva concesso la costituzione)(140) alle esibizioni di coccarde tricolori e di altri simboli nazionalisti. Ignoravano invece una novità caratteristica di Venezia, l'affratellamento, a partire dai primi giorni dell'anno, "d'individui dei due partiti Nicolotti e Castellani" - le due fazioni tra le quali si divideva tradizionalmente il popolo della città - tramite banchetti, ad uno dei quali aveva preso parte anche il podestà, e riti religiosi: il capo della polizia era convinto che "ciò avesse [avuto] luogo non tanto a cessare dalle rivalità rispettive" - che ancora nel 1845 avevano provocato un paio di morti - "quanto a dimostrazione della loro unione in senso nazionale"(141).
Tuttavia, dopo l'arresto di Manin e di Tommaseo, l'amalgama delle diverse componenti non solo popolari "in senso nazionale" era avvenuto, a quanto si sa, in assenza di un coordinamento(142) e quindi di un progetto che andasse al di là di una generica rivendicazione dell'italianità e, nel caso di una parte delle classi dirigenti, della richiesta di un'estensione al Lombardo-Veneto del regime costituzionale, la forma politica che si stava imponendo in tutta la penisola. Furono la caduta di Metternich e la contemporanea svolta costituzionale dell'Impero che costrinsero Venezia e il Regno in generale a riconoscersi, sul tamburo e sotto l'urgenza dell'incalzare di notizie più o meno vaghe e drammatiche, in un progetto politico. Nella crisi finale della dominazione austriaca nella città lagunare (17-22 marzo) gli attori principali furono, sul versante veneziano, la congregazione municipale, Manin e i suoi amici, il 'basso' popolo (in particolar modo gli arsenalotti di Castello) e gli italiani che vestivano la divisa imperiale, in primo luogo gli ufficiali di marina.
Quanto alle autorità austriache, giocarono, senza molta lucidità, sulla difensiva: i "difetti" principali del regime austriaco - il "misticismo, l'insensibilità e il meccanismo coi quali ne' pubblici Uffizii si disimpegnavan i più vitali e pressanti affari" - avevano abituato ad un tran tran amministrativo, che non poteva che collassare di fronte all'improvvisa accelerazione degli avvenimenti. La rete delle comunicazioni che univano i centri decisionali e/o operativi di Vienna, Milano, Padova (dove aveva sede il secondo corpo d'armata del Lombardo-Veneto) e Venezia funzionò malissimo: Pálffy e Zichy furono costretti a prendere le decisioni più rilevanti senza il conforto di informazioni e di direttive ufficiali. Le prime, incerte notizie dell'insurrezione viennese del 13 marzo arrivarono a Venezia la mattina del 16, quando la città e, in generale, le province venete apparivano ancora tranquille al console generale inglese Clinton G. Dawkins(143). Si diffusero voci di seconda e terza mano, che riferivano "dell'abdicazione al trono fatta da Ferdinando I a favore del nepote" Francesco Giuseppe, "di una reggenza [...] e di alcune concessioni favorevoli a' popoli".
In un primo tempo furono le "dame e [i] cavalieri, ed altre distinte persone" della buona società veneziana, i frequentatori dei caffè di piazza S. Marco e del Teatro la Fenice, a manifestare la loro "gioia" per quanto stava avvenendo nella capitale dell'Impero. Nel primo pomeriggio il passeggio della moglie del governatore fu interrotto da motteggi irrispettosi e da fischi, mentre "tutti" si affrettarono - il che non era più avvenuto dopo gli incidenti del 6 febbraio - a comprare i biglietti per lo spettacolo serale alla Fenice, dove si voleva evidentemente inscenare "qualche tumulto di allegrezza". Ma Pálffy, vuoi perché irritato dall'incidente capitato alla moglie, vuoi perché temeva le intemperanze del pubblico, "sospese la recita" e la serata si chiuse senza che le "distinte persone" potessero soddisfare il "desiderio di manifestare in pubblico la loro allegrezza"(144).
Tra quella notte e la mattina del giorno seguente gli amici di Manin e Tommaseo, tra i quali si distinse Morosini, presero contatti ai fini di una dimostrazione popolare a favore dei due prigionieri - assolti in primo grado, ma sempre in carcere in attesa del giudizio di appello - che si sarebbe dovuta tenere alle quattro del pomeriggio. Ma alle undici del mattino l'arrivo di un vapore da Trieste con la notizia che il 15 l'imperatore non solo aveva "soppressa [la] censura, sollecitata [la] pubblicazione d'una legge sulla stampa" e convocati a Vienna "gli stati e [le] congregazioni centrali, al più tardi pel 3 luglio p.v."(145), ma aveva insediato un nuovo ministero e promessa la costituzione, indusse ad anticipare i tempi. Una folla imponente (cinquemila persone, stando a Pálffy, addirittura diecimila secondo l'abate Vincenzo Marinelli)(146) con alla testa una commissione improvvisata diretta dal notaio Giuseppe Giuriati e comprendente alcuni avvocati, tra i quali Mengaldo, chiese al governatore di far liberare Manin e gli altri prigionieri politici. Dopo aver tentato di tergiversare e avendo saputo che la folla stava già dando l'assalto alle carceri, Pálffy diede l'ordine di porre in libertà "gli arrestati Nicolò Tommaseo e Ludovico [sic!] Manin"(147).
Quando uscirono dalla prigione, Manin e Tommaseo furono accolti da "une foule enthousiasmée, à la tête de laquelle on distinguait le comte Mocenigo"(148) (una presenza sottolineata da Manin tramite La Forge probabilmente per far emergere l'appoggio concesso alla manifestazione dai vertici aristocratici, una caratteristica che, unitamente all'ordine dato dal governatore, toglieva all'evento una qualsiasi valenza sovversiva) e portati in trionfo in piazza S. Marco, dove Manin "arringò il popolo inducendolo alla moderazione e alla quiete"(149), ma aggiunse anche che "vi hanno per altro tempi e casi solenni, segnati dalla Provvidenza, nei quali l'insurrezione non è pur diritto, ma debito"(150), parole che il capo della polizia e Pálffy finsero di non aver sentito(151).
"Alcuno era che la guidasse o incitasse, altro che un istinto fuori dell'ordine de' fatti comuni", avrebbe scritto Tommaseo a proposito della "resistenza" di Venezia in quei giorni(152), un giudizio certamente da sottoscrivere quanto alla manifestazione del 17 marzo, la quale, una volta raggiunto l'obiettivo di liberare Manin e Tommaseo, continuò sull'onda della "popolare letizia"(153). Come avrebbe scritto Cicogna nel suo diario, "girava [...] per la piazza quantità di bandiere tricolorate; [...] il popolaccio recava a braccia altri con cotali bandiere, altri coll'effigie di Pio IX; [...] altri alzavan le berrette sui bastoni a segnale di libertà e gli uni baciavano gli altri in segno di amicizia e frattellanza [...]. Altre dimostrazioni di allegria furon quelle di entrare nel campanile di San Marco [...] e sonarvi a doppio tutte le campane, il qual suono durò due ore, e l'altro segno fu quello di avere tirato su per tutti e tre gli stendardi una bandiera, conformata sul momento, tricolorata, e avervela lasciata, anche malgrado gli ordini, che il Governatore aveva dati per abbassarle tutte e tre, e principalmente una, ch'era la più grande e messa in miglior vista [...]. Maggiori dimostrazioni di gioia aveva dato il Casino de' negozianti sotto il quale con continui evviva con il popolo affollato, poiché aveva spiegati damaschi, sete, tele, ed altre stoffe tricolorate, e con signore, e signori battenti le mani, e spiegati fazzoletti d'ogni sorta all'aria insieme col sottoposto popolo"(154). "Nella piazza di San Marco gremita di popolo i cittadini lietamente commossi s'abbracciavano tra loro, e giovani e vecchi, senza distinzione di ceto, si aggiravano ebbri di gioia [...] Viva l'Italia! era il grido predominante"(155).
"Signore, e signori [...] col sottoposto popolo": la gerarchia urbana suggerita dallo schizzo tracciato da Cicogna parve incrinarsi man mano che dopo mezzogiorno la piazza "si faceva sempre più carica di gente venuta e da Cannaregio, e da Castello", dai quartieri più popolari. "Le grida viva l'Italia, viva Pio Nono furono più vivaci, lo strepito più sonoro; il perché credette il Governatore militare di ordinare il solito segnale di otto colpi di cannone indicante sommossa popolare"(156). La decisione di far intervenire le truppe per riconquistare il controllo della piazza fu presa, prima che da Zichy, da Pálffy, che non solo temeva che la manifestazione prendesse una pericolosa piega plebea, ma che assumesse anche una coloritura accesamente patriottica: in particolare le bandiere tricolori issate sui pennoni di fronte al Palazzo Reale erano considerate un attentato alla sovranità austriaca(157). Una carica con la baionetta dei soldati del reggimento Kinsky spazzò via la folla dalla piazza: vi furono alcuni feriti e contusi e un morto, un capitano di marina "assalito da apoplessia"(158).
Una volta che gli austriaci 'riconquistarono' il campanile e i pennoni (ma le bandiere italiane sarebbero state prudentemente tolte solo con il favore delle tenebre), si stabilì un'ambigua tregua tra le autorità asburgiche e il movimento patriottico veneziano. Nel timore che l'impiego della forza in piazza S. Marco fosse il preludio di una reazione generalizzata contro il movimento patriottico, Manin e Tommaseo si nascosero in case di amici, dove trascorsero la notte. Ma "la sera vi fu teatro alla Fenice pienissimo, e senza alcuno strepito, e le dame e altri con segnali tricolorati sollenizzarono la giornata", così come, una volta ritirati, su intercessione del patriarca, i soldati del Kinsky dalla piazza, in questa vi fu "un grande andirivieni di popolo più basso e minuto, altro non si udiendo che i soliti fischi e le solite grida di allegrezza, e i versi cantati in coro. Viva l'Italia, Viva la libertà, Viva Pio IX, e Dio che l'ha mandà, Viva la città, ecc. Così fin dopo la mezza notte giravano gruppi di gente, senza il minimo disordine, e senza che si vedessero né guardie di polizia, né guardie di sicurezza"(159).
Quando, la mattina del 18, Manin ritornò nella sua casa di S. Paternian, trovò ad attenderlo alcuni amici, tra i quali Mengaldo, di cui conosceva "ses craintes sur l'envahissement du communisme". Fin da quando era stato liberato dalla prigione l'avvocato aveva guardato più con timore che con compiacimento agli straordinari avvenimenti di quel giorno. Quando, dopo la trionfale processione che l'aveva condotto dalle prigioni in piazza S. Marco a casa, si era ritrovato tra le pareti domestiche con "les hommes les plus importants du mouvement", tra i quali Reali e Castelli, li aveva messi in guardia contro i rischi di una deriva 'anarchica': "la ville est toute entière dans les mains du peuple, mal armé de couteaux et de poignards; l'exaltation peut amener des collisions imprudentes avec l'autorité et nous plonger dans l'anarchie". La soluzione? "Organiser immédiatement une garde civique". Nonostante che i suoi amici avessero disapprovato il progetto(160), Manin aveva inviato Giacinto Namias, un noto medico, che era tra l'altro socio effettivo dell'Istituto Veneto e segretario per le scienze dell'Ateneo, "al governatore perché accordi la Civica". La "risposta [era stata] negativa"(161), benché Namias avesse tentato di fare appello al comune "intérêt de l'ordre"(162). Quando le temute "collisions imprudentes" erano avvenute, Manin si era decisamente rifiutato di "metter[si] alla testa dell'insurrezione"(163).
Quella dell'avvocato veneziano era "una chiara linea d'azione": "due direzioni di pensiero - la guardia civica come arma contro gli austriaci e come difesa contro l''anarchia' - si intrecciavano in modo compatto nella mente di Manin"(164). La mattina del 18 insistette con Mengaldo e con altri esponenti cittadini su questo secondo aspetto. La tesi che "la ville est au pouvoir des prolétaires" fece breccia su Mengaldo, su Fabris, il deputato centrale che Pálffy gli aveva inviato per chiedergli consiglio, e sugli altri interlocutori, con i quali ebbe modo di discutere la questione. Da casa Manin uscì una delegazione di otto membri guidata da Morosini per chiedere al governatore "d'armer les citoyens pour le maintien de l'ordre public"(165). Pálffy "dice non aver facoltà" e "a stento concede che vadano dal Viceré Fabris e Morosini". "Gli altri della Deputazione tornano presso Manin. Decidesi non potersi aspettare; doversi ottenere che il Municipio faccia esso la domanda al Governatore. Estendesi la minuta"(166).
Come sappiamo, la congregazione municipale aveva assolto un ruolo più o meno politico anche nei mesi precedenti, avallando, in particolare, le prime iniziative 'costituzionali' di Manin. Tuttavia quando, all'indomani degli incidenti del 6 febbraio alla Fenice, aveva osato protestare contro la polizia, ne aveva ricavato un "severo rabbuffo da parte del conte Pálffy e del Viceré, ed un richiamo a non ingerirsi più in cose di non sua spettanza"(167). Naturalmente dopo il 17 marzo tutto era cambiato. La sera di quel giorno un manifesto della congregazione aveva invitato il popolo alla calma(168). Le pressioni di Manin e dei suoi amici strapparono il podestà e gli assessori municipali da una posizione di mero fiancheggiamento del governo e restituirono loro il ruolo di principale interlocutore di Pálffy e di Zichy, un ruolo al quale l'élite cittadina, abituata com'era ad una funzione notabiliare, si adattò non senza difficoltà. D'altra parte la richiesta di una guardia civica dilatava di per se stessa in misura significativa le competenze del Municipio. È vero che in un primo tempo Manin aveva cercato di scavalcare la congregazione municipale, intavolando trattative dirette con Pálffy, ma la strada s'era rivelata impraticabile. Un'intesa dei patrioti, che avevano Manin quale loro punto di riferimento, con la congregazione municipale diventava quasi obbligata in una fase in cui le altre rappresentanze istituzionali, dalla centrale alla provinciale, brillavano per la loro assenza, fatta eccezione per singoli membri quali Fabris e Morosini.
Quando il podestà e gli assessori avevano già abbandonato Ca' Farsetti per consegnare a Pálffy la richiesta di "istituire immediatamente una guardia cittadina"(169), la situazione in piazza S. Marco precipitò. Come era avvenuto nel primo pomeriggio del giorno precedente, molti "prolétaires" ("contrabbandieri e macellai", nella sintesi ingenerosa di Manin)(170), tra i quali non pochi ragazzini, erano affluiti nella Piazza, taluni per chiedere l'elemosina "per amore dell'Italia"(171), talaltri perché "decisi a vendicare l'onta ricevuta pel tradimento del dopo pranzo" del 17(172). Quando i dimostranti, che erano guidati da un attore, Orazio Cerini, che si era già distinto nel corso della precedente manifestazione, e da un sensale, Eugenio Zen detto Segondina, cominciarono a scagliare pietre divelte dal selciato contro i soldati, questi ultimi reagirono con una successione di scariche a palla, che "uccisero cinque o sei persone [tra i quali Zen] parte sul fatto, parte poco dopo, e 15 oppur 16, come dissero, rimasero più o meno ferite, e portate alle loro case, o all'ospitale"(173).
Castelli e Reali si recarono in Municipio, dove Manin era rimasto con altri per stabilire quale organizzazione dovesse avere la guardia civica, per invitare il leader del movimento patriottico ad andare "sur-le-champ engager le peuple à se retirer". Ancora una volta Manin rifiutò di recitare una qualche parte negli scontri di piazza(174). I moti popolari e le pressioni della congregazione municipale, della congregazione centrale e del patriarca a favore dell'"immediata istituzione di una guardia nazionale prima che que' di Cannaregio, di Castello e d'altri siti della città scendessero armati in piazza, e con questo mezzo potessero anche andar qua e là saccheggiando le case de' cittadini, e i pubblici ufficii, massime sopravenendo la notte"(175) convinsero finalmente Pálffy a cedere. Il governatore cercò di limitare al massimo il peso della nuova, "provvisoria" forza armata(176), una "misura" definita "affatto temporaria ed eccezionale"(177), fissando un tetto di duecento uomini(178), affidando alla polizia la redazione del regolamento(179) e imponendo il vincolo di un servizio di pattugliamento "conjointement avec la troupe"(180), ma il Municipio, stimolato da Manin e dai suoi amici, si sottrasse ad ogni laccio e lacciuolo.
"In poco d'ora l'inscrizione n'era compiuta, e 100 pattuglie forti ciascuna di 16 uomini trovavansi formate ed armate del proprio. Il servizio fu subito attivato, e questa salutare determinazione raggiunse il suo scopo. Posta in movimento la guardia cittadina gli animi si aquietarono, e la calma si può dire quasi ristabilita"(181), in quanto, come avrebbe sottolineato Cicogna in una prospettiva che faceva emergere le paure dei borghesi, "la loro presenza mise in perfettissima calma il popolaccio, né alcuno de' mali intenzionati più si manifestò"(182). Il comando della guardia fu affidato a Mengaldo, che in gioventù era stato un ufficiale napoleonico, mentre alla testa dei sestieri furono collocati tre nobili, tra i quali i giovani conti ex patrizi Girolamo Gradenigo e Pietro Correr (quest'ultimo era figlio del podestà), e tre borghesi, il più noto dei quali era Giuriati. Un simile assetto a mezzadria aristocratico-borghese fu dato, per un certo verso, anche alla congregazione municipale, alla quale fu associata, informalmente dal 19 marzo, formalmente nella notte tra il 21 e il 22, una pattuglia dei "più stimati cittadini" che avrebbe compreso, nella composizione definitiva e nelle intenzioni del podestà, quattro avvocati (tra i quali Manin, Avesani e Castelli), un conte ex patrizio (Leopardo Martinengo), il 'commerciante' Reali, un nobile possidente terriero (Luigi Revedin) e l'israelita e 'commerciante' Pincherle(183). Una giunta di per se stessa rivoluzionaria, che aboliva le interdizioni che di diritto o di fatto avevano tenuto fuori del consiglio comunale ebrei e "uomini di parola" e che prefigurava un equilibrio sociale analogo a quello che era prevalso nel 1842 in seno alla direzione della sezione veneta della Ferdinandea, con la differenza che in questo caso gli avvocati non erano più dei consulenti 'esterni', ma erano collocati sullo stesso piano degli altri "più stimati cittadini".
Il successo nella mobilitazione della guardia civica e l'arrivo, la tarda sera del 18, della notizia ufficiale che tre giorni prima l'imperatore aveva promesso una costituzione e concesso l'istituzione della guardia nazionale (un provvedimento che non solo legittimava a posteriori quanto Pálffy aveva consentito a denti stretti, ma favoriva un ulteriore consolidamento della forza armata cittadina) fecero tornare per breve tempo il sereno in città. Un Impero asburgico costituzionale e rispettoso dei diritti nazionali sembrava mettere tutti d'accordo. E così, la sera del 19, come avrebbe riassunto Manin, "teatro La Fenice illuminato. Applausi al Governatore e alla moglie, a Zichy, a Correr; dopo il ballo, alla Costituzione, a Tommaseo, a Manin, alla Guardia Civica, ai colori nazionali"(184). Ma, come osservava la mattina di quel giorno il console Dawkins, ciò che era avvenuto il 18 aveva dimostrato che il governo aveva definitivamente perso ogni influenza sulla popolazione veneziana a tutto vantaggio del Municipio(185). Inoltre sotto la copertura dell'unanimismo costituzionale i patrioti potevano stringere legami sempre più stretti con i militari di nazionalità italiana di stanza a Venezia: cerimonie come "l'affratellamento", il 19, in piazza S. Marco di "Guardia Civica, cittadini, Wimpffen [un reggimento composto da veneti], Manin e simpatici granatieri [in maggioranza friulani]" indicavano che il controllo austriaco della città aveva le ore contate.
Il 20 marzo la guardia civica occupò "i siti più notabili della città, il Palazzo Ducale, il padiglione della Gran Guardia, la torre di S. Marco"(186) e si diffusero le prime notizie circa l'insurrezione di Milano contro Radetzky. All'embrassons-nous all'ombra dei colori bianco-rossi subentrò rapidamente la speranza o il timore di una svolta radicale. Il 21 Cicogna scrisse nel suo diario che "per le cose successe esteriormente in tutto il Regno, si teme assai presto un cambiamento, ma quale non si prevede". La decisione di alcuni alti funzionari austriaci di abbandonare Venezia ("questi tutti presagiscono che non vogliamo impiegati tedeschi", era l'impegnativo commento di Cicogna) e quella dello stesso governatore di mandare la famiglia in terraferma facevano in ogni caso capire che il terreno stava franando sotto i piedi dei vertici governativi(187). I patrioti temettero - o comunque preferirono accreditare la voce di - un colpo di coda da parte di un comando militare che si credeva avesse la sua anima nera in Marinovich. Fin dal 19 si erano diffusi "rumori d'insidie", a partire dal 20 circolò la notizia, che si doveva rivelare infondata, "di cannoni apparecchiati e di razzi imbarcati in un legno di contro alla città"(188), vale a dire che era nelle intenzioni di Zichy dare l'ordine di bombardare Venezia.
All'Arsenale la tensione raggiunse toni esasperati nel pomeriggio del 21: il 'traditore' Marinovich fu salvato dall'intervento di una pattuglia della guardia civica, che lo sottrasse alla rabbia degli arsenalotti. La sera di quel giorno il viceammiraglio e comandante in capo della marina Stefan von Martini prese atto, in un rapporto inviato a Vienna, dell'"odio generalizzato nei confronti del colonnello Marinovich", un odio così violento da indurlo a ritenere che il colonnello non potesse essere conservato nel suo incarico; quanto alla situazione generale, vedeva tutto nero: "il governo in pratica non ha più autorità"(189). L'"ammutinamento degli operai dell'Arsenale"(190) fu sfruttato dalla congregazione municipale per chiedere a Pálffy, in quelle stesse ore, che fossero "rimosse le cause prossime di conflitto", da un lato allontanando da Venezia il reggimento Kinsky e i Grenzer e dall'altro somministrando a "questa brava Guardia Civica" "i fucili e le munizioni occorrenti al santissimo scopo", quello di "impedire le straggi della città"(191).
In sintesi, il Municipio chiedeva che il controllo militare di Venezia fosse completamente affidato agli italiani. Un primo passo in questa direzione era stato compiuto, sul piano simbolico, nel pomeriggio, quando erano state riparate "le corde degli stendardi nella piazza per erigersi domani (22 corrente) le bandiere tricolorate". Certo, non si poteva escludere che gli austriaci intendessero resistere, come stavano facendo a Milano, ad ogni costo. Ma anche in questo caso vi era chi era pronto a pronosticare che avrebbero avuto la peggio, dal momento che, come scriveva la sera del 21 un Cicogna ormai in preda alla vertigine patriottica, "tutta la Terraferma nostra è armata e pronta a soccorrere i veneziani"(192). Come è ovvio, il ritiro o comunque la neutralizzazione delle truppe non italiane di stanza a Venezia avevano necessariamente delle ricadute politiche. Manin non era il solo a rendersi conto che l'insurrezione di Milano aveva cancellato la possibilità di un'intesa tra i lombardo-veneti e Vienna che corresse sui binari delle concessioni imperiali del 15 marzo e delle richieste che aveva avanzato l'8 gennaio. Ma, allora, quale sbocco istituzionale si poteva e si doveva dare alla crisi veneziana?
Nel corso della giornata e soprattutto la sera del 21 la questione fu dibattuta in casa Manin e dalla congregazione municipale 'allargata' senza che si riuscisse a raccogliere i consensi intorno ad un progetto comune. Certo, "un Governo temporario, un Comitato, che assum[esse] la direzione degli affari delle provincie"(193) al posto del governo di Pálffy, era più che ragionevole, vista la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, metterlo in conto. Ma quali procedure bisognava attivare per costituire il governo provvisorio, da chi doveva essere composto e, soprattutto, quale doveva essere la sua cornice costituzionale? Pincherle "più volte aveva promosso a' suoi colleghi", vale a dire alla congregazione 'allargata', "il quesito: Se venisse giorno che cessasse in Venezia la dominazione austriaca, avrebbe il Municipio forza e coraggio d'assumere egli stesso il Governo?"(194), ottenendo alla fin fine la risposta che la congregazione intendeva "sostenere bensì le attribuzioni municipali, ma non assumerne di più estese"(195), una scelta 'strategica' - al di là, come vedremo, degli ondeggiamenti del 22 marzo -, una scelta che appare dettata non tanto dalla speranza dei conti ex patrizi al vertice del Municipio di evitare di compromettersi nei confronti degli austriaci quanto dalla loro consapevolezza di non essere all'altezza dei compiti imposti da "un Governo temporario" e, in ogni caso, dalla convinzione che non era opportuno che abbandonassero le spiagge notabiliari per avventurarsi nell'infido mare della politica.
Non è un caso che quando, la mattina del 21, tre autorevoli ex patrizi, tra i quali Pietro Francesco Giovanelli, avevano chiesto che fosse "convoc[ato] immediatamente il Consiglio comunale", evidentemente nel tentativo di far ricuperare all'aristocrazia lagunare una centralità ritenuta minacciata dalla cogestione nobiliar-borghese del Municipio, il podestà avesse difeso la decisione di associare al Municipio alcune "capaci e conosciute persone"(196), quelle persone che, proprio in quanto riteneva che rappresentassero le diverse componenti del paese 'reale', potevano dar vita ad un governo provvisorio autorevole. Il piano - se così possiamo chiamarlo - militar-politico del Municipio era in effetti un contenitore, che si riconosceva in un obiettivo primario, la resa delle autorità austriache, e prevedeva anche la sostituzione di queste ultime con un governo provvisorio, ma non era in grado di indicare, in una fase in cui "la Guardia cittadina [voleva] essere indipendente dal Municipio ed agire di propria volontà"(197), né come si potesse costringere gli austriaci ad arrendersi, né quale dovesse essere il programma del governo provvisorio.
Chi aveva in mano entrambe le risposte era Manin. Fin dalla costituzione della guardia civica l'avvocato aveva stabilito dei contatti con il maggiore dell'artiglieria marina Antonio Paolucci e con altri ufficiali italiani: il suo progetto prevedeva che guardie civiche, militari italiani e arsenalotti cooperassero per impadronirsi dell'Arsenale, che a ragione considerava l'anello più importante e, ad un tempo, più critico del dispositivo militare austriaco. Quanto alla soluzione politica, Manin era giunto alla conclusione, alla luce di quanto aveva appreso in carcere e fuori circa gli sviluppi della rivoluzione in Europa (fondamentale l'eco della rivoluzione francese di febbraio) nonché della storia e delle "tradizioni di gloria e di grandezza" di Venezia(198), un passato a cui aveva sempre reso omaggio nei suoi interventi(199), che si dovesse proclamare la Repubblica, ripristinando quel governo democratico del 1797 che il trattato di Campoformido aveva cancellato(200). Congiuravano a favore di tale scelta, come Manin avrebbe scritto alla rinfusa nei suoi appunti sulla rivoluzione del 1848, l'"antico vessillo di S. Marco", una bandiera non solo per tutti i veneziani, ma anche per tutti i territori che avevano fatto parte della Serenissima, la "condizione legale" e le "tradizioni storiche", la "simpatia francese", che si dava per scontata data la scelta repubblicana dello Stato d'Oltralpe, e "Istria e Dalmazia" (la speranza che l'"antico vessillo" sollevasse le popolazioni dell'Adriatico a favore di Venezia)(201).
Tanto l'opzione militare quanto la soluzione politica indicate da Manin non riscossero molti consensi, quando furono esposte a coloro che, tra la sera del 21 e la mattina del 22, si ritrovarono in ripetute "conferenze" con l'avvocato, da Pincherle ad Avesani, da Correr a Mengaldo e a Tommaseo(202). Tuttavia, mentre l'idea di gridare Viva la repubblica o, quanto meno, Viva San Marco finì per essere recepita da alcuni interlocutori, tanto più facilmente in quanto concorreva con un'alternativa poco credibile come l'invocazione di Viva Ranieri re costituzionale(203), quella di impadronirsi dell'Arsenale fu respinta da Mengaldo e da altri capi della civica, che la considerarono folle. Ma, se si deve credere a Carlo Alberto Radaelli, ciò non impedì a Manin di concordare un piano per "attaccare l'arsenale ed impadronirsene" con i capisestiere della civica di Castello (il sestiere dell'Arsenale) e di S. Marco e con alcuni ufficiali e sottufficiali della marina, dell'artiglieria e dalla fanteria di marina(204).
Quel che è certo è che quando, tra le dieci e le undici del mattino, dopo che erano stati innalzati ad opera di Avesani gli stendardi tricolori in piazza S. Marco, si diffuse la voce che gli arsenalotti in rivolta avevano ammazzato Marinovich, il quale, nonostante quanto era successo il giorno prima e nonostante che Martini avesse cercato di impedirglielo, aveva voluto riprendere servizio nello stabilimento, si spalancò davanti a Manin la possibilità di realizzare, "parte per mirabile concorso di circostanze, parte però di concerto"(205), quanto aveva progettato. Convinto che l'uccisione di Marinovich avrebbe indotto il comando austriaco a bombardare Venezia, Manin dapprima chiese al console inglese di intervenire in modo da impedire la tragedia e poi si recò all'Arsenale, che era già sotto il controllo della guardia civica (una pattuglia vi era entrata appena era divampato il tumulto, che si sarebbe concluso con l'assassinio del colonnello) e dei militari italiani schieratisi con i patrioti. Dopo aver 'perfezionato' la conquista dell'Arsenale facendosi consegnare armi e munizioni, che distribuì agli arsenalotti e alla civica, e dopo aver sostituito Martini quale comandante della marina con il capitano di vascello Leone Graziani, Manin proclamò per la prima volta la Repubblica davanti alle porte dell'Arsenale(206), una cerimonia che replicò un paio d'ore più tardi, verso le quattro e mezza del pomeriggio, in piazza S. Marco in presenza di "una quantità di guardie civiche e di popolo"(207).
Secondo la figlia Emilia, Manin dichiarò "abbattuto l'antico governo" (nella versione di Cicogna: "il governo austriaco civile e militare ha formalmente rinunciato, e consegnato nelle mani della Comune la città") e propose quale governo "più adatto [...] quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti"; Venezia diventava "uno di que' centri, che dovranno servire alla fusione successiva a poco a poco di questa Italia in un sol tutto"(208). In effetti "il governo austriaco civile e militare" non aveva ancora "formalmente rinunciato, e consegnato nelle mani della Comune la città": mentre Manin proclamava la Repubblica, nel vicino Palazzo Reale una delegazione municipale si stava ancora confrontando con i governatori austriaci per stabilire le condizioni della resa(209).
Quando Manin si era recato, verso mezzogiorno, all'Arsenale, in Municipio era in corso una riunione della congregazione 'allargata'. Più tardi Mengaldo aveva portato alla "conferenza" due notizie: l'Arsenale era stato occupato dalla guardia civica di Castello e i governatori austriaci, ai quali aveva chiesto che i Grenzer fossero allontanati dall'Arsenale di terra, avevano fatto capire che "una solenne intimazione della rappresentanza municipale" (vale a dire, in questo caso, del consiglio comunale) poteva indurli a cedere(210). Dopo un vano tentativo di indurre Manin, che si trovava ancora all'Arsenale, a partecipare alla riunione o quanto meno a "comunicar loro le sue idee"(211) circa gli sviluppi della situazione, era stata formata una deputazione comprendente il podestà, due assessori, Avesani e Pincherle, e integrata in un secondo tempo dal membro della congregazione centrale Fabris e da Mengaldo, che era stata incaricata di negoziare con i vertici imperiali. Avesani, l'"oratore" della deputazione, ottenne che Zichy, al quale Pálffy aveva ceduto anche i suoi poteri, sottoscrivesse alle diciotto e trenta una capitolazione. Quest'ultima prevedeva, tra l'altro, che un governo provvisorio, che era "instantaneamente [...] assunto" dai membri della stessa deputazione, subentrasse alle autorità austriache nel "governo civile-militare" e che le truppe non italiane abbandonassero la città, lasciandovi le casse pubbliche e "il materiale di guerra di ogni sorte"(212).
Il proclama, che la deputazione indirizzò ai cittadini veneziani dopo la stipulazione del "trattato formale", precisò che la deputazione aveva assunto il potere "per la necessità del momento" e che era sua intenzione istituire un governo provvisorio. Gli evviva che aprivano e chiudevano il manifesto - "viva Venezia! viva l'Italia" - facevano capire che il nuovo gruppo dirigente, che riconosceva in Avesani il suo ispiratore(213), prendeva, indirettamente, ma chiaramente, le distanze dalla Repubblica proclamata da Manin. Mentre nel corso delle precedenti ventiquattr'ore la congregazione municipale 'allargata' e Manin avevano proceduto su binari diversi, ma in larga misura complementari (l'avvocato non aveva partecipato alle riunioni in Comune unicamente "a motivo di schivare il bisogno di palesare i suoi progetti a tante persone"(214), mentre è ovvio che la "conferenza" non poteva assumersi il rischioso onere di approvare un piano insurrezionale, né tanto meno quello di proclamare la Repubblica in faccia agli austriaci), il manifesto ispirato da Avesani opponeva alla scelta istituzionale repubblicana un'opzione 'aperta', che forse era rimasta ferma ai progetti dell'"agitazione legale" (un Lombardo-Veneto costituzionale e italiano) e che in ogni caso guardava con timore a quella che probabilmente considerava un'imitazione veneziana dell'eversivo modello francese.
Fu una riunione "nel caffè Florian della più influente borghesia di Venezia", che incaricò "l'avvocato Antonio Bellinato a dichiarare al Comitato Governativo la loro disapprovazione per l'esclusione di Manin dal Governo e ad imporre all'avvocato Avesani di ritirarsi dal potere": "a questa intimazione immediatamente quel Comitato si dimise, rimettendo il potere nelle mani del cavaliere Mengaldo Comandante della Guardia Civica"(215), il quale a sua volta avrebbe proclamato, nel primo pomeriggio del 23 marzo, un governo provvisorio della Repubblica veneta presieduto da Manin(216). Questa testimonianza ha indotto Roberto Cessi ad attribuire la vittoria di Manin su Avesani alla prevalenza dell'"opinione pubblica", del "sentimento popolare" veneziano di inclinazioni progressiste nei confronti di un'élite tradizionalista, che non puntava alla "rivoluzione", ma alla "conservazione"(217) e Paul Ginsborg a scorgere in quella vittoria il fallimento del tentativo di "limitare la rivoluzione a un semplice passaggio di poteri dagli austriaci alla cerchia ristretta della municipalità, ignorando gli elementi democratici e popolari che avevano in gran parte determinato il corso degli eventi"(218).
Che, in effetti, l'affermazione della linea repubblicana fosse il risultato della convergenza di componenti istituzionali e sociali assai diverse, lo testimonia un documento edito da Cessi(219) e citato da Ginsborg(220), le congratulazioni della congregazione municipale "a nome del paese" al governo provvisorio - datate 22 marzo, si riferivano evidentemente alla deputazione capeggiata, di fatto, da Avesani - per il "prodigio" che aveva compiuto, congratulazioni che erano sottoscritte da tre assessori (tra i quali figurava anche Luigi Michiel, uno dei membri della deputazione), tutti e tre conti ex patrizi, e che si chiudevano con un "viva l'Italia, viva la Repubblica, viva S. Marco", vale a dire con gli slogans di Manin. Non meraviglia quindi che fin dalla sera del 22 "les membres de la commission municipale" si rivolgessero a Manin(221) e nemmeno sorprende il pronto scioglimento del 'governo' Correr-Avesani di fronte all'ultimatum "della più influente borghesia".
Come testimonia il ruolo che Correr ebbe nella scelta dei membri del governo Manin(222), nella notte tra il 22 e il 23 non prevalse la borghesia sull'aristocrazia, né tanto meno ebbe la meglio un Manin che "aveva agito contro la sua classe e i suoi amici e aveva fatto leva con successo sull'impegno delle forze popolari a Venezia per assicurare all'insurrezione un esito democratico e repubblicano"(223). Certo, nella città lagunare come del resto a Milano quello che Cicogna chiamava il "popolaccio" aveva dato un contributo determinante al successo della rivoluzione, così come è vero che, a differenza di Milano, dove il potere era stato conquistato dall'aristocrazia liberale, a Venezia la ribalta politica era riservata alla borghesia.
Tuttavia non va dimenticato che Manin da un lato valorizzò "le forze popolari" soltanto nella misura in cui erano disposte ad accettare una salda guida borghese (la guardia civica) e dall'altro si può dire che sottoscrivesse una sorta di patto di desistenza istituzionale con gli ex patrizi, che controllavano la congregazione municipale. Quest'ultima si ritirò sì dalla scena della politica, ma in compenso evitò di rimanere vittima di quel processo di democratizzazione che avrebbe portato ad eleggere nel 1848 e nel 1849 delle assemblee veneziane in base al criterio del suffragio universale maschile, e acquistò la funzione di un governo parallelo quanto alla gestione finanziaria(224). Tommaseo, che molti, troppi difetti rimproverava a Manin, ricordò con estrema malignità che, un mese prima che Venezia ritornasse sotto l'aquila imperiale, l'ex presidente e dittatore, "siccome avvocato che, vinca o no la lite, ha il salario, non rifiutò dal Comune ventimila franchi di viatico"(225). Una frase quanto meno infelice, che però ha il merito di far emergere un aspetto del rapporto tra l'aristocrazia veneziana e Manin, quello di una sorta di mandato fiduciario della prima al secondo, il quale, se era - come è ovvio - destinato ad avere valenze e significati assai diversi a seconda dei contesti e delle contingenze, può essere comunque considerato uno dei fili rossi di lungo periodo che unirono la Venezia della Restaurazione a quella della rivoluzione.
"Ora col fatto i Veneziani hanno smentito quelle parole che già furono dette contro di essi cioè che son vili, codardi, buoni a nulla", scriveva Cicogna nel suo diario il 23 marzo, commentando i tratti più significativi della rivoluzione veneziana del 1848 in chiave, se vogliamo, antropologica e insistendo sulla continuità storica. "Essi coll'armi proprie e colla propria direzione hanno acquistata la libertà. Combinazione fu che un Manin patrizio del 1797 abbia ceduta la Repubblica aristocratica per abbracciare la democratica e che un Manin cittadino abbia riassunta la Repubblica democratica e che siccome la Madonna Annunciata (25 marzo) è protettrice per la fondazione della città, così a 22 marzo sia stata sotto i di lei auspicii (esposta com'è in S. Marco) eretta di nuovo la città in Repubblica"(226). Da Repubblica a città e da città a Repubblica: dopo un mezzo secolo che, nonostante la sua durata, poteva essere giudicato, dall'alto di una storia millenaria, poco più di una parentesi(227), Venezia aveva ritrovato la propria identità statuale.
Ma il ritorno al 1797 implicava anche che la nuova Venezia democratica dovesse confrontarsi con i problemi e le contraddizioni che avevano pesato sui destini della Venezia aristocratica come su quelli della Venezia 'giacobina'. Certo, dalla rivoluzione di marzo era emersa una Venezia molto più compatta ed unita di quella di cinquant'anni prima. Come hanno sottolineato Angelo Ventura e Ginsborg, Manin aveva visto "più chiaro e lontano degli altri"(228); "la tattica e le azioni di Manin fra il 17 e il 22 marzo furono perfette e possono essere considerate i massimi risultati conseguiti nella sua vita"(229). Le parole d'ordine della guardia civica e della Repubblica - quest'ultima nonostante o, meglio, proprio grazie al suo carattere equivoco a metà strada tra la tradizione marciana (che in ogni caso ne impediva una lettura in chiave mazziniana)(230) e "le libertà presenti" - gli avevano consentito di garantirsi l'appoggio più o meno fattivo e convinto della larghissima maggioranza dei veneziani e, in particolare, delle classi popolari, un fenomeno, quest'ultimo, destinato a diventare 'strutturale' e che avrebbe pesato non poco sulla storia di Venezia nel 1848-1849.
Manin scelse quali membri del governo provvisorio "uomini d'affari, già noti, non impopolari"; ad essi aggiunse Angelo Toffoli, un "artiere" (in effetti era un proprietario benestante di un laboratorio di sartoria, che si era distinto nelle manifestazioni patriottiche), "per la sua influenza nelle classi inferiori, e per significazione democratica, e per imitazione francese [ma, al di là delle Alpi, nel governo repubblicano era entrato un operaio 'vero'] - un ebreo [Pincherle] in segno d'emancipazione"(231). Al di là del caso, affatto peculiare, di Toffoli (del resto ministro senza portafoglio e, non solo per questo motivo, senza alcun peso nel governo provvisorio)(232), il quale aveva un ruolo ad un tempo simbolico (come Pincherle) e rappresentativo, la formula adottata dal presidente fu quella di un governo di tecnici, appunto di "uomini d'affari", che in parte provenivano dall'amministrazione statale civile e militare (cinque su dieci, se si prende in considerazione la composizione del governo che Manin aveva in mente, anzi sei su undici qualora si aggiunga all'elenco dei ministri il comandante della guardia civica).
Il presidente del Consiglio si attribuì anche il Ministero degli Esteri, mentre affidò il Culto e l'Istruzione a Tommaseo, la Giustizia a Castelli, le Finanze a Francesco Camerata (un consigliere del magistrato camerale), la Guerra a Francesco Solera (un generale in pensione, che Manin avrebbe voluto alla testa della guardia civica al posto di Mengaldo, il quale però lo convinse a conservargli l'incarico), la Marina a Paolucci (che Manin avrebbe voluto collocare alla Guerra, mentre avrebbe preferito affidare la Marina ad un ufficiale dell'arma, il tenente di vascello Achille Bucchia, un nipote di Paleocapa), le Costruzioni e poi, dopo le dimissioni di Carlo Trolli, un consigliere della corte d'appello, anche l'Interno a Paleocapa, il direttore generale delle costruzioni del Veneto, e il Commercio a Pincherle, che era il segretario della direzione veneta delle triestine Assicurazioni Generali(233). Non trovarono posto nel governo le due principali componenti della società veneziana presenti in consiglio comunale: gli ex patrizi e i 'commercianti'.
Forse l'esclusione degli ex patrizi così come la scelta di esperti in gran parte provenienti dall'amministrazione statale e che in ogni caso non potevano essere considerati i portavoce di ristretti interessi lagunari furono decise da Manin allo scopo di comprovare con i fatti quanto avrebbe sottolineato in uno dei primi proclami del governo provvisorio, vale a dire che "il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale" e che "le Provincie, che a questa forma aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, perché uguali a tutti saranno i doveri"(234). Dalla terraferma si era guardato a Venezia ancora prima del collasso del regime austriaco nella città lagunare(235) e tra il 24 e il 29 marzo i comitati alla testa delle città e cittadine 'libere' della regione (tra esse tutti i capoluoghi di provincia, salvo Verona, che era presidiata in forze dalle truppe di Radetzky) aderirono, di regola senza porre condizioni, alla Repubblica di Manin(236).
Mentre nel 1797 la diffusione dell'ideologia 'giacobina' aveva contribuito a minare il controllo della Repubblica aristocratica sulla terraferma e a separare quest'ultima da Venezia, nel 1848 l'affermazione dell'ideologia liberal-nazionale sembrò garantire un nuovo, più efficace collante tra la capitale e le province. Ma ancora prima che cominciassero ad arrivare a Venezia le adesioni della terraferma, furono poste le basi della crisi, che avrebbe ancora una volta finito per travolgere quelle che il governo provvisorio avrebbe anche chiamato, con una formula all'olandese, "Provincie Unite della Repubblica"(237). Tre i fattori decisivi: la fallimentare politica militare dei governi patriottici veneziani, la decisione degli austriaci di continuare a lottare per difendere la loro egemonia in Italia e l'intervento del re di Sardegna Carlo Alberto in interessato appoggio dei "popoli della Lombardia e della Venezia"(238).
Nella notte tra il 22 e il 23 marzo il governo provvisorio, che aveva sottoscritto la capitolazione di Zichy, gettò al vento la possibilità di convincere gli ufficiali italiani del grosso della flotta austriaca, che si trovava ancorata a Pola, ad aderire con le loro navi al nuovo regime - un obiettivo che comunque non bisogna ritenere che sarebbe stato agevolmente raggiunto qualora a Venezia si fossero comportati in maniera meno ingenua - in quanto affidò "le lettere richiamanti [...] i legni di guerra" al capitano di un vapore del Lloyd austriaco, che invece fu convinto o costretto a consegnare i messaggi alle autorità austriache di Trieste(239). In ogni caso gli austriaci poterono conservare i due terzi delle loro navi (per la precisione cinquantotto su settantanove), un rapporto che risulta ancora più favorevole se il computo chiama in causa il numero dei cannoni. È vero che la marina asburgica emerse dalla crisi con i ranghi fortemente indeboliti (perse più della metà degli ufficiali e l'85% dei sottufficiali e dei marinai, in parte perché erano rimasti a Venezia, in parte perché disertarono, in parte ancora perché furono dimessi d'autorità in quanto ritenuti politicamente infidi), ma, una volta che si poterono riorganizzare sotto la guida del commodoro danese Hans Birch von Dalherup e una volta che la flotta sarda abbandonò definitivamente, nell'aprile del 1849, l'Adriatico, furono in grado di bloccare efficacemente Venezia da parte di mare(240), senza che riuscisse più che tanto a contrastarla una flotta veneziana, alla quale il governo lagunare non dedicò le attenzioni necessarie (furono varate in tempo utile soltanto alcune delle quindici navi in costruzione, in armamento o in riparazione nell'Arsenale, così come fu frustrato il precoce tentativo di acquistare navi all'estero)(241).
Se da queste vicende per mare derivò la perdita del controllo dell'alto Adriatico (fatta eccezione per quei pochi mesi, dalla fine di maggio all'agosto del 1848, che videro Venezia approfittare della presenza delle flotte piemontese e napoletana, le quali anzi tentarono un blocco, molto blando, di Trieste) e quindi, tra l'altro, il definitivo tramonto del sogno di Manin riguardo ad una Repubblica veneta che abbracciasse anche l'Istria e la Dalmazia, sul fronte di terra la politica militare di colui che aspirava a diventare il nuovo Washington(242) mieté, non soltanto per colpa sua, un insuccesso dopo l'altro. "I soldati italiani al servizio austriaco, quando non restarono fedeli all'impero, non videro nella rivoluzione, per la massima parte, che una buona occasione di sottrarsi a ogni vincolo militare"(243), anzi a Venezia il 22 marzo avevano cooperato con i patrioti proprio nella speranza di un sollecito ritorno a casa(244).
Solera non riuscì ad impedire la quasi totale dissoluzione delle truppe italiane dell'esercito (erano in maggioranza trevigiani, padovani e friulani) presenti a Venezia (la marina, compresa la fanteria dell'arma, conobbe sì parecchie tensioni, ma non fu colpita da diserzioni apprezzabili) e anche per questo motivo perse il 1° aprile il suo incarico ministeriale a favore di Paolucci. Tuttavia quest'ultimo volle essere affiancato da un consiglio di difesa interforze - il 2 maggio ribattezzato comitato di guerra (fu chiamato a presiederlo Pietro Armandi, un settantenne generale ex napoleonico, che nel 1831 era stato ministro della Guerra nel governo insurrezionale delle Romagne) - il quale si assunse il compito, assai malamente eseguito, di perseguire una politica militare, lasciando a Paolucci soltanto compiti burocratici. In terraferma lo spreco delle risorse militari a disposizione fu inferiore a quello che si era verificato a Venezia. Alla fin fine rimasero a combattere con i patrioti tutt'al più duemila degli oltre seimila soldati italiani di stanza nella regione. Inoltre la maggior parte delle armi individuali in deposito all'Arsenale (vi si trovavano, pare, più di trentamila fucili) fu rubata o comunque dispersa in mille rivoli a partire dal 22 marzo(245), tanto che una settimana più tardi il governo decise di comperare in Francia ventimila fucili, meno di un terzo dei quali sarebbe arrivato a Venezia dopo la conclusione dell'armistizio tra il Piemonte e l'Austria.
Per di più il governo di Manin non reagì con la fermezza e la lucidità necessarie alla situazione di emergenza, che si doveva profilare nelle prime settimane di aprile sui confini orientali in seguito alla decisione degli austriaci di invadere il Veneto anche allo scopo di portare rinforzi all'armata di Radetzky rinchiusa nel Quadrilatero. Mentre Cicogna si consolava con l'idea che "tutti i contadini armati parte con armi proprie parte con quelle inviate mostravano un coraggio da leoni per cacciar fuori da' loro confini gli avanzi dell'inimico"(246), lo stesso Manin si riconobbe in un irrealistico scenario di guerra partigiana: "il piano di difesa pel Friuli potrà consistere nel star più che si possa in agguato onde cogliere alle spalle qualche corpo di truppe austriache o meglio ancora per batterle alla spicciolata"(247). Essendo "sciolta quasi affatto la truppa di terra", si cercò di sostituirla con la guardia civica mobile(248), mentre il più volte ventilato progetto di una "leva generale" (avrebbe potuto fornire venti-venticinquemila uomini) fu sempre respinto dal governo. Quando la proposta fu avanzata in maggio da Cavedalis, gli si rispose che si temeva "di concitare il popolo e di vieppiù alienare dalla Repubblica le provincie; non credersi d'altronde ciò necessario, la guerra essere di un esito certo; valere abbastanza le armate del Piemonte e di Roma, i corpi franchi, le guardie nazionali": si preferì adottare un decreto per un arruolamento volontario con un "risultato [...] presso che nullo per tutto il tempo della guerra"(249).
Manin si pose senza dubbio il problema di dare una direzione unitaria allo sforzo bellico dei veneti e cercò anche di affidarla a noti generali ex napoleonici quali Luigi Mazzuchelli e Carlo Zucchi, ma i suoi primi tentativi non furono coronati dal successo(250) e in seguito la scelta di Armandi non si rivelò tra le più felici. Di fatto Venezia influì ben poco sulle operazioni militari, la cui regia rimase nelle mani dei comandanti di forze locali soltanto nominalmente agli ordini del governo provvisorio oppure dei generali, quali i pontifici Giovanni Durando e Andrea Ferrari, che entrarono nel Veneto per difenderlo, tardivamente e male, dalla sempre più minacciosa progressione degli austriaci (Udine era stata occupata il 23 aprile, Belluno il 5 maggio). Come ha scritto Piero Pieri, "mentre l'esercito di Carlo Alberto combatteva entro il Quadrilatero, nel Veneto si svolgeva pure una lotta che avrebbe dovuto essere strettamente collegata con la principale. Invece rimaneva avulsa da essa come una cosa a sé, anzi senza alcun coordinamento, né coll'esercito piemontese, né coll'esercito pontificio mosso al soccorso, né fra le diverse forze volontarie e popolari del Veneto stesso [...]. Non si ebbe nel Veneto, come a Milano, un governo provvisorio che coordinasse e dirigesse tutta l'organizzazione militare da crearsi ex novo, impresa invero molto ardua"(251).
Se si esclude il caso, affatto particolare, di Pietro Fortunato Calvi, un ex tenente dell'esercito austriaco che Manin inviò nel Cadore per organizzarne la difesa, e che si distinse in modo esemplare alla testa dei combattivi montanari locali resistendo per oltre un mese agli attacchi portatigli da nemici preponderanti in numero e in armamento e scrivendo in questo modo una delle pagine più belle della guerra di popolo, il governo di Venezia contribuì in misura marginale e per lo più indiretta alla guerra. Come era avvenuto nel 1796-1797, la terraferma si sentì abbandonata, se non tradita, da una Venezia che si riteneva preoccupata unicamente della difesa delle lagune, e si rivolse altrove alla ricerca di un punto di appoggio militare e politico. Mezzo secolo prima l'aveva trovato nella Francia repubblicana, nel 1848 lo trovò nell'ambizioso monarca sardo: la conversione dalla repubblica alla monarchia costituzionale fu tanto più facile in quanto su questa strada le province venete erano state precedute e sarebbero state accompagnate dalla Lombardia, il cui governo era nelle mani della nobiltà filopiemontese, e in quanto Manin non riuscì a tradurre sul piano istituzionale quanto prometteva la formula delle "Provincie Unite della Repubblica".
Questo perché il governo repubblicano di Venezia si distinse per una singolare capacità di coniugare le "riforme sociali e morali"(252) più avanzate ("perfetta uguaglianza de' diritti civili e politici" di tutti i cittadini a prescindere dalla religione professata, piena libertà di stampa, l'instaurazione dello Stato di diritto, ecc., vale a dire, in larga misura, il programma tracciato da Manin agli inizi di quell'anno)(253) con la tendenza a conservare il più possibile, quanto all'organizzazione politico-amministrativa, le strutture ereditate dall'Austria non perché fosse particolarmente affezionato ad esse, ma perché riteneva che le riforme politiche dovessero essere posposte fino a quando gli austriaci fossero stati definitivamente cacciati dall'Italia e fosse stata riunita un'assemblea costituente(254). Non stupisce quindi che fosse mantenuto lo stesso gubernum delle province austro-venete sotto la denominazione di magistrato politico provvisorio e che fossero conservate le articolazioni periferiche del regime precedente, dai delegati (a Venezia l'incarico fu affidato all'ingegnere Guido Avesani, un fratello di Giovan Francesco che era stato praticamente messo a capo della gestione della Ferdinandea dopo che la società era stata statalizzata) ai commissari e, come abbiamo visto riguardo a Venezia, ai Comuni.
Ma il tentativo di far convivere nel breve periodo istituzioni rivoluzionarie come i comitati dipartimentali con l'assetto amministrativo della Restaurazione andò incontro al più completo fallimento. "È di scandalo l'indipendenza affettata in tutto o in parte dai Comitati delle Provincie, dei Distretti, dei Comuni", scrisse Sceriman prima della metà di maggio in una memoria indirizzata a Manin; "parli il Governo parole franche, e con esse s'impossessi del potere Sovrano che gli appartiene se non per legalità di diritto per forza di circostanze: né lasci di spedir Commissarii suoi ove occorra a riordinare e raccogliere le fila del potere [...]. Senza di ciò né Finanze, né Difesa, né Ordine pubblico saranno altro che nomi, i quali renderanno in breve non più che nominale il Governo stesso"(255). Nello stesso tempo la propensione a congelare le istituzioni fece sì che i difetti dell'amministrazione austriaca - il centralismo prima di tutti - "non [fossero] peranco se non in minima parte emendati" dal governo repubblicano(256).
Il 24 marzo il governo di Venezia aveva previsto che le province inviassero nella capitale "in giusta proporzione i loro Deputati a formare il comune Statuto"(257), fossero, quindi, rappresentate in un'assemblea costituente, ma cinque giorni più tardi aveva deciso che il consiglio dei deputati provinciali dovesse unicamente "presentare un parere circa le norme da adottare pel decreto di convocazione della costituente"(258). Infine il 31 marzo Manin, che aveva deciso di frenare circa la costituente volendo agire di conserva con il governo provvisorio della Lombardia, aveva attribuito al consiglio il compito di "avvisare consultivamente ai provvedimenti desiderati dalla causa nazionale in ogni ramo dell'azione governativa, illuminandola e fortificandola colle loro cognizioni, e ad un tempo preparando le idee elettorali e costituzionali"(259), una decisione che comunque non aveva soddisfatto i comitati provinciali in quanto aveva ribadito la loro posizione subalterna nei confronti del governo di Venezia(260). Anche se le riunioni della consulta si tennero regolarmente a partire dal 10 aprile (l'ultima ebbe luogo il 7 luglio)(261), il suo contributo fu, di regola, di basso profilo e in ogni caso non riuscì a colmare la faglia che si era aperta tra Venezia e la terraferma sotto la duplice pressione delle vittorie austriache e della campagna degli 'albertisti' a favore della costituzione di un grande Regno sabaudo nell'Italia del Nord.
Manin cercò di mantenere in vita più a lungo possibile la sua creazione politica, cercando di mediare in qualche modo tra le vigorose spinte fusioniste provenienti da ogni parte e le proprie convinzioni repubblicane. Il quadro di riferimento costituzionale ritornò ad essere il Lombardo-Veneto, il che di fatto implicava in una situazione politica lombarda rimasta soltanto formalmente aperta - era chiara la scelta del governo provvisorio della Lombardia a favore dell'unione al Piemonte - un processo di transizione 'morbido' verso un approdo monarchico. Il 22 aprile il governo, pur continuando a sottolineare l'opportunità che dei problemi costituzionali ci si occupasse soltanto a guerra finita, promulgò un decreto, in sintonia con quanto aveva deliberato nei giorni precedenti la consulta, che prevedeva un'assemblea costituente veneta eletta in base ad una legge elettorale identica a quella lombarda e che doveva "per prima cosa […] decidere sulla unione dello Stato veneto col lombardo"(262). L'11 maggio, dopo che non solo i comitati provinciali veneti, ma anche la guardia civica di Venezia si erano pronunciati a favore di un'unica assemblea lombardo-veneta, la maggioranza dei ministri approvò, nonostante l'opposizione di Manin e di Tommaseo, un decreto in tal senso(263).
Ma il giorno successivo il governo della Lombardia decise di indire un plebiscito, che offriva un'alternativa tra l'immediata fusione al Piemonte e il rinvio della scelta costituzionale a guerra finita, un'iniziativa che fu imitata anche dai quattro comitati dipartimentali veneti superstiti e che diede, quando furono chiusi il 29 maggio i registri, risultati analoghi a quelli della consultazione popolare lombarda, vale a dire una larghissima maggioranza a favore di Carlo Alberto. La notizia che le "Provincie Unite della Repubblica" non volevano più rimanere repubblicane e che stavano per separarsi da Venezia pose il governo presieduto da Manin di fronte ad una scelta quanto mai difficile. Com'era capitato nel 1797, Venezia rimaneva isolata nelle sue lagune: se avesse voluto conservare la sua tradizione repubblicana, poteva tutt'al più aspirare al rango di città anseatica; se avesse imitato la terraferma, avrebbe perso il suo status di capitale. Dopo parecchie riunioni e dopo aver interpellato anche la consulta, i ministri finirono per bocciare compatti l'ipotesi che anche a Venezia si tenesse un plebiscito e si pronunciarono invece a favore della convocazione di un'assemblea, che Manin avrebbe voluto veneta, ma che gli altri membri del governo decisero che rappresentasse unicamente la provincia di Venezia(264).
Manin e Tommaseo cercarono nello stesso tempo di tenere accesa la fiammella della Repubblica veneta con un gesto spettacolare, privo tuttavia di ricadute politiche, recandosi il 21 maggio, alla testa di un migliaio di uomini, a combattere alla difesa di Vicenza, che il giorno prima era stata investita dagli austriaci. Le elezioni per l'assemblea provinciale si tennero il 9 e il 10 giugno; furono eletti a suffragio universale centonovantatré deputati e partecipò alla votazione un terzo e forse meno degli aventi diritto. Prima e dopo le elezioni a Venezia la questione della fusione con il Piemonte fu al centro di intensi dibattiti e di preoccupanti manifestazioni. Mentre la maggior parte dei giornali, che erano proliferati a partire dalla fine di marzo (ne sarebbero usciti, nel corso di tutta l'esperienza di Venezia libera, settantaquattro, tra i quali quarantatré quotidiani) e che erano diretti per lo più da pubblicisti di orientamento democratico, presero posizione a favore della Repubblica(265), i corpi militari veneziani, dalla marina alla guardia civica, si pronunciarono tra il 23 e il 29 giugno per l'unione al Piemonte. Anche la consulta espresse, il 26 giugno, a maggioranza "il desiderio [...] della fusione colla Lombardia e col Regno di Sardegna"(266).
Le classi popolari, anche perché favorite dalla politica economica ed assistenziale del governo (come avrebbe ricordato Manin nei suoi appunti sul 1848-1849, "fabbrica di tabacchi - lavorava oltre il bisogno [...]. Ristauri in tutti gli edifici pubblici, quantunque non urgenti. Commissione per procurar lavoro agli operai. Moralizzazione delle classi povere - agiatezza procurata - riscatto moltissimi pegni al Monte di Pietà [...]. Soppressa tassa personale - Diminuito prezzo del sale [...]. Pubblica beneficenza [...]. Mancanza di combustibile - provveduto ai poveri")(267), scesero invece in piazza più volte per chiedere che la Repubblica fosse conservata.
Non soltanto questi atteggiamenti, che apparvero ricalcati sul modello parigino ed alimentarono conseguentemente la paura del comunismo(268), ma anche la gravissima crisi finanziaria della Repubblica (le entrate ordinarie, anche perché diminuite in seguito ai provvedimenti a favore dei commercianti e delle classi popolari, erano pari a circa un sesto delle spese tanto che in maggio fu lanciato un prestito - di fatto forzoso - di dieci milioni di lire, che sarebbe finito per ricadere quasi tutto su Venezia)(269) convinsero l'opinione pubblica borghese a considerare l'approdo fusionista, non senza incertezze e distinguo testimoniati non soltanto dal caso Cicogna(270), un punto d'arrivo necessario. Si schierarono decisamente a favore dell'unione, con poche eccezioni, come quella di Leopardo Martinengo(271), gli ex patrizi più abbienti, in parte per gli stessi motivi che nel 1797 li avevano convinti ad accettare la democratizzazione di Venezia(272); la manifestazione della guardia civica del 29 giugno fu organizzata da Mocenigo in qualità di colonnello del corpo(273), un ritorno alla ribalta del conte su posizioni scopertamente ostili a Manin, che avrebbe indotto quest'ultimo a considerarlo, alle spalle di Castelli e di Paleocapa, l'anima nera dello schieramento filopiemontese(274).
L'assemblea provinciale doveva iniziare i suoi lavori il 18 giugno, ma Manin decise di posticipare la convocazione in seguito alle sconfortanti notizie che continuavano ad arrivare da una terraferma oramai tutta in balia degli austriaci: l'11 giugno Vicenza si arrese e il 17 le truppe di Radetzky si attestarono a Mestre, iniziando un blocco, per il momento assai blando, della laguna. A Venezia affluì una parte delle truppe sconfitte in terraferma. Dopo l'arrivo di un migliaio di napoletani guidati da Guglielmo Pepe che, contro gli ordini del re delle Due Sicilie, aveva deciso di muovere in soccorso del Veneto, e di duemila piemontesi inviati da Carlo Alberto in vista dell'auspicata unione, la difesa di Venezia poté contare alla fine del mese su venticinquemila uomini, in larga maggioranza irregolari, tra i quali poco più di quattordicimila veneti (quattromila dei quali appartenenti alla marina) e seimila pontifici. Il comando di tutte le forze veneziane fu affidato a Pepe, "alors la plus grande figure militaire de l'Italie"(275).
La prima riunione dell'assemblea provinciale si tenne il 3 luglio alla presenza di centotrentatré deputati: Manin riassunse gli avvenimenti dal 22 marzo a quel giorno e furono definite le questioni procedurali. Il 4 luglio, dopo che erano stati letti i rapporti di Manin, di Camerata e di Paolucci su quanto aveva fatto la Repubblica in politica estera, in materia finanziaria e militare, Tommaseo intervenne affinché la decisione circa il destino di Venezia fosse presa a guerra finita. Gli replicarono Paleocapa, che tra l'altro sostenne che la Repubblica democratica era "assai più lontana da quella repubblica aristocratica di cui avete richiamato il nome ed il vessillo, che non sarebbe da una monarchia costituzionale", e Giovan Francesco Avesani, che si limitò a "una semplice esortazione: fate l'unione". Manin gettò tutto il suo peso sulla bilancia, chiedendo "un grande sacrificio [...] al generoso partito repubblicano" e, in ogni caso, insistendo sul fatto che "tutto quello che si è fatto e che si fa, è provvisorio" e che "deciderà la Dieta italiana a Roma". "Vive e prolungate acclamazioni universali" accolsero quello che Leoni chiamò "un colpo magico", che si proponeva esplicitamente di scongiurare il rischio di una guerra civile. Una larghissima maggioranza (127 a 6) votò quindi "l'immediata fusione della città e provincia di Venezia negli stati sardi con la Lombardia, e alle condizioni stesse della Lombardia, con la quale in ogni caso intendiamo di restare perpetuamente incorporati, seguendone i destini politici insieme alle altre provincie venete"(276).
"Questo vitale cambiamento di Stato quantunque transitorio, successe con tale tranquillità nel popolo, e con tali applausi nell'Assemblea, che è cosa maravigliosa il dirlo, laddove prima pareva che si odiasse cordialmente quanto sapeva di imperiale e di reale e che solo si volesse libertà repubblicana"(277): il sospiro di sollievo di Cicogna era anche un epitaffio posto sulla tomba della Repubblica veneta. Come ha scritto Ventura, "la prospettiva veneziana sostenuta dal Manin era [stata] incapace di adeguarsi a una situazione diversa e più complessa rispetto a quella in cui era stata originariamente concepita"(278). Manin aveva avuto in mente una Repubblica veneta inserita senza problemi, grazie al collasso dell'Impero asburgico, nel breve periodo in una lega italiana sotto l'egida di Pio IX e, in prospettiva, in un'Italia federale repubblicana. La guerra, quella guerra che in un appunto alla Verne il trentacinquenne Manin si era augurato che di lì a mille anni sarebbe stata del tutto "cassata"(279), aveva imposto uno scenario completamente diverso, aveva messo in moto dei meccanismi che avevano finito per costringere la Venezia "redenta" a spogliarsi della sua sovranità, a barattare, come nel 1797, l'indipendenza con la sopravvivenza, lo Stato con la conservazione della città.
Ma l'ironia della storia avrebbe deciso che la stessa guerra dovesse far crollare, di lì a poche settimane, il castello di carte innalzato da Carlo Alberto, mentre Manin, che il 4 luglio aveva "senza battaglia ced[uto] il campo, non come vinto, ma per sentimento di generosa abnegazione, senz'alcun indizio di debolezza [...] a bandiere spiegate" e quindi aveva "non solo conservata, ma accresciuta" "la sua autorità morale"(280), avrebbe potuto riprendere nelle sue mani le redini del governo provvisorio, rendendo in questo modo irreversibile, al di là delle contingenti scelte istituzionali, quel processo di identificazione tra se stesso e la città ("l'uomo rappresenta in tutto la città", ma anche "la città spiega l'uomo"), che Giuseppe Vittorio Rovani avrebbe giudicato, e non sarebbe stato il solo, "un fenomeno storico [...] unico tra i tanti dell'Italia contemporanea"(281).
Nella sua terza riunione, che si tenne il 5 luglio, l'assemblea provinciale affrontò la questione dell'elezione dei membri del governo provvisorio, che doveva reggere la città fino all'insediamento dei rappresentanti di Carlo Alberto. La prima votazione vide Manin ricevere 69 voti contro i 42 a favore di Paleocapa e i 9 dati a Castelli: i fusionisti avevano vinto, ma la popolarità del repubblicano Manin continuava a superare quella dei capi del 'partito' avverso(282). Manin rinunciò in ogni caso all'incarico, spiegando che "in uno stato monarchico" non poteva, dati i suoi principi politici, "esser del governo". Furono quindi eletti senza particolari problemi i fautori dell'annessione al Piemonte, da Castelli, al quale fu affidata la presidenza del Consiglio dei ministri e i portafogli della Giustizia, del Culto e dell'Ordine pubblico, a Paleocapa (Lavori pubblici e Istruzione: ma Paleocapa si recò a Torino per presentare l'atto di fusione e a Torino rimase in qualità di ministro dei Lavori pubblici del governo Casati), da Camerata (Finanze) a Paolucci (Marina militare), da Cavedalis (Guerra: era stato uno dei membri più attivi del comitato) a Leopardo Martinengo (Interno) e a Reali (Commercio e Sanità marittima)(283).
Martinengo e Reali, i "rappresentanti la ricchezza, l'uno dell'aristocrazia e l'altro del commercio"(284), accettarono con molta difficoltà l'incarico(285), uno degli indici dello scarso entusiasmo con cui era stata accolta a Venezia la svolta istituzionale. Un altro segnale negativo fu la rinuncia di Mengaldo, accettata tuttavia dal governo soltanto in agosto, al comando della guardia civica. Pepe cercò di tenere alto il morale dei veneziani con un paio di azioni dimostrative contro gli austriaci, ma il clima generale della città tendeva allo "scoramento crescente"(286). Lo stesso Castelli presentava a Paleocapa il 31 luglio, dopo che era arrivata la notizia della sconfitta piemontese a Custoza, un quadro listato a lutto: "sconfortanti" "i bollettini dello spirito pubblico", "i commercianti più forti falliscono uno dopo l'altro", "i possidenti, i più doviziosi, non hanno più rendite da terraferma", "gli uomini che vivono d'industria, massime manuale, vanno di dì in dì perdendo le occasioni di procacciarsi il pane col progressivo impoverimento di tutti i fabbricatori ed artisti"(287).
Inoltre il governo Castelli doveva fare i conti con un'opposizione repubblicana assai vivace, anche perché rafforzata dall'arrivo a Venezia di parecchi militari di orientamento mazziniano. Il 2 agosto fu fondato un Circolo italiano ad opera di Giuriati e di Giuseppe Sirtori, un lombardo che aveva partecipato alla rivoluzione parigina del febbraio 1848 e che era in seguito diventato ufficiale in un battaglione di volontari. La richiesta principale presentata dal Circolo al governo fu quella di formare un nuovo comitato di difesa dotato dei poteri necessari a far fronte alla gravità della situazione e comprendente Cavedalis, Luigi Mezzacapo, un napoletano che era il capo di stato maggiore delle truppe pontificie a Venezia, e Fabio Mainardi, un tenente di fregata. Tre giorni più tardi arrivarono a Venezia i "commissari regi straordinari" generale Vittorio Colli e Luigi Cibrario: un terzo commissario era stato designato, una volta avvenuto il passaggio delle consegne ai piemontesi, nello stesso Castelli. Gli incarichi ministeriali dovevano essere divisi tra i tre commissari, mentre gli altri membri del governo provvisorio del 5 luglio entravano a far parte di una consulta, che avrebbe dovuto comprendere anche alcuni rappresentanti della terraferma.
Il 7 agosto fu stipulato l'atto notarile della cessione di Venezia al Piemonte alla presenza di tutte le "primarie autorità" politiche e religiose, militari e amministrative della città. Intervennero alla "cerimonia funerale"(288) in qualità di membri dei vertici delle forze armate, della guardia nazionale (così era stata ribattezzata, adottando l'uso piemontese, la civica), del governo e delle istituzioni rappresentative (Municipio e Provincia), oltre a cinque testimoni eminenti (il patriarca, Pepe, Mengaldo, Correr e l'alto magistrato Giorgio Foscarini) ventisei personalità, tra le quali dieci conti ex patrizi (uno di essi fu Mocenigo) e altri quattro aristocratici(289): la tesi di Sceriman che la rivoluzione aveva escluso, "sia determinatamente sia a caso, la Nobiltà da' principali impieghi", alienandosi in questo modo "la più eletta classe dei Veneziani"(290), valeva fino ad un certo punto per l'effimera Venezia sabauda.
La mattina dell'11 agosto i commissari vennero informati dagli austriaci che due giorni prima era stato sottoscritto un armistizio tra i capi di stato maggiore di Carlo Alberto e di Radetzky, che prevedeva che le truppe piemontesi di terra e di mare abbandonassero Venezia. I commissari si riunirono insieme ai consultori e deliberarono che, "dal momento in cui ricevessero notizia ufficiale di tale convenzione, considererebbero il loro mandato come cessato, e Venezia restituita alla condizione politica in cui era al momento della fusione" (una tesi che era stata anticipata due giorni prima da Cibrario in un colloquio con Manin, che in quei giorni era in stretto contatto con Castelli e con i deputati filorepubblicani dell'assemblea, alcuni dei quali erano anche membri del Circolo italiano)(291) e quindi "libera di agire come Stato indipendente". Si prevedeva conseguentemente di convocare, "al primo annuncio ufficiale" dell'armistizio, l'assemblea provinciale, la quale avrebbe eletto un comitato di difesa "al primo desiderio espresso dal popolo" in questo senso(292): una formula, quest'ultima, che lascia intravedere un'intesa tra i commissari e Manin e che, a sua volta, colui che dopo quella giornata un periodico tedesco avrebbe chiamato l'"arbitro onnipossente delle sorti di Venezia"(293) aveva fatto propria la richiesta del Circolo italiano.
Il tentativo dei commissari di conservare il potere fino all'arrivo di una comunicazione ufficiale da Torino fu frustrato da una grande manifestazione popolare in parte spontanea e in parte organizzata dai "repubblicani più spaccati" del Circolo italiano(294): la sera di quel giorno Castelli, Colli e Cibrario furono costretti a passare la mano allo stesso Manin, il quale, sventando il tentativo di Sirtori e degli altri radicali di imporre una soluzione della crisi ad un tempo militare e filomazziniana, assunse nelle sue mani il governo di Venezia in attesa che si riunisse, due giorni più tardi, l'assemblea. Il 13 agosto Manin sostenne di fronte ai deputati la necessità di istituire "un governo provvisorio in tutta l'estensione del termine", quindi "un governo, che mantenga la quiete, che ci difenda", ma senza una qualsivoglia coloritura politica. Dopo essersi rifiutato di continuare a detenere in perfetta solitudine i pieni poteri, Manin fece approvare dall'assemblea la proposta di Castelli di affidare "il potere supremo" ad un triumvirato, di cui assunse la presidenza (nel ballottaggio ebbe 102 voti a favore e 9 contrari, mentre Castelli ottenne 31 voti favorevoli - evidentemente l'ala moderata rimasta, nonostante tutto, di orientamento monarchico - e 81 contrari) e che comprese "due militari, uno di terra e uno di marina", rispettivamente l'ex ministro della Guerra Cavedalis e il comandante della marina contrammiraglio Graziani (furono eletti entrambi, in sede di ballottaggio, con la stessa larga maggioranza ottenuta da Manin, mentre i candidati del Circolo italiano, Mezzacapo e Mainardi, riportarono risultati assai modesti)(295).
"Senza il 4 luglio", avrebbe scritto Manin, "non sarebbe stato possibile forse l'11 agosto", in quanto gli sarebbe stato difficile "rannodare anche i patrioti d'altra opinione" e quindi far sì che "la difesa pot[esse] durare oltre un anno dopo l'abbandono"(296). Manin cercò di assicurare la compattezza dell'union sacrée patriottica e la sua ferma direzione del fronte interno con le buone e con le cattive, procedendo all'espulsione di alcuni tra i più accesi albertisti, tra i quali Mocenigo(297), e tentando invece di assicurarsi l'appoggio dei democratici più avanzati, che facevano capo al Circolo italiano, tramite la costituzione, il 15 agosto, di un consiglio di difesa, di cui chiamò a far parte Mezzacapo e Mainardi. Il dittatore ebbe tuttavia l'avvertenza di scegliere gli altri membri nelle file dei moderati: la presidenza fu affidata al contrammiraglio Giorgio Bua, un militare che, al pari di Graziani, doveva dimostrare di non possedere particolari qualità né professionali né patriottiche, il quale fu coadiuvato da Girolamo Ulloa, un maggiore napoletano che era il capo di stato maggiore di Pepe, e da Giovanni Milani, l'ingegnere che aveva progettato e diretto i lavori della Ferdinandea e al quale, come era avvenuto per Cavedalis, il passato di ufficiale del genio militare napoleonico aveva garantito dapprima un posto nel comitato di guerra e poi la direzione di un dipartimento del Ministero.
Quando, agli inizi di ottobre, l'ala più radicale del Circolo italiano, al quale nel frattempo avevano aderito anche il nuovo comandante della guardia civica, il contrammiraglio Giuseppe Marsich, e il suo vice, l'ex patrizio Zilio Bragadin, che aveva comandato provvisoriamente il corpo tra l'accettazione delle dimissioni di Mengaldo e la nomina di Marsich, moltiplicò i suoi attacchi contro il governo provvisorio, Manin fece arrestare ed espellere da Venezia alcuni dei suoi capi (ma anche, volendo dare un colpo al cerchio, un austriacante), suscitando non poche reazioni negative soprattutto tra i militari forestieri. Nello stesso tempo il dittatore decise di riunire l'assemblea e di mettere all'ordine del giorno "la nomina d'un governo nuovo, quando risulti cessato il pericolo urgente, che indusse a conferire la dittatura", un tentativo, più che di dare uno sbocco legalitario alla crisi, di tagliare l'erba sotto i piedi della contestazione filomazziniana. Non stupisce quindi che dall'assemblea dell'11 ottobre i triumviri uscissero riconfermati da una maggioranza schiacciante (105 voti a favore e 13 contro).
In questo modo Manin aveva anche ottenuto una piena legittimazione della sua "politica d'aspettazione"(298), una strategia che cercava di evitare una caratterizzazione istituzionale e ideologica, che poteva risultare controproducente all'interno forse più che all'estero. Non a caso i triumviri si guardarono bene dal richiamare formalmente in vita la Repubblica veneta(299) e preferirono invece rifarsi, ad esempio nella convocazione dell'assemblea legislativa che si sarebbe riunita a partire dal febbraio del 1849, ad un anodino "Stato di Venezia". La "politica d'aspettazione" teneva conto della necessità di non introdurre elementi di divisione nell'unione patriottica e, ad un tempo, di navigare a vista nel mare della politica italiana ed europea in modo da essere in condizione di fare appello tanto agli Stati quanto ai popoli, ai repubblicani come ai monarchici, ai conservatori oltre che ai democratici, sempre che fossero disposti a evitare a Venezia la sciagura di ricadere sotto l'Austria. "Ogni altra combinazione politica" che allontanasse tale destino (in una lettera a Valentino Pasini erano indicate tre ipotesi: "il già ideato Regno subalpino", un Lombardo-Veneto eretto in Regno indipendente e uno Stato veneto anch'esso indipendente) era bene accetta dal governo veneziano(300).
Nei mesi in cui era stato presidente della Repubblica veneta, la politica europea di Manin era andata a rimorchio di quella italiana: Carlo Alberto aveva imposto la parola d'ordine che "l'Italia [era] in grado di fare da sé"(301) e di conseguenza la solidarietà repubblicana, che avrebbe potuto - dovuto, nelle speranze di Manin - favorire un'intesa di Venezia con la Francia (la quale, in ogni caso, da parte sua andava con i piedi di piombo nei suoi rapporti con il governo veneto e, caso mai, sarebbe intervenuta in Italia per impedire la fusione della Lombardia con il Piemonte, non certo per sostenere la rivoluzione veneziana), non aveva inciso in alcun modo sul corso degli avvenimenti. Anzi, le trattative diplomatiche che si erano aperte tra la Francia, la Gran Bretagna e l'Austria erano sfociate in un accordo per una mediazione anglo-francese - un piano che Carlo Alberto era pronto a sottoscrivere e che sarebbe stato seppellito dalla conclusione dell'armistizio del 9 agosto - che prevedeva che, mentre la Lombardia doveva essere unita al Piemonte, Venezia ritornasse sotto l'Austria.
Dopo la conquista austriaca della terraferma migliaia di veneziani avevano firmato una petizione che invitava Manin a chiedere l'intervento francese, una mossa che in quelle settimane non sarebbe certamente approdata ad un risultato positivo, ma che in ogni caso il governo provvisorio aveva evitato di compiere per non irritare Carlo Alberto e i suoi partigiani. La sconfitta piemontese di Custoza aveva convinto lo stesso governo di Torino a sollecitare quello di Parigi a muoversi in aiuto ai vinti; anche Castelli aveva compiuto il 4 agosto, probabilmente su sollecitazione di Manin, un passo in questa direzione. Non meraviglia quindi che una delle prime decisioni prese da Manin l'11 agosto fosse quella di inviare Tommaseo in Francia per chiedere dei "pronti soccorsi"(302). Il governo di Parigi fece sì dei preparativi in vista di una spedizione a Venezia, ma il fermo rifiuto inglese di impegnarsi in una mediazione armata e l'accettazione da parte degli austriaci dell'invito ad aprire delle trattative, che Vienna avrebbe avuto l'abilità di prolungare fino a quando la vittoria di Radetzky a Novara avrebbe tirato un frego su tutta la faccenda, convinse la maggioranza dei ministri francesi a fermarsi sull'orlo del baratro. Tutto ciò che Venezia riuscì ad ottenere dalla Francia fu la presenza di una piccola flotta, che stazionò fino all'aprile del 1849 davanti alla città, senza riuscire peraltro ad impedire agli austriaci di attuare il blocco per mare, mentre sul piano diplomatico fallì il tentativo di Parigi di far accettare a Vienna la tesi piemontese che l'armistizio del 9 agosto riguardava anche Venezia.
Se la "politica d'aspettazione" di Manin non riuscì a garantirgli, a causa di una situazione internazionale oggettivamente svantaggiosa, l'appoggio delle due grandi potenze occidentali, gli consentì comunque di poter contare sull'aiuto intermittente del Regno di Sardegna, che sostenne Venezia con dei sussidi e soprattutto alla fine di ottobre inviò nuovamente la flotta a protezione della città. In ogni caso riesce difficile credere che gli avvenimenti avrebbero preso una piega più favorevole per Venezia, se l'11 agosto fosse prevalsa la linea mazziniana di Sirtori e quindi la città lagunare fosse diventata il centro dell'agitazione repubblicana in Italia e la base di una guerriglia popolare. Tra l'altro il Circolo veneziano sarebbe forse riuscito a conquistare il potere senza il tempestivo intervento di Manin, ma avrebbe avuto enormi difficoltà a conservarlo nei giorni, se non nelle ore, seguenti di fronte all'ostilità di gran parte della popolazione veneziana e di una robusta componente moderata delle forze armate, che Cavedalis aveva già mobilitato nella prospettiva della "fatale necessità di adoperare le armi anche all'interno"(303). Anche nell'ipotesi, quanto mai improbabile, che i filomazziniani avessero avuto la meglio su Cavedalis, la loro vittoria non li avrebbe potuti portare molto lontano dal momento che la resistenza della città riposava sul credito che era disposta a concedere al governo la Venezia dei cittadini più ricchi e, in particolare, il consiglio municipale, il quale riuniva, come sappiamo, la componente più attiva dell'élite abbiente locale(304).
Nel rapporto che Cibrario aveva presentato al governo piemontese dopo la conclusione dell'avventura dei commissari regi a Venezia era stata denunciata una situazione finanziaria sull'orlo della catastrofe: nei mesi precedenti le entrate ordinarie erano state inferiori alle spese per un totale di undici milioni, mentre rimanevano in cassa meno di quattro milioni e le sole spese militari superavano i due milioni al mese; la conclusione: era "inevitabile in termine di due o tre mesi il fallimento"(305). Grazie all'abilità di Isacco Pesaro Maurogonato, uno dei deputati dell'assemblea membro del comitato di finanza, e grazie anche ai risparmi che derivarono da una più rigorosa gestione delle spese militari da parte dell'ex patrizio Marcello, l'intendente generale d'armata(306), in realtà la bomba finanziaria fu disinnescata dal governo di Manin.
Mobilitando, di volta in volta, la Camera di commercio e le quarantadue "ditte" più importanti della città, avvalendosi di una banca nazionale che era stata istituita dal governo Castelli e che permise di stampare una moneta patriottica, facendosi consegnare dai privati l'oro e l'argento e soprattutto chiedendo l'appoggio del consiglio comunale, che garantì in vario modo l'emissione di banconote di carta moneta del Municipio per un totale di ventisette milioni, lo "Stato di Venezia" arrivò alla vigilia della sua scomparsa senza dubbio sempre in debito di ossigeno, come del resto lo era stato fin dal maggio dell'anno precedente, ma anche con un assetto delle finanze miracolosamente ancora in piedi. Quando, nel novembre del 1848, il Comune fu costretto ad assumere la garanzia di due prestiti per complessivi diciassette milioni, impegnando in questo modo quasi nove anni delle sue future entrate, Priuli, appoggiato da Pietro Francesco Giovanelli e da altri ex patrizi, fece presente che Venezia sosteneva da sola il peso di una guerra che era "per l'indipendenza d'Italia" e che quindi era giusto che quei prestiti fossero riconosciuti quali prestiti nazionali dai governi e parlamenti degli Stati italiani che appoggiavano Venezia, e che la circolazione della carta moneta emessa nelle lagune fosse da essi "obbligata e guarentita"(307).
Entrambe le richieste non furono accolte dai governi di Torino, Firenze e Roma né nell'ultimo scorcio del 1848, né nei mesi seguenti, così come si risolse in un sostanziale fallimento il prestito nazionale di dieci milioni destinato ai patrioti italiani e lanciato in settembre nella penisola (fu raccolto mezzo milione nell'arco di un semestre). Se Venezia, la "gran mendica" di Goffredo Mameli(308), beneficiò in quei mesi di una generosa campagna di opinione e di stampa, tuttavia è anche vero che, qualora si escludano le tre rate effettivamente versate di un sussidio mensile di seicentomila lire concesso dal Piemonte e poco più di centocinquantamila lire inviate da Roma, la solidarietà dei patrioti italiani nei suoi confronti rimase un mero esercizio retorico, non si tradusse in quei "danari ancora e danari" che ritornavano quali Leitmotiven nel diario di Cicogna, quando affrontava, in sintonia con Priuli, il tema del "propugnacolo dell'Italiana Indipendenza"(309).
Nonostante il blocco, nonostante che la situazione italiana ed europea non offrisse molte speranze, nonostante la novità, sempre respinta con orrore in passato nel Lombardo-Veneto, della carta moneta(310), agli inizi di novembre Venezia appariva a quel Cicogna, che pure all'indomani dell'11 agosto non aveva nascosto il suo pessimismo(311), in condizioni sotto ogni aspetto, finanza eccettuata, più che accettabili: "non le mancano, anzi sovrabbondano di viveri [...]. Vi sono combattenti valorosi, uomini atti a difenderla, vi son munizioni da guerra, vi è un'armata nostra navale, vi è unita ad essa la flotta piemontese. Venezia non può temere di essere assalita per parte di terra, attesa la unica sua posizione [...]. Venezia non è assalita dalla parte di mare, perché guardata dalla propria e dalla flotta piemontese. Venezia nel suo interno è ottimamente amministrata da' dittatori, tutto vi è tranquillo, l'ordine pubblico non è punto turbato [...]. Gli artieri tutti lavorano, spezialmente i sarti, i calzolai, i berettari, i merciai, i facchini ec. ec. A nessuno manca mezzo di procacciarsi il pane. E anche i mendicanti e girovaghi sono in pochi numeri, a paragon di quello ch'era nel blocco 1813-1814. I soli possidenti e negozianti possidenti hanno molte contribuzioni e puossi dire ch'essi soli sostentano o co' loro dinari o colle cambiali la nostra città, ma pure lo fanno con tanta premura per la causa italiana, che pochi o nessuno io udii lamentare [...]. Non vogliamo dinastia austriaca né altra forestiera; vogliamo essere del tutto italiani"(312).
Il sentimento di sicurezza che Cicogna esibiva sul fronte militare derivava soprattutto dal fatto che pochi giorni prima, nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, un attacco a sorpresa delle truppe veneziane contro Mestre (Sirtori era stato tra coloro che si erano particolarmente distinti nel combattimento) aveva permesso di infliggere al nemico perdite notevoli (quasi novecento uomini, tra i quali seicento prigionieri: centocinquanta i morti e i feriti nei ranghi delle truppe di Pepe), di catturare sei cannoni e di occupare per poche ore la cittadina(313). La sortita era la prova che Pepe e Cavedalis avevano trasformato, grazie ad un incredibile lavoro organizzativo, le truppe più o meno improvvisate, che erano affluite a Venezia dopo la caduta della terraferma, in "combattenti valorosi" in grado di lottare alla pari contro gli austriaci(314). Ma l'episodio di Mestre indicava anche che Manin, incoraggiato dalle notizie che in quelle settimane davano Vienna in mano ai democratici e gli ungheresi in marcia verso l'Austria, aveva finito per riconoscersi nella strategia mazziniana propugnata dal Circolo italiano, nel progetto, nel contesto veneziano, di suscitare la guerra di popolo nella terraferma. Da questo punto di vista la sortita, pur avendo raggiunto gli importanti obiettivi di facilitare i rifornimenti di Venezia via terra e di rincuorare la popolazione, doveva essere considerata un totale fallimento: come scrisse Manin, "la nostra speranza andò finora delusa, e i nostri moti non ebbero corrispondenza"(315). Inoltre la 'violazione' da parte veneziana dell'armistizio di fatto che, almeno sul fronte di terra, gli austriaci avevano fino ad allora rispettato indusse la diplomazia inglese a tirare le orecchie a Manin(316), che di conseguenza fece calare la saracinesca sulle operazioni militari.
Alla vigilia del Natale del 1848 i triumviri indissero le elezioni, da tenersi un mese più tardi, per un'"assemblea permanente dei rappresentanti dello Stato di Venezia", che, diversamente dall'assemblea provinciale, che aveva avuto un mandato limitato, potesse "decidere su qualsiasi argomento, che si riferisca alle condizioni interne ed esterne dello Stato". Erano previsti, oltre a dodici collegi elettorali territoriali, anche due collegi per l'esercito e la marina (quattordici deputati su un totale di centoventinove). I candidati potevano essere votati in ciascuna circoscrizione. L'assemblea doveva rimanere in carica per sei mesi(317). La campagna elettorale fu assai vivace: votò negli ultimi giorni di gennaio quasi il 70% degli aventi diritto. Ottennero il maggior numero di voti, nell'ordine, Manin, Cavedalis e Tommaseo. Dalle urne uscì rafforzata, anche se continuò a rimanere minoritaria, la componente che faceva riferimento al Circolo italiano e che era appoggiata da Tommaseo, quelle "molte teste riscaldate" che suscitavano timori in Cicogna, il quale avrebbe preferito "persone impassibili non partigiani della Repubblica, né partigiani albertisti o austriaci"(318), vale a dire una maggioranza espressione dell'unione sacra patriottica, che Manin aveva promosso il 13 agosto.
Del resto la stessa convocazione dell'assemblea permanente può essere considerata la risposta di Manin alle pressioni, in parte divergenti, se non contraddittorie, alle quali era stato sottoposto nelle settimane precedenti sia dalle "teste riscaldate" di Venezia che dai ministeri democratici dell'Italia liberale (quelli di Vincenzo Gioberti in Piemonte, di Giuseppe Montanelli in Toscana e di Giuseppe Galletti a Roma, dove, dopo la fuga del papa, ci si stava avviando a grandi passi verso la proclamazione della Repubblica) a favore di un'assemblea costituente, che doveva riunirsi a Roma e quanto meno promuovere un coordinamento nazionale della guerra contro gli austriaci. Quando l'assemblea permanente si riunì per la prima volta il 15 febbraio, Manin dichiarò ai deputati che sarebbero stati "chiamati a decidere sul principio e sulla opportunità che anche Venezia debba aderire, e mandare i propri rappresentanti alla Costituente italiana"(319). Ma nei giorni successivi, di fronte all'atteggiamento ostile del Piemonte nei confronti della deriva repubblicana o criptorepubblicana di Roma e della Toscana e al fatto che l'Italia centrale non offriva un'alternativa militare credibile rispetto a quella rappresentata dal Regno di Carlo Alberto, Manin non solo cancellò dall'agenda dei lavori dell'assemblea permanente il tema della costituente italiana, ma si batté anche con successo contro Sirtori e gli altri "repubblicani più spaccati", che chiedevano che Venezia abbandonasse la "politica d'aspettazione" per aderire all'asse radicale Roma-Firenze.
Se sul piano della politica estera l'offensiva di Sirtori fallì del tutto, colui che Leoni chiamava il "capo dell'opposizione"(320) ottenne invece dei successi tattici, quando cercò di limitare i poteri del governo a favore di quelli dell'assemblea e di legittimare la proposta dei circoli di sinistra di costituire una commissione militare destinata a rilanciare la guerra di popolo, successi che indussero ancora una volta il moderato Cavedalis a progettare, sembra d'intesa con il Municipio, "un 'diciotto brumale' in miniatura"(321). Tuttavia anche sul fronte politico interno Manin finì per avere la meglio, grazie, tra l'altro, all'appoggio, il 5 marzo, di una successione di manifestazioni popolari, la più imponente e minacciosa delle quali fu arrestata dallo stesso Manin, quando stava per invadere, seguendo il modello parigino, la sala del Palazzo Ducale, dove era in riunione un'assemblea che aveva appena negato l'urgenza ad una proposta di Giovan Francesco Avesani di "conservare la dittatura illimitata agli attuali triumviri durante lo stato d'assedio di Venezia"(322). Il 7 marzo l'assemblea nominò con 108 voti a 2 "un capo del potere esecutivo, col titolo di presidente, nella persona di Daniele Manin", delegandogli "pieni poteri per la difesa interna ed esterna del paese", mentre l'assemblea "conserva[va] in sé il potere costituente e legislativo, compreso quello di deliberare sulle sorti del paese"(323).
Il 10 marzo Manin, che si attribuì il portafoglio degli Esteri, scelse quali ministri Cavedalis (Guerra), Graziani (Marina), Pesaro Maurogonato (Finanze), l'avvocato Giuseppe Calucci (Giustizia e Affari interni) e l'abate trevigiano Giuseppe Da Camin (Culto, Istruzione e Beneficenza). Se si eccettua Da Camin, uno dei vicepresidenti del Circolo italiano(324), il ministero rifletteva la maggioranza moderata che, non sempre compattamente, aveva sostenuto Manin nella prima sessione dell'assemblea. Pochi giorni più tardi il Piemonte decise di denunciare l'armistizio del 9 agosto 1848; la ripresa della guerra sfociò nel giro di quarantott'ore nella disastrosa sconfitta di Novara, che privò definitivamente Venezia dell'appoggio della flotta sarda. Pepe aveva elaborato piani assai ambiziosi in vista della seconda campagna di Carlo Alberto, ma tutto ciò che gli riuscì di fare fu di concentrare a Chioggia cinquemila uomini e un'altra consistente forza a Marghera e di dare, come scrisse egli stesso, "piccoli assalti", affatto ininfluenti sul piano strategico, ai margini della laguna(325). Il 2 aprile, dopo che era arrivata a Venezia la definitiva conferma della sconfitta piemontese e dell'armistizio stipulato a Vignale dal nuovo re Vittorio Emanuele II, l'assemblea si riunì a porte chiuse e decretò all'unanimità di resistere all'austriaco "ad ogni costo", conferendo a tale scopo a Manin "poteri illimitati"(326). Cicogna commentò nel suo diario, dando voce a convinzioni che a Palazzo Ducale nessuno aveva osato esprimere, che "ad ogni costo" era un'"espressione [...] enfatica", un "pleonasmo"; il significato 'vero' del decreto era: "resisteremo finché avremo dinari per vivere"(327).
Due giorni più tardi Manin inviò una nota ai ministri degli Esteri di Francia e Gran Bretagna, chiedendo loro che scegliessero essi stessi i mezzi che potessero evitare a Venezia di ritornare sotto l'Austria(328): la richiesta cadde nel vuoto. Il 12 aprile Leoni dipinse nella sua cronaca una città in preda ad "allarme e mestizia grande" nell'imminenza della ripresa del blocco per mare: "molti dicono di partire, molti di provvedersi di farine e burro, altri perfino parlano per la prima volta di capitolazione; parola nuova dopo dieci mesi di assedio sopportato con tanta rassegnazione anzi letizia [...]. La carta moneta dopo gli ultimi rovesci è discesa al 35 per cento [...]. Le cose cominciano a farsi gravi; i possidenti da dieci mesi non riscuotono un soldo dalla terraferma: i viveri che incariscono: la nostra flotta impotente ad una sortita: i magazzini poco provvisti [...]. Niuna speranza vicina, ecco la nostra condizione"(329). In quello stesso giorno Manin manifestò il timore che "si faccia un inutile sperpero di nuove sostanze e di sangue" e invitò Valentino Pasini, che rappresentava a Parigi il governo veneziano, ad ottenere dalle due potenze mediatrici "una decisione, che, quando pur fosse crudele, gioverebbe a risparmiare delle stragi e del sangue"(330).
Quale potesse essere questa "decisione [...] crudele", Manin lo chiarì il 22 aprile, quando diede il suo consenso all'ipotesi di un "Regno lombardo-veneto, separato e costituzionale" anche sotto "un principe austriaco"(331). A distanza di più di un anno dalla sua "redenzione" una Venezia lasciata a se stessa cercava una via d'uscita politica nel progetto che nel gennaio del 1848 lo stesso Manin aveva illustrato alla congregazione centrale. Ma l'Austria del principe e generale Felix Schwarzenberg e, soprattutto, di Radetzky non poteva accettare una soluzione della questione di Venezia che fosse diversa da quella militare: la città ribelle doveva arrendersi. Anzi è probabile che Radetzky sperasse di poter fare anche a meno di un'intesa con le autorità rivoluzionarie veneziane. Come avrebbe spiegato il suo portavoce Schönhals, l'operazione austriaca contro Venezia "non fu né blocco, né assedio, ma bensì un poderoso attacco" in primo luogo contro il forte di Marghera, il punto chiave della difesa veneziana. Il 4 maggio sei batterie austriache bombardarono l'interno del forte nella speranza di "spaventare la guarnigione [...] e indurla colla sorpresa a sgombrare o capitolare". "Non si aspettava una vigorosa resistenza"(332): è probabile che Radetzky avesse coltivato la speranza che il crollo improvviso di Marghera portasse con sé quello di tutto il sistema difensivo veneziano e che di conseguenza i "ribelli" potessero essere spazzati via senza tante storie.
Ma Marghera, dove Ulloa aveva assunto il comando, non cedette; anzi i suoi cannoni inflissero danni notevoli alle batterie nemiche, che in ogni caso non avevano a disposizione le munizioni necessarie a continuare l'attacco. La sera dello stesso giorno Radetzky concesse una breve tregua ai "veneziani" (non intendeva riconoscere neppure indirettamente il rivoluzionario Manin) affinché avessero il tempo di aderire ad un ultimatum, che prevedeva una "resa assoluta, piena ed intera". Manin replicò a Radetzky che l'assemblea dei rappresentanti aveva deciso di resistere, ma si dichiarò anche disposto ad aprire delle trattative con il governo austriaco allo scopo di "procurare a Venezia una conveniente condizione politica". Il feldmaresciallo si persuase che con questa risposta i "sudditi ribelli" avessero oltrepassato tutti i limiti e che fosse giusto che Venezia "sub[isse] la sorte della guerra": decise quindi di interrompere il "carteggio" con il "Governo revoluzionario"(333).
Il bombardamento di Marghera riprese nei giorni successivi con un'intensità tale che, nonostante i difensori (tra i quali si distinsero particolarmente Sirtori e gli ufficiali di artiglieria napoletani) avessero - come avrebbe riconosciuto, tra gli altri, Schönhals - "combattuto con eroismo e perseveranza" tanto da meritarsi "unanimi parole d'encomio al [loro] valore"(334), il 26 maggio Manin emanò un decreto che approvava l'evacuazione del forte. Il consiglio di difesa decise di far saltare alcuni archi del ponte ferroviario e di collocare una batteria in un piazzale a metà del ponte: la presa di Marghera aveva fatto soltanto arretrare la linea di resistenza veneziana su posizioni che nei mesi seguenti l'esercito di Pepe avrebbe dimostrato, grazie ad un convinto appoggio popolare, di essere in grado di difendere "ad ogni costo". Fu probabilmente la consapevolezza che, nonostante il successo conseguito a Marghera, la conquista di Venezia non sarebbe stata affatto una passeggiata, anche a causa dell'imprevista fermezza del fronte interno, che indusse Radetzky a più miti consigli.
Il 31 maggio Karl Ludwig von Bruck, il ministro per il Commercio, che stava conducendo le trattative di pace con il Piemonte e che nello stesso tempo aveva anche l'incarico di elaborare uno statuto per il Lombardo-Veneto in linea con la costituzione dell'Impero emanata il 4 marzo(335), invitò Manin ad intavolare quelle "dirette trattative col Ministero imperiale" che il "signor avvocato" (anche Bruck adoperava i guanti per trattare con i rivoluzionari) aveva chiesto "per giungere ad uno scioglimento più pronto e facile"(336). Manin convocò immediatamente l'assemblea a porte chiuse e tracciò un quadro quanto mai cupo della situazione internazionale: anche "le speranze che si avevano riposte in soccorso della Ungheria" (l'inviato veneziano Lodovico Pasini stava conducendo delle trattative ad Ancona con il generale János Bratich che avrebbero portato tre giorni più tardi a stipulare un'"alleanza offensiva e difensiva" tra Venezia e il governo di Lajos Kossuth destinata a rimanere lettera morta)(337) erano state distrutte dall'intervento russo in appoggio all'Austria. Non rimaneva che trattare con Vienna sulla base del "progetto del Regno Lombardo-Veneto separato e costituzionale" indicato nella lettera del 22 aprile a Valentino Pasini. L'assemblea, pur riconfermando il decreto della resistenza "ad ogni costo", autorizzò Manin a "continuare le trattative" "sulle basi delle istruzioni" del 22 aprile(338).
Le trattative furono condotte da parte veneziana da Calucci fiancheggiato dapprima dall'ufficiale di marina Giorgio Foscolo (entrambi avevano avuto rapporti con Bruck, un triestino di elezione) e poi da Lodovico Pasini e si svolsero in due tappe. Nel corso della prima (2-11 giugno) Bruck, dopo aver respinto seccamente l'ipotesi di una Venezia città libera ed aver sottolineato che il Lombardo-Veneto sarebbe stato sì costituzionale, ma non poteva essere "separato" dall'Impero, riferì ai delegati veneziani le linee generali di un progetto di statuto, che Albert Montecuccoli-Laderchi, il commissario plenipotenziario nel Regno (in pratica, l'autorità civile che assisteva l'onnipotente Radetzky), stava elaborando a Milano, un progetto relativamente avanzato che prevedeva la concessione di ampie autonomie e collocava la capitale del Lombardo-Veneto a Verona. Quanto a Venezia, aveva tre possibilità: poteva far parte del Regno quale si stava profilando, rimanere capitale del Veneto (in questo caso il Regno sarebbe stato diviso in due parti) oppure diventare città imperiale. Bruck invitava in ogni caso i veneziani a "concorrere col fatto proprio a stabilire la condizione futura della patria, anziché abbandonarla all'esito non più dubbio né lontano di una guerra micidiale e devastatrice"(339).
Il 15 e il 16 giugno l'assemblea si riunì nuovamente a porte chiuse per fare il punto sulle trattative. Fu eletta una commissione, di cui entrò a far parte una maggioranza di "repubblicani più spaccati", che approfittò dell'ambigua situazione che si era venuta a creare (Manin era indebolito dalla sua posizione a metà del guado tra la resistenza ad ogni costo e l'evidente desiderio di trovare un accordo con l'Austria) per alterare gli equilibri politici veneziani a vantaggio dell'assemblea e, soprattutto, della sua componente radicale. Fu costituita, esautorando di fatto gli anziani ex napoleonici, che godevano della fiducia di Manin (Cavedalis, Pepe, Graziani, Bua, ecc.), una commissione militare "con pieni poteri per tutto quello che alle cose militari appartiene", la quale riaffermò fin dal suo primo proclama "la risoluzione di resistere ad ogni costo". Furono eletti a farne parte i 'giovani' - erano tra i trentaquattro e i trentanove anni - Ulloa, Sirtori e Francesco Baldisserotto, un tenente di vascello assai vicino a Sirtori. Se Manin fu autorizzato a continuare a trattare con Bruck, fu tuttavia messa al suo fianco una commissione consultiva, "con la quale il Governo deve conferire per quel che riguarda le negoziazioni con gli esteri". Anche se in quest'ultima commissione di cinque membri prevalevano i moderati(340), è evidente che in ogni caso dei "poteri illimitati" conferiti a Manin il 2 aprile rimaneva soltanto un simulacro dopo la svolta del 16 giugno.
Quando gli inviati veneziani incontrarono nuovamente Bruck, si trovarono posti di fronte ad un fatto compiuto. Montecuccoli aveva definito il progetto di statuto del Lombardo-Veneto, dandogli, probabilmente sotto l'influenza dei militari, una curvatura che riproponeva sostanziamente, sotto il belletto costituzionale, "il sistema ch'era in vigore in queste provincie avanti il marzo 1848" e quindi non aveva "nessun rispetto [...] per la nazionalità italiana". Per di più lo statuto sarebbe rimasto in un cassetto fintantoché Venezia non si fosse arresa, né gli austriaci erano disposti a concedere "un intermedio regime provvisorio" che evitasse alla città un'occupazione militare: Bruck ripropose quindi le condizioni della resa enunciate da Radetzky il 4 maggio, aggiungendovi alcune clausole relative alla carta moneta (il cui valore nominale era diminuito, a seconda se del Comune o patriottica, di un terzo o della metà e il cui ammortamento era posto a carico del Municipio) e alla sorte dei compromessi nella rivoluzione(341). Il 30 giugno Manin riferì sull'esito dei negoziati e fece capire chiaramente che i veneziani, "in possesso di piazza di guerra importante, non ridotti agli estremi", non potevano "onorevolmente capitolare". Fu quindi approvato con 105 voti contro 13 un ordine del giorno che respingeva i "disonorevoli patti di capitolazione". La minoranza, che avrebbe voluto che la decisione fosse presa soltanto dopo un accurato inventario dei "mezzi di resistenza" e che, quanto al merito, era convinta che l'assemblea non avesse il diritto di "sacrificare [...] l'intera città", trovò i suoi portavoce in due "veneziani in cuore ed anima", gli ex patrizi Nicolò Priuli, un "gentiluomo amatissimo nella città", e l'abate Pietro Canal(342).
Da una parte i fautori della resistenza ad ogni costo, per lo più militari e "repubblicani più spaccati" (un loro nemico li definiva "gente, o non surta dal suo seno e cui nulla cale della distruzione della città, o animata dal proprio particolare interesse perché prevede, a un cambiamento di scena, la perdita propria, e l'esilio, e la morte o è gente spinta da falso amore di gloria")(343), stretti intorno ad una commissione militare che si era guadagnata la stima di molti sia per il suo attivismo e per la sua competenza (salvo che sul fronte della marina), sia perché "conducendosi con molta moderazione smenti[va] le apprensioni di chi temeva improntati i suoi atti di terrorismo"(344). Dall'altra i partigiani della resa guidati da un pugno di notabili, i quali, come era il caso di Cicogna, avevano spesso condiviso e per un certo verso continuavano a condividere sentimenti d'italianità (Venezia doveva accontentarsi, aveva scritto l'erudito all'indomani dell'abbandono di Marghera, "di avere la gloria d'essere stata la prima, e l'ultima città d'Italia che sostenesse la propria indipendenza": ma nelle condizioni in cui si trovava non le rimaneva altro che sottoscrivere "una ancora onorevole capitolazione")(345), ma erano anche convinti, come aveva dichiarato Canal, "che per un piccol numero di volontarii che vanno a farsi uccidere o per poca gente troppo animata non è giusto sacrificare una popolazione intiera che fra poco non ha più da vivere per mancanza di vettovaglie"(346).
Tra i due schieramenti Manin, che era "ridotto a firmare mandati di cassa, e a starsene chiuso in Palazzo" "di mestissimo umore"(347). L'ex dittatore conservava un vasto seguito nelle classi popolari e borghesi e la sua relativa emarginazione politica rifletteva, più che un declino di popolarità oppure la compiuta militarizzazione della città, il fatto che esitava tra due scenari entrambi angoscianti. Da un lato era convinto che, se avesse proclamato che non era "più caso di resistere, il sistema [sarebbe] croll[ato], come per una resa a discrezione"(348), Venezia sarebbe rimasta preda della "schifosa anarchia" e sarebbe stato "perduto in fine l'onore, ch'era la sola cosa che [...] fosse possibile salvare"(349). Dall'altro, proprio perché sapeva di essere il punto di riferimento della maggioranza dei veneziani, temeva che la sua adesione passiva (in quelle settimane evitò di parlare in pubblico) alla linea della commissione militare inducesse i concittadini a continuare a sacrificare inutilmente se stessi e i loro beni, che si consumasse in questo modo la distruzione delle basi di quella "prosperità materiale di questo paese", per la quale si era sempre battuto e che in ogni caso vedeva minacciata anche dalle condizioni della resa esposte il 23 giugno da Bruck, condizioni che gli apparivano dettate più dal rappresentante degli interessi della rivale Trieste che dal ministro austriaco(350). Certo, Manin voleva lasciare in eredità alla città un "honneur suprême / plus durable et plus pur que la liberté même, / la gloire de la mériter"(351), ma per raggiungere questo obiettivo non era necessario "durare fino all'ultimo pane e fino all'ultimo grano di polvere"(352).
Nella seconda metà di luglio s'infittirono, mentre la carestia si aggravava sempre più, le scritte sui muri e i manifesti con i quali "si eccitavano i Veneziani ad aprir gli occhi, ed a ristabilire l'autorità di Daniele Manin, come del solo uomo capace di promovere il vero bene della città nelle attuali circostanze"(353). Questa richiesta fu fatta propria il 28 luglio da Giambattista Ruffini, un funzionario del governo, nel corso di una seduta a porte chiuse dell'assemblea: Manin fu presentato quale la "sola persona, la quale così ami la salvezza di Venezia da non ridurla ad una resa a discrezione, e così ne rispetti l'onore da fare in modo che la sua resa non sia che effetto di necessità". Ma Manin si schermì, sostenendo che era invece "necessario il governo di un solo, e militare, il quale abbia anche facoltà di prendere le misure necessarie in un momento estremo". Nessuna delle due proposte fu messa ai voti, ma il fatto che la mozione del "repubblicano più spaccato" Giambattista Varè, in cui si alzava ancora una volta la bandiera della resistenza ad ogni costo, fosse bocciata, sia pure di stretta misura (50 voti a favore e 52 contro), indicava che la componente radicale stava perdendo terreno, oltre che in città, anche nell'assemblea(354).
Il giorno successivo le batterie austriache, che erano rimaste silenziose nelle due settimane precedenti, presero a bombardare quasi tutti i sestieri della città, fatta eccezione per Castello. I cannoni erano stati piazzati sul terreno in modo che potessero tirare a doppia carica e con un angolo di 42-45 gradi: ciò aveva permesso di raddoppiare o quasi la loro gittata. La capacità distruttiva delle artiglierie imperiali rimase comunque limitata: nonostante che fino al 22 agosto ventitremila proiettili colpissero Venezia, i morti furono soltanto sette, alcune decine i feriti e assai limitati i danni provocati dagli incendi. Sempre il 29 luglio si sparse la voce che era "scoppiato in Venezia il cholera asiatico"(355). La diffusione dell'epidemia fu quanto mai favorita, oltre che dalla terribile carestia, dall'affollamento e dalle scarse condizioni igieniche provocati dagli spostamenti della popolazione dalle zone colpite dal bombardamento a quelle sicure. In meno di un mese i morti furono quasi tremila.
Il 30 luglio, mentre in consiglio comunale l'ex patrizio Andrea Valmarana e altri consiglieri invitavano il Municipio a chiedere al governo di fargli "conoscere il vero stato annonario, sanitario e difensivo"(356) e quindi si profilava un tentativo da parte della congregazione di riprendersi una parte di quei poteri che aveva ceduto nella notte tra il 22 e il 23 marzo 1848, un altro ex patrizio, Girolamo Dandolo, "presentò alla Congregazion municipale [...] una carta bene scritta affinché la Comune s'interessi presso il governo per venire ad una onorevole capitolazione"(357). Essendosi il podestà rifiutato di accoglierla, il 2 agosto Dandolo trasformò la "carta" in una petizione da presentare all'assemblea: il documento fu sottoscritto dal patriarca e da un'ottantina di altri veneziani. Venuti a conoscenza dell'iniziativa, un paio di centinaia di membri o di simpatizzanti del Circolo italiano, molti dei quali appartenenti alle classi popolari, devastarono Ca' Querini Stampalia, il palazzo dove abitava il patriarca(358), un'azione intimidatoria contro il 'partito' della resa, che aveva già conosciuto un precedente la sera del 30 giugno, quando erano state prese di mira le case di Priuli e di Canal.
A questo punto Manin decise di uscire allo scoperto. Il 5 agosto si preparò il terreno nell'assemblea, denunciando che le condizioni di Venezia erano "orrendamente deteriorate" e che la commissione militare aveva malamente gestito la mobilitazione della guardia civica, un provvedimento che era stato preso per consolidare una difesa che doveva fare i conti con un numero sempre maggiore di soldati ammalati. Il giorno seguente il presidente del governo dichiarò di non avere più "alcuna speranza" circa la sorte di Venezia; a suo avviso rimanevano all'assemblea due strade: affidare il governo a Sirtori o ad altri inclini alla "prolungazione della resistenza" oppure cedere il potere al Municipio, il quale avrebbe intavolato "le trattative con l'inimico". Dopo un acceso dibattito che vide schierarsi con Manin, tra gli altri, Ulloa, Baldisserotto e Cavedalis, e contro Sirtori e Tommaseo, fu approvata con 56 voti a favore e 37 contrari la proposta di Minotto di concentrare in Manin "ogni potere acciò provvegga come crederà meglio all'onore ed alla salvezza di Venezia"(359).
Nei giorni immediatamente successivi Manin si preoccupò di garantirsi gli strumenti che gli erano necessari per evitare che la "schifosa anarchia" prevalesse nella fase di transizione dalla Venezia libera alla Venezia austriaca. Il dittatore trovò la sponda più importante nel Municipio, il quale, convinto che "la mancanza di mezzi finanziari potrebbe avere la più dannosa conseguenza per la pubblica quiete"(360), mise a disposizione i fondi necessari per pagare i militari (era stato previsto di dare da uno a tre mesi di stipendio agli ufficiali a seconda se fossero o no costretti ad esulare in quanto ex ufficiali austriaci oppure in quanto provenienti da Stati diversi dal Lombardo-Veneto e venti giorni di soldo alla truppa) e per assicurare il loro trasporto e quello dei quaranta 'politici', tra i quali Manin, Tommaseo e gli altri esponenti più in vista della rivoluzione, che Radetzky aveva deciso di proscrivere. Inoltre la congregazione, replicando alla vigilia della restaurazione austriaca un provvedimento adottato alla vigilia della rivoluzione contro gli austriaci, si associò "alcuni tra i più stimabili cittadini"(361), tra i quali Priuli, Calucci, Errera e Marsich, in modo da rendere più agevole il passaggio delle consegne alle autorità austriache.
Dopo che erano state mobilitate la gendarmeria (furono incarcerati più di centotrenta 'facinorosi', in gran parte appartenenti alle classi popolari) e la guardia civica per prevenire i tumulti dei partigiani della resistenza ad ogni costo, dopo che la flotta veneziana aveva fatto una crociera nella speranza di impressionare gli austriaci, l'11 agosto Manin inviò un messaggio a Bruck, annunciandogli "di essere pronto ad entrare in trattative sulle clausole positive di una convenzione, che sia conciliabile con l'onore e la salvezza di Venezia"(362). In un primo tempo gli austriaci tentarono di costringere la delegazione composta dai rappresentanti del Municipio Medin, Priuli e Calucci, da Cavedalis "rappresentante la parte armata" e da Andrea Antonini "rappresentante il commercio" ad accettare puramente e semplicemente quanto aveva stabilito Radetzky il 4 maggio. Soltanto il 22 agosto il generale di cavalleria Karl Gorzkowski, il principale interlocutore della delegazione in qualità di comandante del 2° corpo di riserva e futuro governatore di Venezia, acconsentì a dare "alcune dilucidazioni", vale a dire delle assicurazioni, circa il destino della carta moneta e, un giorno più tardi, riguardo ad un'amnistia di fatto ("potranno rimanersi in patria senza tema di molestie per le cose passate") a beneficio di quei civili che si erano compromessi "in linea politica" e che non erano stati inclusi tra i quaranta proscritti(363). Il 24 agosto il governo di Manin trasmise "le attribuzioni governative" al Municipio(364).
Nonostante le misure prese da Manin, le ultime ore di Venezia libera furono assai agitate a causa degli assembramenti di gente impaziente di conoscere quale fosse il destino della città e, soprattutto, dell'ammutinamento di parecchi soldati - una cinquantina di artiglieri della marina s'impadronirono di una batteria per sostenere le loro ragioni - che pretendevano anch'essi tre mesi di paga(365). Manin si prodigò con successo, insieme ad Ulloa e a pochi altri(366), per conservare, come affermò nell'ultimo discorso che tenne, il 23 agosto, in piazza S. Marco, "l'onore immacolato di questa Venezia, che [era] ammirata da tutto il mondo per la condotta, che [aveva] tenuto" fino ad allora(367). "Fu un miracolo che tutto seguisse quietamente", commentò Cicogna di fronte alla "placidissima cessione": "a poco a poco e in picciol numero fu occupata la città" dagli austriaci tra il 24 e il 30 agosto in base ad un calendario che era stato concordato con Cavedalis(368).
"Computato ogni cosa, a Venezia il chiamarsi Repubblica costò un sessanta milioni"(369): va da sé che il 1848-1849 veneziano non possa ridursi alla discutibile contabilità, tra l'ammirato e il sarcastico, di Tommaseo, ma è anche vero che il dalmata coglieva in questo modo un aspetto nient'affatto secondario della rivoluzione-"redenzione" veneziana, vale a dire la sua continuità con il "risorgimento" economico-sociale del decennio precedente. Si può ricordare, in ogni caso, che sessanta milioni corrispondevano, più o meno, a quanto nel 1847 si prevedeva potesse essere la spesa totale del tratto Venezia-Brescia della Ferdinandea(370). Certo, nel 1848-1849 le grandi 'ditte' di Venezia avevano 'investito' nel "chiamarsi Repubblica" in risposta a movimenti e sconvolgimenti oceanici, rispetto ai quali quanto succedeva a Venezia conservava irrimediabilmente, al di là della lungimirante visione nazionale e internazionale di Manin e dell'indiscutibile prevalenza del patriottismo su una prospettiva municipalista, un carattere lagunare. Va comunque riconosciuto che la pur difficile saldatura tra una forte coscienza cittadina, che veniva da molto lontano, e la nuova temperie liberal-nazionale aveva prodotto un fenomeno straordinario, una partecipazione e una tensione diffuse in tutte le classi sociali, che avevano avuto quale motore la volontà di riappropriarsi, al di là della città e della sua storia (basta pensare a Samuele Romanin), di se stessi.
"Quel Palazzo ducale, quell'Arsenale magnifico erano finalmente suoi", avrebbe scritto il democratico Francesco Dall'Ongaro a proposito dei popolani di Venezia. "La piazza di San Marco era sua! [...] Ogni sera i poveri abitanti de' più remoti sestieri, che per lo passato non si recavano in piazza se non nelle primarie solennità, rubavano un'ora a' consueti lavori per visitare il loro nuovo dominio, ed ammirare il leone risorto sugli stendardi"(371). Sotto il segno della preoccupazione, ma sulla stessa falsariga la versione di un conservatore quale Sceriman: "questo popolo tumultuante, che vuole colla vigoria e virtù dei polmoni mutare i nomi ai Caffè, far uscire il Manin o il Tommaseo, udire questo o quell'altro oratore; che smettendo il lavoro sta sulle Piazze a compor gruppi di curiosità, a schiamazzare o fischiare per un nonnulla, darà un giorno serii pensieri. Il popolo Veneziano è essenzialmente buono, ma pochi mesi di scioperatezza scorsi nell'abitudine alle armi anche occulte, agli evviva, alle urlate, alle esigenze anche incomposte, alle grida di morte basteranno a mutarne il carattere secolare"(372).
Rivoluzione popolare, allora, il 1848 a Venezia? Certamente no, dal momento che genesi, punti di riferimento nazionali e internazionali, regia e obiettivi della rivoluzione furono tipicamente borghesi. Ma è anche vero che la frazione della borghesia veneziana che si distinse nel corso del biennio si rivelò, nonostante i suoi errori, contraddizioni e limiti, in grado di integrare le diverse componenti della società, classi popolari comprese, all'interno di un quadro di valori condivisi. Molti fattori, congiunturali e strutturali, favorirono il carattere 'aperto' della rivoluzione borghese veneziana. Il "risorgimento" economico-sociale aveva spinto alla ribalta alcuni "uomini di parola" a metà strada tra i consiglieri giuridici e gli organizzatori del consenso in nome e per conto dei conti ex patrizi e dei 'commercianti' più ricchi. Nella quanto mai composita classe mercantile veneziana avevano potuto trovar posto - come testimonia la fortuna dei due Busetto, Antonio detto Petich e Giovanni detto Fisola(373) - anche personaggi di estrazione popolare. Inoltre la peculiare tradizione paternalistica veneziana assicurava di per se stessa una notevole coesione sociale in chiave 'repubblicana'. George Sand era rimasta colpita da quanto vi era "encore de beau et de vraiment républicain dans les mœurs de Venise", vale a dire l'affabilità delle classi superiori nei riguardi delle inferiori: "nulle part peut-être il n'y a des distinctions aussi marquées entre les classes de la société, et nulle part elles ne s'effacent de meilleure foi"(374).
In particolare Manin garantì, prima e dopo la parentesi sabauda, una cornice istituzionale e attuò delle politiche sociali ed economiche nelle quali la maggioranza dei veneziani poté riconoscersi e per le quali fu disposta a continuare a battersi anche nelle condizioni più disperate(375). La singolare democrazia di Manin non si realizzò tanto - o, meglio, soltanto - nel ricupero della tradizione repubblicana o nelle assemblee elette a suffragio universale quanto in una versione tribunizia di quel fondamentale rapporto tra il Palazzo e la Piazza (un termine polivalente che rinviava, ad un tempo, al luogo, all'opinione pubblica e alla comunità degli affari), che aveva a lungo connotato la politica veneziana anche dopo la serrata del maggior consiglio. I discorsi del presidente-dittatore al popolo testimoniavano nella forma, spesso dialogica, e nei contenuti la rinnovata coscienza civile dei veneziani, la riconquista di un'identità quale polis: era stata questa, probabilmente, la motivazione principale alla base dell'incredibile resistenza della città.
Quando gli austriaci presero possesso di Venezia, "la popolazione", quella popolazione che si era mostrata "dopo la pubblicata capitolazione, tranquillissima, ed anzi lieta del prossimo fine di patimenti ormai insopportabili", "li accolse tranquillamente, dignitosamente; e per le calli, al mostrarsi di drappelli o di cannonieri passeggianti a diporto, non si osservarono atti o sentirono parole che mostrassero neppure l'impressione della novità"(376), un'ostentata indifferenza assai diversa, ad esempio, dalla gioia con la quale i veneziani avevano accolto gli imperiali nel 1814. Suonavano in ogni caso obbligate le auliche dichiarazioni di buona volontà, che Pietro Cecchetti, un "ufficiale della I.R. Contabilità di stato veneta", premetteva qualche mese più tardi ad una raccolta degli atti del governo austriaco successivi alla resa: "usciti noi testé d'una di queste tremende catastrofi", "non ad altro aneliamo se non al ritorno di quella pace, ch'è il sospiro più fervido di tutt'i cuori, la fonte e il custode d'ogni pubblica e privata prosperità"(377).
Ma l'illusione che con la pace sarebbe ritornata la prosperità che la città aveva goduto prima della rivoluzione sarebbe ben presto svanita, mentre anche per questo motivo sarebbe naufragato, al di là di alcuni successi contingenti, lo stesso tentativo di ricucire i rapporti tra Vienna e le classi dirigenti locali. Quando, in settembre, una delegazione veneziana comprendente il patriarca, il podestà, i due ex patrizi Andrea Giovanelli e Priuli e "pel commercio" Treves e Edoardo Becker si recò a Vienna per chiedere che fosse conservato il portofranco(378), l'imperatore li invitò ad unire tutti i loro "sforzi" ai suoi, "onde possa rinascere l'antica vostra floridezza, assieme colla più specchiata vostra fedeltà". Il deludente bilancio di questi "sforzi" lo tracciò nel luglio del 1850 Priuli in una lettera a Francesco Giuseppe, in cui gli ricordava anche la precedente dichiarazione d'intenti: Venezia "si strugge in un deplorabile stato di dejezione e di avvilimento spogliata del libero suo commercio [il portofranco era stato limitato all'isola di S. Giorgio], privata dei principali uffici centrali traslocati a Verona [la nuova capitale del Lombardo-Veneto] ed a Trieste [fin dal marzo 1848 sede della marina militare], deserta nel suo arsenale, smunta dalle esorbitanti passate e presenti gravezze, abbandonata da negozianti forastieri, disertata da migliaia di abitanti, vedovata da tanti capi di famiglie colpiti dalla proscrizione"; la città era alla "vigilia infausta, ma certa, della prossima sua distruzione"(379).
D'altra parte - faceva capire Priuli tra le righe - se la "floridezza" di Venezia era rimasta uno slogan, come si poteva pretendere dai veneziani una "specchiata [...] fedeltà"? Nei mesi precedenti Priuli aveva fatto parte, insieme ad altri quattro veneziani - Francesco Ambrosoli (un 'commerciante'), Giovan Battista Breganze (un discusso "impiegato regio")(380), Andrea Giovanelli e Reali - di una conferenza di ventun "persone spettabili del Regno Lombardo-Veneto", che era stata riunita a Vienna per contribuire a "fondare quelle istituzioni" del Regno, che erano in sintonia con "la costituzione del 4 marzo", in primo luogo lo statuto del Regno(381). Ma il risultato di questa collaborazione tra le autorità di Vienna e coloro che esse consideravano i loro "uomini di fiducia" nel Regno doveva rivelarsi anch'esso deludente, dal momento che lo statuto non sarebbe mai stato approvato dall'imperatore e di conseguenza Venezia e, in generale, il Lombardo-Veneto non avrebbero mai assaggiato, diversamente dalla maggioranza degli altri domini asburgici, il frutto proibito di una costituzione, la quale, in ogni caso, sarebbe stata anche formalmente abolita in tutto l'Impero alla fine del 1851 in conseguenza della decisa virata in direzione neoassolutista impressa da Francesco Giuseppe alla politica austriaca.
Così Venezia rimase fino alla svolta di metà degli anni 1850, quando furono gradualmente limitati i poteri del governatore generale e dei tribunali in divisa, fu riconosciuta una maggiore autonomia all'amministrazione civile, furono ripristinate nel Regno le congregazioni centrali (quelle provinciali erano state richiamate in vita già nel 1850) e fu concessa un'ampia amnistia, sotto un regime militare fortemente repressivo in quanto era basato sullo stato d'assedio (con relativo coprifuoco nelle ore notturne) e su una 'legge stataria', che permetteva ai tribunali speciali di comminare la pena di morte anche per i reati politici meno gravi. L'indiscusso protagonista di questa fase fu il feldmaresciallo Radetzky, dal 1849 al 1857 governatore generale militare e civile del Lombardo-Veneto. Radetzky perseguì, entro la cornice di una politica viennese che puntava ad una modernizzazione autoritaria dell'Impero, una strategia diretta - come scriveva a Vienna nel 1849 - ad "umiliare il ricco refrattario, proteggere il cittadino fedele, ma soprattutto esaltare le classi inferiori del contadiname"(382).
Una volta applicata al caso veneziano, ad un nido di "ricchi refrattari", che, stando all'accusa rivolta da Schwarzenberg alla delegazione veneziana il 17 settembre 1849, aveva per di più osato far perdere all'Austria, con la sua ostinata resistenza, trentamila uomini(383), la politica del pugno di ferro dell'ottuagenario feldmaresciallo si tradusse in una serie di provvedimenti punitivi, dalla drastica limitazione del portofranco alla "multa per così dire di opinione [...] di più milioni da ripartirsi sulle più agiate famiglie di Venezia, e spezialmente su quelle che mostrarono più genio per la causa italiana, e quindi più odio per il legittimo austriaco sovrano"(384) (uno di quei provvedimenti fiscali chiaramente diretti a far pagare ai "ribelli" i costi del biennio rivoluzionario), dal divieto di diffondere "qualunque produzione intellettuale pubblicata nel periodo dal 22 marzo 1848 sino al 28 agosto 1849 che sia allusiva alle passate vicende politiche, tanto se fatta col mezzo della stampa, del bulino, della litografia, quanto se colla pittura, scultura, col disegno, conio ecc."(385) alla decisione di non riconoscere alcun valore alla carta moneta patriottica e di ridurre al 50% il valore nominale della carta moneta del Comune, dalla "purificazione", vale a dire l'epurazione, dei funzionari in base a criteri discrezionali che, come attesta il diario di Cicogna, suscitarono una profonda ostilità anche in ambienti moderatissimi(386), a un prelievo di coscritti più di due volte superiore a quello in vigore nel Veneto della seconda dominazione austriaca.
Quanto al progetto di "esaltare le classi inferiori" (naturalmente a Venezia non si poteva parlare di "contadiname"), è vero che nella città lagunare come in tutto il Lombardo-Veneto il popolo 'basso' beneficiò di consistenti riduzioni delle imposte di consumo, dell'abolizione della tassa personale e di perdoni generali, che permisero a centinaia di disertori e di compromessi di reintegrarsi senza problemi nella società. Tuttavia nello stesso tempo il governo austriaco prese di mira una delle componenti più importanti della Venezia popolare, gli arsenalotti, i responsabili dell'assassinio di Marinovich e quindi il detonatore della ribellione della marina. "Nell'arsenale", scriveva Cicogna nel novembre del 1849, "avvi gran confusione nell'amministrazione. Ora si licenzia lavoranti, ora se ne riprendono, ora si minacciano di destituire, ora si promette mezza paga, ecc. insomma vivono tutti nell'incertezza del loro destino. E così molti di essi, e di altri impiegati senza un soldo, carichi taluni di famiglia, non han pane, sono ridotti quasi alla disperazione"(387). Non stupisce quindi che il 15 dicembre 1849 l'Arsenale fosse il teatro di un caso Marinovich in sedicesimo: fu infatti ucciso "un ufficiale tedesco [...] da un disperato lavorante, al quale egli avea negato impiego" e che poi "ferì mortalmente collo stesso coltello sé stesso"; sembra che "nel sopraddetto incontro" il lavorante avesse esibito una "sciarpa tricolorata", che aveva indotto l'ufficiale a rispondere alla richiesta di lavoro con un sarcastico: "Cosa vuoi appuntarti che sei repubblicano?", ottenendone una replica a muso duro: "I repubblicani ghe ne sa far de bele" e una coltellata(388).
Le misure prese da Radetzky a carico di Venezia impedirono a lungo alla città di uscire dalla crisi in cui era piombata a causa del blocco. Una statistica relativa ai "negozianti che abbandonarono il commercio" dal 24 marzo 1848 al 31 luglio 1850 segnala che la media mensile dei ritiri, che si era aggirata sulle sei unità tra il giugno del 1848 e l'agosto del 1849, era quasi raddoppiata dopo il ritorno degli austriaci(389). Tra il 1845 e il 1854 a Venezia il consumo pro capite del pane di farina di frumento e della carne diminuì di un quinto(390). La popolazione di Venezia, che nel 1846 toccava quasi i centoventottomila abitanti, sarebbe scesa poco sopra i centoventimila nel 1857, finendo per ritornare sui livelli di partenza soltanto dopo l'annessione del Veneto all'Italia(391). Lo "stato di dejezione e di avvilimento" della città non poteva essere mascherato più che tanto dai tentativi degli austriaci di ripristinare a beneficio dei turisti la Venezia celebrata da Locatelli quale "lieto e sollazzevol soggiorno"(392): "il dì 12 febbraio 1850 ultimo dì del Carnovale", scrisse Cicogna a proposito della prima festa celebrata sotto gli auspici asburgici, "fu così sparuto che non mi ricordo di avere veduto simile. Tutto era morto"(393).
Il diffuso malessere alimentò alcune intermittenti manifestazioni, che testimoniavano la permanenza di una profonda "avversione a casa d'Austria": nel novembre del 1849 "con scritti o con cancellature o con coccarde tricolorate poste per coprire le aquile imperiali sopra i proclami di Montecucoli, di Radetzki, di Gorgoski", mentre nel maggio del 1850 "alcuni matti tolsero dalle mura gli stemmi austriaci" (il comando militare della città rispose con il ripristino del coprifuoco alle undici della sera) e nell'agosto successivo furono distribuiti manifesti che invitavano a boicottare la festa del compleanno dell'imperatore(394). I viaggiatori erano colpiti dall'apartheid che vigeva in piazza S. Marco e che negli anni successivi avrebbe contagiato tutta la società lagunare: i veneziani "ne mettent jamais le pied dans les cafés de l'Autriche, et jamais l'Autrichien ne vient dans les leurs"; "la garnison, la banda" militare, uno degli spettacoli più apprezzati nella Venezia del Vormärz, nonostante suonasse "des morceaux mélancoliques de Mozart" e "des valses autrichiennes, enlevées avec une perfection qui pourrait être applaudie", "ne l'est point"(395).
Il governo austriaco si rese conto che le misure punitive a danno di Venezia rischiavano di essere un autogol per l'Impero: dopo tutto, come aveva ricordato Priuli all'imperatore, "Venezia per cifra di popolazione è la terza città del vastissimo impero vostro, [...] è il secondo dei vostri porti di mare, ed è finalmente la prima, anzi l'unica, per la sua meravigliosa posizione, pei suoi monumenti, per la sua storia"(396). Di qui una serie di provvedimenti a partire dagli inizi del 1850 tanto a favore dei commercianti ("fu ribassato il dazio per le merci estere [...] fino al 10 per cento") quanto dei disoccupati (furono trasportati da Verona a Venezia i laboratori e i magazzini di vestiario e di biancheria per le truppe, un'attività che occupava un migliaio di addetti)(397), mentre "la quota di cent. 25 per ogni lira censuaria di rendita, convenzionalmente destinata alla estinzione della carta comunale", fu "limitata per l'anno 1850 a cent. 5, in riguardo alle angustie economiche in che si trovano i possidenti medesimi"(398). Tuttavia il provvedimento più importante fu senza dubbio il ripristino, nel marzo del 1851, di un portofranco esteso a tutta la città, una misura che consentì negli anni successivi una crescita graduale dei traffici marittimi.
A partire dal 1853 il potere militare di Radetzky, che di fatto lasciava ben poco spazio alle luogotenenze - così erano stati ribattezzati i governi dei due territori - di Venezia e di Milano, divenne sempre meno assoluto. In quell'anno fu affiancato al governatore un consigliere civile e nel 1856 furono chiaramente separati i poteri militari da quelli politici. Anche se Radetzky doveva rimanere in carica fino al 1857, il clima del Regno era ormai orientato da qualche anno verso una normalizzazione, che trovò una conferma anche nell'accoglienza che ricevette Francesco Giuseppe in occasione della sua visita a Venezia nel novembre del 1856, quando, tra l'altro, condonò il debito che era rimasto a carico del Comune a causa dell'ammortizzazione della carta moneta. Era tuttavia una normalizzazione che poggiava su uno strato di consenso ancora sottile, che il concordato concluso con la Santa Sede nel 1855 aveva senza dubbio consolidato nelle campagne, ma assai meno in città come Venezia, dove, ad esempio, anche i moderati come Cicogna erano irritati perché, dopo l'intesa con Vienna, "i preti [avevano] così stese le ale che vorrebbero subissar tutti e porsi sotto i piedi lo stesso Impero"(399). A Venezia gli interlocutori principali - quasi esclusivi nel caso delle congregazioni provinciale e centrale(400) - del potere austriaco rimanevano, come prima del 1848, alcuni conti ex patrizi che, vuoi perché di convinzioni conservatrici, vuoi, più spesso, in forza di una vocazione notabiliare, continuavano a detenere posizioni di vertice.
La nomina del progressista arciduca Ferdinando Massimiliano, un fratello dell'imperatore, a successore del feldmaresciallo parve coronare un processo che nelle speranze di taluni liberali e dello stesso arciduca avrebbe dovuto garantire l'autonomia del Lombardo-Veneto: "sembra ch'egli si adoperi", scriveva Cicogna a proposito di Massimiliano, "per ottenere un assoluto comando pel Regno Lombardo-Veneto, cioè senza dipendenza dal ministero, ma però sempre sotto il diretto dominio dell'Austria, ossia di suo fratello"(401). Tuttavia Massimiliano, se poté mettere in cantiere alcune riforme con la collaborazione di personaggi che, come era il caso di Valentino Pasini, avevano avuto un ruolo importante nel 1848-1849, non riuscì a tradurle sul piano effettuale a causa dell'opposizione di Vienna. Poco dopo il passaggio delle consegne tra Radetzky e l'arciduca anche il Comune di Venezia cambiò il suo vertice. Dopo che era stato "fischiato e quasi insultato [...] da alcuni della plebe [...] per essere indolente nel procurare il bene de' suoi cittadini, specialmente nell'occasione della coscrizione"(402), Correr diede le dimissioni da podestà, un incarico che "dopo molte esitanze" fu affidato dal governo al "valente liberale Alessandro Marcello"(403), l'intendente generale d'armata nel 1848-1849.
Alcuni episodi, che coincisero con la presenza di Massimiliano a Venezia, la quale pure era stata restituita in quell'anno a cocapitale del Regno e dove l'arciduca aveva cercato di conquistarsi la simpatia dei veneziani con la concessione "del passeggio nel Giardino Reale di dietro il palazzo Imperiale", inducono peraltro a credere che il suo tentativo di dare un volto accettabile al neoassolutismo avrebbe continuato ad incontrare ostacoli tanto nelle classi popolari ("la notte oscurissima del 21 venendo il 22 marzo 1857 da ignote persone" - sarebbe stato poi condannato per l'episodio un arsenalotto - "si alzò sullo stendardo di mezzo della piazza di San Marco una spezie di bandiera tricolorata[,]bianca, verde, rossa[,] formata da tre teli cuciti insieme"), quanto in una parte di quelle abbienti (il 22 marzo 1858, "visto qualche movimento di passeggio di dame e di giovani di spirito liberale che facevasi in piazza San Marco in memoria appunto" dell'anniversario della proclamazione della Repubblica, Massimiliano "credette opportuno di andare anch'egli coll'arciduchessa a passeggiare fra il popolo ed anzi ordinò che venisse a sonare in piazza la banda militare e vi andò"; "ma appena videsi che la coppia imperiale passeggiava, e che la banda sonava, quelle dame e quei giovani voltarono bordo, e andarono invece a scorrere pel Giardinetto Reale, lasciando solo e l'arciduca e la sposa. La sera l'arciduca ordinò che fossero chiusi tutti i teatri")(404).
In ogni caso la guerra del 1859 pose fine alle residue possibilità di collaborazione tra l'Austria e l'élite dirigente del Regno. Una delle vittime dell'irrigidimento della situazione fu il podestà Marcello, il quale, "vedendo di non poter riuscire utile al suo paese, colpa il comando tutto devoluto al militare, essendosi in stato di blocco, presentò la sua rinuncia al carico": "egli ebbe un alterco col comandante della piazza barone Halleman, il quale minacciò e il podestà e gli assessori di farli impiccare se non obbedivano a' suoi ordini"(405). Il 14 giugno, "essendo da due dì per Venezia corsa voce che entro due giorni Venezia sarebbe evacuata dagli austriaci, e che vi sarebbero entrati i franco-sardi, il popolo impaziente per tale da lui sospirata novità, cominciò a tumultuare nella piazza di San Marco e nelle più frequentate vie vicine [...]. Fu vista fuori di un balcone posta una bandiera tricolorata, lacerati i proclami austriaci, la gente fuggiva cacciata dalle guardie di polizia; gridavasi Viva l'Italia [...], furono feriti alcuni, uno de' quali morì all'ospitale". In questo tentativo di riedizione del 17 marzo 1848, "nessuno de' tumultuanti era armato"(406).
Dopo l'armistizio di Villafranca il Lombardo-Veneto sopravvisse soltanto di nome: di fatto rimase limitato al Veneto e alla parte della provincia di Mantova inclusa nel Quadrilatero. La forza d'attrazione della monarchia sabauda era tale da indurre l'opinione pubblica della regione e la stessa amministrazione austriaca a ritenere non solo inevitabile, ma anche quanto mai vicina l'annessione al nuovo Regno di Vittorio Emanuele II. Se ancora prima della guerra del 1859 i delegati provinciali concordavano nel ritenere che il governo austriaco potesse fare assegnamento "in un momento di pericolo" unicamente "sulla propria forza", essendogli avverse "le classi più colte della società" e di regola indifferente "la popolazione della campagna", dopo gli avvenimenti del 1859-1860 "l'agognata unione di queste Provincie al Regno Subalpino" divenne "il sogno di molti", mentre tutti consideravano "la condizione del loro paese come anormale e provvisoria"(407).
Questa diffusa convinzione spiega il fallimento del tentativo austriaco di estendere al Veneto gli effetti della timida svolta costituzionale del 1860-1861. Quando si tennero, nel 1861, le elezioni che dovevano inviare venti deputati della regione alla Dieta imperiale di Vienna, "le classi più colte", con i liberal-aristocratici in prima fila, impedirono che la complessa procedura prevista desse un qualche frutto e, in ogni caso, si rifiutarono - questo fu il caso di Mocenigo - di accettare la nomina. La politica austriaca, la quale trovava un qualche appoggio unicamente nel clero temporalista e in una ristretta area di 'benpensanti', si ridusse sempre più ad un mero controllo poliziesco e all'esibizione della forza militare. Quando, nel 1866, la guerra si concluse con la riunione di Venezia e di quanto rimaneva del Lombardo-Veneto all'Italia, un giornalista del "Daily Telegraph", che aveva "known Venice as an old curiosity-shop, as a museum of antiquities, as a barrack-yard governed only by the bayonet and the stick, as a city in a state of siege", si recò a Venezia per assistere ad una partenza, quella degli austriaci, che previde che "any Venetian would regret". La città gli apparve "a despoiled sepulchre, desolate, deserted, and despairing": una nuova pagina della storia plurisecolare di Venezia, una fase che egli si affrettava a battezzare con il nome di "Venetian rinascimento or new birth", stava per aprirsi(408).
1. Carlo Leoni, Cronaca segreta dei miei tempi 1845-1874, a cura di Giuseppe Toffanin jr., Cittadella 1976, p. 111. La contraddizione segnalata da Leoni trova in una certa misura una spiegazione nel quadro del Veneto prerivoluzionario tracciato da Daniele Manin negli interrogatori subiti durante la sua detenzione del gennaio-marzo 1848: cf. più avanti ai §§ 2 e 3.
2. Guido Bezzola, Niccolò Tommaseo e la cultura veneta, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall'età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 157 (pp. 143-163).
3. Marco Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/2), pp. 337-338.
4. Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell'Ottocento asburgico, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 192 (pp. 169-194); come precisa Zannini, si tratta peraltro di dati da accogliere con una certa cautela.
5. V. la sintesi recente di Alan Sked, Grandezza e caduta dell'impero asburgico 1815-1918, Roma-Bari 1992, pp. 66-73.
6. Lewis B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, in Id., La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull'Ottocento europeo, Torino 19722, pp. 13-14 (pp. 13-162): "la rivoluzione del 1848 [...] fu supernazionale come nessun'altra prima o dopo di allora [...]. Il continente europeo reagì agli impulsi e all'intimo dinamismo della rivoluzione con una notevole uniformità, nonostante le differenze di lingua o di razza, nonché di livello politico, sociale ed economico dei paesi interessati: ma a quel tempo il denominatore comune era ideologico, e persino letterario, e vi era nel mondo intellettuale del continente europeo un'unità e coesione fondamentale".
7. "Gazzetta di Venezia. Foglio uffiziale della Repubblica Veneta", 23 marzo 1848, nr. 68, parte non ufficiale, articolo senza titolo.
8. Cit. in Marco Meriggi, I rapporti tra il Veneto e la Lombardia, in Il Veneto austriaco 1814-1866, a cura di Paolo Preto, Padova 2000, p. 47 (pp. 41-51). Nel 1823 Carlo Altoviti trovava una Venezia immersa in un "torpore d'inerzia e di vergogna"; "non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienza, non gloria, né attività di sorta alcuna: pareva morta, e certo era sospensione di vita" (Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano, a cura di Geno Pampaloni, Milano 1973, p. 720).
9. Hippolyte Hostein, L'Italie, la Sicile, les Îles Éoliennes [...] Venise, Milan, Royaume Lombardo-Vénitien et États voisins, Paris 1836, p. 14.
10. Cf., all'interno di un filone di studi ricchissimo come quello della letteratura sui visitatori di Venezia, gli studi recenti di Tony Tanner, Venice Desired, Oxford 1992, e John Pemble, Venice Rediscovered, Oxford 1996 e, ancora più recentemente, alcuni spunti suggestivi in Gino Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, in Venezia e l'Austria, a cura di Id.-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 343-370.
11. Cf. tuttavia, a proposito della questione delle dimensioni del pauperismo veneziano, le osservazioni di A. Zannini, Vecchi poveri, p. 175, e quanto emerge dagli studi di Eurigio Tonetti, Governo austriaco e notabili sudditi. Congregazioni e municipi nel Veneto della Restaurazione (1816-1848), Venezia 1997, p. 269. Accanto all'indigenza economica andrebbe considerata anche quella che si potrebbe definire l'indigenza morale; quest'ultima trovava una sua caratteristica espressione nella fortuna del gioco del lotto: nel 1821 vi erano a Venezia ben trentacinque ricevitorie del gioco, vale a dire una ogni neppure tremila abitanti, mentre nei cinque maggiori capoluoghi di provincia del Veneto ad una ricevitoria facevano capo dai novemila (Verona) ai ventimila abitanti (Udine e Treviso). Cf. in questo volume il saggio di Casimira Grandi.
12. Giovanni Ladislao Pyrker, Mein Leben, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, p. 207 (pp. 192-216).
13. John Ruskin, Le pietre di Venezia, Milano 1987 [1852], p. 422. Cf. Jeanne Clegg, Ruskin and Venice, London 1981, e T. Tanner, Venice Desired, pp. 67-156.
14. Arsène Houssaye, Voyage à ma fenêtre. Voyage à Venise. Voyage au pays des tulipes. Voyage au paradis, Paris 1860, pp. 237-239, 287, 299 e 314-315. Houssaye non chiudeva del tutto gli occhi di fronte ai primi preannunci del 1848 e segnalava che "aujourd'hui, les plus hardis [du peuple] chantent sur les gondoles des cantiques en l'honneur du pape Pie IX - le réformateur" (ibid., p. 299).
15. J. Ruskin, Le pietre di Venezia, pp. 96 e 133. Non ci si meraviglia che i bambini veneziani avessero "gli occhi infantili già pieni di disperazione e di depravazione" e "le gole rauche d'imprecazioni" (ibid., p. 133). I veneziani più poveri costituivano per la moglie di Ruskin un "vast body of idleness": "they are too proud or too lazy to work" (lettera del 5 maggio 1852, in Effie in Venice. Unpublished Letters of Mrs John Ruskin Written from Venice between 1849-1852, a cura di Mary Lutens, London 1965, p. 307).
16. I. Nievo, Le confessioni, pp. 720 e 748-749. Tanner afferma che, mentre "London has Dickens; Paris has Balzac; Petersburg has Dostoevsky [...]", "there simply is no comparable writer for - of, out of - Venice" (T. Tanner, Venice Desired, p. 4): in effetti il romanzo della Venezia dell'Ottocento è, con tutti i suoi limiti, quello di Nievo.
17. Valery [Antoine Claude Pasquin], Venise et ses environs, Bruxelles 1842, pp. 4, 127 e 148. Tanner data proprio al 1842 l'affermazione di Venezia quale "tourist city", l'avvio della "Disneyfication of Venice" (T. Tanner, Venice Desired, p. 75).
18. Una delle versioni più drastiche di tale convinzione era espressa da [Catherine Hyde Govion Broglio Solari], Venice under the Yoke of France and of Austria: with the Memoirs of the Courts, Governments, & People of Italy [...] by a Lady of Rank, London 1824, p. 133: "the rapid disappearance, within the space of a few years, of the immense treasures of that city, announces an entire dislocation of society and a total defacement of her beautiful edifices, at no very distant period, if her present masters", "the German tyrants", "should persevere in the harsh and unfeeling conduct towards her, which they have hitherto adopted". Una tesi destinata ad essere ribadita soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-1849: cf. Mrs. Newman Hall, Through the Tyrol to Venice, London 1860, pp. 197-198, che vedeva in Venezia "a dethroned queen, held captive by a foreign despot. Helpless and forsaken, she silently tells the stranger of her former greatness, as she shows him her glorious architecture, her paintings, and the tombs of her heroes". Ma vi era stato anche chi aveva sostenuto che "sans la garnison qu'y entretient l'Autriche, sans les fonctionnaires qu'elle y envoie, l'argent qu'elle y dépense, Venise deviendrait en peu de temps, au milieu des flots, ce qu'est devenue Palmyre au milieu du désert" (H. Hostein, L'Italie, p. 43).
19. [Fabio?] M[utinelli?], Opere pubbliche condotte in Venezia nel giro degli ultimi vent'anni, "Gazzetta Privilegiata di Venezia", 19 febbraio 1835, nr. 40, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Statistica.
20. Emmanuele Antonio Cicogna, Diari, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2846, c. 6177.
21. Ibid., c. 6114, e Agostino Sagredo, Notizie sugli ammiglioramenti di Venezia, estr. da "Annali Universali di Statistica", gennaio-febbraio 1844, p. 4 (pp. 1-50).
22. Jules Lecomte, Venezia. Colpo d'occhio letterario, artistico, storico, poetico e pittoresco sui monumenti e curiosità di questa città, Venezia 1844, p. 253.
23. [Tommaso Locatelli?], La tombola e la regata, "Gazzetta Privilegiata di Venezia", 10 giugno 1845, nr. 131, p. 529, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Pubblici spettacoli.
24. [Id.?], Di qualche novità di Venezia, ibid., 29 febbraio 1840, nr. 50, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Statistica. Naturalmente questo intervento non fece affatto dileguare il fantasma della Venezia "deserta, vuota" e avvolta da un "sepolcrale silenzio": ancora nel 1847 il quotidiano dovrà prendere di mira "un nuovo Colombo" - questo il titolo dell'articolo - che aveva affidato alla "Wiener Zeitschrift für Kunst Literatur Theater und Mode" la sua (ri)scoperta della "Venezia caduta" (ibid., 13 settembre 1847, nr. 206, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Polemica).
25. J. Lecomte, Venezia, pp. 4 e 40.
26. "Venezia non è in rovina se non nella mente degli scrittori", scriveva nel 1844 Lecomte, ibid., p. 603. Venezia era al contrario una "città popolosa, commerciale ed attiva, a cui l'attuale provvido governo prepara nuovi elementi di prosperità"; grazie alla diga di Malamocco e alla ferrovia "questa città" stava rapidamente bruciando le tappe del suo "risorgimento". Che, in ogni caso, questa Venezia dinamica, in pieno "commerciale rinascimento" (ibid., p. 40), finisse per irritare i visitatori affezionati ai clichés romantici, lo testimonia lo stesso Lecomte, che una quindicina di anni più tardi si sarebbe scagliato contro "l'abominable invasion du gaz dans ses ombres poétiques" e "l'achèvement de ce pont stupide qui, traversant la lagune de son inflexible railway, fait désormais ressembler l'île ronde de Saint-Marc à une poêle à frire" (Id., Voyages ça et là. Italie, Allemagne, Angleterre, Paris 1859, p. 3). Analogo il rifiuto di una Venezia 'troppo civile', che minacciava di sostituire le gondole con i battelli a vapore, in John Ruskin: cf. J. Pemble, Venice Rediscovered, p. 131.
27. A. Sagredo, Notizie, 1844, p. 4. Un indice indiscutibile della "nuova prosperità" era l'aumento degli affitti, cresciuti di circa un terzo tra il 1835 e il 1843 (cf. E. Tonetti, Governo austriaco, p. 295).
28. Valery [A.C. Pasquin], Venise, pp. 2-3 e 7.
29. Ibid., pp. 3 n. 1, 5. Il catalogo di Valery anticipa in una certa misura i giudizi sintetici degli storici economici. Cf. in questo volume il saggio di Adolfo Bernardello.
30. "Amico indivisibile del dittatore" è definito nei Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 544 n. 1.
31. Jacopo Pezzato, Progetto di una strada ferrata a cavalli nell'interno della Città di Venezia, "Gazzetta Privilegiata di Venezia", 23 maggio 1845, nr. 116, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Civici abbellimenti.
32. Agostino Sagredo, Notizie sugli ammiglioramenti di Venezia, estr. da "Annali Universali di Statistica", luglio 1843, p. 6 (pp. 1-19).
33. Jacopo Pezzato, Strada a cavalli con guide ferrate nell'interno della Città di Venezia, "Gazzetta Privilegiata di Venezia", 18 giugno 1845, n. 138, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Civici abbellimenti.
34. Da un articolo della "Gazzetta Privilegiata di Venezia" del 1843 cit. in Vincenzo Marchesi, Settant'anni della storia di Venezia (1798-1866), Torino-Roma 1892, p. 89.
35. Karl von Schönhals, Memorie della guerra d'Italia degli anni 1848-1849 di un veterano austriaco, I-II, Milano 1852: I, pp. 39-40.
36. In Venezia austriaca 1798-1866, Roma-Bari 1985, Alvise Zorzi intitola il 1848-1849 "la parentesi di Manin", una scelta legittima nell'ottica di Venezia austriaca al pari di quella che l'aveva indotto a battezzare gli anni 1806-1814 "la parentesi napoleonica", ma che non può essere assolutizzata. È vero che i diciassette mesi della rivoluzione veneziana occupano una quota assai limitata dei cinquant'anni ed oltre di - quasi - ininterrotta dominazione asburgica, ma è anche vero che l'episodio fu generalmente interpretato come la rivelazione di un'identità 'profonda', 'perenne' di Venezia, che l'Austria, la "geôlière du nord de la Péninsule" italiana, aveva tentato, invano, di cancellare (cf., ad esempio, il giudizio di Anatole de La Forge, Histoire de la République de Venise sous Manin, I-II, Paris 1852-1853: II, pp. 265-266: "Venise, dirigée par Manin, a noblement continué son ancienne et brillante existence"). Naturalmente in questa prospettiva il 1866, la definitiva cacciata degli Asburgo da Venezia e dal Veneto, fu celebrato quale "triomphale confirmation d'un passé glorieux qui en fut le premier rayon, l'origine", mentre il 1848-1849 era stato la breve stagione, in cui "ardente et radieuse, la vieille cité des Dandolo et des Faliero se leva du fond de son sépulcre, montrant à l'univers émerveillé ce que peuvent l'amour de la patrie, l'abnégation, le courage" e i Manin e i Tommaseo erano stati gli "héros d'une heure, mais héros antiques", gli effimeri interpreti di un destino glorioso iscritto nel DNA della città. Di qui un catalogo dei veneziani celebri, che comprendeva, oltre ai Dandolo, Sansovino (sic!), Palladio (sic!), Sarpi, Veronese (sic!) e Bianca Capello, anche i fratelli Bandiera (cf. Xavier Gnoinski, Dix-sept mois de lutte à Venise 1848-49. Notes et documents authentiques, Paris 1869, pp. IV, VI-VII, 11 e 16).
37. Alexandre Le Masson, Venezia nel 1848 e 1849, Lugano 1851, pp. 218-219 e 221.
38. "Times", 1° settembre 1849, cit. in traduzione italiana in David Laven, Punti di vista britannici sulla questione veneziana 1814-49, in La 'primavera liberale' nella terraferma veneta 1848-1849, a cura di Alba Lazzaretto Zanolo, Venezia 2000, p. 49 (pp. 35-49).
39. A. de La Forge, Histoire de la République, II, p. 266.
40. Venezia nel 1849. Cronaca inedita, a cura di Ugo Bassani, Milano 1938, p. 159.
41. Sesto interrogatorio di D. Manin nell'I.R. Tribunale criminale di Venezia, 20 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872.
42. Atto verbale dell'adunanza 17 giugno 1847 del Veneto Ateneo, in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, p. 129.
43. Sunto delle proposizioni fatte a voce all'Ateneo dal socio corrispondente avv. D. Manin per migliorare il commercio di Venezia, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, p. 42.
44. Istanza di D. Manin presentata al tribunale civile di Venezia nel 1832, in Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, p. 30 n. 1.
45. Cf. l'albero genealogico dei Manin compilato dallo stesso Daniele, ibid., p. LXIX. Nel 1759, quando Medina fu battezzato insieme alla moglie, i patrizi che si chiamavano Ludovico Manin erano due, il futuro doge e suo padre, il quale ultimo tuttavia preferiva adoperare il suo secondo nome, Alvise (cf. Martina Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996, ad vocem). In Alberto Errera, Daniele Manin e Venezia (1804-1853). Narrazione, Firenze 1875, p. 2, si racconta che fu invece il padre che si convertì e che assunse il nome di Pietro in quanto il suo padrino era stato l'omonimo fratello del doge.
46. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 33-34.
47. "Potrebbe riuscire fruttuoso rammentare ai Veneziani d'oggi con parole severe", scriveva con accenti profetici nel 1847 polemizzando contro l'interpretazione che Cesare Cantù aveva dato della caduta della Repubblica di Venezia, "che per un popolo non v'ha più brutto vizio, né più nocivo della viltà, e che con esso un popolo non può più né degnamente vivere, né essere compianto nelle sue sventure, né mantenere la sua indipendenza, né perduta riconquistarla" (Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin, I, pp. 4-5).
48. Istanza di D. Manin presentata al tribunale civile di Venezia nel 1825 per il riconoscimento della maggiore età, in Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, p. 24 n. 1.
49. Cf. Angelo Ventura, La formazione intellettuale di Daniele Manin, "Il Risorgimento", 9, 1957, pp. 1-21.
50. Cf. le sette lettere di Pietro a Daniele, s.d. [ma 1821], sulla laurea, in Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, pp. 9-13.
51. Lettera a "mio caro Figlio", ibid., p. 9.
52. Daniele Manin, Note autobiografiche, ibid., pp. 16, 18-19 e 23.
53. Cf. il quadro tracciato da M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, pp. 153-169.
54. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 28-30.
55. Ibid., pp. 36-37.
56. Cf. Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983, e Id., Il Regno Lombardo-Veneto.
57. Marion Lühe, Der venezianische Adel nach dem Untergang der Republik, Köln 2000.
58. Invece nell'ambito dell'amministrazione prevalevano largamente gli ex patrizi non titolati, spesso di origini barnabote o quarantiote. Nel 1848 tra i consiglieri dell'i.r. governo di Venezia sedeva l'ex barnaboto Francesco Contarini, mentre occupavano posti di vertice nelle delegazioni il barone Girolamo Fini (il titolo era stato concesso alla famiglia nel Seicento), il conte Girolamo Dandolo (il padre, Silvestro, era stato riconosciuto nobile nel 1817 e 'promosso' a conte nel 1829 per il suo rango nella marina militare) e il nobile Benedetto Barbaro. Cf. anche l'elenco degli ex patrizi, che nel 1848 erano cavalieri dell'ordine imperiale austriaco della corona di ferro: tutti conti quelli che avevano un presente o un passato 'costituzionale' (l'ex deputato centrale Nicolò Vendramin Calergi, il podestà di Venezia Giovanni Correr, l'ex podestà di Vicenza Andrea Valmarana, l'ex assessore municipale Nicolò Priuli), mentre tra gli altri figuravano un conte (Daniele Renier) e sei nobili 'semplici'.
59. Cf. le tabelle presentate da E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 216-219. Purtroppo Tonetti non distingue tra le diverse componenti della nobiltà veneziana: di qui il carattere interlocutorio di alcune ipotesi affacciate nelle righe precedenti.
60. Cf., quanto ai dati biografici dei soci effettivi, Giuseppe Gullino, L'Istituto Veneto di scienze lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, pp. 367-449.
61. Cf. l'eccellente ricerca di Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996.
62. Ibid., p. 224.
63. Ibid., pp. 254-255.
64. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 40.
65. A. Bernardello, La prima ferrovia, p. 282.
66. Ibid., pp. 255 e 282.
67. "Dalle bonifiche alle risaie, dalle saline all'illuminazione a gas, dai battelli a vapore alle strade ferrate non vi è settore in cui Mocenigo non sia intervenuto tra il 1840 e il 1848, correndo rischi non comuni e andando per lo più soggetto a perdite" (ibid., p. 279 n. 131).
68. Niccolò Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie storiche inedite con aggiunte di documenti inediti, I, a cura di Paolo Prunas, Firenze 1931, pp. 21-22.
69. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 41.
70. M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 324.
71. A. Bernardello, La prima ferrovia, pp. 290-292, 312-313 e 453-454.
72. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 46.
73. Eric John Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Milano 1963, pp. 419-420, la definisce "una catastrofe sociale", "un cataclisma economico"; insiste sul "substrato economico e sociale" della rivoluzione del 1848 perfino L.B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali, p. 15.
74. Cf. i quadri tracciati da Adolfo Bernardello, La paura del comunismo e dei tumulti popolari a Venezia e nelle province venete nel 1848-49, in Id., Veneti sotto l'Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 56-59 (pp. 53-145), e da Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, pp. 72-78. L'opera di Ginsborg è stata, unitamente agli studi di Ventura e di Bernardello, il punto di riferimento più importante per questa ricostruzione del 1848-1849 veneziano.
75. Sunto delle proposizioni, pp. 42-44.
76. Cf. supra la n. 42.
77. Cf. l'Istanza estesa da Daniele Manin e firmata da 62 cittadini, con la quale si chiede che la valigia delle Indie passi per Venezia, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, pp. 40-41. La risposta, negativa, di Vienna fu comunicata al podestà.
78. Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, pp. XLIV-LI.
79. Atto verbale dell'adunanza 8 luglio 1847 del Veneto Ateneo, in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 130-131.
80. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 66.
81. Maria Laura Soppelsa, L'Istituto Veneto e il IX Congresso degli scienziati italiani, in Ingegneria e politica nell'Italia dell'800: Pietro Paleocapa. Atti del convegno, Venezia 1990, pp. 91-118.
82. Premessa a Venezia e le sue lagune, I, 1, Venezia 1847, pp. n.n.
83. Gaetano Cozzi, 'Venezia e le sue lagune' e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 323-341.
84. Ibid., p. 329.
85. Cf. gli interventi di Gino Benzoni e di Giovanni L. Fontana apparsi nel vol. 6 della Storia della cultura veneta e cit. in G. Cozzi, 'Venezia e le sue lagune', pp. 329-330.
86. È sempre Cozzi a sottolinearlo in 'Venezia e le sue lagune', p. 328.
87. Nota della direzione generale di polizia nelle province venete alla presidenza del tribunale criminale, Venezia 8 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, p. LXXXVI n. 1; per l'accenno, dubitativo, circa l'intervento di Pálffy, ibid., p. XLV.
88. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 87.
89. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 83 n. 65.
90. "Gazzetta Privilegiata di Venezia", 18 e 28 settembre 1847, nrr. 211 e 219, pp. 867 e 903, Appendice di letteratura, teatri e varietà, Congressi scientifici, Sezione d'agronomia.
91. Interrogatorio di D. Manin del 20 febbraio 1848.
92. N. Tommaseo a C. Leoni, Venezia giugno 1847, in Niccolò Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie storiche inedite con aggiunta di documenti inediti, a cura di Paolo Prunas, I, Firenze 1931, pp. 316-317.
93. Sulle vicende della "supplica a S[ua] M[aestà] sull'argomento della censura" cf. il racconto di Manin in occasione dell'interrogatorio, il secondo, del 22 gennaio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872.
94. A. Errera-C. Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848), pp. 47-48.
95. Cf. M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 330.
96. Interrogatorio di D. Manin del 21 gennaio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872.
97. Le tre istanze sono riportate in A. Errera-C. Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848), pp. 57-61. Il 3 gennaio anche il Municipio di Vicenza presentò una richiesta analoga alla congregazione centrale veneta: ibid., pp. 61-63. Sull'appoggio dato da Morosini e da Mocenigo, quest'ultimo "à sa place de bataille accoutumée", a Manin cf. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 127-128.
98. Discorso e petizione riproposti recentemente in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 135-143.
99. A. Errera-C. Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848), p. LXIX n. 4.
100. Niccolò Tommaseo, D'una falsa interpretazione data alle mie parole dalla Gazzetta Veneta, in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 144-146, in partic. p. 145.
101. Niccolò Tommaseo al barone di Kübeck, Venezia 4 gennaio 1848, ibid., pp. 143-144.
102. Il voto di Morosini, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872. Sul rapporto di collaborazione tra Morosini e Manin cf. l'interrogatorio di Manin del 23 gennaio 1848, ibid.
103. E. Tonetti, Governo austriaco, p. 240.
104. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 142-143.
105. Cf. l'istanza, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, pp. 93-98. Un paio di interrogatori di Manin sarebbero stati dedicati ad un'illustrazione di questa istanza: ibid.
106. M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali, pp. 332-333. Cf. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 152.
107. Interrogatorio di D. Manin del 19 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872.
108. Ibid.
109. Istanza di Giovan Francesco Avesani alla congregazione centrale veneta, Venezia 14 gennaio 1848, ibid., pp. 98-103, in partic. p. 99.
110. Interrogatorio di D. Manin del 21 gennaio 1848.
111. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, pp. 322-323.
112. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 28-29.
113. Interrogatorio di D. Manin del 17 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872. Ma quando, cinque giorni prima, era stato interrogato lo stesso Minotto, quest'ultimo aveva circoscritto il dissenso alle "forme che avr[ebbe] desiderato più moderate": ibid., p. 283.
114. Sul significato e sui limiti della missione Ficquelmont cf. A. Sked, Grandezza e caduta, p. 31.
115. Voto pronunciato dall'i.r. tribunale criminale di Venezia sugli inquisiti Daniele Manin e Niccolò Tommaseo [d'ora in poi: voto Benvenuto Zennari, dal nome del consigliere del tribunale che lo redasse], in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, pp. 288-311, in partic. pp. 307-309; cf. anche quanto riferiva lo stesso Manin negli interrogatori circa i suoi rapporti con Mocenigo, ibid., pp. 142, 167 e 184.
116. Nota di Ludwig von Call Rosenburg, Venezia 16 febbraio 1848, ibid., p. 260.
117. Il documento con le sottoscrizioni ibid., p. 120 n. 1.
118. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 176-177.
119. È stato sostenuto che "la maggior parte dei nobili si rifiutarono" di sottoscrivere la malleveria (P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 90), ma senza addurre una qualche prova: quel che è certo è che l'interpretazione di Ginsborg del 1848 veneziano come una rivoluzione borghese lo ha indotto a minimizzare il ruolo dell'ex patriziato sia nella 'pre-rivoluzione' che nel corso della fase repubblicana. Certo, fu un ruolo notabiliare prima ancora che politico, ma, se è vero che soltanto una minoranza degli ex patrizi, in gran parte giovani, s'identificò fino in fondo nel progetto risorgimentale, è anche vero che fu quanto mai esigua la schiera degli austriacanti convinti.
120. Interrogatorio di D. Manin del 17 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872.
121. Cf. supra la n. 108.
122. Cf. la ferma risposta del 12 gennaio dell'Ateneo, appoggiata, tra gli altri, da Avesani, Mocenigo e Sagredo, alle accuse mosse dal governatore il 30 dicembre contro un'istituzione che riteneva diventata "da qualche tempo in qua una pubblica palestra di osservazioni incompetenti e di declamatorie contro la pubblica amministrazione", in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 147-148.
123. Alan Sked, Radetzky e le armate imperiali. L'impero d'Austria e l'esercito asburgico nella rivoluzione del 1848, Bologna 1983, p. 203. Il proclama imperiale fu più volte pubblicato - repetita juvant - sulla "Gazzetta Privilegiata di Venezia" (cf. i nrr. 14, 16 e 17 rispondenti ai giorni 19, 21 e 22 gennaio 1848).
124. Cf. la reazione di un'area del Veneto al proclama imperiale sottolineata in un Brano del rapporto politico del mese di gennaio 1848, esteso il giorno 3 febbraio dall'allora commissario distrettuale di Ceneda, pubblicato in appendice a Fortunato Sceriman, Dei difetti del reggime austriaco nei paesi veneti e degli opportuni rimedi. Memoria, Venezia 1849, p. 83 (pp. 81-83): "non ci videro seme alcuno di miglioramenti, e forse credettero paralizzate da esso le lusinghiere profferte Vicereali alla Congregazione centrale di Milano".
125. Voto Benvenuto Zennari, pp. 288-289.
126. E. Tonetti, Governo austriaco, p. 240.
127. Interrogatorio di D. Manin del 19 febbraio 1848. L'espressione "agitazione legale" era stata adoperata dallo stesso Manin nell'istanza presentata il 7 gennaio 1848 a Pálffy, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, p. 93.
128. F. Sceriman, Dei difetti del reggime austriaco, p. 78.
129. Cf. il recente bilancio tracciato da Bernardello, che pure ricostruisce nella fattispecie la storia del fallimento di un'impresa promossa da Reali: Adolfo Bernardello, Investimenti e industrializzazione nella Venezia austriaca della prima metà dell'800. Il caso della fabbrica di panni feltrati, "Storia Urbana", 55, 1991, pp. 87-120.
130. J. Monico a Ferdinando I, Venezia 14 febbraio 1848, in Vincenzo Marchesi, Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia negli anni 1848-'49 tratta da fonti italiane ed austriache, Venezia s.a. [ma 1916], pp. 503-504, in partic. p. 503.
131. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 192. Conferma la missione il console britannico Clinton G. Dawkins in un rapporto datato Milano 20 febbraio 1848, cf. ibid., II, p. 286.
132. A. Sked, Radetzky, p. 211.
133. Gio. Batta Cavedalis, I commentari, con traduzione [sic!] e note di Vincenzo Marchesi, I-II, Udine 1928: I, pp. 29-30. In questo caso Cavedalis ripeteva alla lettera quanto aveva scritto K. von Schönhals, Memorie della guerra d'Italia, I, pp. 156-157.
134. Piero Del Negro, L'esercito austriaco, in Il Veneto austriaco 1814-66, a cura di Paolo Preto, Padova 2000, pp. 153-175, in partic. p. 171.
135. Cf. il documento IV, in Alberto Errera, Daniele Manin e Venezia (1804-1853). Narrazione, Firenze 1875, p. 438.
136. P. Del Negro, L'esercito austriaco, p. 163.
137. A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 232.
138. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 45.
139. A. Sked, Radetzky, pp. 231-236.
140. Cf. la lettera di Francesco Degli Antoni a Manin, Venezia 7 febbraio 1848, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, pp. 313-315.
141. Lettera di L. Call al commissario di polizia di Cannaregio, Venezia 11 gennaio 1848, in Carte secrete della polizia austriaca estratte dall'archivio di Venezia pubblicate per commissione di Daniele Manin, I-III, Capolago 1851-1852: III, p. 173. Cf. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 89.
142. Tuttavia Carlo Alberto Radaelli, Storia dello assedio di Venezia negli anni 1848 e 1849, Napoli 1865, p. 25, attribuisce alla "operosità" di Manin il primo "comune banchetto" tra i rappresentanti delle due fazioni.
143. Dispaccio del 16 marzo al ministro degli Esteri Henry John Temple visconte Palmerston, cit. in A. de La Forge, Histoire de la République, II, pp. 291-292.
144. Emmanuele Antonio Cicogna, Diario veneto politico dal 17 marzo 1848 in poi a tutto il 30 agosto 1849, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2847, c. 1.
145. Daniele Manin, Appunti autografi, in Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, p. 213 (pp. 213-223). A p. 266 del nr. 63 della "Gazzetta Privilegiata di Venezia" pubblicato quel giorno stesso fu stampato un trafiletto di "notizie recentissime", che informava i lettori che la medesima informazione era pervenuta al governatore "per mezzo straordinario" alle nove del mattino.
146. Le due testimonianze sono riportate da Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, pp. 166 e 168, un'esemplare raccolta di fonti, in particolare, sulle giornate veneziane dal 17 al 22 marzo 1848.
147. Ibid., p. 167.
148. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 225.
149. Testimonianza di Giorgio Casarini riportata da P. Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto, p. 170.
150. Discorso di Manin in piazza S. Marco il 17 marzo 1848 al mezzodì, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 98.
151. Cf. i rapporti di Moritz Lindner e di Pálffy del 17 marzo 1848, in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 169.
152. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 40.
153. Lettera dell'abate Marinelli a Marianna Tommaseo, Venezia 17 marzo 1848, in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 169.
154. E.A. Cicogna, Diario veneto, cc. 5-6.
155. [Heinrich Stieglitz], Germania, Austria, Italia. Indirizzo al parlamento tedesco, Venezia 1848, citato in P. Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto, pp. 172-173.
156. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 7.
157. Rapporto di Pálffy al viceré Ranieri, Venezia 17 marzo 1848, in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 173.
158. Rapporto giornaliero di polizia dal 17 al 18 marzo 1848, ibid., p. 176.
159. E.A. Cicogna, Diario veneto, cc. 8-9.
160. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 229-230 e 233-234.
161. D. Manin, Appunti autografi, pp. 213-214. Una missione analoga e con analoghi esiti negativi fu affidata da Manin al conte Michiel, un "giovine di spiriti liberali" probabilmente da identificare con l'assessore municipale Luigi ([Teresa Perissinotti Manin], Risposta a tutti quelli che sostengono essere la nuova repubblica sorta dal caso, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 161).
162. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 229.
163. D. Manin, Appunti autografi, p. 215.
164. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 106.
165. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 234-235.
166. D. Manin, Appunti autografi, p. 215.
167. Mario Brunetti, L'opera del Comune di Venezia nel 1848-'49, "Archivio Veneto", ser. V, voll. 42-43, 1948, p. 21 (pp. 20-126).
168. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 9.
169. La richiesta della congregazione, redatta da Manin, in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 65 (pp. 48-75).
170. D. Manin, Appunti autografi, p. 216.
171. Cf. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 10 ("il popolo sempre più affollatosi nella gran piazza, con fischi, urli, evviva ec. pareva che piuttosto che celebrare la notizia delle concessioni sovrane a lui favorevoli, volesse passare a vie di fatto, a rubamenti, a disordini. Forse non sarà stato questo il suo vero scopo, ma quello di accattare dinari dalla generosità e dalla pietà altrui") e, per la citazione, il rapporto di Dawkins a Palmerston, Venezia 19 marzo 1848, riportato in A. de La Forge, Histoire de la République, II, p. 293.
172. [Alessandro De Giorgi], Memoria del 18 marzo 1848, in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 182.
173. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 10. "Anche se non ci sono pervenuti particolari sull'identità di tutte le vittime, le informazioni di cui disponiamo fanno pensare che la folla fosse composta principalmente di appartenenti alla classe lavoratrice" (P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 106; cf. P. Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto, pp. 192-195).
174. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 241.
175. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 12.
176. Cf. il facsimile dell'avviso della congregazione municipale del 18 marzo 1848, che comunica "la provvisoria istituzione di una GUARDIA CITTADINA", in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 196.
177. Cf. la lettera di Pálffy alla congregazione municipale, Venezia 18 marzo 1848, in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, pp. 65-66.
178. Adolfo Bernardello, Per una storia della Guardia civica a Venezia nel 1848-49, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 407 (pp. 401-418).
179. Francesco Degli Antoni, Ricordi, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 135-136.
180. A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 246-248.
181. Il console generale di Sardegna Antonio Faccanoni al ministro degli esteri Lorenzo Pareto, Venezia 18 marzo 1848, in Attilio Depoli, I rapporti tra il Regno di Sardegna e Venezia negli anni 1848 e 1849 da documenti inediti, II, Modena 1959, p. 557.
182. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 14.
183. La circolare del 22 marzo della congregazione, che invita i "cittadini" a "prendere parte alla municipale rappresentanza", in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 68.
184. D. Manin, Appunti autografi, p. 217.
185. Il rapporto di Dawkins a Palmerston, Venezia 19 marzo 1848, riportato in A. de La Forge, Histoire de la République, II, pp. 292-294.
186. D. Manin, Appunti autografi, p. 217.
187. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 18.
188. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 44. Cf. per il "falso allarme" del 19, D. Manin, Appunti autografi, p. 217.
189. A. Sked, Radetzky, p. 237.
190. D. Manin, Appunti autografi, p. 217.
191. La richiesta della congregazione al governatore e la replica dilatoria di Pálffy, in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, pp. 66-67.
192. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 18.
193. Intervento dell'avvocato Marcello Costi alla riunione del 22 marzo della giunta comunale 'allargata', di cui v. il protocollo verbale, in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 69.
194. F. Degli Antoni, Ricordi, p. 141. Un interrogativo confermato dallo stesso Pincherle nella relazione che inviò a Manin il 9 novembre 1848 allo scopo di correggere alcune affermazioni di Degli Antoni: cf. Angelo Ventura, Daniele Manin e la municipalità nel marzo '48, "Rassegna Storica del Risorgimento", 44, 1957, pp. 828-829 (pp. 819-829).
195. Intervento dell'avvocato Costi (cf. supra la n. 193), in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 69.
196. F. Degli Antoni, Ricordi, pp. 141-142.
197. Intervento di Morosini (cf. supra la n. 193), in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 69.
198. [T. Manin], Risposta, p. 160.
199. Ad esempio, nella Giurisprudenza veneta (in Venezia e le sue lagune, I, 1, Venezia 1847, p. 342 [pp. 274-342]) aveva evocato "il reverente amore del popolo per la repubblica, che, caduta, chiamava col dolce nome di nostra cara mare".
200. Una tesi diffusamente esposta nella lettera di D. Manin a lord Palmerston, Venezia 20 agosto 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 431-436.
201. D. Manin, Appunti autografi, p. 218.
202. Ibid., pp. 217-218.
203. Manin ha dato indirettamente versioni piuttosto diverse degli esiti dei colloqui relativi allo slogan da adottare per innescare la rivoluzione: cf. Emilia Manin, Il 22 marzo, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804-1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, p. 342 (pp. 342-344); [T. Manin], Risposta, pp. 161-162; e A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 257-262. Quel che è certo è che l'intenzione di Manin di proclamare la Repubblica trapelò al di là della cerchia degli intimi: non si spiega altrimenti perché all'alba del 22 il console sardo Faccanoni, un noto 'commerciante' veneziano (era stato tra i promotori della Ferdinandea; nel 1848 sedeva in consiglio comunale), rilasciasse al segretario della compagnia della guardia civica comandata da Manin una dichiarazione, con cui lo "consigliava, anzi [lo] eccitava, a proclamare la Repubblica, e di non servirsi d'altro grido che di quello Viva la Repubblica, e a che a questo grido egli ed i suoi avrebbero aggiunto quello di Viva Manin Presidente" (Rapporto di Giorgio Casarini all'avvocato Daniele Manin comandante della guardia civica, Venezia 22 marzo 1848, ore 7 antemeridiane, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 111-112).
204. C.A. Radaelli, Storia dello assedio di Venezia, p. 48.
205. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 65.
206. D. Manin, Appunti autografi, p. 218.
207. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 20.
208. Cf. ibid., e Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin, I, pp. 113-114. In A. de La Forge, Histoire de la République, I, pp. 274-275 il breve discorso di Manin è trasformato in una perorazione a favore della Repubblica.
209. Secondo Tommaseo "Manin non venne in Piazza se non quando il Pálffy e lo Zichy avevano già ceduto e stendevasi l'atto" (N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 92 n. 249).
210. Bartolomeo Benvenuti a Francesco Degli Antoni, Torino 27 giugno 1850, in Alberto Errera-Cesare Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin (1804- 1848). Narrazione [...] corredata dai documenti inediti depositati nel Museo Correr dal generale Giorgio Manin, Venezia 1872, p. 370.
211. Cf. il verbale della discussione, in Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, pp. 68-70.
212. Cf. il verbale delle trattative e il testo della convenzione, ibid., pp. 70-75.
213. Il manifesto di Correr e degli altri membri della deputazione in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 117. Sul ruolo di Avesani cf., tra gli altri, la testimonianza di F. Degli Antoni, Ricordi, pp. 154-157, e le considerazioni di Roberto Cessi, Come nacque la repubblica di Venezia nel 1848 (frammenti e polemiche), in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, pp. 77-95.
214. F. Degli Antoni, Ricordi, p. 142.
215. Ibid., p. 157.
216. Cf. la cronaca della "Gazzetta di Venezia" nel supplemento del 23 marzo 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 118.
217. R. Cessi, Come nacque la repubblica di Venezia, pp. 82 e 85.
218. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 115.
219. Roberto Cessi, La capitolazione di Venezia del 22 marzo 1848, in Id., Studi sul Risorgimento nel Veneto, Padova 1965, p. 75.
220. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 115 n. 73.
221. A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 299.
222. F. Degli Antoni, Ricordi, p. 157.
223. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 117.
224. M. Brunetti, L'opera del Comune di Venezia, e Il Comune di Venezia e la rivoluzione del 1848-49, a cura di Sergio Barizza, Venezia 1991.
225. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 55.
226. E.A. Cicogna, Diario veneto, c. 21. Cf., per quel che riguarda il ruolo della religione e, in particolare, dell'esposizione dell'immagine della Madonna, A. de La Forge, Histoire de la République, I, p. 290 ("le 22 mars, elle était exposée, et le peuple dans sa dévotion pour elle, disait que l'expulsion des Autrichiens avait eu lieu par l'intercession de la madone"). Cf., più in generale, la recente sintesi di Alba Lazzaretto Zanolo, Clero veneto e clero lombardo nella rivoluzione del 1848, Vicenza 2001.
227. Cf. il discorso di Manin del 3 luglio 1848 all'assemblea provinciale, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 65: "nel 22 marzo, cessata in Venezia l'austriaca dominazione, il popolo proclamò la repubblica: cinquant'anni di schiavitù non potevano avergli fatto dimenticare 14 secoli d'indipendenza gloriosa".
228. Angelo Ventura, La politica veneziana avanti la 'fusione', in Verbali del consiglio dei ministri della Repubblica veneta: 27 marzo-30 giugno 1848, a cura di Id., Venezia 1957, p. 22 (pp. 5-73).
229. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 117.
230. "La voce repubblica non ha a Venezia nel popolo il significato che altrove. E tu stesso, quando il 22 marzo pronunciasti quella parola, non pensavi certo a Mazzini!" (lettera di Girolamo Dolfin Boldù a Daniele Manin, 1° ottobre 1848, in Letterio Briguglio, Pietro Paleocapa: riflessioni politiche, in Ingegneria e politica nell'Italia dell'800: Pietro Paleocapa. Atti del convegno, Venezia 1990, p. 185 n. 1 [pp. 171-192]).
231. D. Manin, Appunti autografi, p. 219.
232. Del tutto ingiustificate, a questo proposito, le preoccupazioni sociali del moderato Isacco Pesaro Maurogonato, che la sera del 23 marzo scriveva una lettera a Tommaseo, ricordandogli che, se "la rivoluzione francese del 1848 fu una rivoluzione sociale, la nostra fu una rivoluzione politica; quella fu fatta dagli artieri, e dal popolo, questa fu fatta dalla classe intelligente" (in Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999, p. 51).
233. Ginsborg afferma che il ministero era, una volta allontanato il nobile Trolli, "saldamente in mano alla borghesia veneziana" (P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 126). In effetti anche Camerata e Paolucci erano nobili, mentre Paleocapa galleggiava, per un certo verso, tra la borghesia e la nobiltà, dal momento che usciva da una famiglia, che era appartenuta all'ordine dei cittadini "originari" veneziani, ed era imparentato con due case ex patrizie. Sulla formazione e sui membri del ministero di Manin cf. le osservazioni spesso pungenti, ma anche illuminanti di N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, pp. 123-159, che sottolineano tra l'altro, al di là del luogo di nascita dei ministri - Modena per Paolucci, Brescia per Solera, Bergamo per Camerata, Sebenico per lo stesso Tommaseo ecc. - il carattere "tutto [...] veneziano" del governo, e l'analisi di Ventura in Verbali del consiglio dei ministri della Repubblica veneta: 27 marzo-30 giugno 1848, a cura di Angelo Ventura, Venezia 1957, pp. 34-40, che tuttavia li considera più nella prospettiva della lotta politica successiva che per le qualità che avevano indotto Manin ad affidare loro un incarico ministeriale.
234. Proclama del governo provvisorio al popolo veneziano, Venezia 24 marzo 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 170. Va tenuto presente che un ex patrizio (nella fattispecie Leopardo Martinengo) e un 'commerciante' (Reali) furono designati da Manin per rappresentare la provincia di Venezia nella consulta, una decisione coerente con la strategia di una divisione dei compiti tra un governo di tecnici e un organismo consultivo scelto in rappresentanza delle componenti sociali.
235. M. Brunetti, L'opera del Comune di Venezia, p. 25 n. 1.
236. Sulla rivoluzione in terraferma e sull'adesione delle province alla Repubblica di Manin cf. P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 118-125 e 134-136.
237. Decreto del 29 marzo 1848 a firma di Manin e Castelli, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 189.
238. Cf. il proclama del re del 23 marzo 1848, ibid., pp. 171-172.
239. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, pp. 98-99.
240. Cf. le relazioni raccolte in Adriatico 1848. Ricerca e significato della contrapposizione marittima, a cura di Paolo Alberini, Roma 1999, in partic. quelle di Alvise Zorzi su La marina veneta nel 1848 (pp. 35-40), di Robert L. Dauber su La marina austriaca in Adriatico nell'anno rivoluzionario 1848, condizioni precedenti e conseguenze (pp. 41-58), e di Tiberio Moro su La campagna navale della marina sarda in Adriatico negli anni 1848-1849 (pp. 59-128).
241. V. Marchesi, Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia, pp. 461-477.
242. "Doge di Venezia? La mia ambizione mirava più in alto: oso appena confessarlo a me stesso - Washington!" (Daniele Manin, Pensieri sparsi, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 169).
243. Silvio Sardagna, I primi errori militari dei veneti nel 1848, 22 marzo-8 aprile 1848, Torino 1904, p. 16 n. 4.
244. Ibid., p. 10.
245. P. Ginsborg, Daniele Manin, p. 169.
246. Emmanuele Antonio Cicogna, Osservazioni sopra Venezia e Milano dal 22 marzo 1848 al 20 maggio 1848 stese in fretta [...] con altre appresso, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2847, par. 4.
247. Verbali del consiglio dei ministri della Repubblica veneta: 27 marzo-30 giugno 1848, a cura di Angelo Ventura, Venezia 1957, p. 85 (28 marzo 1848).
248. Ibid., p. 83 (28 marzo 1848).
249. G.B. Cavedalis, I commentari, I, p. 172. Cf. per il decreto del governo N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 196 n. 497.
250. A. de La Forge, Histoire de la République, II, p. 57.
251. Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino 1962, p. 369.
252. Cf. il proclama cit. supra alla n. 234. L'accento sulle "riforme sociali e morali" fu posto da Tommaseo, ma in effetti i provvedimenti più incisivi riguardarono l'amministrazione della giustizia e rifletterono gli interessi e le competenze di Manin e di Castelli.
253. Angelo Ventura, Lineamenti costituzionali del governo provvisorio di Venezia nel 1848-49, Padova 1955, pp. 22-25.
254. V. la risposta data dal governo provvisorio alla deputazione di Bassano il 28 marzo, in Verbali del consiglio dei ministri della Repubblica veneta: 27 marzo-30 giugno 1848, a cura di Angelo Ventura, Venezia 1957, p. 84.
255. Fortunato Sceriman, Di ciò ch'è da farsi e da dirsi senza ritardo pel miglior essere e soddisfazione della nazione. Memoria presentata al governo il giorno 12 maggio 1848, in Id., Dei difetti del reggime austriaco nei paesi veneti e degli opportuni rimedi. Memoria, Venezia 1849, p. 97 (pp. 93-106).
256. Id., Dei difetti del reggime austriaco, p. 7.
257. Cf. il proclama cit. supra alla n. 234.
258. Verbali del consiglio dei ministri, p. 88 (29 marzo 1848).
259. Decreto del governo provvisorio del 31 marzo 1848, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 8.
260. P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 165-167.
261. Cf. i verbali, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, pp. 11-60.
262. Ibid., pp. 16-18.
263. Verbali del consiglio dei ministri, pp. 167-171 (11 maggio 1848).
264. Ibid., pp. 176-181 (18-19 maggio) e 188-192 (1°-2 giugno 1848).
265. Giovanni Pillinini, La pubblicistica veneziana nel 1848-49, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 437-450.
266. Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 59.
267. D. Manin, Appunti autografi, p. 221.
268. A. Bernardello, La paura del comunismo, pp. 86-88.
269. P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 246-248.
270. Il 20 maggio era convinto che "l'attuale stringente posizione delle cose non può se non consigliare l'abbandono del nome di repubblica e d'abbracciare il governo costituzionale", il 9 giugno votava per due candidati moderati, N. Priuli e S. Papadopoli, due giorni più tardi era a favore di "dilazionare la decisione fino a guerra finita" e il 29 giugno considerava una "saggia disposizione" la decisione di gridare "Viva l'unione, Viva l'Italia, Viva Carlo Alberto" (E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, parr. 19, 46, 47 e 71). Ancora maggiormente oscillanti tra la Repubblica e l'unione i giudizi di Pietro Contarini, Memoriale veneto storico-politico dal 18 marzo 1848 al 26 agosto 1849, in Documenti della guerra santa d'Italia, fasc. 9°, Capolago gennaio 1850, pp. 49 e 63-64 (1°-2 e 29 giugno 1848).
271. A. Ventura, Lineamenti costituzionali, p. 70.
272. Uno dei motivi che inducevano Cicogna a considerare perdente la prospettiva di una Venezia Repubblica "senza terreno, concentrata nella sola città" era il fatto che "la ricchezza di Venezia proviene non solo dal commercio quanto anche dalle ricchissime famiglie possidenti nella Terraferma", famiglie che ovviamente erano ostili all'ipotesi di separare i destini di Venezia da quelli del Veneto (E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, parr. 15-16).
273. Cf. l'appunto di Manin in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, p. 324 n. 1, e Francesco Dall'Ongaro, Venezia l'11 agosto 1848. Memorie storiche, in Documenti della guerra santa d'Italia, fasc. 7°, Capolago gennaio 1850, p. 23.
274. D. Manin, Appunti autografi, p. 222. Cf. il giudizio del mazziniano G. Vittorio Rovani, Di Daniele Manin presidente e dittatore della repubblica di Venezia. Memoria storica, in Documenti della guerra santa d'Italia, fasc. 8°, Capolago gennaio 1850, p. 63: "la parte giovane, studiosa, la classe tanto influente degli artisti, stava per la repubblica; la classe borghese, che attinge le sue risorse dal commercio, stava per chi allargava la sfera d'azione dell'estuario; la classe patrizia, pochissime eccezioni fatte, stava per la fusione a qualunque costo".
275. A. de La Forge, Histoire de la République, II, p. 98. Cf. Gennaro Maria Monti, La difesa di Venezia nel 1848-1849 e Guglielmo Pepe, Roma 1933.
276. Le assemblee del Risorgimento, pp. 63-95, e C. Leoni, Cronaca segreta, p. 106. Cf. A. Ventura, Lineamenti costituzionali, pp. 57-63.
277. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 79.
278. A. Ventura, La politica veneziana, p. 61.
279. D. Manin, L'anno 2838, in Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, p. LIX.
280. Id., Appunti autografi, p. 222. In questo caso Manin si nasconde sotto lo schermo del "partito repubblicano".
281. G.V. Rovani, Di Daniele Manin, p. 21.
282. Leoni riteneva che il voto a favore di Manin fosse soltanto "per cortesia" (C. Leoni, Cronaca segreta, p. 106), ma la sua contrapposizione a Paleocapa e a Castelli induce ad attribuire ad esso un significato anche politico.
283. Le assemblee del Risorgimento, pp. 100-101.
284. G.B. Cavedalis, I commentari, I, p. 231.
285. A. Ventura, Lineamenti costituzionali, pp. 69-70.
286. C. Leoni, Cronaca segreta, p. 113.
287. Carteggi di Pietro Paleocapa del 1848-49, a cura di Maria Cessi Drudi, Venezia 1952, p. 45.
288. Niccolò Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie storiche inedite con aggiunte di documenti inediti, II, a cura di Giovanni Gambarin, Firenze 1950, p. 109.
289. Atto notarile della cessione di Venezia al Piemonte, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, pp. 113-115.
290. F. Sceriman, Dei difetti del reggime austriaco, p. 53.
291. Insiste, con malanimo, su questi rapporti N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, II, pp. 114-116. Cf. per la ricostruzione della crisi e per dei commenti pertinenti A. Ventura, Lineamenti costituzionali, pp. 84-96 e P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 277-279.
292. Verbale della riunione, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 118.
293. Corrispondenza in data Venezia 12 agosto 1848 inserita nella "Gazzetta di Augusta" e cit. in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 387-391, in partic. p. 388.
294. C. Leoni, Cronaca segreta, pp. 129-130 e 137.
295. Le assemblee del Risorgimento, pp. 120-131.
296. D. Manin, Appunti autografi, p. 220.
297. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 92. Cicogna definisce gli "sfrattati" "austriaci o austriacanti".
298. Le assemblee del Risorgimento, pp. 139-152.
299. "Ieri 10 settembre fu mostra in piazza S. Marco delle Guardie civiche [...]. Il Manin disse quattro buone parole dal pergolato delle Procuratie Nuove rivolte anche ad alcuna voce che aveva gridato Repubblica, e disse che non è il momento" (E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 105).
300. I triumviri a V. Pasini, Venezia 23 agosto 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 445-446. Le preferenze di Manin andavano in primo luogo allo "Stato delle sole provincie della Venezia" e in ultimo al "già ideato Regno subalpino" (D. Manin a N. Tommaseo, Venezia 5 settembre 1848, ibid., pp. 466-468, in partic. p. 467). In seguito Manin avrebbe specificato che lo "Stato delle sole provincie della Venezia" poteva anche essere eretto in "un Regno costituzionale colla dinastia del principe di Leuchtenberg", vale a dire Massimiliano Giuseppe di Beauharnais, il figlio di Eugenio (Istruzioni pel sig. Valentino Pasini rappresentante del governo di Venezia alle conferenze, ibid., pp. 469-472, in partic. p. 470).
301. Cf. il proclama cit. supra alla n. 238.
302. I triumviri a Jules Bastide, ministro degli Esteri della Francia, Venezia 14 agosto 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: I, pp. 420-421.
303. G.B. Cavedalis, I commentari, I, pp. 248-249.
304. "Veneziano era principalmente il Governo in quel che a' dì nostri è stimato il nerbo d'ogni forza e politica e militare, il danaro, che dalla città unica in modo unico venne profuso" (N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, I, p. 158).
305. Rapporto Cibrario sull'opera dei Commissari sardi a Venezia, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, pp. 132-139, in partic. p. 139.
306. "Rendere giustizia al merito di Alessandro Marcello e di Pesaro Maurogonato" recita non a caso un appunto di Manin (D. Manin, Appunti autografi, p. 220).
307. Discorso del consigliere Nicolò Priuli nella seduta del consiglio comunale di Venezia il 6 novembre 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 82-87, in partic. pp. 84 e 86. Cf. Il Comune di Venezia, pp. 40-45.
308. "Date a Venezia un obolo; / non ha la gran mendica / che fiotti, ardire ed alighe / perché è del mar l'amica. / Sola fra tante infamie / ella è la nostra gloria", scriveva in quelle settimane l'autore dell'inno Fratelli d'Italia (cit. in G.B. Cavedalis, I commentari, II, p. 168).
309. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 145.
310. Nel 1849 un barcaiolo l'avrebbe definita ironicamente "le svanzeghe che nua senza andar in fondo" e l'avrebbe considerata una delle "quatro maravegie" - le altre erano "el gaz in piaza", "i pozzi artesiani nei campi" e "el ponte sulla laguna" - che avevano connotato la Venezia degli ultimi anni (Id., Diari, c. 6179).
311. Id., Osservazioni sopra Venezia, parr. 85, 89 e 98.
312. Ibid., par. 145.
313. Per i resoconti di Pepe cf. G.M. Monti, La difesa di Venezia, pp. 124-136.
314. Cf. Edoardo Jäger, Storia documentata dei corpi militari veneti e di alcuni alleati (milizie di terra) negli anni 1848-1849, con elenco cronologico dei morti e feriti in guerra per la difesa di Venezia, Venezia 1880. Un dato significativo è quello concernente la composizione del corpo ufficiali dell'esercito veneziano all'epoca della resa, quando quest'ultimo contava più di quindicimila uomini: una volta esclusi dal totale i centoventidue ufficiali che non erano nati nel Lombardo-Veneto, ne rimanevano milleventinove, di cui soltanto il 17% aveva fatto parte, prima della rivoluzione, dell'esercito austriaco. Assai diversa la provenienza del corpo ufficiali della marina alla stessa epoca: i non lombardo-veneti erano soltanto quattro su un totale di cinquecentonovantasette, mentre dei rimanenti i due terzi avevano militato nella marina asburgica, poco meno della metà dei quali con gradi inferiori a quelli di ufficiale (cf. G.B. Cavedalis, I commentari, II, pp. 417-418).
315. Manin a Tommaseo, Venezia 3 novembre 1848, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 79-80, in partic. p. 80.
316. Manin a Valentino Pasini, Venezia 10 dicembre 1848, ibid., pp. 131-134.
317. Decreto del governo provvisorio, Venezia 24 dicembre 1848, ibid., pp. 139-141.
318. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 224.
319. Le assemblee del Risorgimento, p. 203.
320. C. Leoni, Cronaca segreta, p. 215.
321. G.B. Cavedalis, I commentari, II, pp. 187-190.
322. Le assemblee del Risorgimento, p. 384.
323. Ibid., pp. 397 e 411.
324. Cf. in questo e negli altri casi di membri delle assemblee Pietro Rigobon, Gli eletti alle assemblee veneziane del 1848-49, Venezia 1950.
325. G.M. Monti, La difesa di Venezia, pp. 171-176.
326. Le assemblee del Risorgimento, pp. 470-473.
327. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 282.
328. Nota inviata da Daniele Manin presidente del governo di Venezia ai signori Drouyn de Lhuys e Palmerston, Venezia 4 aprile 1849, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 282-284.
329. C. Leoni, Cronaca segreta, p. 235.
330. Manin a V. Pasini, Venezia 12 aprile 1849, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 300-301.
331. Manin a V. Pasini, Venezia 22 aprile 1849, ibid., pp. 309-311, in partic. p. 310.
332. K. von Schönhals, Memorie della guerra d'Italia, II, pp. 293 e 297.
333. Il carteggio Radetzky-Manin del 4-6 maggio, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, pp. 490-492.
334. K. von Schönhals, Memorie della guerra d'Italia, II, p. 303.
335. Stefan Malfèr, Una costituzione per il regno Lombardo-Veneto. Speranze e fallimenti 1848-50, in La 'primavera liberale' nella terraferma veneta 1848-1849, a cura di Alba Lazzaretto Zanolo, Venezia 2000, pp. 113-127.
336. K.L. von Bruck a Manin, Mestre 31 maggio 1849, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 492.
337. La convenzione Bratich-Pasini datata, falsamente, Duino 20 maggio 1849 (in effetti Ancona 3 giugno), in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 369-371.
338. Le assemblee del Risorgimento, pp. 474-479.
339. La corrispondenza tra Bruck e gli inviati veneziani e i rapporti di questi ultimi al governo veneziano, ibid., pp. 493-497.
340. Ibid., pp. 479-487.
341. La corrispondenza di Bruck con il "signor" Manin e il rapporto degli inviati veneziani Calucci e Pasini del 23 giugno1849, ibid., pp. 497-502.
342. Ibid., pp. 488-490. Cf. G.B. Cavedalis, I commentari, II, pp. 313-314.
343. Venezia nel luglio 1849, in Copie di documenti, e di carte originali relativi alle cose venete politiche dal 17 marzo 1848 a tutto il 30 agosto 1849, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2847/II, cc. n.n.
344. Venezia nel 1849, p. 83 (22 giugno 1849).
345. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 336.
346. Ibid., par. 388.
347. Venezia nel 1849, p. 121 (22 luglio 1849).
348. Intervento di Manin all'assemblea del 28 luglio 1849, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 682.
349. Appunto di Manin relativo alla sessione dell'assemblea del 6 agosto, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, p. 497 n. 1.
350. "È certo che le condizioni proposte, oltre la presente rovina di tante famiglie, rovinerebbero per sempre la città, distruggendo ogni elemento di possibile futuro benessere" (Manin a V. Pasini, Venezia 9 luglio 1849, ibid., pp. 423-425, in partic. p. 425).
351. Ernest Legouvé, Un souvenir de Manin, in Henri Martin, Daniel Manin, Paris 1859, p. XIII (pp. X-XIII).
352. Intervento di Manin all'assemblea del 28 luglio 1849, in Le assemblee del Risorgimento - Venezia, Roma 1911, p. 680.
353. Venezia nel 1849, p. 122 (24 luglio 1849).
354. Le assemblee del Risorgimento, pp. 675-684.
355. Venezia nel 1849, p. 126 (29 luglio 1849).
356. Il Comune di Venezia, pp. 122-127, in partic. p. 126.
357. La lettera di Dandolo invitava il Comune a riassumere il ruolo che aveva svolto il 22 marzo 1848 e si concludeva con l'affermazione: "non credo che da nessuno si pensi salvare l'onore e la libertà d'Italia, convertendo Venezia e il suo circondario in un cumulo di rovine o in un gran cimitero" (cf. Copie di documenti, cc. n.n.).
358. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, parr. 483 e 486-487.
359. Le assemblee del Risorgimento, pp. 705-720.
360. Il Comune di Venezia, pp. 128-134, in partic. p. 130.
361. Ibid., p. 134.
362. Manin a Bruck, Venezia 11 agosto 1849, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, p. 510.
363. Processo verbale eretto al quartier generale austriaco, nella villa Papadopoli presso Mestre, 22 agosto 1849, e dichiarazione del generale Gorzkowski alla Municipalità di Venezia, Marocco 23 agosto 1849, ibid., pp. 519-521 e 524.
364. Decreto del governo provvisorio del 24 agosto 1849, ibid., pp. 524-525.
365. P. Ginsborg, Daniele Manin, pp. 375-376; E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 589, e Venezia nel 1849, p. 158.
366. "La gendarmerie et les Suisses furent les seuls qui maintinrent l'ordre public dans ces derniers jours pleins de danger" (Jean Debrunner, Venise en 1848-49. Aventures de la Compagnie suisse pendant le siège par les Autrichiens, Lugano 1850, p. 307).
367. Ultime parole di Manin ai veneziani, in Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin presidente della Repubblica di Venezia già pubblicati in francese e annotati da Federica Planat de la Faye, I-II, Venezia 1877: II, pp. 522-524, in partic. p. 523.
368. E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 633.
369. N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849, II, p. 378. Secondo il calcolo più realistico di Leoni, "Venezia spese nei 17 mesi della rivoluzione 100 milioni" (C. Leoni, Cronaca segreta, p. 313).
370. A. Bernardello, La prima ferrovia, p. 485.
371. F. Dall'Ongaro, Venezia l'11 agosto 1848, p. 11.
372. F. Sceriman, Di ciò ch'è da farsi e da dirsi, pp. 101-102.
373. Cf. A. Bernardello, La prima ferrovia, passim.
374. George Sand, Lettres d'un voyageur, Paris 18692, pp. 91-92.
375. Quando, a fine luglio del 1849, iniziò il bombardamento di gran parte della città, Cicogna si chiese come mai, nonostante "le palle, i razzi, le bombe", "pur nessuno muove lagno tale da scuotere i nostri governanti" e trovò una spiegazione ragionevole nel fatto che al popolo veneziano "si è messo tanto spavento in corpo di ciò che potrebbero fare gli austriaci se tornassero, e gli si è messa in capo la speranza dell'aiuto degli ungheresi che fra la tema e la speranza tacciono" (E.A. Cicogna, Osservazioni sopra Venezia, par. 462). Ma va anche tenuto presente che "tema" e "speranza" potevano piantare radici, in quanto il popolo veneziano voleva continuare ad essere - per adoperare un concetto dello stesso Cicogna - una "nazione istorica" (Id., Diari, c. 6369, 28 marzo 1857).
376. Venezia nel 1849, p. 159 (28 agosto 1849).
377. Raccolta di leggi, notificazioni, avvisi ec. pubblicati in Venezia dal giorno 24 agosto 1849 in avanti, compilazione di Pietro Cecchetti, I, pt. I, Venezia 1851, p. 2.
378. C. Leoni, Cronaca segreta, p. 310.
379. Documenti alla continuazione delle Memorie di E.A. Cicogna, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2847, cc. n.n.
380. "Si grida per la città perché per trattare sulla costituzione futura adattabile al regno lombardo-veneto si scelse con altri [...] il sig. Breganze uomo che dicono negoziare a contanti sugli affari", forse perché, insinuava una voce, era "amico della moglie di Bruch" (Emmanuele Antonio Cicogna, Continuazione circa alle conseguenze della passata Rivoluzione, ibid., par. 129, 26 febbraio 1850).
381. Dal discorso del ministro degli Interni Alexander Bach alla conferenza cit. in S. Malfèr, Una costituzione per il regno Lombardo-Veneto, p. 124.
382. Cf. A. Sked, Radetzky, p. 355.
383. Così afferma E.A. Cicogna, Continuazione circa alle conseguenze, par. 11.
384. Ibid., par. 59, dicembre 1849.
385. Raccolta di leggi, notificazioni, II, pt. I, 1849, in data 26 settembre 1849.
386. Cf. le critiche di E.A. Cicogna, Continuazione circa alle conseguenze, par. 63, dicembre 1849.
387. Ibid., par. 51, novembre 1849.
388. Ibid., parr. 71 e 91.
389. Giovanni Zalin, Aspetti e problemi dell'economia veneta dalla caduta della Repubblica all'annessione, Vicenza 1969, p. 172 n. 7.
390. Edith Saurer, Strasse, Schmuggel, Lottospiel: materielle Kultur und Staat in Niederösterreich, Böhmen und Lombardo-Venetien im frühen 19. Jahrhundert, Göttingen 1989, p. 295.
391. A. Zannini, Vecchi poveri, p. 192.
392. Tommaso Locatelli, Feste, spettacoli, costumi, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, p. 594 (pp. 571-642).
393. E.A. Cicogna, Continuazione circa alle conseguenze, par. 130.
394. Ibid., parr. 47, 160 e 182.
395. Charles Blanc, De Paris à Venise. Notes au crayon, Paris 1857, p. 119.
396. Cf. supra la n. 379.
397. E.A. Cicogna, Continuazione circa alle conseguenze, parr. 109-110.
398. Raccolta di leggi, notificazioni, II, pt. II, 1850, in data 25 gennaio 1850.
399. E.A. Cicogna, Diari, cc. 6318-6320 (20 gennaio 1856).
400. E. Tonetti, Governo austriaco, pp. 139-140.
401. E.A. Cicogna, Diari, c. 6484 (25 luglio1858).
402. Ibid., c. 6367 (21 marzo 1857).
403. C. Leoni, Cronaca segreta, p. 513.
404. E.A. Cicogna, Diari, cc. 6367-6368 (22 marzo 1857), 6376-6377 (10 giugno 1857), 6417 (26 settembre 1857) 6463 (novembre 1857), 6470 (22 marzo 1858).
405. Ibid., c. 6501 (maggio 1859).
406. Ibid., cc. 6505-6506 e 6510-6511(14 giugno 1859).
407. Renato Giusti, Il Veneto nel Risorgimento dal 1848 all'unità, Venezia 1983, pp. 73, 75 e 117-118.
408. George August Sala, Rome and Venice, with Other Wanderings in Italy, in 1866-7, London 1869, pp. 37, 41, 233 e 247.