Il califfato degli Omayyadi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il 661-750 la umma è governata da Damasco. La flessibilità della nuova dinastia omayyade è determinante per edificare una società in cui gli aspetti profani non siano mai sopraffatti da quelli confessionali. Basilare è l’apporto delle culture conquistate, ripagate con una politica di sostanziale tolleranza. L’attenzione prevalente però per i fattori economici comporta la scarsa integrazione dei convertiti non arabi, la cui montante reazione porta alla rovina della dinastia, sostituita da quella degli Abbasidi.
Lo scontro del 656 tra il ribelle governatore omayyade di Siria, Mu‘awiya b. Abi Sufyan (602-680), e il quarto califfo “ortodosso”, Alì ibn Abi Talib, chiarisce quale ambiziosa e capace personalità potesse dominare la scena politica islamica dopo l’assassinio del cugino e genero del Profeta.
Muawiya, che regna dal 661 al 680, dopo essersi premurato di “comprare” la neutralità dei figli di Ali, infonde nel suo califfato l’esperienza di un ventennio di buon governo in Siria, in cui s’era guadagnato la stima e la fiducia dei suoi amministrati, compresi cristiani e israeliti. Il suo pragmatismo gli consiglia però di rafforzare l’apparato militare, verso il quale non lesina favori e onori al fine di mettersi al riparo dagli avversari alidi e kharigiti e non è senza significato che egli arruoli cavalieri persiani di fede zoroastriana che non esita a impiegare contro i suoi nemici musulmani pur di affermare la propria assoluta volontà.
Per maggior sicurezza preferisce rimanere a Damasco (che soppianta così Medina come capitale califfale), edificando una nuova struttura di potere che per molti versi resterà un esempio per le future generazioni islamiche.
La situazione degenera allorché Muawiya decide che a succedergli sia il figlio Yazid. La volontà di creare una dinastia familiare califfale che, dal nome del suo clan, viene detta omayyade, contravviene al principio tradizionale arabo tendenzialmente meritocratico, che semmai privilegiava l’anzianità all’interno di un gruppo egemone, su cui bene s’innesta il principio islamico della prevalenza dei vincoli di fede su quelli di sangue, applicato nel periodo “ortodosso” in cui si pretende che i califfi vantino un’anzianità di fede e un’assidua frequentazione del Profeta.
Yazid, come alcuni altri Omayyadi, al di là della sua effettiva inadeguatezza, è stato fatto oggetto di feroci critiche da parte della successiva storiografia islamica che – occorre però ricordarlo – scriveva per non dispiacere il potere abbaside che aveva abbattuto a metà dell’VIII secolo gli Omayyadi, sottolineando una pretesa irreligiosità dei signori di Damasco solo perché i discendenti di Muawiya non avevano quasi mai indossato, con l’eccezione di ’Omar II, le vesti clericaleggianti del pio musulmano, ostentate invece puntigliosamente, anche se spesso solo ufficialmente, dai loro successori.
La pretesa di al-Husayn – figlio minore di ‛Ali e di Fatima, figlia del Profeta – di avere maggior titoli del figlio di Mu‛awiya per governare la umma in virtù dei suoi legami di sangue col nonno, viene impedita da Yazid grazie alla potenza dell’apparato politico, economico e militare sapientemente costruito dal padre.
L’eccidio del nipote del Profeta – che dai suoi seguaci sarà giudicata autentico martirio – e quello della sua famiglia avvengono a Kerbela nel 661 e se Siffin aveva rappresentato la prima traumatica frattura dell’unità dei musulmani, Kerbela costituisce il baratro dentro cui precipita la umma.
I sostenitori della fazione alide giudicheranno il califfato di Yazid il massimo dell’abominio usurpatore, anche se la maggior parte dei musulmani non si persuaderà mai del fatto che la famiglia del Profeta possa arrogarsi alcun predestinato diritto di guida della collettività.
Sono così gettate le fondamenta di ciò che due secoli più tardi diventeranno lo sciismo e il sunnismo. L’esito di Kerbela non sgombera da ogni nube l’orizzonte omayyade. A Mecca insorge infatti anche il figlio di uno dei primi intimi collaboratori (Sahaba, “Compagni”) del Profeta, ‘Abd Allah b. al-Zubayr, presto sostenuto da una parte non esigua della umma, tanto da poter agire a lungo come un anticaliffo.
La morte per cause naturali di Yazid e, poco dopo, del figlio ed erede Muawiya II (661-684) sembra comportare l’estinzione della dinastia e decretare la vittoria di Ibn al-Zubayr, ma la vasta famiglia omayyade non intende passare la mano e rinunciare ai suoi privilegi e si accorda rapidamente per designare come nuovo califfo il suo membro più anziano: Marwan ibn al-Hakam.
Un’insurrezione a Kufa nel 685 – guidata da al-Mukhtar in nome d’un altro figlio di Ali ibn Abi Talib, Muhammad ibn al-Hanafiyya – aggrava il quadro già notevolmente lacerato della società islamica ma il figlio e successore di Marwan, ‘Abd al-Malik b. Marwan, riesce in pochi anni a riunificare con una serie di abili azioni militari il califfato e a disfarsi infine nel 692 del sessantottenne Ibn al-Zubayr grazie alle capacità del suo trentunenne generale (poi suo governatore di Kufa) al-Haggia ibn Yusuf.
Ricostituita l’unità, l’obiettivo prioritario per Abd al-Malik è quello del riassetto della macchina statale.
Tra il 692 e il 697 fa battere per la prima volta moneta: un conio aureo (dinar), uno argenteo (dirham) e uno in rame (fils), ispirati alle monete bizantine e sasanidi. Apre poi le porte dell’esercito – in cui ha sempre predominato il più evoluto elemento arabo yemenita – anche agli arabi di ceppo settentrionale, nell’intento di eliminare un fattore di malcontento e di potenziale pericolo. Organizza inoltre un efficiente servizio postale (il barid), che funge anche da controspionaggio, e ordina infine che per gli atti amministrativi da registrare nei diwan statali non si adoperino più il greco, il copto, l’aramaico o l’ebraico ma la sola lingua araba, per la quale s’era finalmente raggiunto un canone scrittorio adeguato grazie al decisivo contributo di grammatici siriaci e persiani e di altri convertiti non arabi (mawali).
Ciò non significa la rinuncia all’apporto di israeliti, cristiani o mazdei, che seguitano anzi a prosperare nell’amministrazione e nelle professioni cosiddette “liberali”, come è ad esempio il caso di san Giovanni Damasceno (Yahya ibn Sargiun), responsabile dell’amministrazione omayyade, come suo padre e suo nonno prima di lui. È anzi proprio questa capacità di assorbire senza traumi identitari quanto di meglio possa esserle offerto dai contesti non islamici a decretare il vigoroso e significativo progresso della prima umma.
Gli Omayyadi si preoccupano anche dell’aspetto architettonico del califfato. Già Abd al-Malik costruisce a Gerusalemme la splendida Moschea della Roccia, per evitare che i suoi sudditi musulmani possano essere influenzati dalla propaganda a lui avversa di Ibn al-Zubayr in occasione del pellegrinaggio a Mecca. È però con suo figlio al-Walid I che il califfato acquista un volto monumentale all’altezza delle sue grandi ambizioni. Le moschee degli Omayyadi di Damasco e di Aleppo e quella di Sidi ‛Oqba a Qayrawan, inglobando stilemi architettonici estranei al povero retaggio arabo, sono la miglior dimostrazione dell’apertura culturale e mentale di un “secolo” islamico, ma tutto arabo, di spiccata capacità assimilatrice.
Il contatto col potente antagonista bizantino non si esprime solo con l’opera musiva della moschea degli Omayyadi di Damasco o con il calco del danarius, perché la dinastia organizza ben tre spedizioni, nell’ambiziosa quanto illusoria speranza di superare la triplice cinta muraria di Costantinopoli (668, 674-677 e 717) ed è solo grazie al “fuoco greco”, scoperto nel corso del secondo assedio, che s’infrange il sogno d’impadronirsi della “seconda Roma”, destinata ad essere presa, sì, dall’Islam, ma da quello turco, e solo 776 anni più tardi.
La fase espansiva della umma registra maggiori successi in Nordafrica (chiamata Ifriqiya per adattamento della parola latina Provincia Africa), e nel versante orientale, in Khorasan e nella Transoxiana centroasiatica. L’azione militare senza dubbio più ricca di conseguenze è tuttavia quella che portò i musulmani ad attraversare lo Stretto di Gibilterra – che deve il suo nome al condottiero berbero, Tariq ibn Ziyad (?-720), responsabile dell’impresa – e a metter piede nella penisola iberica. Una volta sconfitti i Visigoti, più della metà di essa viene occupata stabilmente e da quelle nuove basi avanzate i musulmani penetrano addirittura nell’attuale Francia, per essere infine fermati da Carlo Martello nel 732 nella piana di Poitiers.
Gli oltre ottocento anni di presenza islamica nel bilad al-Andalus (paese di al-Andalus) costituiscono uno dei lasciti più preziosi per la cultura non solo europea, dal momento che in modo tutt’altro che marginale essi influenzano non poco lo stesso Rinascimento grazie all’azione di trasmissione operata dall’islam delle più preziose e dimenticate realizzazioni tecnologiche e intellettuali prodotte dalla sapienza dell’antico Egitto, da quella israelitica, siriaca, greca, persiana e indiana.
Se gli Omayyadi possono a giusto titolo essere elogiati per il primo sostanzioso apporto artistico, scientifico e civile garantito alla cultura islamica – con la provvida messa in opera di importanti opere idrauliche, di ospedali, ospizi e caravanserragli – e se è pur vero che alla loro rovina contribuiscono non poco cause del tutto esterne, come le devastanti aggressioni dei Cazari e dei Turghesh, è però incontestabile che il principale motivo del loro crollo ha radici interne, riconducibili alla loro colpevole incapacità di rispondere in modo adeguato alle pressanti richieste di giustizia sociale e di equità fiscale avanzate dai mawali.
Malgrado il teorico universalismo della loro nuova fede, costoro rimangono sostanzialmente discriminati ed esclusi dai più lucrosi e onorifici incarichi pubblici, oltre che iniquamente assoggettati ai gravami fiscali dei non musulmani, che prevedono il pagamento di un testatico (gizya) e di un’eventuale imposta fondiaria (kharàj) che, seppure sopportabili, sono però più onerosi della zakat, l’elemosina canonica dovuta dai musulmani arabi.
Una prima rivolta dei Berberi nel 740-43 stacca di fatto dal califfato le regioni più occidentali nordafricane, lasciandogli solo le aree urbane più popolose e le regioni costiere, ma il colpo di grazia per Damasco viene dalla cosiddetta “rivoluzione abbaside”.
Il clan che discende da ‛Abbas, zio del Profeta, riesce a coniugare l’avvilita causa alide col profondo malessere dei mawali e, al fine di realizzare un solido movimento clandestino che abbia prospettive di successo, ne affida la responsabilità operativa ad Abu Muslim, un geniale liberto persiano o arabo.
Questi muove dall’oasi persiana di Merv dove, fin dall’epoca di Mu‛awiya, erano state esiliate 50.000 famiglie di simpatie alidi che, innestate nel locale tessuto persiano, creano nell’arco di 70 anni la massa d’urto indispensabile per attaccare nel 747 le ormai indebolite forze omayyadi.
La progressione delle forze abbasidi diviene dopo di ciò trionfale e si conclude con la decisiva vittoria sullo Zab, affluente del Tigri, nel gennaio 750, sanzionata poco dopo dall’uccisione in Egitto di Marwan II (688-750), ultimo valoroso ma sfortunato Comandante dei Credenti omayyade.