Il cinema: ricezione, riflessione, rifiuto
L’atto solenne che sancisce il legame, complesso e mai del tutto al riparo da tensioni e contraddizioni, tra cinema e Chiesa è la benedizione di Leone XIII, ripresa da William Kennedy Laurie Dickson nei cortili e nei palazzi vaticani con una macchina da presa dell’American Biograph and Mutoscope, sugli operatori e sul nuovo strumento, ma, in forma simbolica, su coloro che al di là dell’obiettivo avrebbero potuto vedere quanto ripreso.
Nella loro inconsueta familiarità, le immagini di Leone XIII che si rivolge alla cinepresa, hanno una potenza comunicativa tale da renderle «archetipi di un immaginario cinematografico religioso tanto quanto l’Arrivée d’un train à la gare de la Ciotat e la Sortie des ouvriers des usines Lumière lo sono per quello cinematografico tout-court»1. Precedute da una breve sequenza del pontefice che arriva in carrozza, le immagini che compongono la benedizione papale sembrano quasi rassicurare «gli spettatori ancora sotto shock per l’arrivo del treno del Cinématographe Lumière»2. Sono immagini che oltre ad attestare il momento storico primitivo del cinematografo, si presentano anche come «prime icone mediatiche di una religiosità in via di transizione». E da taluni «queste immagini possono essere prese come simbolo dell’atteggiamento della chiesa nei confronti del cinema e forse – più estesamente – della modernità»3.
Fino agli anni Dieci il cinema vive ancora una fase ‘primitiva’, in cui non è presente un vero e proprio linguaggio. Si realizzano filmati brevi, spesso accompagnati da altre forme di spettacolo. È un cinema ‘delle attrazioni’, un cinema visivo, dove l’inquadratura occupa il centro della rappresentazione, mentre di lì a breve, sarà il racconto ad assumere centralità, divenendo così cinema «dall’assorbimento diegetico»4 e segnando il passaggio dalla rappresentazione ‘primitiva’ alla rappresentazione ‘istituzionale’5.
A partire da quei primissimi anni del secolo XX, la Chiesa avvia l’elaborazione di una doppia strategia che accompagnerà, di fatto, fino al secolo XXI il suo rapporto con il cinema. Anzitutto segue con interesse, e sostiene, l’utilizzo regolare delle ‘proiezioni luminose’ (fino a quando nel 1912 vengono vietate6), all’interno di chiese, oratori e parrocchie, a fini educativi e catechistici. L’esperienza di filmine edificanti, presente in Francia già dalla fine del secolo XIX, giunge in Italia solo agli inizi del secolo XX, sviluppandosi però rapidamente nel paese, tanto da stimolare la creazione di società, consorzi e federazioni diocesane per coordinare le iniziative locali e fornire a queste ultime assistenza tecnica e immagini nuove7. Si configurerà, in breve tempo, quasi una nuova Biblia pauperum8.
Accanto a tale impulso positivo emerge nella Chiesa – tanto ai vertici quanto alla base della piramide ecclesiastica – una preoccupazione rispetto ai contenuti veicolati dalle prime produzioni cinematografiche. Essa si affida così,
«in prevalenza, al controllo di quanto viene proiettato, passando […] da un condizionamento delle modalità dell’offerta ad un condizionamento dei contenuti del prodotto: in questo caso l’obiettivo consiste nell’offrire un filtro che rapporti la complessità e l’eccezionalità del reale “catturato” dall’immagine a una dimensione più stabile, capace di afferrarne il senso»9.
Si presentano dunque due atteggiamenti: da una parte la legittimazione e il sostegno al cinematografo – pensato, soprattutto, come strumento educativo – dall’altra la costante preoccupazione educativa e morale.
Tra i primi interventi che manifestano quindi preoccupazione va ricordato il divieto di prender parte agli spettacoli cinematografici nelle sale che nel 1909 il cardinale vicario di Roma, Pietro Respighi, impone ai preti per tutelarli da «abitudini che mal si addicono alla santità e al decoro dello stato ecclesiastico», ed escluderli da luoghi «dove non di rado si offendono la religione e la morale»10.
Poco dopo, nel 1912, il decreto della Sacra congregazione concistoriale, emanato dal cardinale Gaetano De Lai, vieta le proiezioni cinematografiche nelle chiese di tutto l’orbe cattolico:
«con una certa frequenza, si vanno tenendo nelle chiese spettacoli cinematografici, o di proiezioni; ma ciò, per quanto suggerito dal santo proposito di favorire la formazione religiosa dei fedeli, è stato giudicato facile occasione di pericolo e di inconvenienti. Avendo perciò alcuni ordinari richiesto alla Santa Sede se tale pratica si possa tollerare, la questione è stata proposta agli eminentissimi Padri della Congregazione Concistoriale. Questi, considerando che le chiese consacrate a Dio, nelle quali vengono celebrati i divini misteri e i fedeli vengono indirizzati alla vita spirituale e soprannaturale, non si debbano impiegare ad altri usi, tanto meno tenervi spettacoli, per quanto onesti e pii, hanno deciso di assolutamente vietare nelle chiese ogni sorta di proiezioni, o spettacoli cinematografici»11.
Gli interventi moralizzatori si moltiplicano in occasione di momenti particolari della storia italiana, com’è facile rilevare sulle pagine de «La Civiltà cattolica» durante la Grande guerra. «Perché non si toglie occasione dalle presenti condizioni di guerra, per diminuire almeno, se non chiudere del tutto, i cinematografi, e restringere l’esercizio, com’è ora in Francia, a pochi giorni la settimana?»12, osservano i padri de «La Civiltà cattolica», i quali invocano anche una maggiore serietà e puntualità della censura sul cinema13. Allo stesso modo, «Il Romagnolo» di Ravenna invita i lettori a mantenere, in tale clima di guerra, un atteggiamento distaccato nei confronti del cinema:
«Voi vi sentite così poco italiani, da non saper rinunciare ad un divertimento, che non è tale perché abbassa e degrada? Ma tutto quel denaro che spendete così malamente in un cinematografo, ma datelo alla Croce Rossa, agli ospedali, ai poveri feriti! […] Mentre sui nostri monti immacolati, sulle vette bianchissime delle alpi sovrane i nostri soldati combattono e muoiono per difendere un santo e puro ideale […] noi all’oscuro in una sala buia, assistiamo a rappresentazioni immorali! Sentiamolo, dunque questo bisogno di respirare aria libera e più pura. Facciam vedere che non son per gli italiani cattolici queste produzioni, ed allora noi, mentre i soldati difendono le frontiere per la indipendenza della patria diletta noi avremo salvato un’altra e più cara indipendenza. Quella del bene!»14.
Datano agli anni Venti le prime riflessioni sul cinema di padre Agostino Gemelli, tra cui due saggi, Le cause psicologiche dell’interesse nelle proiezioni cinematografiche15, del 1926, e il successivo Le cause fondamentali dell’interesse delle proiezioni cinematografiche16, del 1928. Attraverso il guadagno della psicologia e della psicofisiologia conosciute all’epoca, Gemelli da un lato anticipa tendenze e dall’altro manifesta attenzione alle pratiche del settore17. Sono gli anni nei quali il fascismo, che comprende immediatamente le potenzialità di propaganda e di controllo fornite dal cinematografo, varerà una serie di provvedimenti in materia cinematografica tesi a piegare e controllare il mezzo per farne un potente strumento di consenso18.
In questo contesto, il ‘doppio registro’ ecclesiastico – valorizzazione e vigilanza – lo ritroviamo nella lettera enciclica Divini illius magistri19 di Pio XI nella quale il cinema viene compreso nell’ambito educativo in opposizione però ai possibili abusi di natura prettamente morale, e non politica.
«Si fa necessaria più estesa ed accurata vigilanza, quanto più sono accresciute le occasioni di naufragio morale e religioso per la gioventù inesperta, segnatamente nei libri empi o licenziosi, molti dei quali diabolicamente diffusi a vil prezzo, negli spettacoli del cinematografo, ed ora anche nelle audizioni radiofoniche, le quali moltiplicano e facilitano per così dire ogni sorta di letture, come il cinematografo ogni sorta di spettacoli. Questi potentissimi mezzi di divulgazione, che possono riuscire, se ben governati dai sani principi, di grande utilità all’istruzione ed educazione, vengono purtroppo spesso subordinati all’incentivo delle male passioni ed all’avidità del guadagno. […] Sono perciò da lodare e da promuovere tutte quelle opere educative le quali con spirito sinceramente cristiano di zelo per le anime dei giovani, attendono, con appositi libri e pubblicazioni periodiche, a far noti, segnatamente ai genitori ed agli educatori, i pericoli morali e religiosi spesso subdolamente insinuati nei libri e negli spettacoli, e si adoperano a diffondere le buone letture e a promuovere spettacoli veramente educativi, creando anche con grandi sacrifici teatri e cinematografi, nei quali la virtù non solo non abbia nulla da perdere, ma bensì molto da guadagnare»20.
La prima grande sintesi della politica alla quale i cattolici italiani si adegueranno in ambito cinematografico è certamente la lettera enciclica Vigilanti cura del 1936 che porta sempre la firma di Pio XI21: essa traccia una linea «chiara e definita su questo nuovo strumento di comunicazione, basata su una partecipazione attiva dei cattolici a tutto campo: dalle commissioni di censura, alla critica, dalla produzione all’esercizio»22.
L’enciclica, in realtà, era rivolta in particolare ai vescovi degli Stati Uniti che, non ritenendo sufficiente il Codice Hays23 per la tutela morale del paese, avevano dato vita nel 1934 alla Legion of Decency con lo scopo di segnalare e boicottare i film giudicati inaccettabili sotto il profilo morale. Pio XI manifesta alla Legion una
«riconoscenza nostra tanto più viva, quanto più profonda era l’angoscia che sentivamo al riscontrare ogni giorno i tristi progressi – magni passus extra viam – dell’arte e dell’industria cinematografica nella rappresentazione del peccato e del vizio […] Ci è di sommo conforto il rilevare il notevole successo della crociata, perché il cinema, sotto la vostra vigilanza e la pressione esercitata dall’opinione pubblica, ha presentato un miglioramento dal lato morale. Delitti e vizi vennero riprodotti meno di frequente; il peccato non venne più così apertamente approvato ed acclamato; non si presentarono più in maniera così proterva false norme di vita all’animo tanto infiammabile della gioventù»24.
Per Pio XI, dunque, a fronte dell’impossibilità di una vera e propria produzione cattolica, è necessario «lavorare con l’obiettivo di trasformare il cinema da scuola di corruzione in uno strumento di educazione e di elevazione dell’umanità»25 anche attraverso gli uffici nazionali di revisione delle pellicole, che oltre ad organizzare il know how del cinema dovrà «promuovere i film buoni, classificare tutti gli altri e farne giungere i giudizi ai sacerdoti ed ai fedeli»26.
In Italia, l’esigenza di un simile ufficio nazionale di revisione e classificazione morale dei film si era già sperimentato con l’attività del Centro cattolico cinematografico (1935), costituito con il compito di formulare una valutazione morale dei film, in relazione sia al tipo di esercizio in cui vengono programmati (oratori, parrocchie o sale pubbliche), sia al pubblico cui essi sono rivolti (bambini o adulti).
Ancora una volta però la Vigilanti cura conferma la doppia pedagogia della Chiesa, la quale, infatti, se da una parte non manca di sottolineare i pericoli morali del cinema, al tempo stesso ne riconosce e sostiene il contributo educativo e culturale, rappresentando così «un punto di mediazione e di equilibrio rispetto alle due posizioni prevalenti già esistenti all’interno del mondo cattolico verso il cinema: quella preoccupata della moralità dei film, e quella più interessata a una possibile funzione educativa positiva»27.
Alla fine degli anni Venti viene istituita a L’Aja l’Organizzazione cattolica internazionale del cinema (Ocic) per «agire al tempo stesso sui cattolici a nome del mondo cinematografico, e sul cinema tout court a nome dei cattolici»28.
L’Ocic si propone un intervento differente rispetto alla Legion of Decency, avviando una strategia culturale più legata alla promozione di film in cui emergano valori cristiani, che non all’approccio censorio. In Italia l’attività del Centro cattolico cinematografico ha di fatto reso marginale la presenza dell’Ocic nella vita italiana, eccezion fatta per il Premio Ocic, assegnato nell’ambito della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che alcune volte si è presentato come occasione di accesi dibattiti nel panorama cattolico italiano, soprattutto per il riconoscimento attribuito a Pier Paolo Pasolini per Il Vangelo secondo Matteo (1964) e per quello assegnato a Teorema (1968), dello stesso regista, che verrà addirittura revocato dall’Ocic sei mesi dopo l’assegnazione a Venezia, in seguito a un esplicito richiamo di Paolo VI29.
L’ambivalenza dell’approccio della Chiesa al cinema ben si coglie nel pontificato di Pio XII. Gli interventi di papa Pacelli rappresentano «la prima riflessione ampia e sistematica che la Chiesa cattolica abbia compiuto sul mezzo cinematografico e i suoi effetti. Una riflessione rilevante non solo per la discontinuità rispetto ai precedenti pronunciamenti ecclesiali sull’argomento»30.
Il papa è certamente influenzato dagli studi di padre Agostino Gemelli sul cinema: in particolare lo interessano le ricerche «sul rapporto fra cinema e psicologia, che già negli anni Trenta avevano colto il nodo centrale del potere del film sugli spettatori grazie alla creazione di un mondo fittizio, di una realtà talmente coerente in se stessa da condurre lo spettatore ad esserne anche inconsapevolmente influenzato»31. In effetti, l’aspetto di maggiore novità nei due Discorsi sul film ideale, tenuti, rispettivamente, nel giugno e nell’ottobre32 del 1955, è relativo all’esperienza spettatoriale33. Pio XII si pronuncia in materia cinematografica in diverse occasioni, sia con discorsi (se ne contano otto tra il 1941 e il 1949) sia nelle encicliche Sacra virginitas (1954) e Miranda prorsus (1957), ma certamente sono i due Discorsi sul film ideale
«il tentativo più aperto e generoso di fornire alla coscienza del cristiano un quadro dottrinale e pastorale sistematico che gli consenta di individuare egli stesso lo spartiacque tra il cinema capace di favorire la crescita dell’uomo e il cinema che rischia di comprometter[ne] lo sviluppo spirituale»34.
Gli anni della distensione e delle lotte per i diritti civili, del centro-sinistra e del boom economico35, sono quelli che vedono esplodere l’avvento di consumi di massa e insieme delle strategie di comunicazione commerciale attraverso la rete dei media che via via andava diffondendosi sempre più. Infatti
«la limitatezza dei consumi […] dipendeva non solo dal basso livello reddituale degli italiani ma anche dall’assenza di modelli di riferimento capaci di liberare il comportamento di consumo dai suoi vincoli tradizionali. La televisione giunge a spezzare tali vincoli, anche se non in maniera immediatamente dirompente come si può immaginare»36.
Inoltre l’Italia, e Roma in particolare, vive l’esperienza del concilio Vaticano II (1962-1965), dal quale emerge una Chiesa dal volto missionario e comunionale, fedele alla tradizione e proprio per questo impegnata a individuare le forme di dialogo con il mondo moderno. Non solo la pubblicazione del decreto conciliare Inter mirifica e dell’istituzione, da parte di Paolo VI, delle Giornate mondiali delle comunicazioni sociali, ma anche l’avvio di un dialogo reale in cui «Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini è la testimonianza più commovente e più alta che l’amore e la comprensione anche nei confronti di chi non crede sono un seme che mette radici e porta frutto»37.
Eletto papa nel 1958, Giovanni XXIII, in continuità con gli interventi dei suoi predecessori, istituisce con la lettera apostolica Boni Pastoris38 (1959) la Filmoteca vaticana. Roncalli è il papa del concilio di cui non mancano
«letture fuorvianti […] nel fuoco di una polemica che ne esalta o ne denigra la portata teologica innovativa. Ma sotto il profilo storico si trattò di un evento assai più complesso e, per descriverlo, non appare infondato tornare all’immagine evocata al momento della sua apertura da Giovanni XXIII: una nuova Pentecoste. Si è trattato infatti di una grande spinta che ha rivitalizzato una “cristianità buona ma un po’ stanca” come quella italiana – sono parole di Paolo VI – che ha accompagnato e contribuito ad orientare, sul piano religioso e morale, il rapido cambiamento allora in atto in Italia»39.
Sarà proprio Paolo VI a continuare e portare a compimento il grande evento della ‘nuova Pentecoste’ nella Chiesa. Il cammino di riappropriazione dei grandi testi conciliari, come prevedibile e fisiologico, si è avviato tra confusione e disorientamento, con posizioni teologiche problematiche, atteggiamenti ecclesiali contraddittori ed esperienze pastorali dubbie40.
Va ricordato, in particolare, il decreto conciliare Inter mirifica del 1963. Interessante notare come
«non senza difficoltà, alla conclusione del secondo periodo il Vaticano II esce anche formalmente dalla lunga gestazione – che rischiava di diventare impotenza – approvando definitivamente due testi: la costituzione Sacrosanctum concilium sul rinnovamento liturgico e il decreto Inter mirifica sui media. Due argomenti ai quali il concilio ha dedicato un’attenzione diametralmente opposta. Entrambi di interesse universale, essi, nell’impegno dell’assemblea, hanno tuttavia goduto di spazi completamente diversi. Sulla liturgia il concilio aveva investito con generosità, a livello di assemblea e di commissione, attenzione e tempo, dalla preparazione al primo periodo sino alla sessione solenne del 4 dicembre 1963. Invece l’elaborazione dello schema sui mezzi di comunicazione sociale era rimasta sempre marginale, di modo che alla fine le vivaci insoddisfazioni per un testo quanto meno inadeguato non avevano trovato sufficiente spazio»41.
Nonostante dell’Inter mirifica si contesti l’esiguità in generale e, nello specifico, il vuoto teologico, all’indomani della sua pubblicazione emergono molte riflessioni e studi42. L’iter redazionale non era stato semplice: infatti alcuni padri conciliari auspicavano un documento ampio, composito e il più possibile esaustivo, mentre altri preferivano indicare solo alcuni imprescindibili riferimenti, chiedendo che «per l’applicazione di tutti questi principi e norme circa gli strumenti di comunicazione sociale, su espresso mandato del Concilio, sia pubblicata un’apposita istruzione pastorale, a cura della commissione della santa Sede»43.
Al di là dell’attenzione più o meno strumentale della Chiesa al mondo dei media, nel 1964 Paolo VI, nella lettera apostolica In fructibus multis, tornerà sui media usando le seguenti parole: «per i loro stretti e mutui rapporti [essi] propongono al nostro tempo problemi [di una tale] importanza da influire non solo sulla cultura, sulla civiltà e sul costume pubblico, ma sulla stessa religione»44. E in seguito l’istruzione pastorale Communio et progressio (1971), alla cui stesura hanno contribuito, per oltre sette anni, persone provenienti da ambiti professionali specifici, teologi ed esperti della comunicazione, diventerà la ‘magna charta’ della Chiesa nel campo delle comunicazioni. Questo documento in particolare indica, tra i compiti della comunità cristiana, l’utilizzazione dei mezzi di comunicazione sociale nelle attività di evangelizzazione, riconoscendo la loro «grandissima utilità [...] per diffondere la dottrina cristiana»45.
Per quanto riguarda il cinema nello specifico, la Communio et progressio riconosce la sua «decisiva influenza nel campo educativo, culturale, ricreativo, scientifico»46, raccomandandone l’utilizzo quale strumento di evangelizzazione e d’istruzione. Infine, essa
«suggerisce esplicitamente un impegno fattivo da parte dei singoli cristiani […] nella produzione e diffusione di pellicole “che affrontano con efficacia persuasiva argomenti che favoriscono il progresso dell’uomo e ne elevano l’animo a valori superiori”. Nello stesso tempo il Pontificio Consiglio non nasconde la potenziale problematicità del lavoro in campo cinematografico e auspica [...] un ampliamento delle possibilità di dialogo tra cattolici e operatori del settore. Di fatto, quello tra Chiesa […] e mondo del cinematografo appare come un dialogo tra due entità distinte e non reciprocamente compenetrate, anche se lo sguardo ecclesiastico sul cinema è decisamente positivo»47.
La lettera apostolica In fructibus multis istituiva la Pontificia commissione per le comunicazioni sociali, che rilevava i compiti della Pontificia commissione di consulenza e di revisione ecclesiastica dei film a soggetto religioso o morale voluta da Pio XI, il 30 gennaio 194848. L’organo avrà svariati nomi49, segno dello sforzo esercitato per seguire i cambiamenti di un mondo letto nella chiave della ‘comunicazione’50.
Accanto alla Pontificia commissione per le comunicazioni sociali, la Santa Sede istituisce la Filmoteca vaticana. Nata il 16 novembre del 1959, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, la Filmoteca ha lo «scopo di raccogliere i film che interessino la Sede Apostolica»51. Il suo principale obiettivo, definito come tale nello Statuto, è quello «di raccogliere e conservare film e registrazioni delle riprese televisive che hanno attinenza alla vita della Chiesa»52. Osservatore dal 1985 e dal 1997 membro della Federazione internazionale degli archivi di film (Fiaf), la Filmoteca aderisce ai protocolli di archiviazione, conservazione e restauro dei film stessi. In particolare, per quanto concerne i criteri di selezione delle pellicole va precisato che
«ciò che rende un film “attinente alla religione” non è necessariamente la presenza di uno o più personaggi in questo senso emblematici, ovvero sacerdoti e/o religiosi: in molti casi si tratta di sfumature, e a volte basta la scelta di affrontare un argomento, altrimenti neutro, da un particolare punto di vista. Il quale punto di vista non deve essere per forza positivo: anche da un atteggiamento critico, o la trattazione tematica che scaturisce da un’interpretazione ambigua e ampliata del termine “religione” inseriscono di diritto il film nel nostro ambito di ricerca. Senza dimenticare che la decisione di intendere, con “religione”, non solo quella cristiana, ma qualsiasi forma seria di manifestazione umana della fede in Dio, ha ampliato non poco il campo di lavoro. In conseguenza di questi criteri operativi, il numero dei film da esaminare e catalogare si è rivelato immenso»53.
Gli anni Sessanta segnano per il cinema italiano la stagione della «Hollywood sul Tevere»54, anni di ripresa dopo la guerra e di grande visibilità internazionale. Accanto alle iniziative avviate sul versante della stampa, la costituzione della Federazione nazionale dei settimanali cattolici diocesani e la nascita del quotidiano «Avvenire», si registra un’importante presenza delle sale cinematografiche parrocchiali, diffuse «sul territorio nazionale con un numero superiore alle cinquemila unità, poco meno del 50% di tutti i cinema in Italia»55. Una presenza certamente interessante, che attesta l’attenzione positiva della Chiesa nei confronti del cinema, ma anche il tormento sulla ‘questione morale’ del cinema come luogo e come spettacolo.
Questo clima di entusiasmo e di sviluppo si arresta però sul finire del decennio e l’inizio degli anni di piombo, quando crollano le presenze degli spettatori in sala. Questo fatto si riflette anche sulle sale parrocchiali, che si avviano per quasi un ventennio in anni d’incertezza e di difficoltà alla ricerca di una propria identità. I più avveduti comprendono l’inadeguatezza della sala parrocchiale, che si presenta
«in molti casi [...] anacronistica, o perché è uguale alle altre, o perché è inferiore alle altre, o perché è legata a un sottogruppo di interessi, che poi diventa, nell’ambito del gruppo umano, un sottogruppo di potere. In altri casi, la sala cinematografica parrocchiale è pleonastica, perché è un di più che molti sacerdoti non riescono a controllare e la vivono come peso perché è esclusa dalla vita comunitaria parrocchiale; in altri casi ancora è compensativa, è una specie di pulpito personale»56.
Gli anni Ottanta segneranno una ripresa delle sale parrocchiali, che saranno chiamate a diventare uno spazio «in grado di attrarre anche coloro che non frequentano i luoghi della celebrazione, della catechesi e della preghiera»57 scardinando, si legge in un articolo del 1982, la «mentalità ghettizzante che per tanto tempo, ha dominato il nostro modo di essere cristiani in mezzo agli altri»58. Solo allora la Chiesa italiana si assumerà la responsabilità di definire obiettivi e strategia delle sale cattoliche, che nel frattempo hanno assunto anche una nuova denominazione: sale della comunità.
Il primo documento che dedica un’attenzione esclusiva alle sale cattoliche e alla necessità di un ripensamento nel mutato panorama cinematografico è Finalità e organizzazione delle sale cinematografiche dipendenti dall’autorità ecclesiastica59 (1982) della Commissione episcopale per le comunicazioni sociali. Per la prima volta, accanto alla denominazione di ‘sale dipendenti dall’autorità ecclesiastica’, viene utilizzata l’espressione ‘sale della comunità’. Per il documento il cinema è, in generale, «1. un’opportunità educativa [...]; 2. un luogo di socializzazione [...]; 3. un’occasione per costruire cultura»60.
Due anni dopo la pubblicazione del documento, ai partecipanti al IV Congresso nazionale dell’Associazione cattolica esercenti cinema, Giovanni Paolo II descrive le sale della comunità come «propedeutiche al tempio, punto di riferimento e di interesse anche per i lontani» e auspica che tali strutture siano un giorno «per tutte le parrocchie il complemento del tempio»61.
Il cambiamento da ‘sala del cinema parrocchiale’ a ‘sala della comunità’ viene sancito dalla pubblicazione da parte della Commissione episcopale per le comunicazioni sociali della seconda nota pastorale, intitolata La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale62.
Con l’espressione ‘sala della comunità’ «non si definisce solo uno spazio fisico, ma si indica una precisa attitudine della comunità cristiana a diffondere il messaggio evangelico, coniugandolo con le diverse espressioni culturali e utilizzando i linguaggi propri della comunicazione moderna»63. In sostanza, senza negare la vocazione primogenita del cinema, la sala diviene luogo di accoglienza della varietà delle proposte educative nell’ambito della comunicazione, per cui
«la specificità della “sala della comunità” rispetto al primitivo cinema parrocchiale [...] consiste proprio in questa sua multifunzionalità e nella sua vocazione multimediale, che appare connessa a una meditazione non più solo dedicata al cinema, ma che connette strettamente i diversi strumenti ed espressioni delle comunicazioni sociali»64.
Già nel 1936 con la lettera enciclica Vigilanti cura Pio XI aveva chiesto, per l’orientamento e la tutela degli spettatori, l’istituzione di un ufficio nazionale che si occupasse di revisione, per promuovere i film buoni, classificare gli altri e fornire tali giudizi ai sacerdoti e ai fedeli.
Nelle varie diocesi italiane, e in particolare a Torino e a Milano, già a partire dagli anni Dieci gli stessi sacerdoti, fra i quali Ratti era vissuto, avevano avvertito l’esigenza di verificare il contenuto dei film. Ad esempio, la Federazione cinematografica diocesana ambrosiana65 nel 1911 avvia i primi tentativi d’intervento in materia di revisione a opera dello stesso esercizio cattolico.
«In questa prima fase, che precede addirittura la legislazione sulla censura, il giudizio è espresso in lettere alfabetiche (A, B, C) secondo un prevedibile ordine di moralità discendente. Va aggiunto che la pratica stessa della revisione delle pellicole […] possiede un valore strumentale: il giudizio sul film, redatto da una commissione di esperti, costituisce un mezzo di rapido e sicuro orientamento per il sacerdote che, gravato dalle diverse incombenze della pastorale, non ha sempre la possibilità di approfondire direttamente la conoscenza delle opere presenti sul mercato»66.
I bollettini periodici rappresentano, dunque, il mezzo per diffondere l’elenco dei film ‘revisionati’. Il Centro cattolico cinematografico (1935) proseguirà su scala nazionale le iniziative sviluppate già su base locale, con il compito quindi di formulare dei giudizi di carattere morale ovvero delle valutazioni sia in relazione al tipo di esercizio in cui i film vengono programmati (sale commerciali o parrocchiali) sia al tipo di pubblico cui essi si rivolgono. Sarà l’esperienza dell’associazionismo a farsi carico della diffusione dei giudizi morali e della riflessione sulla questione morale del cinema, com’è avvenuto in particolate sulla «Rivista del cinematografo» (1928), organo ufficiale prima del Consorzio utenti cinematografici educativi67 e successivamente del Centro cattolico cinematografico per divenire dal 1947 la rivista dell’Ente dello spettacolo (Fondazione ente dello spettacolo).
Con la costituzione della Conferenza episcopale italiana, il lavoro di revisione dei film e di elaborazione dei giudizi di ordine morale viene di fatto trasferito di competenza a quella che verrà chiamata Commissione nazionale valutazione film.
Ma torniamo alla Milano della belle époque. L’esperienza della Federazione cinematografica diocesana, organismo associativo che si sviluppa a Milano nel 1909 e che si occupa principalmente di coordinare i rapporti tra le sale parrocchiali e le case di produzione, porta a una prima forma di classificazione morale delle pellicole68.
Un lavoro importante e certamente impegnativo, se si tiene presente anche la mancanza di un intervento legislativo dello Stato italiano prima del 20 febbraio 1913, giorno in cui viene diramata
«la prima circolare del Ministero dell’Interno, in cui si fissano i criteri che le autorità devono seguire per la tutela della morale, del buon costume e dell’ordine pubblico nel concedere licenze ai soggetti cinematografici e il nulla osta di circolazione su tutto il territorio nazionale ai film di produzione italiana e straniera»69.
La classificazione proposta dalla Federazione cattolica negli anni Dieci, adottata per indicare la ripartizione dei film revisionati nella rubrica de «L’eco degli oratori», viene poi ripresa anche nella rubrica cinematografica della «Rivista di letture». Appartengono alla categoria A le
«pellicole che escludendo intrecci amorosi anche onesti sono adatte per collegi, oratorii, scuole; in categoria B [si collocano] quelle pellicole che rappresentando un amore onesto e morale nello svolgimento e nel fine sono adatte per le famiglie e per il pubblico; in categoria C quelle pellicole che pur descrivendo le manifestazioni del vizio ne mostrano alla fine i tristi effetti e fanno desiderare le opposte virtù»70.
Il passaggio dagli anni Dieci agli anni Venti segna anche un mutamento dello spettatore, ed
«è interessante notare […], come fino a pochi anni prima, sia voci laiche che religiose avevano in più occasioni negato al finale un qualsiasi valore di attenuazione della negativa influenza dei contenuti immorali di un film; il riconoscimento della positiva funzione pedagogico-ammonitrice del finale ammetteva una crescita delle competenze dello spettatore degli anni Venti rispetto a quello degli anni Dieci, più esposto agli effetti di shock prodotti dalle singole immagini e meno coinvolto nei processi di identificazione e proiezione strutturati da un racconto cinematografico per altro non ancora pienamente integrato e funzionale»71.
Con la creazione nel 1926 del Consorzio utenti cinematografici educativi, che raccoglie gli esercizi della diocesi di Milano e altri centri minori, viene riformata la pratica della revisione cinematografica. Il nuovo regolamento prevede una classificazione ripartita sempre in tre punti, ma con ulteriori accorgimenti:
«A) pellicole che possono essere incluse nel programma di spettacoli dati per la gioventù di Oratori, Collegi, Scuole; B) pellicole che possono essere incluse nel programma di spettacoli dati per le famiglie degli Oratori o dalle istituzioni educative; C) pellicole che possono essere incluse nel programma di spettacoli dati in cinematografi pubblici e, con cautela, anche in quello degli spettacoli di cui alla categoria B»72.
La nuova classificazione, pubblicata sulla «Rassegna del teatro e del cinematografo» e anche sul primo numero della «Rivista del cinematografo» nel 1928, propone tre categorie di pubblico ovvero tre fasce di consumatori, lasciando meno spazio alla divisione per tipologia di contenuto: «veniva meno qualsiasi cenno ai contenuti immorali» mentre si riaffermavano
«le finalità pragmatiche della classificazione (non esprimere giudizi astratti quanto piuttosto alimentare e controllare un mercato della comunicazione) ma [si] ammetteva in fondo la possibilità che certi contenuti potessero essere visti da un pubblico specifico, riconoscendo di fatto un principio di relativizzazione nelle valutazioni di immoralità»73.
In questa prima fase di attenzione al cinema sulla questione morale, di problemi teorici e pratici relativi all’esercizio cinematografico, si diffondono nuovi bollettini cinematografici delle case di produzione. Possiamo ricordare anzitutto l’esperienza della Sic-Unitas e il suo bollettino informativo «Luce et Verbo» (1910-1913), che mira a una diffusione mensile (non sempre rispettata) nelle diocesi, nelle parrocchie, negli oratori, nei patronati e così via.
«L’impostazione di “Luce et Verbo” è costante nel tempo, con leggere variazioni: un editoriale e, a volte, articoli tratti da altre pubblicazioni, definiscono i riferimenti morali e politici della società; alcune rubriche, non sempre presenti (Note di proiezione pratica, Taccuino degli ossigenisti), mirano alla formazione tecnica dei lettori, mentre altre pagine informano sui prodotti della società (film, diapositive, attrezzature), e sui mezzi tecnici (diapositive, lanterne, proiettori, schermi, accessori) che la SIC offre in vendita e in locazione»74.
Il bollettino «Arte-Luce-Parola», invece, sull’esperienza dell’Opera delle proiezioni luminose, sviluppatasi sempre a Milano negli anni Dieci, nasce nel decennio successivo. Rivolto non soltanto a «reverendi, insegnanti, conferenzieri», bensì a «tutti coloro che debbano occuparsi di proiezioni sia a scopo didattico sia a scopo ricreativo»75, il bollettino presenta anzitutto il proprio repertorio
«indicando accuratamente titolo e numero di diapositive e talvolta descrivendo brevemente soggetti e segnalando le nuove produzioni. Un altro spazio ricorrente è quello dedicato ai supporti, sia nelle pagine rivolte agli apparecchi per proiezioni, sia nella piccola rubrica in cui si convogliano le “note tecniche”. Infine sono da rilevare le numerose “novelle degli insegnanti” che ricostruiscono momenti di vita scolastica legati alle proiezioni luminose. Questi articoli mettono in atto un’interessante strategia di legittimazione del sussidio didattico che sembra provenire dagli insegnanti e allo stesso tempo è loro diretta»76.
Tra le prime pubblicazioni importanti troviamo l’«Eco degli oratori», che si diffonde a Milano già nel 1907, con la sua rubrica Pro cinematografo, ma soprattutto la «Rivista di letture», che si diffonde da Milano nel 1914 e che «da anni forniva ad associazioni cattoliche, famiglie, educatori e bibliotecari un servizio di controllo e classificazione dei contenuti morali dei libri (specialmente di quelli popolari), poi esteso anche alle rappresentazioni e alle pubblicazioni teatrali», che dal gennaio del 1924 annuncia l’inizio di una rubrica cinematografica gestita direttamente dalla Federazione cinematografica educativa77. Successivamente la cura della rivista, che cambia nome in «Letture», viene affidata nel 1946 dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster, ai Gesuiti del Centro San Fedele e sarà al centro dell’acceso dibattito morale sul film La dolce vita (1960) di Federico Fellini.
Negli anni Sessanta interessanti segnali di apertura si registrano anche sotto il profilo della morale e della censura. Un caso significativo è certamente l’accoglienza positiva che la Chiesa italiana riserva a Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini. Il film, infatti, preceduto da molte polemiche, per la figura del regista e per il caso de La ricotta78, riceve alla Mostra del cinema di Venezia il Gran premio dell’Ocic79, oggetto di reazioni critiche in alcune frange del mondo cattolico.
La «Rivista del cinematografo» ospita l’intervento di Andrés Ruszkowsky, presidente della giuria del Premio Ocic, che risponde alle critiche per il premio attribuito a Pasolini, sottolineando due malintesi. «Il primo confonde l’opera con la persona del suo autore». Il secondo riguarda il rapporto con il testo evangelico, la fedeltà al testo di Matteo:
«C’è chi considera questo film non come prodotto contemporaneo, raffrontandolo ad altri film che raggiungono gli schermi, ma come una versione filmata del Vangelo di San Matteo, che va confrontata alle versioni stampate e dottamente commentate, o a rappresentazioni ideali che ognuno si è formato nella propria immaginazione. […] Nessun film precedente ha saputo offrirci una versione del Vangelo altrettanto esente da sentimentalismi artificiali e da concessioni convenzionali»80.
La recensione di Leandro Castellani presenta il film come «molto interessante, forse il secondo film interessante nella storia del cinema religioso in Italia, dopo Francesco giullare di Dio di Rossellini»81; ai suoi occhi
«la sacra rappresentazione cinematografica che Pasolini ha costruito sulla cronaca di Matteo si traduce in un quadro che, rigorosamente ortodosso nella sua intelaiatura generale e nella sua fedeltà minuta al testo, è personale e singolare. Quadro dal quale è possibile dissentire ma che occorre riconoscere nei suoi indubbi pregi e nella sua pudica onestà d’intenti»82.
Non era una voce isolata: il film fu lodato dall’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira e, soprattutto, applaudito da parte di ottocento padri conciliari, in occasione della visione straordinaria del film il 5 ottobre del 196483. Il riconoscimento ‘cattolico’ all’opera di Pasolini è un chiaro segnale di distensione, che «annuncia la fine delle preoccupazioni difensive, tipiche del decennio precedente, nei confronti della cultura comunista e marxista»84. Sulla «Rivista del cinematografo» cogliamo un cambiamento di rotta nella critica: non solo relativamente all’accoglienza positiva dei film pasoliniani85, ma anche per lo sguardo verso la cinematografia dell’Est-Europa, del blocco comunista86.
«Si assiste così a un rinnovamento delle forme critiche che, in ambito cattolico, risulta particolarmente evidente: in questi stessi anni anche “Bianco e Nero”, pur nell’ambito di una gestione democristiana, affida, ad esempio, a Lino Miccichè e Giovanni Buttafava ampi approfondimenti sul nuovo cinema cecoslovacco e sul giovane cinema sovietico»87.
Nella «rivoluzione sessuale» degli anni Sessanta i media esercitano un ruolo significativo88. Di fronte a una società mutata rispetto alle condizioni in cui si trovava nell’immediato dopoguerra89 il cinema è più d’uno specchio della società: anticipa gli eventi, propone spettacoli giudicati trasgressivi e scandalosi, andando incontro non solo agli strali della censura, ma a una risposta estremamente variegata tanto del pubblico come degli stessi protagonisti e degli addetti ai lavori.
La settima arte, dunque, non solo accompagna le evoluzioni del paese, ma in alcuni frangenti – e i costumi sessuali ne sono un caso emblematico – indica addirittura il percorso incentivando gli stessi cambiamenti sociali. Questo si registra sia a causa dell’influenza sul grande schermo, e di riflesso sulla società, di realtà maggiormente emancipate da quelle correnti, come quelle nordeuropee e quella statunitense, sia in virtù della sensibilità artistica di autori che si concedono, non senza incorrere in opposizioni e censure, d’osare andando oltre quella che era la morale comune.
I casi più rappresentativi sono costituiti da alcuni di quelli che oggi sono considerati fra i massimi esponenti della cinematografia italiana, come Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, ma anche Alessandro Blasetti di Europa di notte (1958), Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni. Tutte firme di opere del cinema italiano che, oltre a essere testimonianza dei grandi cambiamenti dell’epoca e frutto delle enormi sensibilità espressive dei loro autori, si sono imposte sulla scena nazionale e internazionale per le aspre polemiche suscitate e per lo scalpore mediatico causato, rivelandosi ai posteri come degli autentici spartiacque, sia estetici che contenutistici, all’interno del decennio cinematografico.
Ancor prima delle polemiche legate ai film e alla figura di Pasolini, La dolce vita (1960) di Federico Fellini e la sua presentazione al Centro culturale San Fedele di Milano, il 31 gennaio del 1960, diventa un «casus belli ideologico, in un’Italia sul crinale tra modernità e tradizione»90. Il film genera pareri discordanti91, ma l’uscita nelle sale italiane viene accolta con entusiasmo generale dal pubblico.
Nel febbraio dello stesso anno però, subito dopo l’anteprima, il cardinale Montini convoca padre Alberto Bassan, superiore della comunità del Centro San Fedele, richiamandolo per aver ospitato la proiezione d’un film del genere. L’arcivescovo chiede a Bassan un intervento correttivo sulla rivista del Centro «Letture». Nel numero successivo a quello che riportava semplicemente le impressioni della serata con il film e il regista, padre Nazareno Taddei scrive una vera e propria recensione del film. Per il gesuita
«è un’intuizione splendida quella che ha guidato Fellini nell’aprire il film con la sequenza del Cristo e nel chiuderlo con quella di Paolina: l’intuizione dell’Incarnazione del Cristo che continua – sebbene non avvertita – nel suo Corpo Mistico e che si fa visibile attraverso il volto dell’innocenza in un mondo impastato di peccato. Ed è nella luce di questa imponente intuizione che si può capire il pieno significato tematico de La dolce vita»92.
Nel marzo del 1960, il cardinale Montini scrive una nuova lettera al Centro San Fedele, richiedendo un intervento più deciso sulla questione:
«Reverendissimo Padre, obbligato a vedere ogni cosa soprattutto in funzione dell’onore di Dio e del bene delle anime, sono costretto a deplorare l’esaltazione che il Rev. P. Nazareno Taddei S.I. fa sul fascicolo 3 della rivista “Letture” del film La dolce vita. Mi duole che ciò sia avvenuto nonostante il forte richiamo della Lettera dell’Episcopato Lombardo su la moralità dei costumi e degli spettacoli, nonostante la classificazione di tale film da parte del Centro Cinematografico Cattolico, e nonostante l’avvertimento da me espresso alla Paternità Vostra, a voce e per iscritto. Non voglio contestare le buone intenzioni di P. Taddei; e voglio augurare che anche da così biasimevole film possano derivare benefiche reazioni. Ma la sua apologia ne aggrava l’influsso e ne estende la diffusione, e soprattutto disarma il giudizio morale, contraddice a criteri fondamentali della nostra educazione, rompe l’argine della difesa pastorale del nostro popolo alla dilagante immoralità delle scene. Per quanto è ancora possibile, tale fascicolo dev’essere ritirato dalla circolazione, almeno nella diocesi di Milano. Né vale, Reverendissimo Padre, a mutare questo mio modo di vedere e a consolare la mia amarezza la lettera, ch’Ella gentilmente mi scrive. Essa mette in evidenza una disparità di criteri su questa materia e una autonomia di azione da parte di S. Fedele che mi obbligano a sospendere il permesso a cotesti Revv. Padri di assistere a spettacoli pubblici»93.
Sia Alberto Bassan che Nazareno Taddei verranno poi rimossi dai loro incarichi. Il cardinale Montini non aveva visto il film (e non l’avrebbe visto neanche in seguito), perché era probabilmente intimorito – come sembra di capire consultando i documenti dell’Archivio milanese – dall’idea che ne potesse danneggiare la sua integrità di spirito94. L’intervento nei confronti dei due padri gesuiti però non fu opera del cardinale Montini, che non li conosceva di persona, ma presumibilmente di Luigi Santi, Superiore provinciale della Compagnia di Gesù, di monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, e soprattutto del cardinale Alfredo Ottaviani, segretario della Congregazione del Sant’Uffizio, che «si occupa dei fatti relativi a La dolce vita in quattro diverse occasioni»95.
Da Fellini a Pasolini: è il 1968 quando Teorema riceve il premio cattolico Ocic alla Mostra del cinema di Venezia. Pochi giorni dopo il Festival, il 14 settembre 1968, «L’Osservatore romano» pubblica il giudizio negativo del Centro cattolico cinematografico96, mentre nel frattempo la Procura di Roma impone il sequestro del film per oscenità. «Ma ciò che più contribuisce al precipitare degli eventi è un discorso di Paolo VI»97, pronunciato il 18 settembre e pubblicato il giorno seguente su «L’Osservatore romano» con il sottotitolo Precisi moniti del Santo Padre contro tendenze non conformi all’autorità ed alla disciplina della Chiesa:
«Che cosa diremo poi di certi recenti episodi di occupazioni di Chiese Cattedrali, di approvazione di films inammissibili, di proteste collettive e concentrate contro la Nostra recente Enciclica, di propaganda della violenza politica per scopi sociali, di conformismo e manifestazioni anarchiche di contestazione globale, di atti di intercomunione contrari alla giusta linea ecumenica?»98.
Dopo l’intervento di Montini, monsignor Jean Bernand, presidente dell’Ocic, scrive al papa riconoscendo l’errore commesso dalla giuria, probabilmente condizionata da un film difficile. La risposta di Paolo VI non si fa attendere e non è per nulla interlocutoria: «non si può ammettere che una giuria cattolica, con un atto pubblico, incoraggi l’immensa folla degli utenti del cinema a vedere un’opera riprovevole, quali che possono essere le sue qualità artistiche»99.
Nel marzo del 1969, quindi, l’Ocic diffonde un comunicato in cui dichiara il rincrescimento per l’‘errore’ commesso da una delle sue giurie nell’attribuire il premio al film Teorema. Pasolini commenta:
«Che l’Ufficio cattolico internazionale del cinema si tenga il suo premio e possono riprendersi indietro anche quello che mi diedero per il Vangelo secondo Matteo. Sto preparando un film sulla vita di san Paolo, per cui naturalmente, continuerò il mio “dialogo” ma con preti indipendenti e colti e forse un giorno con preti separatisti»100.
Qui il «dialogo» di Pasolini con il mondo cattolico, dopo la triste esperienza di Teorema, si congela anche perché il progetto su san Paolo naufraga per l’assenza di adeguati finanziamenti e soprattutto per l’assassinio del regista nel 1975.
Con la nascita della Conferenza episcopale italiana negli anni Sessanta, anche la responsabilità della revisione dei film passa dal Centro cattolico cinematografico alla Commissione nazionale per la revisione dei film (1968), che opera sotto la guida dell’Ufficio nazionale dello spettacolo alle dirette dipendenze della Commissione per le comunicazioni sociali.
Nello stesso anno entrano in vigore nuove norme per la classificazione ‘morale’ dei film, identificate ora con numeri romani: a partire da I (film positivo) per giungere al IV (film gravemente offensivo della dottrina o della morale cattolica).
Nel 1974, la Commissione nazionale di revisione film diviene Commissione nazionale per la valutazione dei film (Cnvf), organismo che opera all’interno dell’Ufficio nazionale per comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana. Sono inoltre approvati un nuovo regolamento e dei nuovi criteri di valutazione, con l’introduzione di un giudizio sintetizzato in due parole: la prima esprime la valutazione globale del film (‘raccomandabile’, ‘accettabile’, ‘discutibile’, ‘inaccettabile’ e, dal 1984 anche, ‘accettabile-riserve’, ‘futile-inconsistente’), mentre la seconda parola (con ventaglio di opzioni più ampio) indica la facilità o la difficoltà di lettura del film, la motivazione della valutazione globale oppure indica se il film è idoneo anche per le famiglie o per gli adolescenti.
Nel 1998 viene modificato il regolamento e vengono ridefinite le prospettive di lettura che guidano il lavoro della Commissione: il profilo morale da un lato, l’uso pastorale dall’altro. Impostazione, dunque, che ripropone la doppia pedagogia verso il cinema messa in atto sin dall’inizio del secolo XX, con l’obiettivo della tutela morale dello spettatore e della valorizzazione del mezzo, delle sue possibilità per fini educativi e pastorali.
Nel gennaio 2009, anche a fronte del cambiamento delle modalità fruitive dei film, rispetto alla sala cinematografica, alla sala della comunità, la Presidenza della commissione approva i nuovi criteri, che si propongono di offrire un supporto alle famiglie per la scelta dei film.
La classificazione, che si accompagna alla valutazione più estesa, prevede sempre le due parole di riferimento che vogliono fornire allo spettatore le necessarie chiavi di lettura, gli strumenti di accesso a una soglia di comprensione, a un guadagno schiuso dal testo cinematografico per quanto problematico o controverso.
Prima che in ambito nazionale, si possono rintracciare nella storia delle diocesi significative esperienze di coordinamento delle sale cinematografiche parrocchiali.
A Milano si costituisce la Federazione cinematografica diocesana, che confluisce nel Consorzio utenti cinematografi educativi nel 1926 e successivamente nel Consorzio per la cinematografia educativa nel 1933. L’intento di tali organismi è quello di collegare fra loro gli esercenti cattolici e di facilitare il noleggio delle pellicole, oltre che di assicurare un listino di film moralmente adatti e coordinare l’attività di revisione101.
Una delle figure pionieristiche nell’apostolato cinematografico milanese è don Carlo Canziani che fonda, nel 1928, la «Rivista del cinematografo», periodico che, dopo aver assolto al compito di organo ufficiale del coordinamento diocesano e lombardo, si trasferirà nella capitale per diventare rivista del Centro cattolico cinematografico prima e dell’Ente dello spettacolo poi, attraversando, non senza qualche difficoltà, i decenni della crisi del cinema e trovando negli anni Duemila, una stagione positiva e feconda102.
Intercettando, di fatto, istanze teoriche e iniziative pratiche già presenti nel mondo cattolico, soprattutto in Lombardia tra Milano e Como, Pio XI affiderà all’Azione cattolica un impegno nel campo cinematografico103. Nel 1935 essa fonda il Segretariato centrale per il cinema,
«con il compito di guidare tutta l’azione dei cattolici nel vasto campo del cinematografo e di ottenere una produzione cinematografica rispondente al carattere e ai bisogni delle nostre sale. Il Segretariato Centrale sarà diretto da una commissione nominata dall’Ufficio Centrale dell’A.C.I. […] segnalerà i film da preferirsi dalle nostre sale. Provvederà inoltre a dare tempestivamente giudizi sulle novità cinematografiche»104.
Nel 1935 nasce il Centro cattolico cinematografico, guidato anche dal presidente dell’Azione cattolica Augusto Ciriaci. Esso si occupa di formulare, attraverso una commissione, le valutazioni morali redigendo successivamente le «Segnalazioni cinematografiche», pubblicate regolarmente ogni settimana. I giudizi prevedono una breve trama, una valutazione estetica e soprattutto l’usuale valutazione di ordine morale105.
Oltre all’impegno nella formulazione di schede di valutazione dei film, il Centro cattolico cinematografico interviene anche nel sostenere una presenza produttiva cattolica, soprattutto sotto la presidenza di Luigi Gedda e con la collaborazione dello sceneggiatore-regista Diego Fabbri, nominato segretario generale. «Il tandem Gedda-Fabbri conferisce una nuova vitalità al Centro […] per la prima volta il mondo cattolico italiano non si muove verso il cinema dall’esterno, motivato da prevalenti ragioni di apostolato, ma vi può agire dall’interno grazie all’impegno e alla passione di professionisti»106.
Guardando ai tentativi di produzione – capitolo che rimane comunque decisamente modesto nelle strategie culturali dei cattolici italiani – ricordiamo anzitutto la realizzazione nel 1942 del film documentario Pastor angelicus diretto da Romolo Marcellini e dedicato alla figura di Pio XII e successivamente il sostegno alla nascita della casa di produzione cinematografica Orbis, che realizza nel 1944 La porta del cielo di Vittorio De Sica, la cui lavorazione, volutamente lenta, e l’installazione del set a San Paolo fuori le Mura permette a molti disertori ed ebrei di salvarsi nella Roma occupata dalle truppe naziste107.
Nel secondo dopoguerra nasce l’Ente dello spettacolo (1946) con competenze in materia cinematografica, ma anche con funzioni di coordinamento generale in ambito teatrale e radiofonico. Infatti, oltre al Centro cattolico cinematografico, negli anni Quaranta erano stati costituiti il Centro cattolico radiofonico (1940) e il Centro cattolico teatrale (1943), con la sua rivista «Filodrammatica». Negli anni l’Ente tenderà a non federare più i centri «sicché si può dire che il [Centro cattolico cinematografico] cessa da allora una sua storia autonoma e si identifica con la crescita e le funzioni dell’Ente dello Spettacolo, che, del resto, fa del cinema il proprio asse portante»108.
L’Ente dello spettacolo intensifica progressivamente negli anni la propria presenza nel mondo culturale italiano, grazie anche alla guida di Sergio Trasatti, caporedattore de «L’Osservatore romano», che garantiva legami istituzionali e politici importanti soprattutto negli anni della crisi del cinema tra gli anni Settanta e Ottanta.
Alla fine del secolo XX l’Ente si trasforma in Fondazione nel 2006 con un ruolo sempre più significativo nel panorama cinematografico nazionale divenendo partner di importanti realtà istituzionali italiane, come il Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà Luce (nata nel 2009 dall’unione di Cinecittà e dell’Istituto Luce), ma anche straniere come la storica rivista francese «Cahiers du Cinéma». La strategia di coinvolgimento di un cospicuo gruppo di docenti di cinema ha permesso alla Fondazione ente dello spettacolo di promuovere, oltre alla «Rivista del cinematografo», un’intensa attività editoriale tradizionale (la collana «Frames» nella quale confluiscono studi di carattere segnatamente scientifico e «Le Torri» che raccolgono studi monografici sui grandi autori della storia del cinema) accanto a un’intensa presenza nel mondo del web con il portale www.cinematografo.it, che, tra i vari servizi, offre un’agenzia stampa, un servizio di rassegna stampa quotidiana e uno dei più significativi e completi archivi digitali di schede filmografiche, con oltre due milioni di contatti mensili nel 2009.
Se l’Ente prima e la Fondazione poi si configuravano come la presenza ufficiale della Chiesa italiana e delle sue politiche culturali nel mondo cinematografico, il mondo cattolico, pochi anni dopo la costituzione dell’Ente dello spettacolo, definisce a livello nazionale i contorni del coordinamento delle sale cinematografiche parrocchiali con la costituzione, nel 1949, dell’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec).
Negli anni immediatamente successivi alla sua costituzione, l’Acec si rivela «una risposta efficace alla esigenza di realizzare sul territorio una presenza capillare»109, in un’epoca «in cui, venuto meno l’embargo sul prodotto cinematografico statunitense, il mercato italiano subisce l’assalto di Hollywood»110. La crisi del cinema degli anni Settanta rivela la debolezza dell’associazione alle prese con un ripensamento della sala del cinema parrocchiale, che pure emerge con chiarezza già al II congresso nazionale nel 1969.
Le intuizioni legate soprattutto alla figura di monsignor Luigi Maria Pignatello dovranno attendere ancora un decennio, fino a quando la nota pastorale Finalità e organizzazione delle sale cinematografiche dipendenti dall’autorità ecclesiastica introdurrà alcuni elementi di quella che sarà la sala della comunità, descritta nel suo essere e nei suoi obiettivi nell’ultimo intervento della Chiesa italiana, dal titolo La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale111.
Una delle pratiche della strategia cinematografica della Chiesa in Italia è rappresentata dal cineforum, esperienza che
«valutata positivamente dalla critica cattolica, viene apprezzata anche da quella laica, che la considera la migliore espressione dell’associazionismo cattolico. Il cinema, in quanto mezzo di comunicazione, viene sfruttato sia per la sua capacità di rappresentare il mondo restituendone una descrizione, sia come spunto di dibattito: il film diventa un vero e proprio panorama in cui lo spettatore si cala emotivamente durante la visione e può essere utilizzato come scenario di una comunicazione sociale all’interno della platea»112.
L’avvio dell’attività cineforiale nell’immediato dopoguerra è riconducibile soprattutto a due figure: padre Félix A. Morlion e don Giuseppe Gaffuri, noto come il ‘prete del cinema’.
Padre Morlion, un domenicano di origine belga, trasferisce negli anni Quaranta la propria esperienza e i propri studi sul cinema in Italia e, con la consapevolezza che la formazione della nuova classe dirigente non può prescindere dalla conoscenza delle dinamiche mediali, fonda a Roma nel 1947 l’Università internazionale di scienze sociali Pro Deo (oggi Luiss Guido Carli), «dove il cinema viene ampiamente studiato come strumento di comunicazione»113. Morlion è considerato l’ideatore del metodo cineforiale, che prevede una presentazione critica del film, la proiezione e infine il dibattito con gli spettatori regolato da un moderatore, che può essere un sacerdote o un esperto.
Don Giuseppe Gaffuri è invece il fondatore del Centro studi cinematografici di Milano (1947) nonché il responsabile locale dell’Associazione cattolica esercenti cinema. Si occupa in giovane età, alla fine degli anni Quaranta, di organizzare, in collaborazione con la Cineteca italiana, il primo cineforum ambrosiano le cui proiezioni vengono allestite presso il circolo San Paolo. La formula ‘presentazione-proiezione-dibattito’ incontra rapidamente il favore del pubblico e successivamente la sede del cineforum viene spostata nel prestigioso palazzo dell’Istituto Gonzaga. Probabilmente è la stessa curia arcivescovile milanese a dare il contributo decisivo al trasferimento del cineforum visto che questo comincia già a riscuotere un certo consenso anche presso le gerarchie ecclesiastiche114. Anche «L’Italia» offre il suo sostegno e il Centro cattolico cinematografico interviene nella realizzazione di alcune serate. «Le adesioni ai dibattiti condotti da Gaffuri crescono e l’attenzione dell’opinione pubblica comincia a concentrarsi sul nuovo fenomeno, tanto che già nel 1952 la sala guadagna una popolarità addirittura nazionale, ospitando la “Prima rassegna del film religioso”»115.
L’opera di don Gaffuri si interrompe improvvisamente con la sua morte per un incidente stradale nel 1958; l’eredità viene raccolta da don Francesco Ceriotti, che assume la direzione del Centro studi cinematografici, puntando ad approfondire soprattutto le modalità di analisi del film, del linguaggio cinematografico.
Cuore della pratica cineforiale a Milano sarà il San Fedele, centro culturale dei Gesuiti che presto si inserirà nel dibattito culturale sul cinema, grazie anche alla presenza di padre Nazareno Taddei, che vi collabora fino all’incidente già ricordato su La dolce vita. Padre Taddei propone
«un metodo specifico di analisi ed interpretazione dell’immagine e degli audiovisivi, attraverso la metodologia della “lettura strutturale”, che ha come scopo l’educazione dello spettatore ad un atteggiamento attivo e critico nei confronti dei vari tipi di immagine. Attraverso questa metodologia si cerca di cogliere l’idea che l’autore ha voluto esprimere […], ma prestando attenzione anche ai suoi “fondi mentali” e alle eventuali “comunicazioni inavvertite”, attraverso l’analisi della struttura narrativa e del linguaggio»116.
Non mancano altre figure di particolare rilievo oltre i confini della diocesi di Milano, come ad esempio don Giuseppe Fossati, studioso di cinema e fondatore del cineforum di Como, che prende le mosse dalla pratica cineforiale di padre Morlion negli anni Cinquanta117.
Le pratiche cineforiali vengono lodate dal magistero in quanto «dette iniziative se, come speriamo, seguono retti principi didattici ed educativi, non soltanto le approviamo, bensì le incoraggiamo, perciò desideriamo che vengano introdotte in ogni ordine di scuole, nelle associazioni di azione cattolica e nelle parrocchie»118. Giovanni XXIII menziona poi il cineforum nella lettera Nostra patris119, mentre Paolo VI, a proposito del cineforum, ricorda che
«occorre introdurre in questa coscienza un momento di sospensione, di riflessione, di critica. Un “cineforum” ben guidato può essere un primo recupero di autonomia liberatrice delle immagini; il pensiero galleggia sul sogno fantastico; un giudizio di forma; e se questo non si limita a misurare le impressioni ricevute col metro tecnico o estetico, ma le confronta con l’idea di uomo, con la vita morale, uno slancio verso l’alto, cioè verso la sfera spirituale, e poi, in dati momenti, verso quella propriamente religiosa, è forse possibile, anzi è forse più forte»120.
Nel 1995, anno del centenario del cinema, Giovanni Paolo II, nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali121, ribadisce l’importanza di formare gli spettatori al linguaggio del cinema, come una delle priorità fondamentali in vista di un uso corretto e costruttivo del mezzo, così che esso possa davvero acquistare il positivo rilievo sociale che potenzialmente possiede.
Accanto all’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec) a fine anni Quaranta nascono le associazioni di cultura cinematografica, con l’obiettivo di sostenere non solo l’educazione al cinema, ma anche la circuitazione delle opere più significative che solo a fatica trovano un canale di distribuzione.
Anzitutto il Centro studi cinematografici (1947) che parte dall’esperienza milanese di don Giuseppe Gaffuri per estendersi poi a livello nazionale. Il Centro, legatosi all’Ente dello spettacolo, manifesta anche propositi didattici. Seguendo uno schema classico esso si propone di sviluppare le ricerche teorico-culturali condotte da esperti cattolici e di fornire corsi per direttori di dibattito e di settimane di studio122. Di fatto si interessa a dibattiti e incontri culturali, promuove quelle pellicole di apprezzato valore artistico, realizza schede e pubblicazioni per accompagnare le proiezioni123.
Nel 1956 nasce anche la Federazione italiana cineforum (Fic), con sede nell’Università Pro Deo, inseguendo il miraggio di un coordinamento nazionale delle attività cineforiali124. Nel 1961 viene rilanciato il bollettino della Federazione, trasformato in una rivista di studi cinematografici, «Cineforum», che nella stagione d’oro del cinema – gli anni Sessanta – «sarà non solo uno strumento di approfondimento della cultura cinematografica rivolto agli operatori dei circoli per guidare i dibattiti dopo le proiezioni, ma una vera e propria cartina al tornasole degli orientamenti della critica cattolica»125, incluse le varie tensioni che porteranno nel 1971 quaranta circoli aderenti alla Fic, segnati da una differente politica e strategia culturale a dar vita al Cineforum italiano (Cinit), che con i propri cinecircoli opera soprattutto per la diffusione e promozione di film meno commerciali e circuitati.
Anche i Cinecircoli giovanili socio-culturali (Cgs) dei Salesiani si occupano in quegli anni di formazione educativa attraverso i mezzi audiovisivi: cineforum, rassegne, retrospettive, conferenze e seminari, indirizzandosi soprattutto verso un pubblico giovane.
Da ultimo, in seno all’Acec viene costituita nel 1973 l’Associazione nazionale circoli cinematografici italiani (Ancci), che cura gli aspetti formativi.
L’associazionismo cattolico accompagna l’opera di coordinamento e di pratica cineforiale con la pubblicazione di riviste di approfondimento: le già citate «Letture» del Centro San Fedele di Milano, «Cineforum» rivista della Federazione italiana cineforum ma anche «Film», «Scrivere di cinema» e «Il ragazzo selvaggio» del Centro studi cinematografici; oppure «Edav» nuova iniziativa di padre Nazareno Taddei negli anni Settanta, così come «Ciemme. Ricerca e informazione sulla comunicazione di massa» edita dal Cineforum italiano e «Film Cronache» dell’Ancci.
Fra tutte le riviste merita una particolare attenzione la «Rivista del cinematografo»: la più antica, la più ricca per chi voglia capire il dibattito culturale degli oltre cent’anni di storia del cinema e quella legata a una struttura di riferimento istituzionale della Chiesa italiana.
La rivista nasce nel 1928 a Milano come organo ufficiale del Consorzio utenti cinematografi educativi. L’iniziativa editoriale, diretta filiazione della «Rivista di letture», e in particolare del suo supplemento «Rassegna del teatro e del cinematografo» (1925-1927), rappresenta l’esito più concreto della mobilitazione cattolica per la promozione di un circuito di sale cinematografiche cattoliche.
Il successo di questa iniziativa, che costituisce un momento chiave nel progetto cattolico sul cinema, è da attribuire in buona parte all’impegno del direttore della rivista, don Carlo Canziani, il quale avverte «l’urgenza di elaborare strumenti più articolati di formazione del pubblico laico nella linea di una educazione popolare a tutto campo (dalle biblioteche al teatro) che ha da sempre caratterizzato la posizione dei cattolici nei confronti dei media»126. Canziani capisce insomma, prima e meglio di altri, che occuparsi di cinema significa anche formare spettatori più critici e cristiani più consapevoli.
Gli anni Trenta rappresentano la fase dell’esplorazione del fenomeno cinematografico, caratterizzata da una dialettica costante tra l’intenso lavoro di valutazione dei film svolto dagli animatori della «Rivista del cinematografo» e le sanzioni positive che arrivano dai documenti ufficiali della Chiesa, pontifici e non.
I riconoscimenti ufficiali si concretizzano nel 1938, nel trasferimento a Roma alle dirette dipendenze del Centro cattolico cinematografico. Le «Segnalazioni cinematografiche» svolgono, per l’Italia, quell’opera di classificazione «nazionale e curata da un unico centro responsabile» stabilita dalla Vigilanti cura.
Sotto la direzione di Luigi Gedda, il laico allora più vicino a papa Pio XII, la «Rivista del cinematografo» riprende le pubblicazioni dopo la pausa bellica nel segno di una forte continuità di politica culturale. In questi anni trovano al tempo stesso spazio, tra le pagine della rivista, polemiche, come quella contro il neorealismo, frutto di confronti profondamente ideologizzati127. Primi segnali di apertura si avranno già nel corso degli anni Sessanta durante i quali la «Rivista del cinematografo» smette di essere espressione diretta dell’associazionismo cattolico in campo cinematografico, inaugurando un percorso di emancipazione con il quale si cerca «di abbandonare la propria fisionomia confessionale per aprire a ventaglio le sue pagine a un ordine di problemi impensabile nell’immediato dopoguerra»128. È significativo che la rivista non prenda parte attiva alle più forti polemiche in atto già dal 1960 quando ad esempio scoppia il caso de La dolce vita. La rivista, non recensisce il film, ma riporta solo un giudizio de «La Civiltà cattolica», mostrando una prudente presa di distanza dalle posizioni ‘ufficiali’, che sono sì riportate e rispettate, ma con una partecipazione diversa rispetto al passato.
A partire dal 1968, e per tutti gli anni Settanta, la rivista, che allarga il suo specchio tematico al teatro e alla televisione, vive l’età dei più evidenti contrasti nelle linee editoriali, che esprimono modelli e strumenti di partecipazione sociale eterogenei, dei quali il cinema si fa specchio. La sperimentazione di nuovi assetti redazionali collegiali introduce nella rivista temi inediti. È la fine di un ciclo per un periodico che ha ricoperto un ruolo di grande mediazione nel quadro dei discorsi sociali cattolici in ambito cinematografico: da piccolo bollettino per esercenti cinematografici, la «Rivista del cinematografo» ha assunto, e poi dismesso, una funzione negoziale di tipo istituzionale coordinando l’impegno cattolico per un cinema «morale, moralizzatore, educatore»129.
Dagli anni Ottanta agli anni Duemila, superata una fase di aperta crisi economica, la «Rivista del cinematografo» arriva infine a riposizionarsi nel panorama editoriale italiano come rivista critica di ampio dialogo in linea con il ‘progetto culturale’ più generale della Chiesa italiana.
Nella grande stagione del boom economico, che coincide con il periodo d’oro del cinema – con il successo di autori come Federico Fellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Sergio Leone, Dino Risi – che passa dal 33% al 51,7% del mercato130, le sale parrocchiali raggiungono la massima espansione sul territorio nazionale. Nel 1966, infatti, di oltre 12 mila sale cinematografiche in Italia, circa la metà sono sale parrocchiali, quasi a confermare l’auspicio di Giulio Andreotti che, nel 1956, in occasione delle celebrazioni per i vent’anni dalla lettera enciclica Vigilanti cura, pronosticava: «Il tempo stringe, e chi arriverà per primo a costruire il cinematografo in parecchie centinaia di piccoli comuni, particolarmente nel Sud, certamente avrà in mano un mezzo decisivo, specie per l’orientamento delle nuove generazioni»131. In realtà, più che un’esortazione quella di Andreotti era un impegno a sostegno del circuito cinematografico cattolico avviato con la legge 29 dicembre 1949 n. 958, nota per anni come ‘legge Andreotti’, contemplava anche la ‘licenza parrocchiale’ e prevedeva per l’apertura delle sale cattoliche criteri autonomi rispetto alla normativa applicata ai cinema industriali132, correggendo dunque la precedente norma al regio decreto 3 febbraio 1936 n. 419, che uniformava i criteri.
La rilevanza numerica delle sale cattoliche, favorite dalla legge Andreotti, non si traduceva però in una presenza efficace: l’attività di coordinamento delle sale e di contrattazione con le distribuzioni non si è mai costituita in un vero e proprio circuito capace d’imporre la forza dei propri numeri.
Il problema della distribuzione era legato alla ‘qualità morale’ dei film, che a più riprese ha portato il mondo cattolico ad accarezzare l’idea di una produzione propria caratterizzata da adeguati ‘standard morali’.
Archiviata presto, però, la stagione degli slanci produttivi, le sale parrocchiali si presentano dunque numerose ma scoordinate. L’Associazione cattolica esercenti cinema, con la sottoscrizione della convenzione con l’Associazione generale italiana dello spettacolo (Agis) nel 1950, e con l’Unione nazionale distributori film, contribuisce a ridurre alcuni problemi di ordine distributivo, proponendosi come interlocutore ufficiale per le sale cattoliche, e disponendo anche di strutture per l’assistenza alle sale. Ma non riuscirà a rappresentare una risposta adeguata a livello nazionale anche perché gli equilibri di noleggio si giocano in maniera differente sul territorio. In particolare, i cinema parrocchiali si concentrano soprattutto nelle città del Nord e del Centro. Infatti, «in Lombardia all’inizio degli anni Sessanta si conta una sala ogni 3600 persone circa; in Sicilia, una ogni 7250 persone. La possibilità di accedere al cinema continua a essere diseguale»133 e questo rende anche differente il peso nella contrattazione a livello locale per i prodotti culturali.
Per arginare le problematiche relative alla contrattazione e al noleggio dei film da parte delle sale cattoliche, nasce il Servizio assistenza sale, sviluppatosi soprattutto nel Nord del paese e divenuto un servizio dell’Acec.
I primi passi verso una rete di distribuzione delle sale cattoliche erano dovuti all’iniziativa delle varie diocesi. Guardando all’esperienza delle diocesi del Nord, in particolare quella ambrosiana, c’erano stati i precedenti nella Federazione cinematografica diocesana, tra i cui scopi costitutivi figurava proprio «il noleggio di films morali (all’uopo riveduti ed approvati dai sacerdoti), di diapositive per proiezioni fisse e di dischi per grammofoni»134, poi il Consorzio utenti cinematografici educativi del 1926, che riunisce i sacerdoti esercenti della regione per agevolare il sistema sia di distribuzione che di valutazione dei film, dopo l’esperienza del Consorzio, che nel 1934 diventa Consorzio per la cinematografica educativa, assistiamo all’avvicendarsi, sempre dietro impulso della diocesi, di alcune strutture come l’Ente sale cattoliche organizzate (Esco) e la Società cattolica assistenza esercizi cinema (Scaec).
Allo stesso modo di quella ambrosiana anche altre diocesi provano a dar vita a una struttura di coordinamento tra le sale, ma i tentativi non sempre si sono rivelati perfettamente efficaci. Un nuovo impulso determinerà invece la costituzione dell’Associazione cattolica esercenti cinema, che avvierà negli anni Sessanta un servizio per le sale parrocchiali, il cosiddetto Servizio assistenza sale (Sas).
L’attività del Servizio prevede la gestione, come intermediario, dei rapporti di noleggio tra i distributori e gli esercenti. Il Servizio interviene a facilitare il meccanismo di distribuzione commerciale dei film, sia nella prospettiva degli esercenti, permettendo prezzi di noleggio più vantaggiosi, sia in quella degli stessi distributori, che si dimostrano ben disposti a collaborare con tale struttura, perché referente di un ampio numero di sale, e dunque di potenziali acquirenti. Le singole sale non avrebbero certamente potuto ottenere le medesime agevolazioni e contatti senza la mediazione del Servizio assistenza sale.
Il Sas, inoltre, si rivela un aiuto prezioso per molte parrocchie, ricoprendo anche incarichi di consulenza amministrativa, riguardo all’apertura oppure alla chiusura di una sala e alla riconversione della struttura a norma di legge dopo l’approvazione della normativa sulla sicurezza delle sale negli anni Ottanta. Tale struttura ha aiutato in molti casi le parrocchie a riconvertire, a livello amministrativo, le sale in strutture polivalenti, nella transizione verso la sala della comunità e negli anni, con la contrazione del numeri di sale cattoliche, i Sas si sono costituiti anche a livello interdiocesano o regionale, con forme giuridiche assai differenti, da società per azioni ad associazioni, senza però risolvere la questione della distribuzione in circuito.
Con la diffusione in Italia del modello della multisala e del multiplex negli anni Novanta, le sale cinematografiche parrocchiali si sono dovute misurare con la necessità di trovare una propria peculiarità d’offerta rispetto alle mutate condizioni dell’esercizio cinematografico.
Al di là della polivalenza della sala della comunità, la nuova chance, sotto il profilo dell’esercizio, è stata la riconversione della struttura al digitale con la riduzione dei problemi relativi alla reperibilità delle pellicole e ai costi di noleggio.
«Utilizzando la trasmissione dei film via satellite si abbattono le spese logistiche: l’esercente non paga più la stampa delle copie noleggiate né il loro trasporto e le relative assicurazioni […] mentre aumenta la flessibilità all’interno del sistema, permettendo di servire in tempo reale ogni struttura – anche nelle sedi più lontane o “disagiate” – e di gestire la programmazione in maggiore autonomia, fino ad avere per esempio anche più titoli da proiettare nell’arco della giornata»135.
Si comprende immediatamente che, a fronte dei costi di dotazione dell’impianto, i fattori di convenienza per gli esercenti cattolici sono stati numerosi, perché ciò comporta la decisa riduzione del problema della distribuzione e della reperibilità dei film, che ha segnato la vita delle sale parrocchiali.
Si profilano, inoltre, con gli impianti di proiezione in digitale, opportunità non solo per la proiezioni di film, ma anche per l’allestimento di grandi eventi musicali, teatrali o sportivi, che rappresentano, per le sale cattoliche, il valore aggiunto della programmazione, tenendo conto del fatto che esse sono, per oltre il 50%, situate in località con meno di 10.000 abitanti.
Tra i vari circuiti digitali, ciascuno dei quali ha propri standard qualitativi, nel secolo XX il complesso delle sale monoschermo di proprietà cattolica si avvale, anche se non in forma esclusiva, del circuito Microcinema, una joint venture composta da investitori privati (Strategia Italia Sgr, Piemontech, Club degli investitori), con il supporto del Centro studi e ricerche della Rai di Torino e dell’Associazione cattolica esercenti cinema.
Nato nel 1997, Microcinema è un network che offre, per le sale che aderiscono nell’investimento dell’innovazione tecnologica necessaria per la digitalizzazione, una library non soltanto di film ma anche di prodotti culturali differenti, come concerti e opere che rappresentano per le sale monoschermo un notevole punto di forza.
L’ambizione produttiva dei cattolici in ambito cinematografico si articola in tre fasi, ciascuna delle quali si propone diversi obiettivi.
Una prima fase è riconducibile agli inizi del cinematografo, con la produzione di filmine e di proiezioni luminose, legata soprattutto all’attività educativa e catechistica, come testimonia l’esempio dell’attività dell’editrice La scuola di Brescia, sotto la guida di don Angelo Zammarchi. È forse la fase di maggior produzione con esito positivo.
Una seconda fase è legata all’avventura produttiva di sacerdoti dei vari ordini missionari, impegnati in opere di evangelizzazione e di alfabetizzazione136.
La terza fase, del tutto fallimentare, si registra invece nel corso degli anni Trenta e Quaranta, quando alcune case di produzione cattoliche, come la Orbis e la Universalia, con legami più o meno espliciti con il Centro cattolico cinematografico e l’Azione cattolica, si cimentano in una serie di avventure produttive (alcune delle quali anche particolarmente significative), che si concludono però in operazioni troppo dispendiose, sino a provocare nel giro di pochi anni l’implosione delle stesse società.
Un discorso a parte vale per la San Paolo film, che accanto alla produzione cinematografica avvia anche un vero e proprio servizio di distribuzione.
Tra i secoli XIX e XX, l’utilizzo delle proiezioni luminose come sussidio nell’insegnamento e nella divulgazione della dottrina cristiana trova un’accoglienza particolarmente positiva soprattutto nella diocesi di Brescia, grazie all’intuizione e all’impegno di don Zammarchi, catechista, docente e divulgatore scientifico, cui va riconosciuto il grande merito di aver compreso immediatamente le potenzialità del cinema a fini pedagogico-didattici137.
«È un’immagine luminosa, anzi è un succedersi rapido di immagini luminose che non può non impressionare visivamente. E poi tutto giova, la quasi oscurità della sala in cui il pubblico è mantenuto, le alternative di luce e oscurità, lo svolgimento eminentemente vario della seduta, tutto concorre a disporre l’animo a sensazioni ed emozioni intense: e se l’oratore sa fare, e se le proiezioni sono belle, interessanti, convenientemente disposte; e se l’affiatamento tra chi parla e chi sta all’apparecchio è perfetto e continuo, così da non disturbare mai l’ordine delle idee con delle interruzioni o sospensioni sempre disgustose e irritanti, l’effetto che si può ottenere sopra un uditorio può essere semplicemente meraviglioso»138.
Zammarchi figura tra i fondatori, nel 1904, della casa editrice La Scuola di Brescia, che, oltre a voler salvare e rilanciare la rivista didattica «Scuola italiana moderna», si indirizza immediatamente anche alla produzione regolare di diapositive. Zammarchi giunge a realizzare, con la Pro catechismo, sempre dell’editrice La Scuola, la prima guida didattica per gli insegnanti, Il Credo e i Sacramenti. «La produzione dei testi catechistici illustrati per insegnanti e alunni e delle vedute, rappresentò un enorme successo economico e d’immagine per la società»139.
La produzione bresciana di diapositive e di manuali per gli insegnanti cresce poi in breve tempo, parallelamente al diffondersi di tale pratica nelle varie diocesi italiane. «Lo stesso Papa Pio X espresse gratitudine ed elogio per i testi realizzati da Zammarchi e rivolse un ringraziamento anche all’editrice La Scuola»140. L’impegno profuso da Zammarchi per la diffusione del nuovo strumento d’istruzione religiosa, oltre a incontrare l’approvazione entusiastica da parte del mondo cattolico, riscuote un grande successo al congresso catechistico diocesano del 1912141. Da Brescia a Torino, altro esempio rilevante è l’impegno della società Sic-Unitas (in seguito solamente Unitas), tra le cui finalità
«non c’è solo la volontà di istruire i sacerdoti all’apprendimento delle nuove tecnologie e strategie di performance legate alle proiezioni luminose: l’obiettivo più ambizioso (e realizzato solo in parte) è quello di promuovere la nascita di una confederazione nazionale di società diocesane specializzate nell’apostolato morale ed educativo con proiezioni luminose»142.
È don Vincenzo Musso, fondatore della Sic-Unitas nel 1909, a ribadire come le immagini proiettate rispondono alla «necessità di far fronte con mezzi moderni ai moderni bisogni»143. L’attività dell’Unitas, nonostante gli intenti, non riesce però a procedere regolarmente e nel corso del decennio dimostra sofferenza soprattutto per le spese e per gli errori di gestione, fallendo definitivamente già nel 1920. «Carenza di capitali, basi industriali inesistenti, dirigenti inadeguati, strategie avventuriste o utopistiche: quasi tutti i difetti del cinema italiano, non solo degli anni del muto, si possono rintracciare nelle amare vicende dei pochi anni di vita della SIC-Unitas»144.
L’entusiasmo per la produzione di filmine non contagia soltanto le due grandi diocesi del Nord. Accanto alle realtà di Brescia e di Torino, infatti, vanno ricordate almeno la romana Opera dei trattamenti per l’istruzione ed educazione morale del popolo e il Comitato cattolico italiano fondato a Venezia.
A partire dagli anni Venti, gli ordini religiosi ricorrono al cinema per facilitare il loro inserimento nelle varie realtà missionarie in cui operano. Infatti «la necessità di comunicare con le popolazioni indigene, delle quali spesso non si conosce la lingua, né gli usi e i costumi, al fine di portare a termine l’obiettivo principale della missione, ossia la loro conversione, elegge il linguaggio cinematografico a primo canale comunicativo»145. Inizialmente, i missionari ricorrono a lanterne magiche, diapositive, proiezioni luminose, filmati realizzati da case di produzione europee; rapidamente si avviano però alla produzione di opere più conformi alle proprie esigenze e al loro stile di vita nella missione. In Italia, tra i primi ordini a confrontarsi con il cinema si annoverano i Cappuccini, nel 1922, con la realizzazione de L’Italia in Eritrea e l’opera delle Missioni dei padri Ferdinando da Manerbio e Mauro da Leonessa, un’opera di circa sei ore che presenta il momento dell’impresa coloniale in Eritrea. Successivamente, altri due ordini si addentrano nel terreno cinematografico, i Salesiani di Torino e i Saveriani di Parma: «la lungimiranza [di questi] due Ordini sta nell’aver compreso le potenzialità del cinematografo ai fini della propaganda religiosa e nell’aver tracciato le coordinate di un canale produttivo e distributivo alternativo, ma non in opposizione, al cinema istituzionale»146.
I missionari, infatti, propongono le loro proiezioni oltre che nel circuito di distribuzione ufficiale, anche nelle sale parrocchiali, nei congressi missionari, e persino nelle piazze:
«Quattro missionari, addetti alla propaganda delle Pontificie Opere Missionarie, con quattro macchinette portatili da proiezione hanno girato in largo e in lungo l’Italia, in città esigenti e raffinate e in paesi che ancora non sapevano che cosa fosse il cinematografo. Nelle sale parrocchiali, negli oratori festivi, nei circoli cattolici, negli istituti e nei collegi di educazione religiosa, nei dopolavoro e, quando non si trovano capaci ambienti, all’aperto, nei cortili, nelle piazze nei giardini pubblici, e sulle aie, vicino ai casolari e ai giovenchi, quattro missionari proiettavano e predicavano»147.
Oltre ai Cappuccini, ai Salesiani e ai Saveriani, anche l’ordine dei Servi di Maria, i Missionari del Pime e i Comboniani si dedicheranno alla produzione cinematografica, che si caratterizza soprattutto per uno stile documentaristico, con finalità didattiche e propagandistiche, anche se non sono mancati film di finzione, in cui il missionario ricopre un ruolo di protagonista eroico della vicenda.
Il film di finzione di più antica data è Fiamme (1929) del saveriano Mario Frassineti. La storia, di ambientazione western, racconta la vicenda di un missionario, padre Franco, che cerca di diffondere il messaggio cristiano tra gli indiani d’America. «La concezione della pellicola […] è tutta americana senza però essere un’americanata, perché tra gli inseguimenti a cavallo, le imboscate, le praterie, i costoni rocciosi, gli scontri bellicosi, vi alita la fede con dolci immagini religiose»148.
L’opera è certamente interessante sotto il profilo contenutistico, anche se caratterizzata da evidenti limiti stilistici e di linguaggio.
«Padre Mario Frassineti […] un giorno prese in mano una antidiluviana macchina da presa, la voltò e la rivoltò per vedere com’era fatta: poi raccolse intorno a sé alcuni giovani studenti, ed a ciascuno disse: “tu farai questo e tu farai quest’altro”. Poi si procurò alcune cosucce necessarie alla messa in scena, scelse il panorama che meglio gli confaceva (gli esterni) si fece prestare due o tre cavalli e… Signori, si gira! Incominciò e finì un film che non ha proprio nulla della tecnica moderna, che ci ricorda gli spettacoli di quindici o venti anni fa, ma che strappa gli applausi, in piena proiezione, alle folle semplici e buone per cui fu creato»149.
Con la nascita del Centro cattolico cinematografico nel 1935, affioravano i primi tentativi di produzione cattolica. Dopo due corti e un mediometraggio, sul finire degli anni Trenta, il Centro avvia la produzione del primo film – una biografia di papa Pio XII, Pastor Angelicus (1942) – diretto da Romolo Marcellini con la supervisione di Luis Trenker, su soggetto di Luigi Gedda, presidente dell’Azione cattolica e alla guida del Centro cattolico cinematografico.
L’opera riscuote, per vari motivi, uno scarso successo. Anzitutto, non trova il sostegno della distribuzione nelle sale. Inoltre, non viene recensita sui giornali. E non da ultimo: è ritenuta ‘scomoda’ dal regime fascista, per le esternazioni di Pio XII contro la guerra. Infatti, mentre incombe la disfatta, papa Pacelli nel Radiomessaggio per il Natale del 1942 profila i lineamenti di un ‘ordine’ sociale e civile del dopoguerra che contrasta in modo tanto evidente con l’‘ordine nuovo’ «annunciato dalla propaganda di regime che il Ministero della Cultura Popolare impartisce alla stampa la direttiva di minimizzarlo sia relegandolo in spazi marginali senza titoli vistosi sia vietando di pubblicare alcun commento»150.
Nel progetto di una sfera di produzione cattolica, le figure di riferimento sono Luigi Gedda e Diego Fabbri, segretario generale del Centro. «Finora», dichiara Gedda,
«ci siamo limitati a condannare, sconsigliare, tagliare le pellicole che non rispondevano ai nostri principi. Talvolta siamo anche riusciti ad influenzare in bene produttori e registi, ma forse soltanto perché dietro la nostra critica essi scorgevano la massa degli spettatori rimasti ancora fedeli ai dieci comandamenti ed il numero rispettabile d’istituti, collegi, oratori dove non mancano sale di proiezione. Se abbiamo ottenuto qualche magra soddisfazione è sovente perché la pellicola ad essere “visibile per tutti” non perdeva affatto il suo valore cosiddetto commerciale. Ma il cinema come vero, grande mezzo d’apostolato non sarà realizzato se non quando disporremo di una nostra produzione»151.
Gedda e Fabbri costituiscono una società di produzione cinematografica per la realizzazione di film, trovando il favore di intellettuali, artisti e professionisti del cinema, quali Turi Vasile, Remo Branca, Carlo Musso, ma anche personaggi estranei al loro ambiente come Cesare Zavattini o Mario Soldati.
Nel 1944 il Centro cattolico cinematografico favorisce inizialmente la nascita della casa di produzione Orbis film152, che in pieno clima di tensione per la guerra avvia la produzione (studiatamente lenta, così da coprire i precettati e i ricercati) della pellicola La porta del cielo, diretta da Vittorio De Sica153. Il film, sceneggiato da Zavattini, viene ultimato alla fine della guerra, ma non ottiene il successo sperato. Le spese esorbitanti portarono la Orbis «alla paralisi e poi alla chiusura, ma [in questo processo] ebbero forse anche qualche [incidenza] le perplessità dei dirigenti sul modo con cui le ambizioni di partenza si erano scontrate con le difficoltà e le necessità della pratica realizzativa»154.
Alla fine della guerra, quasi contestualmente all’Orbis film, Gedda e Fabbri, insieme allo scenografo Salvo D’Angelo e all’allora direttore de «L’Osservatore romano» Giuseppe Dalla Torre, avviano un nuovo progetto di produzione cinematografica, con la società Universalia film, che non coinvolge più direttamente il Centro cattolico cinematografico, esposto a eccessive spese con il fallimento della Orbis.
Delle produzioni della Universalia film vanno ricordate soprattutto il dispendioso progetto di Alessandro Blasetti155 Fabiola (1948) e il sostegno alla produzione de La terra trema (1948) di Luchino Visconti, che comporterà non pochi problemi alla Universalia, accusata di sostenere iniziative comuniste156. Il film, pensato inizialmente come il primo episodio di un trittico di documentari di propaganda per il Partito comunista italiano, divenne un film spettacolare, ispirato a I Malavoglia di Giovanni Verga e prodotto per le insegne di Universalia. Questo particolare ha indotto a ritenere che fosse possibile rintracciare nella storia della produzione del film un riconoscimento condiviso del valore artistico della pellicola, tale che per garantirne la realizzazione si sarebbe raggiunto un accordo fra cattolici e comunisti, le due principali e contrapposte realtà ideologiche italiane del 1948. La realtà storica rivela una diversa evoluzione, più legata all’intuizione di singole figure, come quella del produttore Salvo D’Angelo, che decide di finanziare, stornando un consistente capitale dal budget di Fabiola di Blasetti, la realizzazione di una delle pellicole più rilevanti del periodo, opera di un regista dichiaratamente vicino al Pci.
Nonostante gli slanci, soprattutto legati alle intuizioni di Salvo D’Angelo, il destino dell’Universalia film fallirà alle soglie degli anni Cinquanta, così com’era già avvenuto alla Orbis, decretando la fine di un impegno diretto dei cattolici in ambito produttivo cinematografico. Ciò non significa che manchi «la produzione di film direttamente religiosi e agiografici e di documentari catechistici»157.
Le politiche culturali dei cattolici in Italia trovano un momento importante nella vicenda della società San Paolo, espressione diretta dell’interesse e della presenza nel settore cinematografico della Pia società San Paolo.
Precedente importante della San Paolo è la Romana editrice film (Ref), che produce nel 1939, e cioè nel periodo del fascismo coloniale, Abuna Messias, opera diretta da Goffredo Alessandrini su soggetto del sacerdote Vittorino Calisto Vanzin: un film che rappresenta le imprese di un missionario in Etiopia a fine Ottocento. L’opera, che verrà fatta rientrare nella politica di propaganda fascista, vincerà sempre nello stesso anno alla Mostra del cinema di Venezia la Coppa Mussolini per il miglior film italiano.
La società Ref subisce un importante contraccolpo produttivo nel contesto del secondo conflitto mondiale e viene rilanciata nell’immediato dopoguerra da don Emilio Cordero. Si dedica anzitutto alla distribuzione nelle sale parrocchiali di film in formato ridotto, il 16 millimetri, che negli anni Trenta è ritenuto il formato ideale per un cinema educativo e didattico. Addirittura la «Rivista del cinematografo» inaugura la rubrica Passo ridotto e annuncia che il 16 mm è «il cinema delle università, delle scuole, degli sperimentatori, degli autodidatti, […] delle organizzazioni giovanili, è il cinema ambulante della propaganda capillare»158. Il formato ridotto sarà impiegato nel dopoguerra soprattutto dagli esercenti cattolici e in particolare dalla Ref.
Nel 1947 la Ref si confronta nuovamente con la produzione di due film, Inquietudine di Vittorio Carpignano e Il piccolo ribelle diretto da don Cordero e Luigi Lazzarini. La società viene però chiusa e sostituita dalla Parva film, diretta dal 1947 da don Giacomo Alberione e da Igino Visco. La Parva prosegue lungo il cammino della precedente società, tra il sostegno al passo ridotto e la produzione di film come Mater Dei, diretto sempre da don Emilio Cordero.
Nel 1952 ha luogo l’avvicendamento tra la Parva e la San Paolo, casa di produzione costituita da Cordero e di diretta emanazione della Pia società San Paolo. La San Paolo adotta la stessa linea della Parva e sviluppa soprattutto la produzione di film catechistici. Essa tenta altresì la via dei cinegiornali specializzati con notizie dal mondo cattolico.
«Tutte queste esperienze furono probabilmente preziose per la [San Paolo], che poté così mettere a punto un minimo di strutture organizzative e produttive, sufficienti a consentirle poi di effettuare nuove incursioni nel mediometraggio semi-documentario verso la fine degli anni Cinquanta […] e nel cinema spettacolare a lungometraggio negli anni Sessanta, con il ciclo dei film ispirati alla Bibbia e girati da Marcello Baldi»159.
Negli anni Sessanta, la San Paolo si dimostra interessata principalmente alle opere di rilevanza artistica in 16 mm, come l’intera filmografia di Ingmar Bergman (il primo film, Il posto delle fragole del 1957, viene introdotto nel catalogo della società nel 1965), le opere di Robert Bresson, di Ermanno Olmi, alcuni film di Jean-Luc Godard, di Federico Fellini, di François Truffaut o di Liliana Cavani. In particolare, Galileo (1968) della Cavani, presentato al Festival di Venezia nel 1968 e accolto da polemiche al punto da indurre la Rai a non trasmetterlo, viene distribuito, soprattutto nelle scuole, dalla San Paolo film.
Negli anni Ottanta la San Paolo film viene sostituita dalla San Paolo audiovisivi. Il 16 mm viene progressivamente abbandonato e la società si indirizza verso l’emergente settore dell’home video con tre collane dell’attività: il grande cinema, l’educational per la scuola e l’educational religioso. Viene avviato, inoltre, sempre negli anni Ottanta, anche il progetto di ‘videocatechismo’, pensato come aggiornamento della produzione sperimentata in precedenza con il formato 16 mm.
Gli studi in Italia sul rapporto tra Bibbia e riscritture audiovisive e, più nello specifico, sul rapporto tra il cinema e la storia e le storie sulla storia di Gesù sono oggetto delle più recenti ricerche dei film studies160. I soggetti relativi alla storia del cinema vanno dalle riprese delle sacre rappresentazioni popolari, alla prime Passio dei fratelli Lumière, dalle produzioni storiche con Christus di Antamoro, alla stagione dei kolossal biblici hollywoodiani, dallo sguardo per sottrazione di Pasolini, al voyeurismo di Gibson, attraversando i momenti di transizione dei fenomeni sociali con Jesus Christ Superstar. La vocazione affabulatoria costitutiva del cinema ha reso possibile e fecondo l’incontro con la storia biblica.
La storia del cinema, dunque, consegna allo spettatore italiano opere di vera e propria traduzione o meglio ‘trasmutazione’ del racconto biblico – ricorrendo anche alle acquisizioni teoriche di Roman Jakobson161 – fatta di selezione e ampliamento, di risonanze segrete di alcuni momenti narrativi.
L’approccio storico al cinema biblico permette di ricomprendere alcuni passaggi linguistici della stessa storia del cinema che hanno coinciso con alcune opere di rifigurazione o della storia biblica o della vicenda di Gesù (nell’industria del cinema hollywoodiano, ad esempio, il formato cinemascope o l’uso del technicolor vengono inaugurati proprio con i kolossal biblico-cristologici)162.
Pochi mesi dopo la data che segna l’inizio ufficiale e convenzionale del cinema, abbiamo le prime Passioni. Se nel 1897 i fratelli Lumière arricchiscono il loro iniziale repertorio con Vues représentant le vie et la passion de Jésus Christ, opera che, seppur riferita esplicitamente alla sacra rappresentazione maggiormente conosciuta e nota dell’epoca, non ha una vera e propria vocazione documentarista, poiché si tratta della ripresa di una sua messa in scena, a fare da contraltare è Le Christ marchant sur les eaux di George Méliès (1898), nel quale il genio del regista sta nella capacità di dispiegare le componenti miracolistiche del testo biblico.
Le due anime, che possiamo forse un po’ semplicisticamente riferire all’atteggiamento referenzialistico del cinema e a quello di ricostruzione fantasiosa che fa leva sul proprio potenziale tecnico-fantastico di costruzione del mondo saranno polarità che accompagneranno tutta la storia del cinema.
Dopo le iniziali Passioni dei Lumiére e di Méliès, i primi lungometraggi sono La vita e la Passione di Gesù Cristo di Ferdinand Zecca (1902-1907), costituito da una ventina di episodi, ispirati anche a quadri famosi (come L’ultima cena di Leonardo da Vinci) e il famosissimo Christus (1916) di Giulio Antamoro: due antesignani dei successivi kolossal hollywoodiani163. La stampa di settore dell’epoca della Grande guerra accoglie in maniera patriottica il film di Antamoro:
«Dall’estero ci sono venuti drammi più o meno psicopatici, ci sono venuti Fantomas e Rocambole […]. Ma quando abbiamo fatto da noi, seguendo il nostro temperamento e le nostre aspirazioni, abbiamo lanciato un Quo Vadis, una Cabiria, un Christus. […] Così adesso le pagine eterne del Vangelo si animano e narrano con la voce dei secoli la vicenda divina. Abbiamo fatto, dunque, un’arte tutta italiana. Possiamo dire, ancora, di aver realizzato il nazionalismo dell’arte»164.
Al contrario la rivista «La Civiltà cattolica» sottolinea le distanze tra la religione della patria e la fede cristiana165, tradisce smarrimento per la trasposizione del testo biblico nel testo cinematografico:
«Il Christus passa come una delle migliori cinematografie sacre, ma a torto. Può essere tollerabile, perché, in genere, conserva il dovuto rispetto ai sacri personaggi, ma è molto lontana dalla perfezione che le attribuisce il grosso pubblico. Eppure si sarebbe potuta avvicinare alla perfezione, se gli impresari avessero avuto tanto solo di buon senso da chiamare alla direzione, almeno per un consiglio, un dotto della scienza biblica»166.
L’incontro tra Hollywood e il testo sacro avviene a partire degli anni Venti ma raggiunge il suo massimo splendore negli anni Sessanta, una lunga stagione di alcuni decenni in cui il genere biblico-cristologico diviene uno dei principali dell’industria hollywoodiana volentieri importata dalla distribuzione italiana. Ricordiamo anzitutto I dieci comandamenti (The Ten Commandments), nelle due versioni del 1923 e del 1956, entrambe dirette da Cecil B. De Mille, autore anche dell’agiografico e violento Il re dei re (The King of Kings, 1927). Da menzionare poi il magniloquente La tunica (The Robe, 1953) di Henry Koster, che segna il debutto del formato cinemascope, oppure il pluripremiato Ben Hur (Ben-Hur: A Tale of the Christ, 1959) di William Wyler, sino a La più grande storia mai raccontata (The Greatest Story Ever Told, 1965) di George Stevens, potente affresco popolare, spesso però incline ad accartocciarsi in una bolsa iconografia da santino.
Le storie della Bibbia e le vicende di Gesù sono occasioni di richiamo per il pubblico americano e internazionale, ma soprattutto costituiscono opportunità per dispiegare le imponenti scenografie e gli stupefacenti effetti speciali. «Il leitmotiv di questa produzione hollywoodiana risiede nella sterilizzazione della figura di Gesù, privata dei suoi aspetti più disturbanti e scomodi e relegata negli angusti steccati di una morale asettica»167.
In ambito italiano, l’approccio alla vita di Gesù è declinato da differenti registi seguendo le proprie inclinazioni poetico-ideologiche. Anzitutto la visione di Pier Paolo Pasolini, che si accosta alla croce con uno sguardo ‘per sottrazione’, rinunciando a spettacolarità e suggestioni per aderire interamente alle sole parole de Il Vangelo secondo Matteo. Già con La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G (1963), l’autore friulano marca la propria distanza dal biopic hollywoodiano. Condannato per tale film dallo Stato italiano per vilipendio alla religione, Pasolini ritorna sull’argomento l’anno successivo firmando il più bel film tratto dai Vangeli ovvero Il Vangelo secondo Matteo. Spogliato Cristo dai guanti di velluto con cui l’hanno dipinto i precedenti registi, Pasolini recupera lo scandalo e la bellezza del messaggio evangelico contestualizzandolo in Basilicata, tra gli sguardi trasparenti di attori non professionisti. Alternando diverse modalità espressive (macchina a mano e rimandi ‘alti’ alla pittura quattrocentesca), il cineasta profana consapevolmente la tradizione cinematografica della vita di Cristo ripulendola dagli abbellimenti edificanti e sfrondandola dall’iconografia devozionistica168.
Al contrario, Il Messia (1975) di Roberto Rossellini costruisce un film dichiaratamente didattico, che risente dello stile televisivo tipico dell’ultima fase della sua carriera, in cui la fedeltà letterale ai Vangeli diviene fallimentare assemblaggio di santini.
I medesimi limiti drammaturgici sono riscontrabili anche in Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, un collage cinematografico – costruito a partire da uno sceneggiato televisivo – in cui si respira una densa oleografia: un film estetizzante colmo di rimandi pittorici e teatrali. Produzione europea di stampo hollywoodiano ricca di sontuose scenografie, preziosi costumi e star internazionali, in cui Zeffirelli realizza una colta e serena macchina spettacolare che riunisce in un forzato abbraccio ecumenico i consulenti delle diverse religioni chiamati alla supervisione della sceneggiatura.
La maestosità dell’opera di Zeffirelli sembra esaurire le possibilità del cinema di affrontare con sguardo omnicomprensivo le vicende del Vangelo, nel momento in cui gli altri testi della Bibbia, dopo l’abbondante e suggestiva produzione hollywoodiana, non sembrano convincere più alcun produttore e regista.
Il tema Gesù continua ad attrarre il pubblico italiano degli anni Settanta anche nelle forme più originali e provocatorie: Jesus Christ Superstar (1973) di Norman Jewison, che accoglie i fermenti anticonformisti e pacifisti della cultura hippy. Si segnala, ancora, Brian di Nazareth (Life of Brian, 1979), di Terry Jones, un irriverente attacco alle istituzioni in cui i Monty Python sfogano la propria ferocia iconoclasta.
Non mancano, poi, negli anni Ottanta, trascrizioni tormentate nel cinema contemporaneo: da Martin Scorsese che nel 1988 con L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ) realizza un Cristo atipico, lontano sia dai cliché devozionistici che dagli afflati rivoluzionari, riversandovi la propria tradizione religiosa italo-americana e l’incessante interrogarsi sul destino, a Jésus de Montréal (1989) di Denys Arcand, in cui l’opzione allegorica gioca sul discrimine tra realtà quotidiana contemporanea e racconto evangelico (in primis il Vangelo di Marco).
Tra i registi italiani, dopo Zeffirelli si passa a Cercasi Gesù (1982) di Luigi Comencini, film che si muove in bilico tra cronaca e invenzione, a L’inchiesta (1986) di Damiano Damiani, inquietante film girato dal punto di vista dell’estraneo alla vicenda di Gesù, a I magi randagi (1996) di Sergio Citti (già collaboratore di Pier Paolo Pasolini).
Gli anni Novanta offrono poche ma interessanti riflessioni, ‘ri-figurazioni’ della vita di Cristo, come I giardini dell’Eden di Alessandro D’Alatri (1998) ricostruzione degli ‘anni oscuri’ di Gesù (dai dodici ai trent’anni) in precario equilibrio tra ancoraggio storico e ventate immaginifiche; Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco (1998), in cui il Salvatore – ridotto a Totò – è inserito in uno scenario post-apocalittico e il grotesque accoglie con angoscia le forme di un delirio pervasivo.
Nel nuovo secolo trovano ascolto in Italia: Nativity (The Nativity Story, 2006) di Catherine Hardwicke, Mary Mother of Christ di James Foley e Let it be di Guido Chiesa nel 2010 e soprattutto La Passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2004) di Mel Gibson169, che narra la conclusione (le ultime dodici ore) della vicenda di Gesù, nel quale si riconoscono una pietà barocca e venature antisemite che infiammano la discussione.
1 E. Mosconi, Un potente maestro per le folle. Chiesa e mondo cattolico di fronte al cinema, in Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, I, Dalle origini agli anni Venti, Roma 2006, pp. 145-171; cfr. in partic. pp. 145-146.
2 G.P. Brunetta, Divismo, misticismo e spettacolo della politica, in Storia del cinema mondiale, a cura di Id., I, L’Europa. Miti, luoghi, divi, Torino 1999, p. 552.
3 E. Mosconi, Un potente maestro per le folle, cit., p. 146.
4 Cfr. T. Gunning, Cinema of Attractions, Early Film, its Spectator and Avant-Garde, «Wide Angle», 8, 1986, 3-4, pp. 63-70; Early Cinema. Space, Frame, Narrative, a cura di A. Barker, T. Elsaesser, London 1990, pp. 56-62.
5 Cfr. N. Burch, Life to those Shadows, Berkeley-Los Angeles 1990, (trad. it. Il lucernario dell’infinito, Milano 2001).
6 Decretum circa actiones scenicas in ecclesiis, 10 dicembre 1912, AAS, 23 4, 1912, 724, cfr. anche in D.E. Viganò, Chiesa e cinema. I documenti del magistero, Cantalupa 2002, pp. 219-220.
7 F. Casetti, S. Alovisio, Il contributo della Chiesa alla modernizzazione degli spazi pubblici, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 97-127, in partic. pp. 99-100.
8 R. Costetti, Il metodo intuitivo nell’insegnamento religioso, «Luce et Verbo», 3, 25-26, giugno-luglio 1911, p. 273.
9 F. Casetti, S. Alovisio, Il contributo della Chiesa alla modernizzazione, cit., pp. 119-120.
10 Decreto del cardinal Pietro Respighi, 15 luglio 1909, AAS, 1, 1909, pp. 600-601; cfr. A. Bernardini, Cinema muto italiano. Industria e organizzazione dello spettacolo 1905-1909, II, Roma-Bari 1981, pp. 201-202.
11 Decretum circa actiones scenicas in ecclesiis, 10 dicembre 1912, in AAS, 23 4, 1912, p. 724; cfr. in D.E. Viganò, Chiesa e cinema, cit., pp. 219-220. Accanto a fattori di natura socio-urbanistica, probabilmente proprio il venir meno di spazi ‘naturali’ per la proiezione dei film religiosi e catechistici ha avviato il processo di trasformazione delle piccole sale teatrali delle parrocchie in cinematografi ovvero la costruzione di vere e proprie sale del cinema che cresceranno fino a diventare, nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, circa la metà degli schermi presenti sul territorio nazionale.
12 Voci dell’arte e della scienza contro il cinematografo, «La Civiltà cattolica», 1601, 1, 3 marzo 1971, p. 589.
13 Ibidem.
14 Il cinematografo, «Il Romagnolo», 27 maggio 1916; cfr. F. Gabici, Ravenna: cento anni di cinema, Ravenna 1995, pp. 126-127.
15 A. Gemelli, Le cause psicologiche dell’interesse nelle proiezioni cinematografiche. Il fondamento scientifico per la riforma del cinematografo, «Vita e Pensiero», aprile 1926, pp. 205-215.
16 A. Gemelli, Les causes psychologiques de l’intérêt des projections cinématographiques, «Journal de Psychologie normale et pathologique», 25, 1928, 6-7, pp. 596-906.
17 A. Bellavita, M. Locatelli, Padre Agostino Gemelli e la psicologia della percezione, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 197-207, in partic. p. 198.
18 Cfr. G.P. Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” a “Ossessione”, Roma-Bari 2009; V. Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Venezia 2005.
19 Pio XI, Lettera enciclica Divini illius magistri, 31 dicembre 1929, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 41-42.
20 Ibidem.
21 Pio XI, Lettera enciclica Vigilanti cura, 29 giugno 1936.
22 R. De Berti, Dalla Vigilanti cura al film ideale, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit.,II, p. 79.
23 Cfr. G. Convents, I cattolici e il cinema, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale, V, Teoria, strumenti, memorie, Torino 2001, pp. 485-517; D. Bordwell, K. Thompson, Film History: An Introduction, New York 1994, (trad. it. Storia del cinema e dei film. Dalle origini a oggi, Milano 1998, pp. 307-308).
24 Pio XI, Lettera enciclica Vigilanti, Cinema e Chiesa, cit., pp. 51-63, in partic. pp. 51-54.
25 R. De Berti, Dalla Vigilanti, cit., p. 80.
26 «Il menzionato ufficio curerà inoltre l’organizzazione dei cinema esistenti presso le parrocchie o in sedi di associazioni cattoliche, in modo da assicurare a queste sale dei film opportunamente riveduti. Mediante l’organizzazione poi di tali sale, che per l’industria rappresentano spesso dei buoni clienti, si potrà esigere che la stessa industria produca film corrispondenti pienamente ai nostri principi, i quali saranno poi facilmente proiettati non soltanto nelle sale cattoliche ma anche nelle altre. […] L’efficacia, infatti, delle nostre scuole, delle nostre associazioni cattoliche ed anche delle nostre chiese viene menomata e messa in pericolo dalla piaga dei film cattivi e perniciosi. L’ufficio deve essere costituito da membri che tanto siano competenti in ciò che riguarda il cinema quanto radicati nei principi della moralità e della dottrina cristiana; essi dovranno, inoltre, avere la guida e l’assistenza diretta di un sacerdote scelto dai vescovi». Pio XI, Lettera enciclica Vigilanti cura, 29 giugno 1936, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 61-62.
27 R. De Berti, Dalla Vigilanti, cit., p. 81.
28 Cfr. G. Convents, I cattolici e il cinema, cit., p. 492.
29 A questo proposito vedi il saggio di Federico Ruozzi in quest’opera.
30 D.E. Viganò, Pio XII e il cinema, in Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, Roma 2009, pp. 876-881, in partic. p. 876; cfr. D.E. Viganò, Il cinema di Pio XII, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 209-221.
31 R. De Berti, Dalla Vigilanti, cit., p. 96.
32 Il primo discorso è del 21 giugno 1955 e si tiene nella basilica di San Pietro davanti ai rappresentanti dell’industria cinematografica italiana, mentre il secondo discorso è rivolto, il 28 ottobre 1955, all’assemblea dell’Unione internazionale degli esercenti di cinema e della Federazione internazionale dei distributori di film, nell’Aula delle Benedizioni in Vaticano.
33 Cfr. R. Eugeni, Il film ideale in relazione alla comunità, in Pio XII e il cinema, a cura di D.E. Viganò, Roma 2005, pp. 91-101.
34 M. Arosio, Cinema, comunicazione sociale e Magistero ecclesiastico, in M. Arosio, G. Cereda, F. Iseppi, Cinema e cattolici in Italia, Milano 1974, pp. 36-37. A fronte dell’apertura e della sistematicità dei due Discorsi, va segnalato un intervento che pare contradditorio e per il quale si rimanda al saggio di Federico Ruozzi in quest’opera (Pio XII, Esortazione apostolica I rapidi progressi. Agli em.mi o ecc.mi vescovi d’Italia in occasione del primo giorno di Trasmissioni della televisione italiana, 1 gennaio 1954, AAS, 46, 1954, pp. 18-24).
35 P. Scoppola, Dal fascismo alla democrazia, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 11-54; P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Bologna 1997.
36 M. Sorice, Lo specchio magico. Linguaggi, formati, generi, pubblici della televisione italiana, Roma 2002, p. 31. Cfr. A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano 2004; E. Menduni, Linguaggi della radio e della televisione, Roma-Bari 2008; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia 2006; P. Ortoleva, Mediastoria. Mezzi di comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Milano 2002.
37 D.E. Viganò, La Chiesa nel tempo dei media, Roma 2008, p. 18.
38 Giovanni XXIII, Lettera apostolica Boni Pastoris, 22 febbraio 1959.
39 A. Giovagnoli, Cattolici e società italiana dal 1968 ad oggi, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., III, pp. 11-34, in partic. p. 13.
40 Cfr. G. Alberigo, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna 2005; G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Roma 1977; D.E. Viganò, Teologia della comunicazione, in Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, cit., pp. 859-868.
41 G. Alberigo, La nuova fisionomia del concilio, in Storia del concilio Vaticano II, III, Il concilio adulto. Il secondo periodo e la seconda intersessione: settembre 1963 – settembre 1964, diretta da G. Alberigo, Bologna 1998, p. 523.
42 Cfr. E. Baragli, Comunicazione, comunione e Chiesa, Roma 1973.
43 Decreto conciliare Inter mirifica, 23, Enchiridion Vaticanum, 1, 23, p. 115.
44 Paolo VI, Lettera apostolica “motu proprio” In fructibus multis, 2 aprile 1964, in D.E. Viganò, Chiesa e cinema, cit., p. 131.
45 Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, Istruzione pastorale Communio et Progressio, 23 marzo 1971.
46 Ibidem.
47 G. Bettetini, Chiesa cattolica e cinema. Dal Sessantotto a oggi, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., III, p. 73.
48 G. Bacchiega, La Filmoteca Vaticana, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., III, pp. 183-192, in partic. p. 185.
49 Rinominata lo stesso anno Pontificia commissione per la cinematografia didattica e religiosa, poi ancora nel 1952 Pontificia commissione per la cinematografia, la Commissione prende dunque la fisionomia di organo di studio, fornita di un Collegio di esperti di diverse nazionalità e composta da prelati superiori dei dicasteri romani. Successivamente diviene Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione e il Collegio degli esperti viene organizzato in tre sezioni: cinema, radio e televisione. Uno dei compiti è quello di elaborare materiale per gli interventi del pontefice tra cui, ad esempio, i Discorsi sul film ideale (21 giugno e 28 ottobre 1955) e la lettera enciclica Miranda prorsus (1957). La Commissione diviene referente per le attività internazionali organizzate dall’Ocic e dell’Unda. È Giovanni XXIII, con la lettera apostolica Boni pastoris (1959), a rendere la Pontificia commissione un ufficio stabile della Santa Sede e a istituire la Filmoteca vaticana, affidandola alla direzione della stessa Pontificia commissione. Un cambiamento di prospettiva si ha con Paolo VI e la lettera apostolica In fructibus multis (1964) che trasforma la Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione in Pontificia commissione per le comunicazioni sociali, con competenze in campo cinematografico, radiofonico, televisivo e della stampa periodica e quotidiana, per quanto concerne gli interessi della religione cattolica. Tra i primi compiti della nuova commissione post-conciliare ci sarà appunto la redazione dell’istruzione pastorale Communio et progressio (1971). Con Giovanni Paolo II, a seguito della promulgazione della costituzione apostolica Pastor bonus, la Pontificia commissione per le comunicazioni sociali diventa dal 1° marzo 1989 Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali.
50 Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor bonus, 28 giugno 1988.
51 Giovanni XXIII, Lettera apostolica “motu proprio” Boni pastoris, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 112-115, in partic. p. 115. Il patrimonio della Filmoteca negli anni Duemila, a cinquant’anni dalla sua istituzione, conta circa settemila titoli, comprendenti filmati storici sui pontefici e sull’attività della Chiesa, film di particolare rilievo artistico e tematico, documentari di attualità. Accanto alla conservazione di documenti preziosi come le prime immagini di Leone XIII, la Filmoteca ha avviato interessanti progetti di collaborazione con la Cineteca nazionale del Centro sperimentale di cinematografia e con altri soggetti anche privati per il recupero e il restauro di alcuni film, come L’Inferno (1911) di Giuseppe Berardi e Arturo Busnengo o Mater Dei (1951), film realizzato nel formato 16 mm da don Emilio Cordero, prima produzione spettacolare a colori (con sistema Anscolor).
52 Giovanni XXIII, Istituzione della Filmoteca vaticana, 16 novembre 1959, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 119-120, in partic. p. 119.
53 Cinema e religione. Ricerca sui film attinenti alla religione nella storia internazionale del cinema, I, a cura di A. Bernardini, Città del Vaticano 2000, p. 1.
54 Cfr. Hollywood sul Tevere. Anatomia di un fenomeno, a cura di S. Della Casa, D.E. Viganò, Milano 2010.
55 D.E. Viganò, Sale della comunità, in Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, cit., pp. 975-981, in partic. p. 975.
56 G. Botticelli, Verifica di carattere associativo in prospettiva pastorale, in La Sala della Comunità, una dimensione nuova, inserto in «Il Nostro cinema», 6, 12, dicembre 1968, p. 3.
57 D.E. Viganò, Sale della comunità, in Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, cit., pp. 975-981, in partic. p. 977.
58 A. Bonetti, Sala della Comunità e dinamica sociale, «Il Nostro cinema», 20, 12, dicembre 1982, p. 1.
59 Commissione episcopale per le comunicazioni sociali, Nota pastorale Finalità e organizzazione delle sale cinematografiche dipendenti dall’autorità ecclesiastica, 9 gennaio 1982, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 344-350.
60 P.C. Rivoltella, Quale metodologia per il cineforum, in Le sale della comunità: un talento da investire, a cura di D.E. Viganò, Milano 1998, p. 86.
61 Giovanni Paolo II, Discorso al IV Congresso Nazionale dell’ACEC, 24 maggio 1984, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 166-170.
62 Commissione episcopale per le comunicazioni sociali, Nota pastorale La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale, 25 marzo 1999, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 367-388.
63 Ibidem, p. 368.
64 G. Bettetini, Chiesa Cattolica e cinema, cit., p. 81.
65 Cfr. D.E. Viganò, Un cinema ogni campanile. Chiesa e cinema nella diocesi di Milano, Milano 1997.
66 E. Mosconi, Un potente maestro per le folle, cit., p. 158.
67 Cfr. M. Muscolino, La “Rivista del Cinematografo” dalla nascita al 1968, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 181-196.
68 D.E. Viganò, Un cinema ogni campanile, cit., p. 23.
69 G.P. Brunetta, Storia del cinema, cit., p. 59; cfr. A. Bernardini, Cinema muto italiano 1910-1914, III, Roma-Bari 1980-1982, pp. 211 segg.; La censura cinematografica. Idee, esperienze, documenti, a cura di E.G. Laura, Roma 1961.
70 L’opera dei cattolici per il cinematografo, «Rivista del cinematografo», 8, 1928, p. 119.
71 S. Alovisio, Un’arma di apostolato. Dalle origini alla fine degli anni Venti, in Nero su bianco. Le politiche per il cinema negli ottant’anni della “Rivista del Cinematografo”, a cura di E. Mosconi, Roma 2008, pp. 17-32, in partic. p. 23.
72 «Rassegna del teatro e del cinematografo», 1, gennaio 1927, pp. 11-12.
73 S. Alovisio, Un’arma di apostolato, cit., p. 24.
74 A. Friedemann, La SIC-Unitas e il bollettino “Luce et Verbo”, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 189-214, in partic. p. 199.
75 Il bollettino, «Arte-Luce-Parola. Bollettino trimestrale dell’Opera delle Proiezioni Luminose», 1, gennaio 1924.
76 D. Toschi, Pedagogie intermediali: “Arte-Luce-Parola”, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 235-250, in partic. p. 241.
77 S. Alovisio, Un’arma di apostolato, cit., p. 17.
78 Cfr. T. Subini, Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Torino 2009.
79 G. Convents, I cattolici e il cinema, cit.
80 A. Ruszkowsky, Malintesi sul premio cattolico, «Rivista del cinematografo», 9-10, 1964, pp. 439-440.
81 L. Castellani, Una scelta impegnata ma un panorama troppo esiguo, «Rivista del cinematografo», 9-10, 1964, p. 430.
82 Ibidem, pp. 433-434.
83 Sulla proiezione sono emerse delle versioni discordanti. Il produttore Alfredo Bini parla di una sua iniziativa, mentre Pasolini considera l’evento come l’espressione di un movimento frondista. Monsignor Loris Capovilla, Segretario di Giovanni XXIII, smentisce entrambe le affermazioni: «Ricordo perfettamente come durante il Concilio venne dato pubblicamente l’annuncio che ci sarebbe stata una proiezione de Il Vangelo secondo Matteo riservata ai Padri. Fu una proiezione ufficiale, non certo fatta alla chetichella. Credo che sia stata la Segreteria del Concilio, d’intesa con l’Ufficio Cattolico internazionale del cinema, a prendere l’iniziativa. Nessun’aria di fronda: tutt’altro»; L. Capovilla, Un ciak benedetto, a cura di S.M. Paci, «30Giorni», 12, dicembre 1994, p. 73; cfr. T. Subini, La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro, Roma 2008.
84 M. Muscolino, Il cinema che è nel mondo, cit., pp. 109-136, in partic. p. 116.
85 Cfr. T. Subini, La necessità di morire, cit.
86 Cfr. L. Castellani, Calligrafia e psicologia del giovane cinema cecoslovacco, «Rivista del cinematografo», 3, 1966, pp. 182-184; E.G. Laura, Vecchi e nuovi motivi nel cinema d’oltre cortina, «Rivista del cinematografo», 6-7, 1963, pp. 260-267.
87 M. Muscolino, Il cinema che è nel mondo, cit., p. 117; cfr. L. Miccichè, Una generazione senza monumenti nel nuovo cinema cecoslovacco, «Bianco e Nero», 9, 1965; G. Buttafava, Il giovane cinema sovietico, «Bianco e Nero», 11, 1966. Per un approfondimento sul tema della critica cinematografica all’inizio degli anni Sessanta cfr. L. Pellizzari, Le nuove forme tra critica e ideologia, in Storia del cinema italiano, a cura di G. De Vincenti, 10, 1960/1964, Venezia-Roma 2001, pp. 551-567.
88 D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana, Bologna 2007, p. 22.
89 «Nell’arco di pochissimi anni, tra il 1965-66 e l’inizio del decennio successivo, la concezione nazionale della decenza, se così si può dire, subì uno smottamento clamoroso: fino alla metà degli anni Sessanta il nostro era rimasto in termini di morale sessuale e di perseguimento dell’osceno uno dei più restrittivi dei paesi industrializzati; cinque anni dopo era diventato uno dei più permissivi dell’intero pianeta, almeno dal punto di vista della circolazione di stampa e di film esplicitamente erotici», P. Ortoleva, Mediastoria, cit., p. 136; cfr. Id., Il secolo dei media. Miti, abitudini, mitologie, Milano 2009.
90 T. Subini, Il caso de “La dolce vita”, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 239-255, in partic. p. 239.
91 Cfr. V. Fantuzzi, L’atteggiamento della Chiesa nei confronti della “Dolce vita”, in Fellini. Mezzo secolo di Dolce vita, a cura di V. Boarini, T. Kezich, Bologna 2009, pp. 97-102; Cfr. T. Subini, L’arcivescovo di Milano e “La dolce vita”, «Bianco e Nero», in corso di pubblicazione 2010.
92 N. Taddei, La dolce vita, «Letture», 15, 3, marzo1960, p. 210.
93 La lettera è pubblicata in A. Scurani, ‘Magna procella’ in San Fedele, «Terra ambrosiana», 36, 2, marzo-aprile 1995, p. 67.
94 Cfr. T. Subini, L’arcivescovo di Milano, cit.
95 V. Fantuzzi, L’atteggiamento della Chiesa, cit., p. 101.
96 Centro cattolico cinematografico, Teorema, «Segnalazioni cinematografiche», 35, 65, 300, Roma 1968, p. 68; “Negativo e pericoloso” il film di Pasolini, «L’Osservatore romano», 14 settembre 1968, p. 6.
97 T. Subini, La necessità di morire, cit., pp. 88-89.
98 Discorso di Paolo VI, Amare la Chiesa: il dovere dell’ora presente, «L’Osservatore romano», 19 settembre 1968, p. 1.
99 Cit. in I. Moscati, Pasolini e il teorema del sesso, Milano 1995, p. 172.
100 Cit. in Ibidem, p. 181.
101 P. Fossati, L’associazionismo cattolico (associazioni, esercenti, cineforum), in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 317-328, in partic. p. 319.
102 Il Centro cattolico cinematografico rileverà la «Rivista del cinematografo», mantenendo don Canziani alla guida della testata.
103 G.P. Brunetta, Storia del cinema, I, cit., p. 59.
104 La «Rivista del cinematografo» diviene l’organo ufficiale del Segretariato Centrale per il Cinema, «Rivista del cinematografo», 4, 1935, pp. 103-104.
105 Cfr. Centro cattolico cinematografico, Guida Cinematografica. Diecimila film dal 1934 ad oggi, Roma 1963, p. V.
106 E.G. Laura, Il Centro Cattolico Cinematografico, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 149-164, in partic. p. 156.
107 Cfr. A. Bernardini, Un cinema “cattolico”?, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp. 287-301; E. Flaiano, La porta del cielo, in Benedetta Celluloide! L’esperienza Orbis-Universalia negli anni del Neorealismo, «Ciemme. Ricerca e informazione sulla comunicazione di massa», 138-139, settembre 2002, pp.74-75, testo tratto da E. Flaiano, Lettere d’amore al cinema, Milano 1978; F. Marchiori, Paolini e De Sica: un incontro sulla “Porta del cielo”, in Benedetta Celluloide!, cit., pp. 76-78.
108 E.G. Laura, Il Centro Cattolico Cinematografico, cit., p. 164.
109 L. Cipriani, Prefazione a S. Mantelli, Dalla sala parrocchiale alla Sala della Comunità. L’ACEC tra memoria e futuro, Milano 1999, p. 5.
110 Ibidem.
111 Commissione episcopale per le comunicazioni sociali, Nota pastorale. Finalità e organizzazione delle sale cinematografiche dipendenti dall’autorità ecclesiastica, 9 gennaio 1982, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 344-350; Commissione episcopale per le comunicazioni sociali, Nota pastorale. La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale, 25 marzo 1999, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 367-388.
112 P. Fossati, L’associazionismo cattolico, cit., p. 324.
113 R. De Berti, Dalla Vigilanti, cit., p. 92.
114 D.E. Viganò, Un cinema ogni campanile, cit., p. 116.
115 Ibidem.
116 G. Bettetini, Chiesa cattolica e cinema, cit., 84.
117 Cfr. I 25 anni del cineforum di Como. Colloqui con don Giuseppe Fossati, a cura di F. Colombo, D. Giunco, Como 1979.
118 Pio XII, Lettera enciclica Miranda prorsus, 8 settembre 1957, AAS, 49, 1957, pp. 765 segg.
119 Giovanni XXIII, Lettera Nostra patris, 29 giugno 1961, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp.121-124.
120 Paolo VI, Discorso, 27 agosto 1969, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., p. 143.
121 Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXIX Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Cinema, veicolo di cultura e proposta di valori, 28 maggio 1995, in D.E. Viganò, Cinema e Chiesa, cit., pp. 187-193.
122 Cfr. Bianco e Nero. Gli anni del cinema di parrocchia, a cura di G. Gori, S. Pivato, Rimini 1981.
123 P. Fossati, L’associazionismo cattolico, cit., p. 323.
124 Cfr. E.G. Laura, Le iniziative dei cattolici, in Cento anni di Biennale e di cinema: la presenza della Chiesa, a cura di A. Piersanti, Roma 1996, pp. 77-89.
125 R. De Berti, Dalla Vigilanti, cit., p. 94.
126 E. Mosconi, Un potente maestro per le folle, cit., p. 168.
127 Cfr. Nero su bianco, a cura di E. Mosconi, cit., Roma 2008.
128 G.P. Brunetta, Storia del cinema, cit., p. 121.
129 Secondo la formula di Pio XI, pronunciata l’11 agosto 1934, durante il discorso ai rappresentanti della Federazione internazionale della stampa cinematografica e ripresa nella lettera enciclica Vigilanti cura.
130 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Roma 1982, p. 538.
131 G. Andreotti, Secondo tempo, «Rivista del cinematografo», 6-7, 1956, p. 7.
132 M. Fanchi, Non censurare ma educare! L’esercizio cinematografico cattolico e il suo progetto culturale e sociale, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., II, pp.103-113, in partic. p. 107.
133 Ibidem, p. 107.
134 «Eco degli oratori», 2 gennaio 1910, p. 3.
135 Fondazione ente dello spettacolo, Rapporto. Il mercato e l’industria del cinema in Italia 2008, Roma 2009, p. 69.
136 Cfr. M.F. Piredda, Film & mission. Per una storia del cinema missionario, Roma 2005.
137 Cfr. Catalogo storico, Editrice La Scuola: 1904-2004, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 2004; L. Spinoni, L’attività di Angelo Zammarchi per la presenza religiosa nella scuola, Roma 1981; E. Zambelli, Angelo Zammarchi, Brescia 1963.
138 A. Zammarchi, Mezzi moderni d’istruzione, «Scuola Italiana Moderna», 13, 18 gennaio 1908, p. 101.
139 C. Reami, La pratica pastorale e la produzione di diapositive: Angelo Zammarchi e l’editrice La Scuola, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 215-233, in partic. p. 227.
140 Ibidem.
141 «Si dibatteva sulla necessità di rivoluzionare l’insegnamento della religione disponendo di un testo unico, di facile comprensione, e di un metodo e programmi fissi che tenessero conto dell’età dei destinatari. Zammarchi in questa occasione presentò il nuovo testo catechistico La morale cristiana. 30 lezioni per la classe IV elementare»; Ibidem, pp. 231-232.
142 F. Casetti, S. Alovisio, Il contributo della Chiesa alla modernizzazione, cit., p. 106.
143 V. Musso, O. Pantalini, Il programma della Unitas, «Luce et Verbo», 1, gennaio 1909, p. 5.
144 A. Friedemann, La SIC-Unitas, cit., p. 189.
145 M.F. Piredda, Film & mission, cit., p. 89.
146 M.F. Piredda, Il cinema missionario, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 329-340, in partic. p. 331.
147 E.U. Gramazio, Cinematografia missionaria, «L’Osservatore romano», 16 febbraio 1936, p. 6.
148 Ibidem; Cfr. M.F. Piredda, Film & mission, cit.; Id., Il cinema missionario. Il caso di “Fiamme”, Il metodo e la passione. Cinema amatoriale e film di famiglia in Italia, a cura di L. Farinotti, E. Mosconi, «Comunicazioni Sociali», 3, 2005.
149 Il cinematografo per la propaganda missionaria, «Rivista del cinematografo», 10, 1930, pp. 213-214.
150 E.G. Laura, Il Centro Cattolico Cinematografico, cit., p. 158.
151 L. Gedda, Pensiamoci, «Rivista del cinematografo», 12, 1941, p. 161.
152 Cfr. Benedetta Celluloide!, cit.
153 E. Flaiano, La porta del cielo, cit.; F. Marchiori, Paolini e De Sica: un incontro sulla “Porta del cielo”, cit., pp. 76-78.
154 A. Bernanrdini, Un cinema “cattolico”?, cit., p. 293.
155 A. Blasetti, Fabiola. Perché?, in Benedetta Celluloide!, cit., pp. 132-133, tratto dal testo «Strenna dei Romanisti», Roma 1949, pp. 196-199.
156 Cfr. R. Semprebene, La terra trema. Prove tecniche del compromesso storico? Rapporti tra cinema e politica nel secondo dopoguerra, Cantalupa 2009.
157 A. Bernardini, Un cinema “cattolico”?, cit., pp. 298-299.
158 A.S.M., Il passo ridotto, «Rivista del cinematografo», 3, 1942, p. 31.
159 A. Bernardini, Un cinema “cattolico”?, cit., pp. 298-299.
160 Cfr. Cinema e religioni, a cura di S. Botta, E. Prinzivalli, Roma 2010; D.E. Viganó, Cinema cristologico e riscritture audiovisive. Il problema delle traduzioni intersemiotiche, in Il volto e gli sguardi. Bibbia letteratura cinema, a cura di S. Isetta, Bologna 2010, pp. 21-31.
161 R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris 1963, (trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano 1966, 20022).
162 Per i saggi di carattere storico, cfr. G. Bertagna, Il volto di Gesù nel cinema, Bologna 2005; M. Bongioanni, La figura di Cristo nel cinema dalle origini ad oggi, Torino 1978; A. Cappabianca, Il cinema e il sacro, Genova 1998; L. Castellani, Temi e figure del film religioso, Torino 1994; E.G. Laura, Gesù nel cinema, Roma 1997; P. Dalla Torre, C. Siniscalchi, Cristo. Un canone cinematografico, Roma 2004; V. Marotta, Gesù nel cinema, Bari 2006; R. Romeo, Il Vangelo secondo il cinema, Siracusa 1995; N. Scavo, Un uomo chiamato Gesù, Roma 2001; D.E. Viganò, Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, cit.
163 L. Zanzottera, Iconografia cristologica nel cinema muto, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, cit., I, pp. 251-266, in partic. p. 255.
164 Kebaran, Il nazionalismo nell’arte: “Christus”, «La Cine-Fono e la Rivista Fono-Cinematografica», 337, 11-25 novembre 1916, pp. 91-92.
165 E. Mosconi, Un potente maestro per le folle, cit., p. 163.
166 Appunti teatrali e cinematografici, «La Civiltà cattolica», 17 agosto 1918, 1636, III, p. 344.
167 D.E. Viganò, Gesù e la macchina da presa, cit., p. 14.
168 Moltissimi sono i riferimenti bibliografici a Pasolini e al Vangelo secondo Matteo. Sottolineo alcune delle ultime opere particolarmente significative: Corpus pasolini, a cura di A. Canadè, Cosenza 2008; S. Parigi, Pier Paolo Pasolini. Accattone, Torino 2008; G. Pozzetto, «Lo cerco dappertutto». Cristo nei film di Pasolini, Milano 2007; T. Subini, La necessità di morire, cit.; Id., Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Torino 2009.
169 Cfr. La Passione secondo Mel Gibson, Milano 2004; D.E. Viganò, Una devotio postmoderna? The Passion di Mel Gibson, «La Rivista del Clero», 4, 2004.