Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’Ottocento è il secolo in cui il balletto raggiunge il suo maggior successo e la piena autonomia, configurandosi come grande spettacolo drammatico autonomo. Dominato dall’esplosione fabulistica e dall’elevazione tecnica del balletto romantico francese, il XIX secolo vede in Italia il trionfo del ballo-pantomimo e della spettacolarità scenografica e coreutica.
Il balletto e l’opera
Per tutto l’Ottocento tra balletto e opera in musica esiste un rapporto molto stretto, di reciproca dipendenza e concorrenza nel guadagnarsi il favore del pubblico. Se in Francia la tradizione vede una maggiore fusione delle due forme attraverso l’opéra-ballet, in Italia opera e balletto rimangono spettacolarmente connessi, ma separati, nei modi storici dell’intermezzo di origine rinascimentale. Per tutta la prima metà del XIX secolo, i balli sono generalmente alternati agli atti dell’opera, pur senza avere con essa alcuna connessione contenutistica o stilistica, oppure vengono presentati alla fine. Soltanto dagli anni Cinquanta in poi le opere stesse, sull’esempio francese, inglobano spesso il ballo come divertissement al loro interno, elaborando una dimensione grandoperistica tipicamente italiana, spesso denominata “opera ballo” (Rossini, Donizetti, Verdi). Alla fine del secolo, con la svolta più intimista dell’opera e quella magniloquente del balletto, i due generi si separano di nuovo, avviandosi entrambi a un’inevitabile decadenza.
Salvatore Viganò e il “coreodramma”
Nei primi due decenni dell’Ottocento, Salvatore Viganò prosegue e porta al suo culmine estetico il tentativo di riforma intrapreso in Francia da Jean-Georges Noverre col suo ballet d’action: fondere la pantomima alla danza attraverso l’azione della musica in un’opera organica, in cui il dramma nasca potente e armonico dall’equilibrio degli elementi compositivi. Nei suoi “coreodrammi”, Viganò riesce a superare gli squilibri fra le componenti ancora presenti in Noverre: il gesto ritmato assume così valenze fortemente espressive e la danza abbandona le rigidità delle formule strettamente accademiche. Attraverso l’introduzione di nuovi e originali soggetti e con una genialità coreografica che fa nascere quasi naturalmente un pathos tragico dalla perfetta fusione di musica e movimento, Viganò raggiunge un’espressione elevatissima della danza teatrale. Rimane nella storia il suo incontro a Vienna con la musica di Beethoven per il balletto Le creature di Prometeo (Die Geschöpfe des Prometheus) del 1801, che dà inizio alla sua ricerca sul ballo epico. Purtroppo questa collaborazione rimane un caso isolato e Viganò, come gli altri coreografi coevi, continua a utilizzare collages di musiche varie o a comporle lui stesso, a vantaggio della funzionalità coreografica, ma a scapito della qualità e della unità musicali.
Dal 1813 Viganò è attivo alla Scala di Milano, dove produce le sue opere più mature, nella cornice delle imponenti scenografie neoclassiche di Sanquirico: Prometeo (1813), che riprende in maniera grandiosa il tema già trattato con l’aggiunta di musiche sue, di Mozart e di Haydn; Mirra (1817), Otello, Dedalo, La vestale (1818) e il superbo I Titani (1819).
Si conclude così in Italia il processo di riforma del ballo teatrale, messo già in atto in Europa da Hilverding, Angiolini e Noverre, senza tuttavia lasciare eredi degni del genio di Viganò. Il suo contemporaneo Gaetano Gioia compone grandiosi balli drammatici, senza comunque raggiungere i livelli viganoviani. Ponendo la danza drammatica al centro dello spettacolo e facendone l’elemento unificatore di musica e scenografia, la riforma porta comunque in nuova luce la figura del coreografo, da ora non più semplice “maestro del ballo” ma vero creatore dell’opera unitaria.
Da questo momento è di nuovo la Francia a prendere il sopravvento in campo coreutico con la creazione del balletto romantico.
Il balletto romantico
L’afflato lirico e fantastico del romanticismo trova nella danza una rispondenza quasi immediata. La Silfide (1832) è considerato universalmente il manifesto della nuova tendenza. Il balletto, coreografato da Filippo Taglioni su musica non eccelsa di Scheitzhöffer, si identifica con la sua protagonista, Maria Taglioni e con la sua danza sulle punte.
Benché la danza sulle punte non sia affatto un’assoluta novità, è la Taglioni a portarla all’alto virtuosismo e a renderla famosa, anche per la sua perfetta funzionalità rispetto al ruolo fiabesco interpretato. Da questo momento in poi, i balletti sono popolati di creature soprannaturali, vestite del bianco, impalpabile tutù a veli sovrapposti, e sospese quasi prodigiosamente nell’aria, proiezioni di un irraggiungibile ideale femminile di levità disincarnata, tipico dello spirito romantico. La ballerina diventa la vera étoile del ballo (Carlotta Grisi, Fanny Elssler, Fanny Cerrito), soppiantando il precedente predominio maschile e suscitando nel pubblico aristocratico e borghese una delle follie del secolo: la “ballettomania”.
La danza accademica raggiunge in quest’epoca il culmine della bellezza astratta e dell’evoluzione tecnica. In primo piano è l’elevazione, lo slancio verso l’alto che sembra sfidare la legge di gravità e che caratterizza lo stile del secolo, sublimando metaforicamente le passioni terrene dei protagonisti in una tensione trascendente. Se le soliste sono sempre più virtuose, i corpi di ballo, molto numerosi, costruiscono complesse e perfette geometrie simmetriche, dove il massimo dell’eccellenza consiste nel massimo dell’uniformità stilistica. L’opera dei riformatori, che avevano lottato per una maggiore aderenza alla natura e per la differenziazione espressiva nel ballo, sembra aver lasciato ben poche tracce in Francia. La scelta della musica, sempre in secondo piano rispetto alle meraviglie estetiche del corpo danzante, è in genere soltanto funzionale al balletto e spesso stereotipata, affidata a musicisti specializzati e solitamente di mediocre levatura artistica.
I temi romantici assunti dal balletto sono principalmente quello fiabesco-gotico, che introduce in mondi notturni, magici e inquietanti, abitati da esseri ultramondani, e quello sereno e solare della vita agreste e della semplicità popolare, spesso fuso o contrapposto al primo. Esempio memorabile di questa doppia ispirazione è Giselle (1841); su libretto di Théophile Gautier, musica di Adolphe-Charles Adam, coreografia di Jules Perrot e scene di Pierre Cicéri, il balletto unisce a un primo atto di vivace vita paesana scozzese un secondo “atto bianco” nel cupo mondo boschivo delle Villi, anime senza pace di fanciulle morte prima delle nozze. Piuttosto frequentate sono anche le tematiche esotiche e folkloriche (La révolte au sérail e La gitana di Taglioni, La Péri di Jean Coralli Peracini, Paquita di Joseph Mazilier, Napoli di Auguste Bournonville) e quelle diaboliche o magiche che si condensano a fine secolo attorno al motivo degli automi (Le diable boîteux di Coralli, Faust di Perrot, Le violon du diable e Coppelia di Arthur Saint-Léon). Coppelia (1870), su musica di Léo Delibes, è la storia di una beffa paesana che vede al centro una fanciulla-automa ed è considerato l’ultimo capolavoro di un romanticismo ormai lontano dalla vena originaria.
Esiti tardo-romantici nella Russia imperiale
Per tutto l’Ottocento la Russia diviene centro di confluenza di uomini e tendenze esterne; l’aristocrazia russa, infatti, predilige l’Europa e soprattutto la cultura francese e sotto la protezione della famiglia imperiale, che importa ballerini e maestri, coreografi e balletti dalla Francia e dall’Italia, la danza raggiunge in questo Paese notevoli livelli. Proprio un coreografo e maestro di ballo francese, Marius Petipa (1822-1910), con la sua cinquantennale attività nella scuola e nel balletto imperiali, finisce per portare il balletto russo di fine secolo a vette tecniche e compositive peculiari e di valore internazionale. Unendo la vivacità del ballo italiano alle grandi coralità dello stile francese, Petipa ottiene una qualità stilistica che si configura come tipicamente russa e protrae la stagione romantica, con grandi coreografie spettacolari, ben oltre il suo termine nel resto dell’Europa.
Negli ultimi anni del secolo, particolarmente fortunato e memorabile è l’incontro di Petipa con il primo grande autore di musica per balletto, Pëtr Il’ic Čiajkovskij. La bella addormentata (1890), Lo schiaccianoci (1892) e Il lago dei cigni (1895) sono prodotti universalmente noti di questa collaborazione, in cui la musica cosmopolita, fluida, ricca di fantasia melodica e intrisa dell’intimismo decadente di Čiajkovskij si amalgama mirabilmente con i preziosismi coreografici e la doviziosa teatralità di Petipa.
La tecnica italiana e il “ballo grande”
Dopo l’intensa stagione del ballo epico di Viganò, l’Italia si configura soprattutto come generatrice e formatrice di grandi interpreti che invadono tutta l’Europa. All’origine di questa fioritura di ballerini mirabili è senza dubbio da porre l’opera didattica di Carlo Blasis (1797-1878), che sistematizza in maniera incomparabile le recenti innovazioni della tecnica accademica.
Nel suo Trattato elementare, teorico e pratico dell’arte e della danza (Traité élémentaire, théorique et pratique de l’art de la danse) del 1820, Blasis si sforza di organizzare in un complesso organico di regole tecniche ed espressive tutti gli apporti innovativi degli ultimi decenni, tenendo conto delle esigenze esecutive e rappresentative del balletto e interpretando con sensibilità il gusto dell’epoca. Filtrandoli in uno stile decisamente neoclassico, Blasis compone in un apparato normativo efficacemente trasmissibile i virtuosismi tecnici delle punte e dell’elevazione con l’espressività della mimica corporea, immettendoli in un sistema didattico che esalta l’“estro” individuale dell’artista.
Blasis è così l’autentico fondatore della didattica moderna della danza classica, che con lui si trasforma in un vero e proprio sistema organico. Seguendo i suoi insegnamenti, Enrico Cecchetti (1850-1928) – maître de ballet imperiale di San Pietroburgo, dei Ballets Russes di Diaghilev e alla Scala di Milano – forma tra i due secoli generazioni di ballerini.
Nell’Ottocento, per quanto riguarda il balletto, l’Italia si distingue dalla Francia nella conservazione di una tradizione mimica più spiccata, nella maggiore importanza attribuita al ballerino, nell’intenso assorbimento al suo interno della danza popolare e nella vivacità umorosa dei suoi interpreti. Se in Francia domina la danza “nobile”, rigorosamente accademica ed elevata, in Italia prevale la danza “di carattere”, vigorosa ed espressiva.
Sul finire del secolo, la felice conclusione del periodo risorgimentale ispira ottimismo economico e fiducia nel progresso all’intera società. Anche il balletto, come la poesia, si fa encomiastico, ampliandosi in spettacolarità e virtuosismo, e portando sulla scena grandi masse di figuranti in imponenti scenografie allegoriche. L’equilibrio raggiunto dalle opere di Viganò si spezza clamorosamente: pantomima e danza virtuosistica si separano nettamente, mentre domina il gusto della grandiosità visiva e coreografica. Nasce allora il “ballo grande” italiano che conosce un vero trionfo nei due ultimi decenni, soprattutto per merito di Luigi Manzotti.
Coadiuvato dalla musica di Romualdo Marenco e dalle scene di Alfredo Edel, nel 1881 Manzotti compone il gran ballo allegorico-storico Excelsior, esaltazione della tecnica e della civiltà, a cui fanno seguito Amor (1886) e Sport (1897), in un trittico spettacolare che segna l’apoteosi e al tempo stesso segna la decadenza del balletto ottocentesco.