Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scoperta dell’analisi infinitesimale è l’approdo di un lungo processo di ricerche, durato più di un secolo, che impegna numerosi matematici che, avvalendosi di metodi diversi, si confrontano sia con le controverse nozioni di infinito e di infinitesimo sia con le gravose difficoltà comportate dalla loro applicazione nelle operazioni di calcolo. La possibilità di conseguire un risultato finito sommando infiniti termini diventa oggetto di controversie fra “conservatori” e “innovatori”, che contrappongono le contraddizioni poste alla base dell’analisi infinitesimale alla sua straordinaria fecondità. Newton e Leibniz scoprono il nuovo calcolo l’uno indipendentemente dall’altro, seguendo strade diverse. La condivisione della scoperta dà luogo a una delle dispute più aspre della storia della scienza, nella quale il risentimento personale e l’orgoglio patriottico prevalgono sulle ragioni scientifiche.
I precursori della scoperta
Isaac Newton
Sulla quadratura delle curve
Considero in questo lavoro le grandezze matematiche non come costituite di parti piccole a piacere, ma come generate da un moto continuo. Le linee vengono descritte non mediante addizione di parti, ma per moto continuo di punti; le superfici per moto di linee; i solidi per moto di superfici, gli angoli per rotazione dei loro lati; i tempi per flusso continuo e così con altri casi analoghi. Queste generazioni hanno davvero luogo in natura, e si osservano ogni giorno nel movimento di corpi. In questo modo gli antichi indicarono le generazioni del rettangolo come descritto da un segmento mobile perpendicolare ad un segmento fisso. Considerando dunque che quantità generate, crescendo in tempi uguali, riescono maggiori o minori secondo la velocità maggiore o minore con cui crescono, ho cercato un metodo per determinare le grandezze delle velocità dei moti o degli incrementi con cui si generano; chiamando flussioni queste velocità di accrescimento, e fluenti le quantità generate, giunsi a poco a poco negli anni 1665 e 1666 al metodo delle flussioni del quale qui faccio uso nella quadratura delle curve.
Isaac Newton, Sulla quadratura delle curve, 1704
L’analisi infinitesimale si presenta come un prezioso strumento per lo sviluppo delle scienze esatte nell’età moderna. Contribuiscono variamente alla scoperta del nuovo calcolo numerosi matematici, che sciolgono impegnative difficoltà concettuali concernenti la legittimità del ricorso a grandezze infinite e infinitesime e la possibilità di applicarle nelle operazioni matematiche. Se i rudimenti di quel che sarebbe divenuto il calcolo integrale possono essere ricondotti al metodo di quadratura di Archimede, la nozione di derivata ha un’origine più recente, che chiama in causa la ricerca delle tangenti e dei massimi e dei minimi di una funzione. Il perfezionamento del calcolo integrale si afferma nel campo della geometria, soprattutto sul fondamento della soluzione di problemi, quali per esempio la determinazione di aree e di volumi, che sono associati anche a finalità pratiche, in primo luogo di misurazione. La derivazione, come del resto la ricerca delle tangenti, è legata piuttosto a problemi di meccanica, come il calcolo della distanza massima e minima di un pianeta dal Sole o della lunghezza delle curve, condizione della determinazione dello spazio percorso da un pianeta in un dato tempo, o della velocità istantanea. Diventa dunque evidente l’esigenza di introdurre grandezze infinitesimali e di comprendere in che modo esse compongono le grandezze finite.
Negli anni Venti del Seicento, il gesuato Bonaventura Cavalieri, discepolo di Galilei, intraprende indagini sugli infinitesimi, mettendo al corrente il maestro dei risultati raggiunti; successivamente, nel 1635, dà alle stampe la Geometria indivisibilibus continuorum nova quodam ratione promota (“Geometria promossa con gli indivisibili dei continui mediante un nuovo metodo”), nella quale espone un metodo originale, basato sugli indivisibili, per determinare aree e volumi. Secondo Cavalieri, un’area può essere considerata come composta da un numero indefinito di segmenti paralleli equidistanti, così come un volume è la composizione di un numero indefinito di aree piane parallele. Una figura piana è quindi concepita come un tessuto formato da fili o da segmenti rettilinei fra loro paralleli, mentre si può intendere un solido come un libro composto da pagine parallele. Ogni indivisibile ha una dimensione in meno rispetto alla grandezza che compone: le corde, che hanno una sola dimensione, formano una superficie, che invece ne ha due, mentre le superfici formano un solido, che ne ha tre. Il procedimento messo a punto da Cavalieri consiste nel confrontare la somma degli indivisibili di una figura con la somma di quelli di un’altra, non trascurando alcun elemento. Due solidi aventi la stessa altezza hanno anche lo stesso volume se e soltanto se la classe degli indivisibili che formano il primo solido è uguale a quella del secondo. Di qui la dimostrazione del cosiddetto teorema di Cavalieri: se due solidi hanno altezze uguali e se le sezioni elaborate con piani paralleli alle basi e posti a uguali distanze dalle basi hanno sempre un rapporto dato, allora anche i volumi dei solidi hanno lo stesso rapporto. Ne consegue che il volume di un cono è uguale ai 2/3 di quello del cilindro circoscritto. Cavalieri non definisce la natura degli indivisibili e per questo motivo è contestato da chi, come il gesuita elvetico Paul Guldin, gli rimprovera di voler costruire grandezze geometriche continue (aree e volumi) riunendo grandezze con una dimensione in meno (linee ed aree). Le obiezioni di Guldin, professore al Collegio Romano, non sono motivate soltanto dall’avversione della Compagnia di Gesù nei confronti degli sviluppi più recenti della geometria degli indivisibili, esse fanno emergere evidenti limiti in merito alla composizione del continuo, denunciando un’effettiva assenza di rigore nel metodo di Cavalieri. Guldin argomenta che, per quante linee si possano prendere, esse non comporranno mai una superficie e ciò vale anche per i volumi. Né la quantità infinita di tutte le linee che compongono una superficie, né le infinite superfici che compongono un solido possono essere messe in relazione con la quantità finita di una superficie o di un volume. Inoltre, restando fedele alla concezione tradizionale dell’infinito, Guldin sostiene che il continuo è divisibile all’infinito, e che consta di infinite parti solo in potenza.
Negli stessi anni in cui Cavalieri è impegnato nel promuovere il nuovo metodo degli indivisibili, Pierre de Fermat, Gilles Personne de Roberval e Blaise Pascal, basandosi sull’antico metodo di esaustione (del quale la quadratura archimedea della parabola è un esempio), sviluppano nuovi metodi per calcolare aree di superfici racchiuse da curve note nonché volumi di solidi di rotazione. Per mezzo del metodo di esaustione si determina la superficie di una figura curvilinea a partire da quella di figure rettilinee inscritte e circoscritte, con un procedimento di approssimazione consistente nell’aumentare il numero dei loro lati. I matematici francesi assumono dunque il metodo di approssimazione della figura curvilinea mediante figure rettilinee, non facendo ricorso, come accadeva dall’antichità, alla dimostrazione per assurdo, bensì sommando un numero infinito di rettangoli.
Benché oggetto di numerose critiche, il metodo di Cavalieri è adottato da Evangelista Torricelli, che si serve sia degli indivisibili curvilinei (che sono le periferiche dei cerchi nelle figure piane e le superfici sferiche, cilindriche e coniche nelle figure solide) sia di quelli rettilinei. Si deve a Torricelli la diffusione del metodo degli indivisibili fra i più insigni matematici del tempo. Uno dei risultati più interessanti conseguiti dal matematico italiano è la dimostrazione che un solido di lunghezza infinita (definito “solido iperbolico acuto”) ha un volume finito. Al fine di paragonare due figure piane, come per esempio un cerchio e un triangolo rettangolo, Torricelli uguaglia gli indivisibili curvi dell’una con quelli retti dell’altra. Dimostra quindi che l’area di un cerchio è uguale a quella del triangolo rettangolo i cui cateti sono uguali rispettivamente al raggio e alla circonferenza del cerchio. Nel De solido hyperbolico acuto , pubblicato negli Opera geometrica (1644), il solido iperbolico è definito come “un solido di grandezza infinita ma dotato di una sottigliezza tale che, per quanto prolungato all’infinito, non supera la mole di un piccolo cilindro. È il solido generato dall’iperbole”. Applicando sia il nuovo metodo degli indivisibili sia il tradizionale procedimento di esaustione, Torricelli prova che il volume di questo solido infinitamente lungo è uguale a quello di un cilindro. Il solido iperbolico è di lunghezza infinita – non in potenza, ma in atto – e ha tuttavia un volume finito; si ottiene facendo ruotare un ramo di iperbole equilatera intorno all’asse delle ordinate. Il teorema di Torricelli influenza notevolmente numerosi matematici europei, e in particolare John Wallis, il più celebre matematico inglese prima di Newton.
Sostenitore della legittimità dell’infinito in matematica, Wallis converte in chiave aritmetica, nell’ Arithmetica infinitorum (1656), il metodo degli indivisibili, considerando le aree come composte da una serie infinita di parallelogrammi infinitamente piccoli. La nuova versione del metodo si fonda sulle serie, procedendo da quelle semplici a quelle più complesse ed associando ad ogni serie i problemi geometrici che può sciogliere. Il risultato al quale giunge Wallis – che sarebbe poi stato perfezionato da Newton – è che la somma di infiniti termini può essere equivalente a un numero definito.
Ai problemi posti dalla ricerca di un cerchio tangente a una qualsiasi curva algebrica in un suo dato punto si applicano vari matematici, servendosi di metodi differenti, legati a un’impostazione algebrica o analitica. Roberval e Pascal costruiscono curve per mezzo del moto continuo di un punto; Fermat assume lo stesso metodo per trovare la tangente e determinare il massimo (o minimo) di una funzione; lo scozzese James Gregory prova che il problema della tangente e quello dell’area sono inversi. I vari metodi si rivelano inadeguati, a causa della prolissità dei loro procedimenti, per l’esame di equazioni contenenti un numero considerevole di radicali. A differenza di Wallis e di altri matematici, come Descartes e Johannes Hudde, Isaac Barrow, professore di geometria a Cambridge, non ha alcun interesse per i formalismi dell’algebra, che a suo avviso ha a che fare più con la logica che con la matematica, e sviluppa pertanto metodi in chiave analitica, essendo del resto convinto che fra il problema della tangente e quello della curvatura v’è una relazione inversa. Nel 1669, chiamato a Londra come cappellano di Carlo II, si dimette dall’università, lasciando la cattedra al suo giovane allievo Isaac Newton.
Il metodo universale di Newton
Nel 1665 Newton ha già scoperto, sulla scorta dell’opera di Wallis, il metodo degli sviluppi in serie, adottando il principio per cui lo sviluppo infinito è concettualmente equivalente a un numero finito. La serie è infinita, ma non indefinita ed equivalente a un numero definito. Inoltre, Newton pone subito in correlazione il problema degli sviluppi in serie con quello delle flussioni, vale a dire le velocità di variazione di grandezze capaci di variare con continuità. Infatti, nello studio newtoniano, le grandezze geometriche sono intese in termini cinematici, ossia come generate da un moto continuo: per esempio, una linea è generata dal moto continuo di un punto e le superfici dal moto continuo di una linea. Il metodo di Newton si fonda dunque sul concetto di velocità: le variabili sono intese come grandezze “fluenti” nel tempo (oggi chiamate funzioni) alle quali corrispondono le “flussioni”, ovvero le velocità di accrescimento con le quali esse sono generate (e che oggi sono chiamate derivate). Newton risolve il problema della determinazione della tangente stabilendo che l’inclinazione della tangente alla curva è data dai rapporti fra le flussioni di x ed y. Il nuovo metodo non si limita alla determinazione del tasso di variazione istantanea di una curva, dato che, in virtù della congiunzione dei procedimenti delle flussioni (generalmente applicate a polinomi) e delle serie, permette inoltre di sciogliere equazioni differenziali e di trovare le quadrature e le lunghezze delle curve. In definitiva, Newton non si serve di funzioni, bensì di curve, e pur non essendo in possesso del concetto di limite, che sarebbe stato introdotto da Leonhard Euler e poi precisato da Augustin-Louis Cauchy, introduce comunque una regola per l’eliminazione degli infinitesimi.
Intorno al 1666 Newton definisce i principi fondamentali dell’analisi. Tuttavia è restio a pubblicare i risultati delle sue ricerche. La prima elaborazione sistematica del calcolo oltreché delle serie infinite si trova nel De analysi per aequationes numero terminorum infinitas (“Sull’analisi mediante equazioni con numero infinito di termini”), redatto nel 1669 ma dato alle stampe soltanto nel 1701. Per quel che concerne invece la sua prima esposizione della nuova analisi, bisogna fare riferimento alla prima edizione dei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), nei quali, in uno scolio al lemma II del secondo libro, Newton riconosce che Gottfried Wilhelm Leibniz “aveva scoperto un metodo […] che gli permetteva di raggiungere questi stessi risultati, e che differiva dal mio solo per la terminologia e le notazioni”.
Leibniz e la disputa sulla priorità della scoperta
Leibniz è un matematico autodidatta. Per la sua formazione matematica si rivela decisivo il periodo trascorso a Parigi (1672-1676), durante il quale stabilisce contatti personali con i più autorevoli protagonisti del pensiero scientifico del tempo e perfeziona la sua “macchina aritmetica”, il primo calcolatore progettato oer eseguire le quattro operazioni. Conoscitore della geometria degli indivisibili di Cavalieri, apprende l’aritmetica degli infiniti studiando l’ Opus geometricum di Grégorie de Saint-Vincent e l’Arithmetica infinitorum di Wallis. In occasione di un viaggio a Londra, nel 1673, legge le Lectiones geometricae di Barrow e prende visione di una copia manoscritta del De analysi di Newton, non essendo tuttavia ancora in possesso della preparazione necessaria in geometria ed analisi per comprenderne appieno il valore. Si occupa di somme di serie studiando il triangolo armonico e trovando – come gli aveva richiesto Christiaan Huygens – la somma dei reciproci dei numeri triangolari. Influenzato dai lavori di Pascal sulla cicloide, Leibniz giunge nel 1676 ai princìpi dell’analisi mediante il calcolo integrale. Il metodo leibniziano si fonda sulla differenziazione, in virtù della quale ad ogni variabile corrisponde il relativo differenziale e, nel caso di combinazioni di variabili, consente di calcolare per mezzo di regole semplici il differenziale di una potenza e di una radice, dai quali si può inoltre ricavare il differenziale di una quantità. Una volta calcolato il differenziale, la determinazione delle tangenti, che dipende dunque dalle “differenze” delle ordinate e delle ascisse quando diventano infinitamente piccole, richiede l’esecuzione di calcoli algebrici. Le quadrature presuppongono invece la somma delle ordinate.
I metodi di Leibniz e di Newton sono speculari: ai differenziali di Leibniz corrispondono i “momenti” di Newton (che si ottengono moltiplicando le flussioni per un tempuscolo elementare o). A differenza di Newton, Leibniz slega gli sviluppi in serie dal calcolo, dato che non ammette l’equivalenza di serie e funzioni, e introduce notazioni più eleganti e complete, che del resto sono attualmente in uso: dx e dy indicano il differenziale, dove dx è la differenza fra due valori strettamente collegati di una quantità variabile x, e dy è il cambiamento corrispondente prodotto in una seconda variabile y che è funzione di x.
Leibniz scopre il calcolo infinitesimale con un ritardo di circa dieci anni rispetto a Newton, ma è il primo a renderlo pubblico, facendo apparire nel 1684 sugli “Acta Eruditorum” di Lipsia la Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, qua nec irrationales quantitates moratur (Nuovo metodo per trovare i massimi e i minimi, ed anche le tangenti, non ostacolato da quantità irrazionali), che tuttavia non solleva rivendicazioni di priorità, poiché allora i rapporti fra il filosofo tedesco e Newton lasciano ancora trasparire reciproche attestazioni di stima. La disputa sull’analisi appassiona numerosi matematici fino a coinvolgere la Royal Society, della quale Newton è nominato presidente nel 1703. Motivata dalla riluttanza di Newton a pubblicare i suoi lavori e animata da palesi rivalità patriottiche, la controversia svela divergenze inconciliabili che investono i fondamenti filosofici e fisici della visione del mondo (il problema del vuoto, la teoria della materia, i concetti di spazio e tempo, la sperimentazione, l’interpretazione della gravitazione universale ecc.). Nel 1699 il matematico elvetico Nicolas Fatio de Duillier mette in discussione, in suo scritto sulla brachistocrona, l’originalità del calcolo escogitato da Leibniz. Su sollecitazione di quest’ultimo, la Royal Society ricusa l’iniziativa di Fatio. Sin da allora Leibniz sostiene di aver appreso che Newton si servisse di un calcolo simile al suo soltanto dalle opere di Wallis. Nella Fluxionum methodus inversa (1703), George Cheyne, riferendosi alla scoperta di Newton, denuncia che “tutto ciò che è stato pubblicato da altri negli ultimi ventiquattro anni relativamente a questo o a metodi simili, non è che una ripetizione o un facile corollario di quanto Newton molto tempo fa ha comunicato ai suoi amici e al pubblico”. In una recensione anonima al Tractatus de quadratura curvarum, Leibniz afferma che Newton si avvale di flussioni in luogo di differenze, lasciando dubbi su una velata accusa di plagio a carico dello scienziato inglese. Ma è proprio Leibniz a essere esplicitamente accusato di plagio nel 1710 in un contributo sulle forze centripete a firma di John Keill apparso sulle “Philosophical Transactions”, il periodico della Royal Society. Non avendo ottenuto, come sperava, una rettifica con pubbliche scuse da parte di Keill, Leibniz chiede direttamente a Newton di assumere una posizione ufficiale. Così, il presidente della Royal Society istituisce una commissione, componendola per lo più di suoi sodali, affinché la disputa venga risolta. Nel 1713 la commissione fa apparire il Commercium Epistolicum, un repertorio di documentazioni per lo più parziali, come la lettera di Newton del 24 ottobre 1676, contenente, sotto forma di anagramma, indicazioni utili a conseguire il nuovo metodo, che è allegato al riconoscimento della fondatezza della tesi di Keill. L’intera controversia si rivela tanto acrimoniosa da indurre Newton a sopprimere, sin dalla terza edizione dei Principia (1726), lo scolio benevolo nei confronti dell’“espertissimo geometra Leibniz”.