di Stefano Stefanini
Siamo ben lungi dall’ultima parola su Edward Snowden: sulle sue sorti, sulle ricadute delle sue rivelazioni sull’intelligence ma, soprattutto, sulla sua denuncia di violazione del ‘contratto’ fra governanti e governati. Il materiale di cui è in possesso potrebbe riservare nuove sorprese. Il danno che ha arrecato alle relazioni internazionali degli Stati Uniti è fuori discussione, mentre resta da dimostrare quello alla sicurezza nazionale.
Il caso però è costituito dalla NSA, non da Snowden. Il problema è lo straripamento ingiustificato nella privacy dei programmi di sorveglianza elettronica della National Security Agency, specificamente finalizzati alla prevenzione di attacchi terroristici. Affidate alla discrezionalità di responsabili tecnici, le (enormi) capacità della National Security Agency sono state utilizzate in totale assenza di controlli. Valutazioni e decisioni politiche hanno lasciato il passo alla tecnocrazia: più gli operatori della NSA ascoltavano, meglio ritenevano di eseguire il loro compito.
Il gruppo di esperti di nomina presidenziale ha raccomandato due cambiamenti radicali: l’autorizzazione della magistratura per ogni singola intercettazione di utenze americane; e che siano autorità politiche a decidere se e quali personalità straniere sorvegliare. Per i difensori della NSA queste misure sarebbero ‘un disarmo unilaterale’. Intanto Edward Snowden è riuscito a evitare che la sorveglianza avvenisse nella totale ignoranza della maggioranza dei cittadini. Prevedeva anche le ripercussioni internazionali? Come i protagonisti degli ultimi romanzi di Le Carré, ambientati in un dopo Guerra fredda in cui l’Occidente ha perso la propria bussola morale, Snowden ha messo in moto dinamiche delle quali si è trovato più che altro in balia, anziché riuscire a controllarle.
Il caso internazionale, per gli Stati Uniti, nasce dal ‘dragaggio’ d’intercettazioni della NSA verso nemici, neutrali e amici, su interessi commerciali come su rischi alla sicurezza, fino ai casi clamorosi della presidente brasiliana Dilma Rousseff e della cancelliera tedesca Angela Merkel. Il maggior risentimento è degli alleati, che non si aspettavano né sospettavano di essere oggetto di queste attenzioni: i tedeschi vedono nella condotta della NSA la rottura di un rapporto di fiducia, se non un vero tradimento. Washington si trova a dover superare la barriera di diffidenza della Germania, e di riflesso dell’Unione Europea, nonché delle Nazioni Unite. Per Berlino, Francoforte, Bruxelles è inaccettabile che l’ascolto elettronico statunitense, malgrado i secchi dinieghi della NSA, invada anche l’area commerciale. Resta da vedere se e quanto questa incrinatura psicologica influirà sui negoziati per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Entrambe le parti hanno messo subito le mani avanti, assicurando di volerli tenere al riparo. Non è detto che ci riusciranno.
Ben più misurata la reazione di non alleati come la Russia o la Cina, che spiano attivamente per conto proprio, e non solo gli Stati Uniti. Lo stesso vale per amici come Israele: l’alleanza di ferro non ha mai impedito lo spionaggio reciproco. Putin è arrivato fino a una difesa d’ufficio della NSA: ha esagerato e gli USA devono ‘limitare l’appetito’, ma la lotta al terrorismo giustifica la sorveglianza. Nei rapporti con Washington l’asilo a Snowden è irritante ma marginale, e non impedisce la collaborazione obbligata (Siria, Iran), né oscura gli interessi comuni (Afghanistan, lotta al terrorismo).
Vi è infine l’imbarazzo di chi, come Regno Unito e Australia, ha collaborato con la NSA. Il misto di reazioni di altri alleati, come la Francia, si spiega con il rapporto d’intelligence con gli Stati Uniti. Un legame nel quale confluiscono le tre dimensioni (alleanza, competizione, collaborazione).
Quello che più ha irritato gli amici, specie gli europei, è la rigida distinzione fra i cittadini, per i quali dovrebbero valere le protezioni costituzionali, e il resto del mondo. L’esercizio di ricucitura è comunque già iniziato, sia a livello di dialogo EU-USA in materia di protezione dati e sicurezza, sia bilateralmente fra americani e singoli paesi europei sull’intelligence in senso stretto.
Snowden non ha fatto altro che esporre clamorosamente il conflitto latente fra capacità di controllo elettronico, privacy e sicurezza. Ha posto anche problemi rilevanti: una maggiore sorveglianza, allora, non avrebbe forse permesso di sventare l’attacco dell’11 settembre? Se la NSA ha chiaramente travalicato i limiti nel campo dell’intelligence, non si può forse dire lo stesso di media aggressivi o di inquirenti invadenti? Per una società libera e democratica, come quella americana, così come per la comunità internazionale non basta invocare ‘il fine giustifica i mezzi’: occorre una ragionevole disciplina.
L’America non è nuova a provvedimenti limitativi delle libertà individuali in nome della sicurezza nazionale. Si pensi all’internamento dei cittadini di origine giapponese dopo Pearl Harbor o alle purghe maccartiste degli anni Cinquanta. Le rivelazioni di Snowden la chiamano a rispondere degli arbitri d’intelligence commessi in nome della ‘guerra al terrore’.
Il merito della democrazia americana, però, non sta nel non commettere errori, ma nell’avere la forza di correggerli. Questa sfida attende oggi l’amministrazione Obama. Gli sconfinamenti a ruota libera della NSA riflettono, nell’intelligence, l’involuzione unilaterale post-11 settembre da cui la politica estera di Obama vuole liberare gli Stati Uniti. Quanto più efficace e convincente sarà la svolta del presidente – malgrado le resistenze – nel disciplinare (non certo eliminare) l’attività di sorveglianza elettronica, tanto più rapidamente si rimargineranno anche le crepe internazionali aperte dal caso Snowden. Ma è nella natura delle relazioni internazionali che, dietro il sipario diplomatico, lo spionaggio – fra i più vecchi mestieri del mondo – continui, senza andare troppo per il sottile.