Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In opposizione sia al tardo manierismo che al naturalismo di Caravaggio e dei suoi seguaci, si afferma a Roma all’inizio del secolo una corrente artistica di dichiarato orientamento classicista. Numi tutelari: l’Annibale Carracci del periodo romano, Raffaello e la statuaria antica; modelli ispiratori e insieme normativi di una concezione tutta ideale della pittura, alla quale offrono un contributo teorico fondamentale scrittori d’arte come Giovan Battista Agucchi e Giovan Pietro Bellori. Molti – si pensi a Guido Reni – gli artisti di vaglia schierati in favore dell’ideale classico, la cui più alta e compiuta espressione è da riconoscere nell’opera di uno straniero di stanza a Roma, Nicolas Poussin, autentico peintre-philosophe, capace di elevare anche il genere nuovo del paesaggio al rango della pittura di storia. Forte a Roma per tutto il secolo, l’indirizzo classicista si afferma in Francia dagli anni Trenta in poi come corrente dominante, sorretta dal potere e legittimata dall’istituzione, a metà secolo, dell’Académie Royale des Beaux-Arts. Tale indirizzo è infine egemone anche in Inghilterra, ma quasi solo in campo architettonico.
L’eredità di Annibale Carracci e i bolognesi a Roma
All’aprirsi del Seicento, molti giovani artisti giungono a Roma dall’Emilia, attratti dalla presenza di Annibale Carracci e dai suoi successi. Sono loro i primi a raccogliere l’immensa eredità lasciata dallo sfortunato artista con le opere della stagione romana, che divengono subito il sacro testo di un nuovo credo. Gli affreschi della Galleria Farnese, quelli con Storie di san Giacomo (Cappella Herrera) nella chiesa degli Spagnoli e una serie di dipinti mobili, per lo più a soggetto sacro, si ergono a modello di una nuova misura classica, alternativa al vuoto decorativismo degli ultimi manieristi come al radicale naturalismo di Caravaggio e dei suoi. Alla base, un originale recupero della norma sublime di Raffaello e la scoperta della statuaria antica, letta però in chiave intensamente poetica, evocativa, sensuale. Tutto ciò, comprese le precedenti esperienze naturalistiche mai rinnegate, contribuisce alla messa a punto da parte di Annibale di una lingua ideale, chiara e razionale, perfettamente idonea alla raffigurazione di soggetti illustri. Se sulla volta farnesiana essa esprime il vagheggiamento nostalgico di un’età felice, nei dipinti sacri, vedi il Domine quo vadis oggi a Londra (National Gallery), quella lingua è condotta a un’estrema concisione di mezzi, dall’alto significato morale e intellettuale, col tempo sempre più spinta: un vero paradigma dal lungo destino, come attestano le Tre Marie, anch’esse a Londra. Mentre la natura, corretta dalla ragione, si fa – nella Fuga in Egitto per gli Aldobrandini (Roma, Galleria Doria Pamphilj) – luogo ideale, accogliente e rassicurante, proiezione di un mito, insieme storico e letterario.
Fra gli allievi diretti, alcuni raggiungono il successo, ma nessuno si dimostra veramente all’altezza di quel lascito. Con Francesco Albani, educatosi presso Ludovico a Bologna e poi fervente ammiratore di Annibale a Roma, l’ideale classico volge in idillio, già quasi arcadico, negli apprezzatissimi dipinti a soggetto mitologico o allegorico, come la serie con Gli Elementi per Maurizio di Savoia. Non meno apprezzata, soprattutto in patria, la sua produzione chiesastica, grazie alla nobile compostezza del gesto e degli affetti, moderatamente idealizzati, e alla fattura liscia e accurata, che non sempre evita la routine e il cliché.
Più complessa e interessante la personalità di Domenico Zampieri, detto Domenichino. Con la Flagellazione di sant’Andrea del 1609 (Roma, Oratorio di Sant’Andrea al Celio), la sua presa di posizione appare netta. La limpidezza di dettato e l’ambientazione rigorosamente all’antica sono già un programma, perfezionato negli affreschi con Storie di san Nilo (1611) a Grottaferrata, dove brilla un’incantevole nuova purezza di eloquio, scandito e chiaro. Con le Storie di santa Cecilia, affrescate poco dopo in San Luigi dei Francesi, forse il suo capolavoro, egli ci consegna un modello di pittura di storia che piacerà anche a Poussin: rigore stilistico, ordine razionale, soppesate suggestioni naturalistiche e poetica degli affetti vi convivono in perfetto equilibrio. A ciò si aggiunge la verosimiglianza storica espressa nella descrizione, quasi archeologica, di architetture e suppellettili antiche: aspetto rilevante –come si vedrà –nella concezione classicistadella pittura, ribadito dai teorici e portato in seguito alle più rigorose conseguenze, appunto, da Poussin. Nella Comunione di san Gerolamo (Pinacoteca Vaticana), discusso tributo al precedente modello di Agostino Carracci, la stessa miscela è applicata con mirabile compiutezza al dipinto d’altare. Col tempo il linguaggio di Domenichino si fa vieppiù gonfio e monumentale, ma sempre sorretto da una qualità esecutiva impeccabile. Fin dall’inizio, alle abilità di frescante si affiancano quelle di pittore da cavalletto. Se la concezione dell’ut pictura poesis conduce al traguardo statuino, e volutamente artificioso, della Caccia di Diana per i Borghese (Roma, Galleria Borghese), le sue doti si apprezzano al meglio nelle celebri Sibille dalle carni eburnee ma fiorenti. Il colore, ostinatamente locale nei dipinti di figura, vibra e respira, viceversa, nei molti, bellissimi paesaggi a figure piccole, genere al quale, sul fronte ovviamente classicista, Domenichino offre un tributo fondamentale.
Risplende invece di luce propria l’astro originalissimo di Guido Reni, tra i protagonisti assoluti della pittura seicentesca. Più volte a Roma nei primi due decenni del secolo, Guido si tiene a distanza da Annibale per accostarsi inizialmente a Caravaggio. Vivissimo nelle prime opere il richiamo esercitato dagli esempi calamitanti del pittore lombardo, di cui il giovane artista accoglie però solo il drammatico luminismo: la realtà svelata dalla luce è infatti, nel suo caso, purgata da ogni bruttura. La fase caravaggesca dura poco, e già il Sant’Andrea condotto al martirio, affrescato dirimpetto alla Flagellazione di Domenichino nel medesimo oratorio, segna una svolta decisa verso l’ideale. Forme elette e metrica solenne snodano il racconto col ritmo lento di una melopea. Di lì a poco, nel 1611, un dipinto esemplare fissa la sua poetica con la trasparenza di un diamante. È la Strage degli innocenti (Bologna, Pinacoteca Nazionale), che risolve l’episodio cruento in algido teorema di gesti e di pose, affidando l’azione, tutta in primissimo piano, a poche figure di scultorea e sublimata bellezza, il cui rimando all’antico non ha nulla di archeologico. A sottolineare il perfetto incastro delle forme, la luce fredda e nitida e l’uso splendente del colore locale. Cresce così il favore dei committenti che col tempo diverrà una vera idolatria. Nel 1614 un altro capolavoro, la celebre Aurora dipinta a fresco sulla volta bianca del casino Borghese (poi Rospigliosi): un fregio attico, dai ritmi sciolti, soffiato nel vetro, il più glittico dei soffitti seicenteschi. Un simile linguaggio parrebbe il più funzionale alla raffigurazione del mito antico. L’incanto diAtalanta e Ippomene, oggi a Napoli (Museo di Capodimonte), arabesco di carni incorrotte, azione sospesa in un silente tempo multiplo, lo dimostra. Ma quel capolavoro rivela anche un’altra componente essenziale nella poetica di Guido: la sensualità, filtrata, trattenuta, eppure palpabile, che anima ogni sua figura. Una sensualità tanto più viva sottopelle quanto più distillata appare la forma, e che si riversa per intero nel tema sacro, più che mai caro a Guido, sortendo esiti inconfondibili. Dal 1620 la componente intellettuale prende il sopravvento senza elidere l’altra, quella sensuale. La tavolozza si schiarisce su gamme argentee, la veste pittorica si fa vieppiù sensibile, la luce acquista iridescenze di perla. Ne risultano immagini – si pensi ai celebri Crocefissi diModena e di Roma o al Paliotto della Peste (Bologna, Pinacoteca Nazionale) – di estrema rarefazione, volte all’esaltazione di contenuti devoti. È il Guido paradisiaco, “divino”, celebrato dalla letteratura d’arte e dagli intenditori di mezza Europa. Ed è proprio alla luce di questi risultati che si può intendere il suo come una sorta di “classicismo cattolico”, i cui riflessi si misurano lungo tutto il secolo, sebbene nessuno si riveli in grado di eguagliarlo. E le cui fortune scavalcheranno di parecchio i limiti del Seicento, fornendo alla sensibilità religiosa ottocentesca una formula pronta per l’uso.
Teoria e pratica, i cultori di “anticaglie”, la polemica coi barocchi
L’intreccio fra riflessione teorica e pratica dell’arte è una caratteristica saliente della correnteclassicista. Se all’inizio del secolo un contributo alla formulazione dell’ideale classico in pittura giunge dagli scritti di un colto dilettante come monsignor Giovan Battista Agucchi, segretario del cardinale Aldobrandini e appassionato protettore dei bolognesi a Roma, non meno rilevante, in seguito, è l’impulso offerto in tal senso da amatori e collezionisti di “anticaglie”, ovvero di reperti archeologici di ogni tipo (statue, rilievi, oggetti d’uso). Fra costoro spiccano Cassiano Dal Pozzo e Francesco Angeloni, promotori di una sorta di ricognizione inventariale delle antichità romane, realizzata per mezzo di disegni eseguiti da giovani artisti, desiderosi di far fortuna e insieme sinceramente interessati allo studio delle vestigia romane. Tra i frequentatori di tali circoli eruditi si contano, oltre al giovane Poussinappena giunto dalla Francia, anche artisti come Bernini e Pietro da Cortona, dediti in gioventù alla pratica disegnativa dall’antico ma protagonisti, nel corso del terzo decennio del secolo, di una nuova tendenza – quella barocca – di fatto anticlassica, esuberante e aperta alle più audaci sperimentazioni. Negli anni 1634-1638, ai fautori dell’una e dell’altra corrente è offerta l’opportunità di confrontarsi presso l’Accademia di San Luca a Roma nella controversia teorica che oppone a Pietro da Cortona Andrea Sacchi, pittore classicista sostenuto da nomi di spicco, come Poussin e gli scultori Alessandro Algardi e François Duquesnoy. Materia del contendere: la pittura di storia, che i classicisti reputano di loro esclusivo appannaggio poiché solo nell’osservanza dell’ordine, della chiarezza, della semplicità compositiva essa può, a loro avviso, realizzarsi. Tuttavia, fra il terzo e il quarto decennio del secolo, il discrimine tra classicismo, non più monopolio bolognese, e barocco appare meno netto che in seguito. Il fascino esercitato dai Baccanali di Tiziano, allora in collezione Aldobrandini a Roma, elemento fondamentale nella genesi del barocco, investe anche il giovane Poussin, che ricopre le forme ideali del suo linguaggio classicista, cresciuto sullo studio della statuaria antica, di una splendente veste cromatica, nei dipinti profani come in quelli sacri: vedi il Martirio di sant’Erasmo (Roma, Pinacoteca Vaticana), dipinto per un altare di San Pietro in Vaticano. Il soffitto col Trionfo della divina Sapienza affrescato da Sacchi in palazzo Barberini oppone al travolgente caos del soffitto contiguo e coevo di Pietro da Cortona col Trionfo della divina Provvidenza, una composizione più limpida e semplificata, limitata a poche figure, ma partecipe di un’analoga concezione dello spazio, fluido e aperto.
Sviluppi del classicismo a Roma
Nel periodo di egemonia barocca a Roma e in alternativa a essa, la tendenza classicista si mostra in grado di attrarre artisti di diversa estrazione e diversi trascorsi. Un esempio è il veronese Alessandro Turchi, come dimostra la sua Morte di Cleopatra del 1640 (Parigi, Louvre). La cultura classicista segna del resto profondamente l’intera produzione tarda di un artista come Guercino; o in maniera meno rigorosa quella di Giovan Francesco Romanelli, allievo di Pietro da Cortona poi passato inFrancia; per lambire infine anche l’opera di personaggi eterodossi come Pier Francesco Mola e Pietro Testa. Di stampo ancora bolognese e non senza contaminazioni barocche appare il classicismo decorativo che impronta le solenni composizioni di Giacinto Gimignani e di Andrea Camassei. Solitaria e austera prosegue intanto la meditazione classicista di Poussin, sorta di “rifugiato culturale” aRoma, la cui produzione, tutta e soltanto “da stanza”, è destinata a un colto giro di committenti privati, in prevalenza francesi; mentre un altro francese trapiantato aRoma, Claude Lorrain, domina il campo nel genere specifico del paesaggio ideale, che con lui si fa idillio atmosferico, riscuotendo un immenso successo presso la committenza più altolocata.
Una vera sistemazione teorica dell’ideale classico giunge oltre la metà del secolo con gli scritti di Giovan Pietro Bellori, che riconosce in Annibale Carracci il padre del classicismo moderno e postula in maniera definitiva la superiorità morale ed estetica del classicismo rispetto all’arte barocca, da un lato, e alla pittura dei Bamboccianti, dall’altro. Interprete principale di questo clima, che coinvolge anche la grande decorazione, fino ad allora incontrastato feudo barocco, è Carlo Maratta. Grazie a lui la norma classicista stabilisce entro la fine del Seicento la propria supremazia sulla scena romana. Lontano dal rigore ascetico ad alta valenza morale del classicismo di Poussin, il suo stile appare come il frutto di un nobile ed elegante compromesso, di grande respiro decorativo, già orientato verso una concezione accademica dell’arte. Da lui infatti, e dai numerosi allievi, molti di rango, discenderà la gran parte del Settecento romano in pittura.
Il classicismo in Francia
Con l’eccezione dei fratelli Le Nain, dediti a soggetti popolari, e dell’episodio affatto particolare di Georges de La Tour, la pittura francese del Seicento, dagli anni Trenta in poi, è tutta di orientamento classicista. Come lo è l’architettura: l’esito sfortunato del soggiorno di Bernini a Parigi risulta in tal senso paradigmatico. La concezione centralizzata e assolutista del potere, affermata con crescente determinazione dalla monarchia francese nell’arco del XVII secolo, trova nelclassicismo, che fonda le sue aspirazioni universali sul culto dell’antichità e del Rinascimento italiano, dell’ordine e della clarté razionale, il modello rappresentativo più idoneo e lo strumento più efficace di autocelebrazione. Il legame fra potere e produzione artistica è sancito dall’istituzione a Parigi, nel 1648, dell’Académie Royale des Beaux-Arts, patrocinata dal sovrano stesso. A essa seguirà, sempre sotto il patronato reale, quella dell’Accademia di Francia a Roma, capitale europea delle arti e tappa fondamentale nell’itinerario formativo di ogni artista seicentesco. Tappa che per i Francesi diventa istituzionale, quasi una sorta di servizio di leva, per tre secoli a venire. Col rientro in patria nel 1627 di Simon Vouet, reduce da un lungo soggiorno romano che lo aveva posto in contatto con la corrente caravaggesca, si inaugura a Parigi una felice stagione artistica, nota come “première école de Paris”, improntata a un classicismo luminoso ed elegante, dal seducente effettodecorativo. A fianco di Vouet, in qualità di collaboratore, si pone intorno al 1631 François Perrier, anch’egli di ritorno da Roma, dove si era formato presso Lanfranco. Forte è in entrambi la componente italiana. Ritmi fluidi, stesura cremosa, tonalità brillanti, unite ancora a qualche ricordo del chiaroscuro caravaggesco, connotano la pittura diVouet (Crocifissione, Lyon, Musée des Beaux-Arts), sempre esuberante nel gesto e ariosa nella composizione, anche dove più insistita si fa l’idealizzazione della forma e più preziosa la tavolozza (Toletta di Venere, Pittsburgh, Museum of Art). Più libero e spigliato è invece il classicismo di Perrier, che tornerà una seconda volta in Italia verso il 1640; classicismo intessuto di memorie bolognesi (Polifemo e Galatea, Parigi, Louvre) ma anche sensibile talvolta, sul piano compositivo e in termini un po’ esteriori, al rigore antichizzante di Poussin (Olindo e Sofronia, Reims, Musée Saint-Denis). Il breve soggiorno parigino di quest’ultimo nel 1640 non compromette il ruolo egemone ricoperto nella capitale da Vouet, dalla cui bottega passeranno tutti i più importanti artisti francesi del tempo, fino a Charles Le Brun. La schiera di pittori di talento che, con caratteristiche originali, operano a Parigi entro la prima metà del secolo è assai nutrita. Tanto che lo stile parigino si rivela in grado di influenzare persino un italiano di matrice barocca come Romanelli: con gli affreschi della Galleria Mazarino (oggi Bibliothèque Nationale) del 1645-1647 e quelli, successivi, dell’appartamento di Anna d’Austria al Louvre, egli importa a Parigi la grande decorazione romana, ma classicizzandola secondo il gusto francese.
Dalla bottega di Vouet esce Eustache Le Sueur, dalla breve ma intensa carriera. Il suo classicismo, all’inizio sensuale, esuberante come quello del maestro, pur nel rispetto di una raffinata idealizzazione (Gli dei del mare rendono omaggio ad Amore, Los Angeles, Getty Museum), si fa in seguito sempre più rarefatto e controllato, fino ai limiti di un’algida, severa astrazione (Annunciazione, Parigi, Louvre). In parte analogo a quello di Vouetè il percorso di Laurent de La Hyre, che si forma in ambiente tardomanierista, per convertirsi poi al classicismo della “première école de Paris”. La grazia colorata e la liquidità di stesura delle prime opere (Ciro e Araspe, Chicago, The Art Institute) lasciano il posto, a metà secolo, a un linguaggio epurato e intellettuale da cui discendono immagini di levigata esattezza, impaginate con eleganza fredda e geometrica, come l’Allegoria della musica del 1649 (New York, Metropolitan Museum): è forse lui l’interprete più eloquente del cosiddetto “atticismo parigino” degli anni Quaranta e Cinquanta. Assai prossimo a quello di Poussin è poi il classicismo archeologizzante di Jacques Stella, artista di successo, protetto dal cardinale Richelieu. Bagnate da una luce fredda, quasi astratta, le sue composizioni, affollate ma ordinatissime, trovano posto entro scenari architettonici all’antica, costruiti con estremo rigore prospettico. Scenari solenni che nelle opere di Jean Le Maire, specialista del genere, diventano protagonisti, combinando fabbriche di fantasia con le più celebri e riconoscibili rovine romane. La rappresentazione delle quali fa invece da quinta ad aperture paesistiche di rarefatta e luminosa bellezza, tutta ideale, alla Claude, nei raffinati paesaggi con rovine di Pierre Patel, sostenuti da una qualità impeccabile.
Un posto a parte, nel panorama pittorico del Grand Siècle, è occupato dal belga naturalizzato francese Philippe de Champaigne, forse, dopo Poussin, l’artista di più alta levatura morale e intellettuale del Seicento in Francia. Ritrattista alla moda da sempre celebrato (famosi i suoi ritratti del cardinale Richelieu), è anche pittore sacro di profondo impegno morale, legatissimo (né ciò, dato il suo enorme credito, gli procurerà mai alcun problema col potere) al circolo diPort-Royal e ai giansenisti, della cui austera religiosità può essere considerato il più perfetto interprete. Frutto di una ferrea disciplina interiore è infatti il suo classicismo, privo di connotazioni archeologiche o antichizzanti, che si esprime in forme di spoglia e serena monumentalità. A esse conferisce un’evidenza perentoria, a tratti iperrealistica e fuori del tempo (come nel Mosé oggi a Milwaukee), l’estrema finitezza delle superfici, quasi da primitivo fiammingo, retaggio delle sue origini nordiche. Da queste deriva anche l’attenzione al dettaglio che tuttavia non va mai a scalfire la potente integrità dell’insieme. A paradigma della sua arte, per l’equilibrio perfetto fra monumentalità di visione, suprema diligenza esecutiva e profondità interiore, si pone il Ritratto di Omer II Talon (1649), insigne giurista del Grand Siècle e strenuo difensore delle prerogative del parlamento (Washington, National Gallery).
Nel secondo Seicento, l’esponente più autorevole della pittura francese è senz’altro Charles Le Brun, quasi un ministro delle arti in pectore sotto ilregno di Luigi XIV. Uscito dall’atelier diVouet, passato a Roma conPoussin nel 1642, Le Brun conquista nel 1664 il titolo di “primo pittore del re”, divenendo così l’arbitro assoluto della vita artistica francese del suo tempo e l’interprete più consapevole della grandeur cui aspirava l’assolutismo del sovrano. La glorificazione su scala monumentale del potere regio si espleta, con felice riuscita, nei grandiosi cicli a fresco realizzati dall’artista sui soffitti delle residenze reali: al Louvre (Galerie d’Apollon) e a Versailles (Galerie des Glaces, Salons de la Paix et de la Guerre). Fastoso e magniloquente, il classicismodi Le Brun sembra far tesoro di tutte le soluzioni sperimentate in precedenza nel campo della pittura celebrativa, comprese quelle barocche, compiendo quindi un’operazione analoga a quella condotta a Roma dal contemporaneo Maratta. Tant’è che, ad esempio, le sontuose cornici in stucco bianco e oro entro cui alloggiano gli affreschi diVersailles riecheggiano, neutralizzandone però l’esuberanzabarocca, quelle realizzate quarant’anni prima da Pietro da Cortona a Palazzo Pitti. Prolifico disegnatore (tremila i fogli superstiti al Louvre) e abile organizzatore, diresse per lungo tempo l’Académie Royale e, a riprova della vastità di raggio della sua azione culturale, la manifattura reale dei Gobelins. Allievo di Vouet è infine anche il rivale di Le Brun, Pierre Mignard, rientrato in Francia nel 1657 dopo un soggiorno di oltre vent’anni a Roma, fondamentale per le sue scelte future. Pregevole ritrattista (vedi I figli del duca di Bouillon, eseguito a Roma nel 1647, oggi a Honolulu, Academy of Arts), ma anche pittore di storia e grande decoratore, vede affermarsi il suo prestigio solo in tarda età. Della sua attività non resta molto, al di fuori dei quadri da stanza a soggetto sacro, tutti degli anni estremi, cui è affidata essenzialmente la sua fama: dipinti di fattura preziosa, che negli espliciti riferimenti a modelli di Albani e Domenichino rappresentano, in chiusura di secolo, un omaggio conclusivo alle origini bolognesi del classicismo seicentesco.