Il calcio parla tedesco
Il Borussia Dortmund nel giro di pochi anni ha superato un momento di crisi profonda, grazie alle capacità del nuovo allenatore Jürgen Klopp e alla politica di puntare sul vivaio di giovani promesse da valorizzare. Così è arrivato a testa alta alla finale di Champions League, sfidando il Bayern Monaco.
Nel 2006 il Borussia Dortmund era tecnicamente morto. Il passivo ammontava a 140 milioni di euro, le operazioni-tampone (tra le quali vanno ricordati un umiliante prestito dei rivali del Bayern Monaco e la cessione dello stadio) non erano più sufficienti per tirare avanti, i fasti degli anni Novanta (vittoria della Champions League del 1997 ai danni della Juventus) definitivamente seppelliti.
Sembrava tutto finito quando l’intervento quasi miracolistico della Morgan Stanley permise al club tedesco di rivedere una fioca luce in fondo a un tunnel interminabile. Bastò per far scoccare la scintilla dell’ingegno e della competenza. Due anni a pane e acqua (il 2007 e il 2008), in cui il Borussia rischiò la retrocessione, poi l’avvento di Jürgen Klopp (1° luglio 2008). Era il tecnico delle giovanili, conosceva la storia del club, condivideva l’intento dei dirigenti. Cioè quello di puntare sul vivaio (6 milioni di euro investiti) e su acquisti a basso costo, ma mirati e funzionali al progetto.
La differenza tra un calciofilo italiano e uno tedesco è che, quando si pronuncia la parola progetto, il primo fa un sorriso di compatimento, l’altro si mette a realizzarlo. Robert Lewandowski, il centravanti diventato famoso per avere segnato 4 reti nella semifinale di andata della Champions League al grande Real Madrid di José Mourinho, contribuendo in maniera decisiva alla sua eliminazione, venne pagato solo 4 milioni di euro alla squadra polacca del Lech Poznan´ . In compenso il giapponese Kagawa Shinji, ingaggiato per 300.000 euro, venne rivenduto al Manchester United per 16 milioni, realizzando così una stratosferica plusvalenza di bilancio. Muovendosi su queste direttrici, sconosciute ai più in Italia, il Borussia non solo è riuscito a ridare equilibrio ai conti, ma anche a vincere la Bundesliga, il campionato tedesco, per ben 2 volte (2011 e 2012), sino alla finale europea a Wembley del 2012-13. È vero, è uscito sconfitto per 2-1, ma ha grandi motivi di consolazione: la qualità del suo gioco è apprezzata nel mondo, il numero di spettatori allo stadio (con relativi incassi) raggiunge le 80.000 unità (pari alla media del favoloso anno 2011), i suoi talenti, specie quelli usciti dal vivaio, sono ancora i più ricercati e pagati. Un esempio su tutti: Mario Götze, ceduto al Bayern Monaco per 37 milioni di euro.
L’atto finale dell’ultima Champions è stato una sorta di rappresentazione completa del modello calcistico tedesco. Se il Borussia Dortmund è l’outsider educato all’eccellenza dalla necessità, il Bayern Monaco è il potere illuminato. Come sottolinea La Gazzetta dello Sport, negli ultimi 10 anni il fatturato del club bavarese è passato da 163 a 368 milioni di euro, quarto posto nel mondo. La forza risiede nel brand (uno dei più conosciuti), in 2 soci di minoranza di grande affidabilità (Adidas e Audi) e in un’attenzione assidua alla voce stipendi (con 166 milioni raggiungono appena il 45% del fatturato). Tuttavia non è difficile vivere da grandi se grandi si è effettivamente.
I veri meriti del Bayern sono morali, per non dire filosofici. L’esempio viene dalla gestione dei risultati e, nello specifico, delle sconfitte. O, per meglio dire, delle non vittorie. Prima della trionfale stagione 2012-13, chiusa con i successi in Champions, in Bundesliga e nella Coppa di Germania, il Bayern aveva fallito clamorosamente. Non solo era stato preceduto in campionato dal Borussia, ma aveva perso di fronte al proprio pubblico, e ai calci di rigore, la finale europea contro lo sfavoritissimo Chelsea dell’italiano Di Matteo. Eppure, al di là di una comprensibile amarezza, nulla di drammatico era seguìto a quegli eventi (in Italia sarebbero scattati processi e pubbliche gogne). Anzi, il Bayern è ripartito dallo stesso allenatore (il veterano Jupp Heynckes), la dirigenza ha rimotivato lui e i calciatori (praticamente lo stesso gruppo), affidandosi laicamente a una virtù molto tedesca: una logica perseveranza. Se la squadra era arrivata così vicino ai risultati significava che era valida e aveva diritto a riprovarci. Bastava una maggiore convinzione. Adesso, che è già di gran lunga davanti a tutti, il Bayern non si fermerà: a stagione in corso, con grandissimo anticipo sulla concorrenza, ha ingaggiato Josep Guardiola, forse il miglior allenatore vivente, l’inventore del Barcellona moderno. Avrà tempo e mezzi per rafforzare un primato difficile da scalfire. E, se non accadrà subito, nessuno farà drammi. Essere tedeschi, nel calcio, vuol dire non perdere mai la testa.