Il canone letterario europeo
Esiste un canone europeo?
Il dibattito sul canone letterario è stato particolarmente acceso tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento a partire dagli Stati Uniti, con la messa in questione del modello di integrazione definito melting pot, e più in generale dalle aree anglofone nel periodo postcoloniale, e ha poi toccato in diversi modi anche la cultura europea, tedesca, italiana, francese, spagnola, o di lingua e tradizione europea, le aree francofone e quelle iberofone. Se si guarda indietro dalla prospettiva della prima decade del nuovo secolo, non può sfuggire la coincidenza temporale tra quello che è stato definito il mood postmoderno (Ceserani 1997; Hutcheon 1989) e il dibattito in questione.
Nel canone letterario stanno i valori identitari che danno forma alla comunità e a ogni soggetto che ne fa parte. Non solo quelli estetici, ma anche quelli etici, l’ideale dover essere e, spesso, il tragitto di formazione che definisce i tratti dell’appartenenza alla comunità, il senso stesso dell’appartenenza che è anche il segno primo dell’identità, l’ethos così come l’ethnos. Il canone fornisce, oltre che modelli di rappresentazione della realtà esterna, anche modelli di discorso interiore, come si parla con sé e si rappresentano memoria, emozioni, affetti e fluire del pensiero. Così il canone definisce, attraverso la mimesi, i diversi modi di rappresentazione, le poetiche collettive epocali dell’esistenza, l’estetica, l’etica, l’assiologia, ciò che è desiderabile ed elegante, ciò che non lo è, ciò che è politicamente corretto, ciò che non lo è. Il canone, infine, è l’elenco di quegli autori, quelle opere, i classici, considerati i modelli estetici di una determinata tradizione, con i quali ogni nuovo autore colloquia, che imita, con cui si misura.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso e poi con sempre più forza negli anni centrali del postmoderno, Ottanta e Novanta, tutto ciò, nello scetticismo che caratterizza il mood postmoderno, è stato messo in dubbio, decostruito, destrutturato sotto la pressione di nuove istanze rivendicative di voci ammutolite e obliate, poiché il canone in qualche modo si edifica come una serie di monumenti sopra una molteplicità di voci e scritture soppresse (Gallagher, Greenblatt 2000). Le voci delle donne, nell’idea femminista, le voci omosessuali, quelle che testimoniano un altro desiderio, un diverso voler-dover essere, una differente estetica e poetica dell’esistere, un disagio e un senso di alterità, definendo dunque la necessità di negoziare consenso attorno a queste istanze, così come attorno a quelle portate dalle voci dei migranti, dalle voci dei soggetti hyphened (letteralmente «con il trattino») nelle culture in lingua inglese, italo-americana, cino-americana, ispano-americana, chicano, ma anche dalle voci pakistane, indiane, indiano-occidentali, native americans, nella lunga e di sicuro non esaurita epoca postcoloniale.
Si può parlare di un canone letterario europeo? C’è un’identità comune europea su cui fondare una storia della letteratura europea? Vi sono nessi comuni, emblemi, simboli, generi di scrittura, temi, ed è chiaro che esiste una tradizione europea nella quale possiamo riconoscerci, e dunque una letteratura europea che si esprime in lingue diverse parlando lo stesso linguaggio (Kujawinska Courtney 2001). Esiste una comune memoria culturale? E, se la risposta è positiva, non è questo un assunto pericoloso, totalizzante se non si supera la vecchia idea di Kultur, o di Weltliteratur comunque eurocentrica, per aprirsi alle interrogazioni della multietnicità e del multiculturalismo? Esistono un temario europeo e una scrittura europea? Ed è possibile scrivere una storia comparata della letteratura europea attenta alle differenze e alla molteplicità delle esperienze? Se la letteratura è uno strumento identitario, se i temi e i modi sono quelli della koinè, se la koinè non è intesa in senso strettamente linguistico (al di là delle aree di contiguità linguistica, la romanza, la germanica, la slava, la greca), allora in quei temi, modi, stereotipi, luoghi comuni (koinói tópoi), in quelle forme, quei generi (koinói trópoi), in quel comune pensare e sentire, nella misura in cui è comune, sta la risposta ai nostri interrogativi soprattutto in clima di mondializzazione, di globalizzazione. Questo clima tende ad appiattire le differenze, a far parlare tutti la stessa lingua (l’inglese più o meno semplificato), ma certo non lo stesso linguaggio culturale. Di converso la letteratura si apre a istanze diverse, di differenze con forza affermate. E le nostre sintassi, grammatiche e morfologie letterario-culturali, i nostri temari subiscono le spinte contrastanti della globalizzazione e dell’affermazione delle differenze come nuova serie di temi, generi, modi comuni, anch’essi europei, pur nell’ibridazione alla quale sempre più ci si dovrà abituare. Poiché è vero che la cultura europea ha colonizzato, militarmente e culturalmente, l’intero pianeta, ma ne è anche stata modificata. Qual è la risposta della cultura europea di fronte alle nuove istanze portate dall’emigrazione, dal multiculturalismo, dalla multietnicità che l’Europa si trova ad affrontare con una idea nuova di comunità che sta prendendo forma? E sarebbe utile insegnare letteratura europea, così come programmare un percorso culturale europeo nelle scuole di primo e secondo grado al fine di creare la coscienza di una comune appartenenza attraverso una memoria culturale condivisa, in una visione tuttavia attenta alle differenze? Poiché il canone europeo, se c’è, non può non avere questa funzione di formazione della consapevolezza di una comune identità.
Il canone occidentale e l’identità europea
Se c’è un canone europeo esso è per molti versi, e fino a un certo punto, coincidente con il canone letterario occidentale che dunque include anche le Americhe anglofona, iberofona e francofona (la letteratura québecoise) dove ugualmente si svilupparono Illuminismo e Romanticismo, così come, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ovunque in Occidente, in Europa occidentale come in Europa orientale e nelle Americhe si sono avvicendati Decadentismo, simbolismo, naturalismo, avanguardie, e prima, in Europa orientale anche Rinascimento e Barocco. Si può pensare a un canone occidentale che non comprenda, per es., l’americano Walt Whitman, il russo futurista Vladimir V. Majakovskij, i futuristi polacchi, oppure la scrittura cubista dell’americana esule a Parigi Gertrude Stein o di Ernest Hemingway, o ancora il postmoderno dell’argentino Jorge Luis Borges, del venezuelano Gabriel García Márquez, del messicano Octavio Paz?
Come dimostrano ampiamente le storie e antologie di letteratura italiana per le scuole superiori (da Il materiale e l’immaginario, 1979-1995, di Remo Ceserani e Lidia De Federicis a La scrittura e l’interpretazione, 1999, di Romano Luperini e Pietro Cataldi), insegnare una letteratura nazionale significa pensarla nel quadro di riferimento della tradizione e della storia d’Europa e d’Occidente, in un clima, certo lontano dall’essere ancora risolto, di superamento dei nazionalismi, o addirittura dell’idea di nazione ‘una e indivisibile’ nata nelle diverse situazioni politiche, tra la fine del Quattrocento e il Sette e Ottocento. Ma una storia letteraria d’Europa, e dunque un canone europeo, deve ancora procedere per nazioni (il Rinascimento in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, nel Nord Europa)? Oppure si tratta di lavorare soprattutto sui nessi, le mediazioni, la storia delle traduzioni, i reciproci influssi tentando di costruire una vera e propria rete dell’immaginario europeo, una memoria culturale d’Europa pur nel rispetto delle differenze e dei localismi?
Oggi la situazione politica europea cerca un quadro unitario non solo nell’economia, ma anche nella memoria culturale, non tanto per superare gli Stati nazionali, quanto per identificare una radice comune che permetta di dire che gli europei parlano in diverse lingue uno stesso linguaggio culturale. La necessità di questo fondamento culturale comune esprime l’esigenza di uno studio davvero comparativo e di un insegnamento letterario svolto sullo sfondo dei frequenti sfalsamenti delle periodizzazioni, e che evidenzi la comunanza di generi, modi e filoni di scrittura; la persistenza dei temi; i passaggi, i nessi e i nodi problematici, i go-betweens, le storie editoriali, i modi di passaggio (viaggiatori, traduttori), la fortuna e l’influenza delle opere da una cultura e una tradizione nazionali a un’altra, per capire quali siano i fattori comuni, come la letteratura abbia costituito anche nell’epoca dei nazionalismi, e anche nello stesso nazionalismo, un linguaggio comune europeo. La prima questione, dunque, è se esiste un’identità europea. E, se c’è, quale tipo di relazione si pone tra questa e le identità nazionali formatesi in un lungo arco di tempo, dall’epoca delle monarchie centralizzate in Inghilterra, in Francia, in Spagna, fino alle identità nazionali nate con il crollo dell’antico regime, dopo la Rivoluzione francese e con le guerre napoleoniche (Italia, Ungheria, Polonia, ma anche Boemia oggi divisa in Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca) e tenendo conto della funzione unificante (spesso conflittualmente tale) dell’Impero. È finita l’epoca dei nazionalismi nonostante il sanguinoso residuo della secolare questione balcanica nell’ultimo tratto del Novecento? Del resto pensare, ampliando la prospettiva, a un’unità della cultura europea su base identitaria per un continente squassato per secoli da uno stato di guerra perenne e, a partire dalla fine del Seicento, da ripetute rivoluzioni in Inghilterra, in America, in Francia, in Germania, e da irredentismi, in Italia, come nell’Est europeo (diviso tra impero russo e austroungarico), significherebbe pensare l’unità europea come un’identità paradossalmente costruita su un perenne stato di conflitto. Tuttavia è vero che anche le guerre, i contrasti, gli odi, gli stereotipi dello straniero hanno contribuito a fondare le identità nazionali anche contro, o in diversità, dall’altro. Così un’unità culturale europea esiste, senza però che ci sia accordo su ciò che si intende per cultura europea. La letteratura certo ha contribuito a costruire una comunità culturale, e forse anche un’idea di Europa come comunità ideale, immaginata, oltre che quella di un’identità europea fondata sulle divisioni nazionalistiche e costantemente agitata da un’evidente conflittualità.
Forse non è un caso che la ricerca di una cifra unitaria della letteratura e della cultura d’Europa riceva un forte impulso proprio negli anni che seguono il secondo conflitto mondiale. Basterà ricordare come nelle grandi opere dei filologi romanzi che hanno fondato lo statuto delle ricerche di letteratura comparata, Ernst R. Curtius (1886-1956), Erich Auerbach (1892-1957), Leo Spitzer (1887-1960), la marca europea sia importante, e indichi di per sé il segno genetico dell’Occidente, a partire dall’area occupata dall’Impero romano, dal latino e dunque dai suoi influssi e sviluppi nelle lingue d’Italia, Francia, Spagna, ma anche Germania e Inghilterra. Così Auerbach, nell’introduzione a Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter (1958; trad. it. 1960), parla dell’Europa come soggetto della sua ricerca, dell’Europa che egli tenta di cogliere come Geistesgeschichte, ciò che evidentemente era già vero nella sua conclusione a Mimesis. Dargestellte Wirklich-keit in der Abendländischen Literatur (1946; trad. it. 1956) in cui si parla di letteratura occidentale, intendendo evidentemente letteratura europea; così come Curtius in Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948; trad. it. 1992), muove dalla letteratura europea per individuare nell’area e nella cultura tardolatina e romanza una cifra comune all’intero Occidente, e la stessa prospettiva troviamo in Thomas S. Eliot (1888-1965), in quelle conversazioni radiofoniche in tempo di guerra poi pubblicate in tedesco nel 1946, da Karl Haber a Berlino, sotto il titolo Die Einheit der europäischen Kultur. Dobbiamo aggiungere che, da una parte, quando si parla di letteratura europea spesso si intende l’Europa occidentale, con particolare riferimento a Italia (soprattutto Medioevo, Umanesimo e Rinascimento e avanguardia primonovecentesca), Spagna (soprattutto Siglo de oro), Francia (soprattutto il Medioevo, e poi dalla seconda metà del Cinquecento al Novecento), Inghilterra (soprattutto dalla fine del Cinquecento al Novecento), Germania (soprattutto dal Sette al Novecento), e poi Austria (soprattutto il periodo della finis Austriae nel primo Novecento) e ovviamente la relativa area linguistica allargata all’Oriente europeo, cui si tratta di aggiungere la Russia (Ottocento e il primo Novecento) e gli Stati Uniti (Ottocento e prima metà del Novecento). Dunque il canone letterario nel mondo globalizzato parrebbe essere soprattutto quello occidentale, in buona parte coincidente con quello europeo, poiché non si possono negare i rapporti di derivazione e influenza reciproca tra l’Europa e le antiche colonie americane o quelle dell’Oceania. Fra queste nazioni si costituisce un insieme di contiguità, di scambi che ci permettono di individuare con facilità nessi che costituiscono una rete percorribile e spesso percorsa. Rimangono fuori di fatto dagli usuali percorsi, a eccezione di alcune opere e autori che sono entrati in modo più o meno stabile in un problematico canone europeo, nazioni come il Portogallo, i Paesi Bassi, ma anche le nazioni scandinave, e quelle dell’Est europeo. E la Turchia, che pure potrebbe considerarsi europea, almeno a partire dalla riforma di Mustafa Kemal Atatürk nel primo dopoguerra (1922), rimane in un orizzonte piuttosto remoto. Il problema è ovviamente la tradizione classico-giudaico-cristiana, quella stessa a cui fa riferimento l’Auerbach di Mimesis, che dà un’identità riconoscibile e permette inclusioni ed esclusioni. Ma siamo proprio certi che l’islam non faccia, a sua volta, parte della tradizione europea, una volta che ricordiamo, per es., come Cordova, la città di Averroè, ma anche dell’ebreo Maimonide (che ne fu peraltro cacciato dagli arabi), sia stata una delle capitali culturali europee? Così si considerino oggi le aree ex coloniali di anglofonia e francofonia, in Africa, in India, che hanno rapporti di continuità e/o di ibridazione più o meno stretti con la tradizione occidentale. E, ancora, data la radice comune classico-ebraica (Cosma 2003; Lambropoulos 1993), quella da cui parte, per es., Mimesis, non entrano nel canone occidentale, nella memoria culturale anche la grande tradizione classica greco-latina, per altri versi morta insieme alle lingue in cui si esprimeva, e il canone biblico e, infine, la mitologia germanica?
Integrazioni e differenze
Un’altra questione strettamente connessa al canone è quella che riguarda la storia delle politiche linguistiche da melting pot imposte nell’ambito delle politiche egemoniche di alcune delle nazioni europee che abbiamo considerato (ivi inclusa l’Italia postunitaria). Cosa davvero significa identità comune in presenza di rilevanti differenze di memoria culturale tra i soggetti? E quale tipo di rapporto intercorre tra identità nazionale, locale, personale, le minoranze, la questione del gender? Come entra tutto questo nella formazione del soggetto all’interno di una cultura o di una tradizione? Il fatto è che lo stesso problema teorico è ancora interamente da costruire.
Vi sono diversi e diversamente negoziati modelli di integrazione, da quello più vecchio del melting pot americano, a quelli a mosaico delle politiche multiculturali di Canada e Australia. Tutte esperienze che affrontano problemi di fronte ai quali ci si ritrova nella prima decade del nuovo secolo anche in Europa, a partire dalle frontiere spagnole con il Nord Africa, da quelle italiane con l’Est europeo e ancora con l’Africa; e si pensi alle analoghe soluzioni americana e spagnola di erigere vere e proprie barriere fisiche, reti, muri, alle frontiere messicano-americana e ispano-marocchina, per tentare di limitare l’emigrazione clandestina. Negli anni Ottanta le politiche di integrazione australiane e canadesi erano all’avanguardia (ma certo non si può non notare come gli aborigeni australiani siano stati del tutto marginalizzati, e in un certo senso imprigionati nel silenzio, ammutoliti, e non si può non notare come anche in Canada gli Inuit, di seguito ai molti referendum sull’indipendenza del Québec, abbiano avanzato polemicamente un’analoga richiesta). E il melting pot americano, se mai ha funzionato come idea di integrazione culturale, oggi certo non pare avere più la stessa potenzialità. Tutte queste esperienze hanno mostrato la corda, alla luce di un rifiuto più o meno accentuato dell’altro su base culturale, e provocato dal timore di una perdita dell’identità nazionale. L’educazione linguistica è naturalmente importante in tutto questo discorso, poiché la lingua non è un veicolo sterilizzato dei valori culturali che porta, e l’uso dell’inglese come lingua generale del mercato non può che implicare comunque un rapporto con la tradizione di quella lingua, anche con il suo canone letterario, o più generalmente culturale, storicamente stratificato e attivo nel presente nella lingua stessa, nel sistema di valori che vi si esprimono.
È uscito nel 2004 Who are we? (trad. it. La nuova America. Le sfide della società multiculturale, 2005) di Samuel P. Huntington, l’autore di quel libro ‘profetico’, forse anche foriero di sciagure, che è The clash of civilizations and the remaking of world order (1996; trad. it. 1997). Un libro ‘profetico’, certo, perché enuncia i termini di uno scontro di culture che evidentemente, prima che preoccupare, pare eccitare forme di jingoism – come si diceva nell’Inghilterra tardovittoriana – per definire il diritto-dovere della razza bianca (anglosassone) alla colonizzazione e alla civilizzazione nei Paesi ‘selvaggi’, o di ‘inferiore’ cultura collettiva, con un’idea ‘inferiore’ di comunità. Se per lungo tempo il white man’s burden, il fardello dell’uomo bianco di cui parlava Rudyard Kipling, è stato quello di portare la luce della vera religione e poi della razionalità occidentale come idee fondanti del diritto alla conquista e allo sfruttamento coloniale, oggi, per difendere i nostri valori e la nostra idea di comunità, si tratta di esportare democrazia e democratizzare il mondo. Cosa abbia a che vedere tutto questo con il canone letterario europeo, quello che discende dalla tradizione europea, è espressione del suo sistema di valori e Harold Bloom (The western canon, 1994; trad. it. 1996) formula come canone occidentale, è forse spiegato nel modo più chiaro dalle grandi indagini di Edward Said (Orientalism, 1978; Culture and imperialism, 1993) che mostrano come, per molti versi, tutta la cultura europea sia costruita su una filosofia imperialista della storia, e invero sull’idea stessa di Impero (Domenichelli 2007 e 2008).
Nel mood postmoderno il problema del canone letterario si pone come rapporto di relazione e opposizione al fenomeno di frammentazione se non di vera e propria soppressione dell’idea di canone letterario in America Settentrionale, segno della frammentazione dell’identità collettiva americana. Essere americani non implica più un’identità linguistica, tanto meno un’identità culturale o, se sì, si tratta di una bizzarra identità che si trova soprattutto nell’aggregazione delle differenze e nelle conflittualità, unificate nell’adesione esplicita o implicita ai valori ‘americani’.
Moltiplicazioni dei canoni
L’aggressione al canone letterario angloamericano e, con esso, al canone occidentale, ma, di fatto, al canone europeo tout-court nel postmoderno, è all’origine di Death of a disciple (2003; trad. it. 2003) di Gayatri Spivak (n. 1942). La tesi conclusiva di Spivak è che, dalla morte di una disciplina, le letterature comparate, lo studio della letteratura come fenice può rinascere dalle sue ceneri: «La nuova letteratura comparata – citiamo dalla conclusione – deve minare persistentemente e ripetutamente, e decostruire la tendenza definitiva del dominante di appropriarsi dell’emergente. Non si deve lasciare costituire dalle richieste del solo multiculturalismo liberale» (p. 118). C’è in questo assunto una contraddizione, poiché quei termini, minare, decostruire, dominante, emergente, sono parte del lessico del multiculturalismo liberale che si vorrebbe superare. Occorrerebbero a Spivak nuove parole, un nuovo linguaggio. Una seconda osservazione è che né i canoni nazionali europei né il canone europeo, dopo la tempesta da cui sono stati investiti negli anni Ottanta e Novanta, sembrano averne subito gravi conseguenze, se non qualche nuovo inserimento, qualche scomparsa. Il fatto è che, accanto agli studi letterari tradizionali, sono sorti altri terreni di indagine, studi culturali nei quali non tanto l’idea di canone viene distrutta, ma piuttosto moltiplicata, con la creazione di canoni femminili, canoni postcoloniali, canoni etnici, di studi della letteratura del Commonwealth, francofonia, anglofonia, che non sostituiscono, ma si aggiungono piuttosto agli studi d’area e alla comparatistica più tradizionale.
Il canone europeo, su cui si fonda lo stesso canone occidentale, eurocentrico, come Weltliteratur, è strettamente connesso all’identità collettiva, o alle identità collettive, fondate su una memoria culturale, e dunque alle differenti identità nazionali maturate in Europa in un periodo variabile tra Tre, Quattro e Otto-Novecento e, in America, a partire dalla colonizzazione, ma con una forma identitaria forte acquisita soprattutto verso la metà dell’Ottocento. Si tratta comunque della tradizione europea o, se si vuole, occidentale (Europa, Americhe, Oceania), che sentiamo, con tutte le differenze, come crescita a partire da una stessa radice unitaria, quella definita da Curtius, Auerbach, Spitzer, Eliot e quell’idea di classico di Eliot (What is a classic?, 1944), così ben analizzata da Frank Kermode (The classic, 1975). Il canone letterario, la lista dei grandi autori, è la chiave d’accesso all’immaginario collettivo, ma il canone è stato anche lo strumento di una colonizzazione culturale e linguistica che in tempi diversi ha unificato, spesso con un’imposizione forzata, e mai pienamente accettata, nazioni come la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti, la Spagna, oltre che le terre di conquista coloniale, uniformate dall’imposizione di una lingua comune. Il canone, parte della memoria culturale ufficiale, si costruisce sopprimendo altre memorie culturali per dare forma di scrittura alla tradizione, impedendo di fatto l’accesso, se non in modo mediato, ad altre identità, memorie e tradizioni soppresse. È stato quindi lo strumento dell’affermazione di un’egemonia culturale su altre culture subalterne e dunque tacitate. Ma anche la discussione sul canone, la culture war (Gates 1992) nel postmoderno, scaturisce dalla cultura occidentale stessa, anche nelle sue componenti postcoloniali ed etniche, e di gender. Oggi il ruolo della letteratura e del canone, quello che decide della rilevanza del dibattito su di esso, è molto meno importante di quanto non fosse nell’era preradiofonica, pretelevisiva e preelettronica. Ciò non attutisce l’asperità del conflitto che si combatte nel campo letterario, come campo di potere editoriale e accademico. Così si sono moltiplicati, soprattutto in area anglosassone, i nuovi dipartimenti di studi interculturali, i nuovi posti di insegnamento universitario su ethnic, women, gay, lesbian, postcolonial studies, con l’idea, alla maniera di Spivak, che la letteratura – certo non solo quella comparata, ma ogni letteratura d’area – come disciplina a sé sia morta cedendo il passo a visioni più culturali, più complesse in una diversa concezione di polis. Ma le aree di resistenza a questa prospettiva sono molteplici, non solo in ambito meramente culturale, anzi con rilevanti risvolti politici.
Il libro di Huntington Who are we? ripropone in modo problematico la questione dell’identità americana nell’America degli studi etnici e multiculturali, della presa di coscienza di gruppi minoritari, o repressi, le donne, i gay, e naturalmente tutte le componenti etniche la cui identità è stata rifusa nel melting pot wasp (white Anglo-Saxon protestant), nella mentalità borghese e protestante, nell’etica del lavoro, nel puritanesimo inscritto nelle origini della civiltà nordamericana. Il libro di Huntington pone tuttavia lo stesso problema che si ritrova in un’Europa sempre più meteca e meticcia, sempre più fortemente ibridata. Dal punto di vista letterario, se solo pensiamo alla scrittura caribica di García Márquez dovremmo dire che la prospettiva, da un punto di vista letterario, è entusiasmante, ma ci rendiamo naturalmente conto che vi sono punti di vista diversi dal nostro che considera tutta la cultura europea, la tradizione, come stratificazione di ibridazioni di cultura oltre che di geni, di razza, e dunque frutto di meticciato.
Huntington in Who are we? non parla di letteratura, né si pone il problema del canone letterario americano. Tuttavia, quella domanda identitaria in una situazione di fatto multiculturale e in cui si discute di educazione mono o bilingue, è una domanda di fondamento. Se ci chiediamo chi siamo, e dunque a quale collettività, a quale comunità apparteniamo, poniamo esattamente la questione della nostra memoria collettiva e dei valori in essa depositati su cui si fonda l’idea stessa di comunità. Ci chiediamo, dunque, anche su quali memorabilia (e cioè esattamente su quale canone delle varie arti e modi e generi di scrittura) la nostra memoria culturale si fondi, di quali tracce mnestiche (i testi certo, e le relazioni tra di essi) si componga. Dobbiamo anche porci il problema di quale sia il rapporto tra una cultura e la lingua che la esprime, o se non siano inevitabilmente la stessa cosa. E in questo, certo, la differenza tra Europa multilingue e America monolingue è evidente. C’è un’identità europea, c’è dunque un canone europeo a fronte di lingue diverse? E quale lingua, o quali lingue saranno le lingue d’Europa? Siamo di fronte al mito di Babele che non investe solo la mera comunicazione linguistica, ma anche la persino maggiore difficoltà di intercomprensione culturale. E se davvero si trattasse di una identità affermata attraverso nessi comuni, attraverso un canone comune, discretamente variabile a seconda del luogo e del tempo, non sarebbe, dati i trascorsi imperiali e imperialistici, un retaggio della Kultur razzista? Una cultura convinta della propria superiorità su ogni altra, variamente e a vario titolo considerata barbara, e dunque da eliminare, cancellare, come antidemocratica, considerata la democrazia il lungo processo di conflitti e rivoluzioni che, dalla fine del Seicento, ha portato al tipo di comunità politica dei doveri e dei diritti individuali, e di governo e di visione del mondo che è parte, se non l’intero, del comune retaggio occidentale.
Identità è un termine che apre un’area di enorme complessità che ha a che fare con la persona, con la psiche, con la stabilità psichica, con il genere (cioè il sesso e la sessualità), l’età, l’educazione, le esperienze, il luogo, l’ethos, l’ethnos, la lingua o anche le lingue che si parlano, con la lingua materna in primis, e infine con l’appartenenza collettiva più ampia, l’idea di comunità nella quale è inscritta l’idea di identità.
La preoccupazione per l’identità è stata decisiva sia nella formazione del canone, sia nella frammentazione dello stesso. Identità è un termine tardonovecentesco che è, o può diventare, sicuramente è stato, una vera e propria arma di distruzione di massa. Gli esempi, tra guerre di religione, guerre tra Stati, guerre tra varie regioni di Stati scissionisti, identificazione di nemici interni, lager, shoah, pulizie etniche, sono davvero tanto vari e così diffusi da ricordarci che, se la storia è l’incubo del quale parla Stephen Dedalus nell’Ulysses (1922) di James Joyce, anche questo incubo fa parte evidentemente di ciò che chiamiamo la ‘nostra identità collettiva’.
Who are we?, la domanda posta da Huntington, e la formazione tra Seicento e Novecento non soltanto dell’identità americana, ma oggi, perfino a maggior ragione, di quella europea o, in senso più ampio, occidentale, dunque ci interessa. Ci interessa anche la risposta di Huntington che è la riproposizione in altra chiave del melting pot wasp, attraverso una sua dissoluzione e ridefinizione che ne garantisce la persistenza. Così la cultura occidentale (sempre più wasp, neoliberista e neocapitalista anche nella multinazionale Europa) non è una delle culture in America: è la cultura, la tradizione che ha fatto la nazione (Huntington), ed è divenuto anche in Europa il discorso egemone cui ogni altro discorso non può che essere subalterno. In questo tipo di contesto ogni tendenza centrifuga è relativista, se non nichilista. Sulla base di questa convinzione Allan D. Bloom (1930-1992; The closing of the American mind, 1987, trad. it. 1988) si oppone al multiculturalismo nel nome degli stessi grandi valori e della filosofia della storia che sono sottesi a tutta la ricerca di Huntington. In fondo per A.D. Bloom, così come per Huntington, come del resto, andando all’opposto dello spettro ideologico d’Occidente, per Fredric Jameson, o perfino per Said, la cultura occidentale è il quadro di riferimento nel quale costruire qualsiasi discorso per un verso o per il verso esattamente contrario, e la ratio di ognuno di questi discorsi, il metro di giudizio è ancora quello critico nato con l’Illuminismo. Non è questa, del resto, anche la prospettiva di un pensatore, certo non di sinistra, come Alain Finkielkraut (n. 1949) espressa nel saggio La défaite de la pensée (1987; trad. it. 1989)? Non tutto il canone occidentale tradizionale testimonia di quei valori, ma quei valori sono testimoniati dal modo in cui esso è percepito nella filosofia della storia che lo sottende.
Evoluzioni e variazioni del canone
Non ci sono propriamente canoni nazionali, ma certamente c’è un canone globale, in realtà occidentale, nelle scienze, nella musica, nelle arti figurative. C’è in modo però più dialettico, conflittuale, un canone globale (occidentale) anche in letteratura. La letteratura ha avuto forse la maggiore forza identitaria, perché è in lingua, una lingua nazionale che veicola valori, quei valori su cui fonda l’ethos, si caratterizza l’ethnos, su cui si fonda l’identità. E l’identità occidentale è comunque frammentata da nazionalismi e questioni etniche. Si tratta di chiedersi, allora, se la necessità di parlare inglese per le comunicazioni internazionali non definisca, con una nuova forma di analfabetismo, anche condizioni di discriminazione linguistica, come è probabile che sia; si tratta anche di domandarsi se l’inglese, lingua franca, vuota di contenuti, non veicoli comunque, di per sé, i valori wasp che anche l’Europa ha fatto suoi: l’etica disperata del lavoro, l’idea del mondo come mercato globale, l’idea americana di democrazia connessa alle sue radici puritane e alla sua etica protestante (M. Weber, Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus, 1904, trad. it. 1945; M. Weber, Die protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus, 1906, trad. it. in M. Weber, Le sette e lo spirito del capitalismo, 1977; W. Sombart, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirt-schaftsmenschen, 1913, trad. it. 1978; R.H. Tawney, Religion and the rise of capitalism, 1923, trad. it. 1967); se, insomma, insieme all’inglese, non si stia diffondendo una visione del mondo e del chi siamo connessa al trionfo dell’ideologia borghese e democratica americana; se lo stesso multiculturalismo non sia strettamente connesso a certi esiti, tuttavia oggi in serio pericolo, dell’ideologia borghese maturata tra Ottocento ed estremo Novecento. Se, insomma, la stessa crisi del canone non sia un’istanza ricostitutiva e difensiva dell’ideologia capitalista, o neocapitalista nella tarda modernità. Scrive Huntington che il problema è il moltiplicarsi di queste istanze, la messa in crisi dell’inglese e della cultura che esso veicola come paradossale nuovo tratto fondante di una nuova identità che aggreghi nel mantenimento delle differenze le diverse etnie che compongono la popolazione americana (cfr. Who are we?, cap. 1 e tutta la parte quarta). Naturalmente si dovrebbe dire che il tratto culturale unitario wasp non è esattamente quello che più si presta a logiche multiculturali paritarie. In quel discorso totalizzante, ogni altra cultura è minoritaria e può essere accettata solo attraverso un negoziato in cui il discorso minoritario a sua volta accetti la subalternità.
Il canone letterario è stato uno degli strumenti scolastici di formazione dell’identità, non l’unico certo, ma importante nell’epoca della scolarizzazione di massa e della scolarizzazione obbligata. Ovviamente i mutamenti e i rivolgimenti politici hanno a che fare in modo diretto con le variazioni del canone. Un esempio è quello rappresentato dalla letteratura russa. Dopo il 1989 e la caduta del muro di Berlino, anzi dopo il fallito putsch militare del 1991 che ha posto di fatto fine all’esperienza del socialismo reale e dell’Unione Sovietica, tutto il canone definito politicamente per strategia egemonico-culturale dal vecchio regime è stato sottoposto a una rapida revisione, sulla base di un altro sistema di valutazione di ciò che meglio esprime l’anima russa, o comunque le esigenze dell’epoca postmoderna (Garzaniti 2005).
Huntington dimentica la letteratura che, nella questione dell’educazione linguistica che egli pone, è del tutto implicita. Di letteratura parla invece H. Bloom in The western canon. Il canone occidentale di Bloom è contemplato da un punto di vista angloamericano. Ciò non può stupire: se il libro fosse stato scritto in Italia da un italiano sarebbero state diverse la prospettiva e la scelta degli Auctores caratterizzanti; diversa sarebbe stata la prospettiva anche in Francia o in Germania o in Russia o in Spagna: il canone occidentale non è un’entità oggettiva, e varia a seconda del luogo, dell’ethnos e dunque anche dell’ethos.
Il problema, centrale dal punto di vista di storia del canone occidentale, è quello del succedersi, per varie cause, sinergie, o semplicemente forze inerziali, delle egemonie culturali e linguistiche, che H. Bloom non pone. Ma il termine egemonia ci permette di capire esattamente ciò di cui stiamo trattando. Nel canone aristocratico europeo (per Bloom l’età aristocratica si estende da Dante a Goethe), per es., c’è un lungo periodo – tra Trecento e Seicento – di egemonia culturale italiana e dell’italiano, seguito da un periodo di egemonia della cultura francese del Seicento e del Settecento, l’Académie, les bienséances, il grande teatro francese di quegli anni (Corneille, Molière, Racine), fino agli idéologues, a Voltaire, a Rousseau. Les bienséances dell’Académie hanno grande rilevanza in Inghilterra alla fine del Seicento, nel periodo della restaurazione postcromwelliana, così come in Italia, in Austria con la tragedia, la tragicommedia eroica, il melodramma – i libretti di Metastasio, per es. – su cui si cantavano in Austria – e in tutta Europa – in italiano libretti scritti alla maniera francese, su musiche di italiani, tedeschi, austriaci.
In realtà a H. Bloom non interessa la restituzione della verità storica, ma una prospettiva di filosofia della storia, non molto diversa da quella di Huntington, sulla base della quale disporre i suoi materiali, escludendone altri, e che, in ogni caso, si sviluppi come preparazione all’avvento della democrazia, ovviamente quella americana, e verso l’età democratica che è interamente anglosassone. Così noi in questo canone occidentale di Bloom certo non possiamo riconoscerci più di quanto potrebbero un francese, un tedesco o uno spagnolo, né possiamo riconoscere la nostra memoria culturale, o se sì solo in modo scentrato. Forse – verrebbe da dire – non bisogna esagerare l’importanza dell’elaborazione di H. Bloom. Dopotutto si tratta di un canone occidentale per undergraduates americani, e in questa chiave tutto si spiega, anche se si tratta di un canone retrodatato, già sotto aggressione nel momento stesso in cui, nel 1994, venne enunciato. Il canone parrebbe non aver molto resistito nell’America delle emergenze etniche, di gender, postcoloniali ecc., e insomma della spinta multiculturale; di contro, tuttavia, abbiamo l’impressione che il canone letterario occidentale in America, tanto più in Europa, sia tutt’altro che finito. Si pensi, per es., a una enciclopedia della letteratura femminile come Women’s literature A-Z, diretta da Claire Buck, uscita nel 1992 ma che ancora continua a far testo e nella quale figurano donne di ogni epoca e di ogni Paese. Corrisponde a questa all-inclusiveness anche l’altro dizionario della letteratura in lingua inglese del 1983 (A guide to twentieth century literature in English, diretta da Harry Blamires): vi sono nomi diventati canonici non solo nelle letterature di lingua inglese, ma nello stesso canone occidentale, come quelli di Jean Rhys (1894-1979), l’autrice di Wide Sargasso sea (1966; trad. it. Il grande mare di Sargasso, 1971), il poeta premio Nobel Derek Walcott (n. 1930, di Santa Lucia nei Caraibi), i nigeriani Chinua Achebe (n. 1930; Things fall apart, 1958, trad. it. Le locuste bianche, 1962), Wole Soyinka (n. 1934; Death and the king’s horsemen, 1975; Ogun Abibiman, 1976; Aké, the years of chilhood, 1981), Amos Tutuola (1922-1997; The palm-wine drinkard, 1952, trad. it. Il bevitore di vino di palma, 1954; My life in the bush of ghosts, 1954, trad. it. La mia vita nel bosco degli spiriti, 1983; The witch-herbalist of the remote town, 1981), o la sudafricana Bessie Head (1937-1986; The collector of treasures, and other Botswana village tales, 1977, trad. it. La donna dei tesori: racconti da un villaggio del Botswana, 1987). Tutti questi libri se non canonici nel senso più stretto sono divenuti comunque canonici negli studi postcoloniali europei o euroamericani. Canonico sicuramente è divenuto, per un qualche verso, e anche un classico di questa letteratura dell’ibridazione, il Salman Rushdie (n. 1947) dei Satanic verses (1989; trad. it. I versi satanici, 1994) così come di Midnight’s children (1981; trad. it. I figli della mezzanotte, 1984). E forse non è del tutto inutile notare che Vidiadhar S. Naipaul (n. 1932), lo scrittore di A house for Mr. Biswas (1961; trad. it. Una casa per il signor Biswas, 1964), Mr Stone and the knights companion (1963; trad. it. Mr. Stone, 1990), A bend in the river (1979; trad. it. Alla curva del fiume, 1982), The enigma of arrival (1987; trad. it. L’enigma dell’arrivo, 1988), è amato dai conservatori che vedono in lui un difensore della causa universale (occidentale), ed è considerato dai radicali un traditore; Rushdie è apprezzato in Occidente come difensore della democrazia, ma certo meno in Asia per questa stessa ragione. Come che sia sono tutti testi che entrano nel canone postmoderno e postcoloniale come The Buddha of suburbia (1990; trad. it. Il Budda delle periferie, 1990), The black album (1995; trad. it. 1995), Intimacy (1998; trad. it. Nell’intimità, 1998) di Hanif Kureishi (n. 1954), e/o se si vuole più di recente, Khaled Hosseini (n. 1965), lo scrittore afgano (in inglese), autore di The kite runner (2003; trad. it. Il cacciatore di aquiloni, 2004) e A thousand splendid suns (2007; trad. it. Mille splendidi soli, 2007).
Del resto basta controllare sommariamente un elenco dei vincitori dell’importante Booker prize: nelle liste dei finalisti si trovano spesso Achebe, Naipaul, Rushdie. John M. Coetzee (n. 1940), lo scrittore sudafricano, poi emigrato negli Stati Uniti e in Australia, ha vinto due volte (con Life and times of Michael K., 1983, trad. it. La vita e il tempo di Michael K., 1986; e Disgrace, 1999, trad. it. Vergogna, 2000); Rushdie ha vinto una volta nel 1981 con Midnight’s children, ma è stato tre volte finalista; Naipaul, del resto collezionista di altri premi, ha vinto il Booker prize una volta nel 1971 con In a free State (trad. it. In uno Stato libero, 1996), come la scrittrice canadese femminista Margaret Atwood (n. 1939), vincitrice nel 2000 con The blind assassin (trad. it. L’assassino cieco, 2001). Questi autori sono divenuti canonici nel postmoderno; ciò testimonia forse il potere delle case editrici, ma soprattutto un mood culturale che a suo modo procede a canonizzazioni alternative e che mette con forza questi libri sul mercato occidentale. Anche per il premio Pulitzer, importante in America quanto il Booker prize, troviamo nel 1983 come vincitrice Alice Walker (n. 1944), autrice di The color purple (1982; trad. it. Il colore viola, 1984), mentre nel 1987 hanno vinto il play Fences (1985) di August Wilson (1945-2005) e il ciclo di poesie Thomas and Beulah (1986) di Rita Dove (n. 1952); nel 1988 è risultata vincitrice Toni Morrison (pseud. di Chloe Anthony Wofford, n. 1931) con Beloved (trad. it. Amatissima, 1988): di questi quattro scrittori afroamericani, tre sono donne.
Gli autori di riferimento: esclusioni e nuove inclusioni
Premi a parte, continua comunque a esserci, con qualche nuovo inserimento, e qualche affondamento nell’oblio, un canone occidentale variabile localmente, a seconda cioè dei canoni nazionali e di ciò che in essi si ritiene classico. Sicché dunque la temuta, o desiderata, frana del canone occidentale, o dei vari canoni nazionali, o addirittura la loro vaporizzazione, non c’è stata. C’è stata invece una proliferazione di canoni, per così dire paralleli, o di resistenza, o alternativi, negli studi interculturali, secondo un’opposizione di criteri di giudizio. Il canone occidentale allinea una serie di monumenti classici (Th.S. Eliot, Tradition and individual talent, 1920) con discrete variazioni epocali che non pongono in dubbio la centralità di Dante, Shakespeare, Ariosto, Cervantes, Lope de Vega, Goethe, Stendhal, Hugo, Flaubert, Tolstoij, Dostoevskij, Kafka nella memoria culturale dell’Occidente sulla base del loro valore letterario (estetico). A questo valore negli studi culturali, o interculturali, si oppone il valore invece culturale e identitario con riferimento a gruppi o a classi di soggetti, e con l’idea che ogni giudizio di valore estetico è ideologico e di fatto è riconducibile a strategie di egemonia culturale in una forma di totale relativismo nel quale possono emergere le voci sepolte dalla storia, le voci ammutolite e represse. L’azione anticanonica o, per usare in modo ampliato un termine inventato da Said, l’azione di resistenza letteraria, può anche assumere i connotati di una mera opera di negazione, ma le modalità di intervento sul canone sono anche di diverso tenore e diversa strategia: 1) negazione del valore ‘culturale’ di un classico sulla base dell’ideologia che esprime (così Hemingway che esprime valori ‘virili’ eroici e di conflitto certo non è amato dalla critica femminista, e Kipling, che esprime pienamente l’ideologia dell’imperialismo euroamericano alla chiusa dell’Ottocento e nel primo Novecento, certamente viene espulso dal canone antimperialista, o usato come exemplum negativo); 2) uso di un classico attraverso la sua riscrittura che ne piega le ragioni ideologiche a nuove tesi, come le riscritture postmoderne, spesso parodie, spesso di segno valore mutato. Le riscritture di The tempest di Shakespeare sono forse il caso più ovvio nel campo degli studi postcoloniali (a partire da Aymé César, Une tempête, 1968, l’ultima parte di un trittico su La tragédie de la colonization, la cui prima parte riscrive lo shakespeariano King Lear in La tragédie du roi Christophe, 1964, e Arthur Rimbaud in Une saison au Congo, 1966; ma vogliamo ricordare anche Opera Wanyosi, rappresentata nel 1977 e pubblicata nel 1981, di Soyinka, riscrittura della settecentesca The beggar’s opera di John Gay e della Dreigroschen Opera di Bertolt Brecht tratta dall’opera di Gay); 3) scoperta di nuovi soggetti esclusi dal canone dei classici (donne, gay, minoranze etniche la cui opera viene rivalutata sulla base di una prospettiva diversa da quella imperialista, eteromaschiocentrica, patriarcale ecc.). Questi nuovi soggetti possono rivelarsi compatibili con il canone tradizionale, o con esso del tutto incompatibili, sulla base di giudizi di valore letterario, laddove sulla base del loro valore culturale essi possono assumere piena dignità, se non di classici (il termine viene ovviamente evitato negli studi culturali), di testimoni importanti di identità, di parti della memoria culturale rimosse dalla storia ufficiale.
Nel moltiplicarsi delle identità emergenti, per Huntington la soluzione non è rinunciare a un fondamento comune ma arroccarsi nell’impegno per il mantenimento del credo americano (Who are we?, 2004, p. 9). In quella filosofia della storia, in quel declinare di tutto verso l’età democratica, sta non solo il senso del canone occidentale di H. Bloom, sta il credo americano, nelle sue origini bianche, anglosassoni e protestanti. L’America, dice Huntington, è spesso bilingue, e dunque almeno biculturale, anglo-ispanica: si tratta allora di convenire sull’opportunità di un’intesa su un fondamento comune, in inglese, certo, con ciò che la lingua veicola, e dunque con la memoria culturale di quella lingua.
Il canone, insomma, essendo uno spettro stratificato di identità, ethos e luogo, viene organizzato a seconda delle identità che si intende venga a rispecchiare oppure a formare. Il canone americano, come si diceva, nella generale crisi identitaria, e nella frammentazione delle istanze identitarie, si è esso stesso frantumato e si è moltiplicato. La cultura angloamericana si dà sempre più come panorama multiculturale, da una parte, e, dall’altra, in tutte quelle differenze al suo interno si afferma l’identità forte, wasp, attraverso la lingua unica.
In Europa resistono le culture tradizionali: resistono quindi il canone francese e quello italiano, il canone tedesco, quello spagnolo, inglese – questi ultimi due, tuttavia, con una maggiore componente di nuove entries di autori canonizzati dell’America Latina e dell’ex impero britannico. Se, insomma, da una parte, la tenuta del canone molto dipende dalla concezione che si ha (se se ne ha) del multiculturalismo oppure dell’interculturalismo e dalle distanze che si prendono dal melting pot per avvicinarsi all’idea di mosaico di diversità e differenze, in Paesi non più monolingue e non più monoculturali, dall’altra i canoni nazionali in Europa continuano a resistere. E ciò è evidente sia nell’insegnamento dei classici nazionali, anche se sempre più in rapporto con una fitta rete di riferimenti transnazionali, sia nella proposizione di modelli a cui gli scrittori possano fare riferimento per riconoscersi nella propria tradizione ma che coinvolgono spesso anche l’altro, lo straniero, il dominato.
L’enunciazione canonica di H. Bloom si vuole ovviamente connettere all’enunciazione di un’identità globale dell’Occidente. Quella enunciazione è legata all’egemonia della cultura angloamericana a partire almeno dal Settecento, e sempre più pronunciata e forte fino ai giorni nostri, e tanto più forte e pronunciata tanto più apparentemente messa in crisi dalle logiche postmoderne del tardo capitalismo. Nelle logiche dell’egemonia non c’è solo l’espansione; il dominio si esplica anche, o soprattutto, attraverso l’appropriazione dei libri dell’altro nei termini della cultura che se ne appropria. Si può studiare il canone europeo, oppure occidentale, muovendo dal senso di provvisorietà che ne perturba l’idea stessa, sollevando forti resistenze da una parte, e volontà di conservazione dall’altra. Il punto è che è inscritta nel canone non solo un’identità storicamente stratificata, ma anche quella di una «comunità immaginata», in perpetuo mutamento (B. Anderson, Imagined communities, 1983; M. Ascari, I linguaggi della tradizione, 2005).
Ripetizioni e riscritture
Nella natura stessa del canone è inscritto il mutare, l’ibridarsi nella consapevolezza che siamo tutti meticci, e meticci sono i nostri libri. Ed è dunque in questa consapevolezza che si tratta di operare, e rinominare anche il già nominato, ridefinire confini, mappature, vie di attraversamento. Si tratta di sapere che le lingue stesse che usiamo pongono limiti, confini, esili, discriminazioni, portano visioni del mondo in cui ci si può trovare intrappolati. Il canone suggerisce una qualche dimensione monumentale e mortuaria, poiché resiste al tempo e alla mutevolezza delle cose, eppure esso è sempre stato capace di mutare con la storia, di moltiplicarsi, di entrare in comparazione e, quale che ne sia il grado di rigidità e purezza ‘immaginato’ dalle posizioni più conservatrici, può testimoniare di antiche ibridazioni e mutazioni. Tutto questo non basta, perché non basta più la letteratura. Si tratta di affrontare comparativamente anche altri linguaggi, visivi, uditivi, di potenza inaudita nella creazione di consenso, fondando una nuova critica delle rappresentazioni e considerando il nuovo lavoro storico, o semplicemente il buon lavoro storico, come il lavoro di scavo e scoperta di chi vede la storia della cultura come carnevale e come smascheramento al tempo stesso (M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire [1971], in M. Foucault, Dits et écrits 1954-1988, 1994, 2° vol.: 1970-1975; trad. it. in M. Foucault, Microfisica del potere, a cura di A. Fontana, P. Pasquino, 1977, pp. 49-50).
Il canone, la nostra memoria culturale, va preservata, prestando tuttavia attenzione al suo potenziale d’alienazione: la sfilata delle maschere ci attrae, ci diverte, ci commuove, ci riporta le storie, i modelli che noi sentiamo fare parte di quello che siamo stati, siamo diventati e diventeremo, facendo attenzione al pericolo che sta nelle maschere stesse, alla loro forza ideologica che è come un sottile, spesso impercettibile, veleno dell’intelligenza. Si tratta alla fine di percepire il canone come prodotto di potere, in cui esso si manifesta per ragioni autocelebrative, per esigenze di formazione di consenso, come controllo sulle rappresentazioni, e che agisce non solo e non tanto dall’esterno, ma all’interno del soggetto, del suo percorso di formazione, della sua identità stessa, poiché avere controllo sulle rappresentazioni significa averlo su tutti i meccanismi di formazione dell’identità, sia personale sia collettiva.
Nota Eric Hobsbawm in The age of extremes: the short twentieth century 1914-1991 (1994; trad. it. Il secolo breve, 1995; in partic. nel cap. XVII sulla morte delle avanguardie) come alla fine del 20° sec. l’Europa non fosse più il luogo delle high arts. Hobsbawm non considera la fondamentale unitarietà culturale delle Americhe e della tradizione europea, e insiste dunque su questioni di mercato; New York come luogo delle arti visive (almeno nel momento della Pop Art, certo, e anche dell’Iperrealismo), il cinema come, in grande parte, prodotto nordamericano, notando anche che la letteratura latino-americana, a partire dagli anni Settanta, occupa uno spazio di enorme rilevanza. Ma il problema vero non è che la grande arte europea ha ceduto il passo alle Americhe; il problema vero sono le altre memorie e tradizioni culturali. Nel 1986 il nigeriano Soyinka ricevette il premio Nobel; ai giorni nostri il cinema cinese, il che sta a dire la cultura cinese come l’economia cinese, occupa spazi sempre più rilevanti. Il problema è dunque che non solo il canone europeo ma in generale il canone occidentale delle high arts nel suo complesso è in questione. Ci si deve domandare oggi, dunque, se l’arte occidentale non parli un linguaggio obsolescente e capace di sopravvivere solo attraverso la propria ripetizione, le parodie, le riscritture o, come nel caso dell’opera lirica, sostanzialmente attraverso le esecuzioni di un canone ormai fissato e, di fatto, nella sua vitalità produttiva esaurito. Il canone dei ‘classici’, cioè quegli scrittori che vengono letti in classe, a scuola, e fanno parte del bagaglio di memoria culturale sul quale riposa l’identità collettiva dei soggetti e la loro appartenenza a un gruppo in qualche modo d’élite, il gruppo acculturato (P. Bourdieu, Les règles de l’art, 1992), è sempre stato in movimento, con alcune stelle fisse e altre, per così dire, caduche e nuove entries. Ma oggi, il concetto stesso di canone sembra, da una parte, vaporizzato, dall’altra, offre una resistenza ostinata e si rifiuta di essere accantonato in quelle nazioni europee che hanno raccontato tutta la propria storia fondandosi più fortemente sui valori rappresentati dal canone. Così nel canone italiano si continua a declinare in modo ternario: Dante, Petrarca, Boccaccio; Poliziano, Pulci, Boiardo; Machiavelli, Ariosto, Tasso; nel Seicento solo il Marino, poco il Tassoni, ma si sa, il Seicento, il Barocco è il periodo della decadenza italiana; nel Settecento, l’Arcadia, soprattutto Metastasio e Parini; nell’Ottocento, con l’inizio del Risorgimento nazionale, ancora triadi: Foscolo, Manzoni, Leopardi (ma non, in genere, per es., Nievo, che certo non può non esserci, ma rimane sullo sfondo, comunque ‘minore’ rispetto a tanta concorrenza); Carducci (con una qualche tendenza a decadere dal canone), Pascoli, D’Annunzio, Capuana, De Roberto, Verga; Marinetti e il futurismo, l’avanguardia, certo i crepuscolari: Gozzano, Corazzini, Govoni, certamente Campana, e poi Ungaretti, Montale (con Quasimodo decanonizzato; magari Svevo, mentre sono caduti fuori dal canone Vittorini e Pavese e, ci parrebbe, per il momento anche Moravia); certamente nel postmoderno Calvino, Pasolini, quindi Eco e il suo Il nome della rosa. Oltre parrebbe difficile andare anche se nei testi appaiono i gruppi e le esperienze della transavanguardia, con i loro rapporti internazionali. Non diciamo che questo è il solo itinerario italiano possibile, il solo programma possibile, ma con qualche modifica, qualche espunzione, questo rimane il canone scolastico, dei classici, anche se ovviamente nelle antologie del Novecento appaiono altri nomi (Sereni, per es., o Saba, o Luzi). Che, accanto a, o al posto di questi nomi, queste letture (anche i testi sono canonizzati dai testi scolastici) ne possano figurare altri è probabile e auspicabile, ma poche saranno comunque le donne (magari le petrarchiste tra Quattro e Cinquecento, più improbabilmente le arcadi nel Settecento; assai difficilmente avranno spazio scrittrici come Sibilla Aleramo, Gianna Manzini, Anna Banti). In realtà, già così il canone si allunga tanto da diventare difficilmente praticabile da un punto di vista didattico; che, di solito, vi siano nei testi scolastici riquadri dedicati al romanzo europeo nel Settecento, nell’Ottocento o all’avanguardia in Francia o in Germania va da sé. Questi riquadri vengono poco frequentati, insegnati, quando non rimangono del tutto lettera morta. Mentre è possibile che dal canone dei minori (certamente ne esiste uno) vengano ripescati, per es., Edmondo De Amicis (Cuore) e Carlo Collodi (Pinocchio) e se qualche insegnante si avventura a insegnare Federico De Roberto, insegnerà poi anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Insomma il canone scolastico dei classici, da leggere in classe, è tanto rigido nella sostanza da dare l’idea di essere ‘morto’ quanto l’opera lirica, e vivo solamente nella ripetizione. Nella ripetizione e nella riscrittura del resto, come si diceva, il postmoderno recupera per intero la tradizione dandole eventualmente altra valenza. La riscrittura dunque è una chiave interessante, poiché si tratta di quelle esecuzioni del canone che lo rivitalizzano, magari attraverso la leggerezza dell’ironia o lo strumento della parodia. Sicché spesso l’anticanone è ciò che rivitalizza il canone stesso. E spesso le scritture esotiche sono scritture ibride. Nella letteratura italiana questo tipo di esperienza è forse già iniziata, ma certamente non si è consumata, poiché poche sono ancora le voci (meno ancora quelle di successo) dei migranti, o dei figli di migranti che scrivono in italiano, magari con diverso ‘accento’. Ma torna al proposito, e nella prospettiva di un non improbabile futuro letterario delle patrie lettere, quello che scrivono S. Rushdie ed Edward West nell’introduzione a The vintage book of Indian writing: 1947-1997 (1997) da loro curato: «C’è crescente eccitazione nel mondo editoriale occidentale per le voci emergenti dell’India […]. Comunque, almeno in Inghilterra, gli scrittori britannici sono spesso castigati dai recensori per la loro mancanza di verve e di ambizioso stile indiano. E pare che l’Oriente si stia imponendo all’Occidente, piuttosto che il contrario. Sì, l’inglese è il più potente dei mezzi di comunicazione, e non dovremmo rallegrarci nel vedere la maestria di questi artisti nel padroneggiarlo, e nel veder crescere la loro capacità di influire sugli altri? […] Una dimensione letteraria importante è quella che si tratta di un mezzo per conversare con il mondo intero» (pp. XIV-XV).
Si tratta di ricchezza e affermazione di diversità, di ibridazioni preziose da cui certo possono nascere spettacolari, fantastiche ed esotiche crescite. Ma si tratta anche di una radicale messa in questione del principium della cultura occidentale, del ruolo stesso della ragione critica e dunque anche di una critica della ragione, o della razionalità pur sempre occidentale, e interpretata come eurocentrismo. C’è, per es., in Chidi Amuta (n. 1953; The theory of African literature, 1989), come anche in Achebe (Things fall apart, 1958), o in Yambo Ouologuem (n. 1940; Le devoir de violence, 1968; trad. it. Dovere di violenza, 1970), o in Bessie Head (1937-1986; The collector of treasures, 1977; trad. it. La donna dei tesori, 1987) un rifiuto dell’approccio antropologico, sentito come razzista, comunque coloniale. Si ha l’impressione che in questo rifiuto, che ben possiamo comprendere, della razionalità occidentale, della razionalità d’Europa, della ragione ‘libera’ e ‘liberatrice’, scettica e indagatrice, ma strumentale ed oeconomica, secondo la perdurante prospettiva illuminista e le logiche del capitalismo e neocapitalismo, vi siano tuttavia un punto di conflitto non facilmente risolvibile e una distanza che certo non pare poter essere facilmente colmata.
Scrive Foucault (L’archéologie du savoir, 1969, cap. V; trad. it. 1971) che l’archivio, certo l’archivio delle scritture, definisce la legge di un contenitore che determina il dicibile, lo scrivibile. L’archivio è il sistema che governa l’apparire degli enunciati come eventi unici, monumenti, memorabilia di maggiore o minor valore a seconda dell’intensità, dello spessore e della frequenza e del numero delle relazioni mantenute come anche cancellate che ogni enunciato intrattiene con il sistema dell’archivio nel suo insieme mutevole. Non si tratta semplicemente di un accumulo informe e amorfo, ma di un sistema di relazioni che ne determina, in un momento o nell’altro, il valore in un’attualità. L’archivio è l’immaginario culturale, l’insieme virtualmente infinito delle tracce mnestiche, degli engrammi che costituiscono la memoria culturale, la gerarchia che è anche una gerarchia di valori, certo mutevoli, nella quale una comunità riconosce la propria identità come continuità attraverso discontinuità e fratture. Il canone europeo, da questo punto di vista, è esattamente il senso del passato d’Europa e della sua identità che vi è radicata. Il canone è uno strumento di potere, di formazione di consenso, certamente, e ciò richiama la critica anche più corrosiva, parte anch’essa delle leggi connettive, di addizione, combinazione, sottrazione, attraverso cui funziona l’archivio. Si tratta per l’Europa, evidentemente, di mettere insieme archivi spesso considerati separati e particolari. Tuttavia, se l’Europa vuole essere davvero qualcosa di più di un’entità mercantile e monetaria, se vuole diventare una polis, e non rimanere uno spazio geografico, deve avere una certezza sulla propria identità collettiva, e attivare dunque la propria comune memoria culturale, comporre, mettere insieme il proprio comune archivio, farne un reticolo che già percepiamo, ma solo per porzioni, per grandi linee. Cosa che ancora non basta.
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