Il ‘classico’ oggi
Il ritorno dei modelli
Può sembrare paradossale, ma la forza di attrazione dei modelli (archetipi) classici si è consolidata alla svolta tra fine del 20° e inizio del 21° secolo. Chiariamo subito che per ‘classico’ si intende qui la realtà del mondo antico greco e romano nella vasta e contraddittoria gamma dei suoi molti aspetti, non certo una idea aristocratica o estetica di quel mondo. Nel corso del 20° sec., le guerre, le rivoluzioni, la divisione del mondo in due ‘campi’ contrapposti ma ancorati entrambi a visioni e valori fortemente moderni avevano favorito un arretramento dei ‘modelli’ antichi (fatta eccezione per l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista). La reazione ai fascismi e poi la cosiddetta rivoluzione culturale dei tardi anni Sessanta e degli anni Settanta del Novecento avevano inferto un ulteriore colpo. Il declino delle ‘rivoluzioni culturali’ e poi la fine del ‘socialismo reale’ in Europa hanno riportato in primo piano, nella discussione pubblica e nella riflessione, forme di pensiero, concetti e questioni che il ‘moderno’ conflitto novecentesco sembrava aver archiviato.
Non è detto che vi sia dovunque piena consapevolezza di ciò, ma il fatto significativo è che le parole-chiave del mondo antico siano ora tornate centrali. Potremmo indicarne alcune per intenderne il peso: schiavitù, impero, democrazia, costituzione mista, diritto naturale, libertà.
Vediamo più da vicino di che si tratta. Dopo il travolgente processo di decolonizzazione, si riflette con crescente intensità sulle nuove forme di schiavitù, tornate alla ribalta in modo massiccio e visibile. Cade così l’idea che l’asse della modernità ruotasse intorno alla polarità (intuita da Marx per il suo tempo) capitale-lavoro salariato, e si constata che la schiavitù non solo non si era mai estinta ma è tornata a essere una delle più feconde fonti di profitto. Se si volesse azzardare uno scenario complessivo si potrebbe dire che al posto dell’accumulazione capitalistica avente per epicentro la fabbrica è subentrata una modernissima forma di accumulazione ‘primitiva’ (che oggi chiamiamo capitale finanziario e che si riaggancia, in contesto ben più complesso, all’antico modello parassitario del ‘trapezita’). Sull’altro versante, il salariato di fabbrica, ormai una minoranza numerica nelle so-cietà complesse, cede il passo alle altre feroci forme di dipendenza, le quali hanno nella gamma vastissima di ‘servitù’ conosciute e praticate in antico nelle società arcaiche (per es., modello ateniese dello schiavo-merce, modello laconico della dipendenza ilotica ecc.) non solo un significativo ascendente, ma anche un termine di raffronto utile sul piano diagnostico.
Idee in campo
Impero
La nozione di impero è stata anche un campo di battaglia ideologico-politica. Il Novecento avrebbe dovuto essere – e in larga misura fu – l’età della liquidazione degli imperi: con la fine del primo conflitto mondiale erano finiti di colpo, insieme, almeno quattro imperi territoriali (zarista, tedesco, austro-ungarico, ottomano) e la fine del secondo conflitto mondiale aveva visto il progressivo sgretolamento dei due massimi imperi coloniali (inglese e francese), per non parlare di Olanda e Portogallo o della vicenda, in Asia, dell’ascesa e poi caduta del Giappone. Erano in realtà subentrati, e dominarono nella seconda metà del secolo, due imperi ideologici di respiro planetario: quello americano e quello sovietico. L’aspetto paradossale della situazione (effetto della impostazione ideologica del conflitto) era che ciascuno dei due definiva impero quello avversario ma negava per sé e per la propria parte la liceità di tale definizione. La parola stessa si portava dietro una connotazione negativa perché per tutto il Novecento era stata connessa a realtà squalificate e perdenti (ivi compresi, ovviamente, il Terzo Reich e l’Impero fascista). La realtà degli imperi ideologici era sotto gli occhi di tutti, per lo meno degli osservatori meno prevenuti, ma non veniva studiata e compresa come meritava. Un antecedente era ovviamente nell’antica vicenda del 5° sec. a.C. (lo scontro di potenza tra Sparta e Atene).
Con la fine di uno dei due imperi e la vittoria propagandistica dell’altro si è determinata una situazione ancor più paradossale: grazie alla forza che è del vincitore, il quale proprio perché tale può influenzare l’intera macchina intellettuale (dal giornale quotidiano al raffinato saggio scientifico), è diventato senso comune che impero fosse soltanto quello risultato soccombente; per converso è percepito come segno di una certa audace e anticonformistica libertà di giudizio adottare la definizione di impero americano (con tutte le ovvie implicazioni connesse con tale diagnosi). Anche qui un aiuto viene dalla rinnovata adozione di modelli antichi come strumento di comprensione del presente, non come semplici, più o meno gratificanti, analogie. Così ci si interroga, nella politologia americana ed europea, se l’impero americano sia da ‘leggere’ e da intendere con l’ausilio dell’archetipo ateniese o peloponnesiaco o romano. Il fatto poi che sia Sparta nel decennio successivo alla clamorosa vittoria contro l’antagonista, sia Roma dopo l’unificazione politico-militare del Mediterraneo si siano trovate nella condizione di unica grande potenza imperiale accresce l’interesse e la forza della comparazione con il mondo attuale. Tanto più che entrambi quei due imperi ‘unici’ del mondo antico si trovarono ben presto nella consapevolezza di essere solo apparentemente tali, e nella conseguente necessità di scegliere tra due alternative: o continuare a operare come se fossero davvero incontrastati sulla scena mondiale, o invece prendere atto dell’impossibilità e soprattutto dell’infondatezza di una tale presunzione e trarne le conseguenze (autoridimensionamento, ricerca di un nuovo equilibrio di potenza e così via). Che è appunto la situazione dell’odierno impero unico con cui si sono misurati Eric J. Hobsbawm (2007) e Michael Hardt con Antonio Negri (2000). Studio della vicenda antica e suggestioni strategiche per il presente e l’immediato futuro si intrecciano più che mai. Acuti studiosi non professionalmente antichisti avevano già intrapreso alla fine del Novecento questa via diagnostica, si intende limitatamente al quadro e alle conoscenze del tempo (Edward Luttwak scrisse allora, con intenzionale autocitazione, The grand strategy of the Roman empire from the first century A.D. to the third, 1976, trad. it. 1981; The grand strategy of the Soviet Union, 1983, trad. it. 1984). Anche su questo terreno – il ritorno senza più tentennamenti moralistici del concetto di impero – si può notare l’estinzione di un tipo di analisi usuale al tempo degli schieramenti novecenteschi e il bisogno di chiedere aiuto a esperienze apparentemente archiviate per intendere, o cercare di intendere, il nuovo.
Democrazia
Non meno significativo il destino di un’altra parola-chiave che, così come impero/imperium, è presa di peso dalla realtà antica (greca): democrazia/demokratía. Il destino novecentesco di questa parola era stato davvero curioso. Malvista nell’Europa liberale (e ancor più nella parte più autoritaria del continente) fino alla fine del primo conflitto mondiale, essa fece irruzione nell’Europa liberale devastata dalla Grande guerra e dall’imprevista novità della rivoluzione comunista (considerata in potenziale espansione ancora nei primi anni Venti). Così, da bandiera delle ‘opposizioni’ o comunque della parte più avanzata dello schieramento politico, essa diventò l’ancora di salvezza e la parola d’ordine dell’Occidente in posizione di contrasto frontale verso la Russia bolscevica e il (presunto e temuto) contagio rivoluzionario. Così ‘democrazia’ fu promossa a valore positivo e a contraltare di socialismo (o comunismo). Un acuto storico tedesco, attivo negli anni Venti e Trenta prima in Germania e in seguito negli Stati Uniti, Arthur Rosenberg, sollevò reiteratamente la questione: dal suo scritto per le università popolari weimariane (Demokratie und Klassenkampf im Altertum, 1921; trad. it. in L. Canfora, Il comunista senza partito, 1984) a quello pubblicato negli Stati Uniti in pieno New deal (Demokratie und Sozialismus: zur politischen Geschichte der letzten 150 Jahre, 1938; trad. it. Democrazia e socialismo: storia politica degli ultimi centocinquant’anni (1789-1937), 1971). La sua domanda era: perché si è prodotto lo slittamento della nozione di democrazia e la conseguente divaricazione e contrapposizione tra democrazia e socialismo? La fine del socialismo in Europa, culminata nella scomparsa dell’URSS, ha prodotto un effetto non prevedibile: la riappropriazione di ‘democrazia’ come termine di battaglia, non più come vuota icona propagandistica da guerra fredda. Democrazia torna a essere una parola problematica e di combattimento, come nelle sue origini ateniesi quando era perlopiù usata come disvalore da parte dei suoi implacabili critici. Non solo: si torna liberamente a criticarla proprio negli ambienti che l’avevano brandita come bandiera da guerra fredda. Si torna a chiedersi quali siano i necessari correttivi (il neologismo governabilità è spesso adoperato a questo proposito), quali siano i limiti tollerabili, quale il contrasto di fondo con il criterio della competenza (è l’antica critica dei pensatori ateniesi contrari alla democrazia); per non parlare dell’invito a una presa d’atto dell’inevitabilità del principio oligarchico al di sotto della corteccia democratica. Ci riferiamo alla riscoperta anglosassone del sistema ‘misto’: della romana – polibiana – costituzione mista. Si pensi agli studi di Neil MacCormick ovvero al tentativo di James S. Fishkin di collegare l’autoselezione dei cittadini politicizzati tipica della democrazia ateniese con il moderno meccanismo del deliberative polling (sondaggio deliberativo).
Parallelamente torna a vigoreggiare, tra gli studiosi del mondo romano, la tendenza a definire democrazia l’ordinamento costituzionale romano, o per lo meno la sua prassi tardorepubblicana: ordinamento che in-vece a Polibio (libro VI) e al suo emulo-interprete Machiavelli (Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) parve l’esempio perfetto di costituzione mista. La discussione non è nuova se solo si pensa alle diverse posizioni sostenute in proposito da due grandi romanisti quali Francesco De Martino e Antonio Guarino. Ma ultimamente, la visione di Roma repubblicana come democrazia è stata rilanciata da uno storico di spicco quale è Fergus Millar (1998) e, significativamente proprio negli Stati Uniti – dove l’accoglienza fu entusiasta, Historians give Romans better marks in democracy, titolò il «New York Times» del 23 luglio 1999 – cioè nella realtà politica in cui la trasformazione del meccanismo democratico in costituzione mista è più avanzato e consolidato.
Cittadinanza e libertà
Ma la dimensione ormai necessariamente plane-taria di ogni particolare questione ha fatto sì che, mentre si ritornava a viso aperto a parlare della democrazia come di qualcosa da limitarsi, pena il non funzionamento, per altro verso si riaccendeva la domanda cogente dell’estensione massima della democrazia: e ciò attraverso la richiesta di cittadinanza da parte dei nuovi cittadini che dai quattro angoli del pianeta af-fluiscono nel mondo più ricco mettendo in crisi tutti gli schieramenti (destra e sinistra sono allarmate en-trambe). La democrazia cioè ritorna come domanda imperiosa e difficilmente contenibile di cittadinanza: esattamente come nella città antica e nelle comunità statali o sovrastatali di epoca romana. La lotta intorno alla cittadinanza – e le rinnovate forme di esclusione – sono il vero oggetto di scontro pro e contro la democrazia. Ancora una volta il punto di osservazione offerto dall’esperienza di età ‘classica’ torna utile: si interroga – come scrisse una volta Arnold Toynbee (The world and the West, 1953; trad. it. 1956) – ciò che è già stato scritto per riempire (perigliosamente) una pagina di storia ancora bianca. Vista dunque come lotta intorno alla cittadinanza, la democrazia è ancora una volta scomoda, motivo di conflitto, di divisione e di auspicata (o da alcuni deprecata) conquista. Un prodotto instabile, che non ha nulla a che fare con l’icona vuota dei decenni in cui ristagnava il ‘confronto di sistema’. Esattamente come nella complicata realtà greca e romana: anche allora era la gestione della cittadinanza la vera posta in gioco. E ognuno comprende quante implicazioni colleghino, esattamente come nel mondo ‘classico’, la questione democrazia/cittadinanza al tema schiavitù. Fu il pragmatismo romano a porsi la questione della immissione piena nella cittadinanza dell’ex schiavo affrancato. E Clodio – l’aristocratico fattosi tribuno – fu liquidato proprio mentre si accingeva a far varare l’immissione dei liberti (ex schiavi) in tutte le tribù, con conseguenze non lievi nel dosatissimo meccanismo elettorale romano.
Impossibile dedicare lo spazio, che pur sarebbe dovuto, alle vicissitudini di libertas. Poche altre parole sono state così ostinatamente e variamente strumentalizzate. Basti dire che l’esperienza romana, nella cui ottica libertas è sempre la libertà di alcuni, torna oggi più che in passato, di fronte all’inasprirsi dei dislivelli sociali su scala planetaria, all’attenzione degli studiosi.
Fondamenti costituzionali e ‘radici’ europee
Pericle nella Costituzione europea
Non si intende qui seguire minutamente la vicenda del ritorno diagnostico dell’esperienza classica, ma sarà utile fornire almeno un paio di esempi significativi. Essi appartengono a due ambiti tra loro diversi ma, come vedremo, connessi: per un verso, la ‘apoteosi’ della definizione periclea-tucididea di democrazia nel preambolo (poi dismesso) della Costituzione europea (2003) e, per l’altro, la rinnovata (invero mai esauritasi) discussione, da parte di élites colte arabe, intorno alle ‘vere’ responsabilità nella distruzione della Grande Biblioteca di Alessandria. Il terreno che unifica queste due tematiche apparentemente remote è quello delle cosiddette radici dell’Europa, divenuto motivo di scontro in occasione della prima stesura della Costituzione europea.
Il ruolo e lo spazio delle radici classiche nel complessivo ambito delle ‘radici’ ha coinvolto direttamente uno dei testi più controversi del pensiero greco: la definizione di democrazia data dal Pericle tucidideo (II, 37).
Lasciamo da parte, perché non direttamente qui in questione, l’estrema imprecisione e fastidiosa ambiguità del concetto stesso di ‘radici’. Diciamo solo che è proprio la confusa nozione di ‘radici’ che ha inasprito la discussione. La parte cattolica aspirava, per bocca dello stesso pontefice allora regnante, a ottenere adeguato spazio al riconoscimento esplicito delle ‘radici cristiane’. La Francia, nella persona dell’ex presidente della repubblica Giscard d’Estaing, oppose perplessità ‘laiche’ alle pressioni in tal senso. Mentre altre possibili ‘radici’ venivano prospettate, ivi compreso il ruolo della cultura araba che fecondò per secoli la Spagna, e l’inevitabile obiezione che comunque anche all’ebraismo spettava un riconoscimento (donde il temporaneo e stravagante compromesso ‘radici ebraico-cristiane’ con o senza trattino), la via d’uscita parve quella di ricorrere a un caposaldo della tradizione classica: appunto la democrazia greca. Inizialmente l’infelicissimo preambolo dava più spazio al ‘classico’ e addirittura lo combinava con l’Illuminismo, nonostante la cesura costituita dalla querelle di cui l’Illuminismo è figlio. Nella stesura della Costituzione europea diffusa dalle agenzie il 28 maggio 2003, il secondo capoverso presentava infatti dopo le parole «eredità […] umanistiche dell’Europa» alcuni righi che il 13 giugno erano già scomparsi. Eccoli: «nutrita inizialmente dalle civiltà elleniche [sic] e romana […] poi dalle correnti filosofiche dei Lumi» (ANSA, 28 maggio 2003, 18.01). La richiesta cattolica di ‘radici cristiane’ ha fatto cadere tanto i Greci e i Romani quanto i Lumi. Alla fine ci si limitò a un motto e fu preso in considerazione il testo più celebre anche se più frainteso (forse perché appannaggio non solo degli specialisti ma anche dei dilettanti), e cioè la definizione di democrazia che Tucidide fa pronunziare a Pericle nell’Epitafio, discorso che rappresentava il momento culminante delle cerimonie per i morti in guerra.
Accadde così che il Progetto di trattato che istituisce una Costituzione europea (adottato il 13 giugno 2003 e trasmesso al presidente del Consiglio europeo a Roma il 18 luglio 2003) si ritrovò corredato di un preambolo che, oltre ad accennare genericamente alle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa», era sovrastato da un motto ritagliato maldestramente, anche sul piano sintattico, da quel notissimo passo tucidideo. Ovviamente il collage venne tradotto nelle varie lingue dell’Unione. Le parole ritagliate e incollate erano crwvmeqa ga;r politeiva/ (pratichiamo un sistema politico) cui veniva unito un altro pezzetto di alcuni righi più in là kai; o[noma me;n dia; to; mh; ej~ ojlivgou~ ajll’ej~ pleivona~ oijkei’n dhmokrativa kevklhtai (e quanto alla denominazione, poiché funziona facendo riferimento al maggior numero, non ai pochi, si chiama democrazia). Amor di sintassi avrebbe sconsigliato l’operazione già per quel kaiv che denota l’inizio di un’altra frase.
La traduzione adottata fu: «La nostra costituzione è chiamata democrazia perché il potere [sic] è nelle mani non di una minoranza ma del popolo intero [sic]», pochi giorni dopo modificata in «non è nelle mani di pochi ma dei più». Nella versione tedesca si ebbe: «Die Verfassung, die wir haben heißt Demokratie, weil der Staat [sic] nicht auf wenige Bürger, sondern auf die Mehrheit ausgerichtet ist» (la Costituzione che noi abbiamo si chiama democrazia, perché lo Stato è orientato non verso pochi cittadini ma verso la maggioranza). Nella versione francese si leggeva: «Notre Constitution est appelée démocratie parce que le pouvoir [sic] est entre les mains non d’une minorité mais du plus grand nombre [sic]» (la nostra Costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma del più grande numero). Uno dei maggiori e più autorevoli quotidiani tedeschi, la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» pubblicò il 12 dicembre dello stesso anno un intervento molto critico di Uwe Walter (docente di storia antica a Bielefeld) efficacemente intitolato Giscard halbiert Thukydides (Giscard taglia a metà Tucidide). Walter fece notare che il ritaglio era fatto in modo tale da nascondere la prima parte della frase, dove il Pericle tucidideo afferma che, sul piano degli ordinamenti, Atene non rassomiglia a nessun’altra comunità e semmai è essa stessa modello: un’anticipazione del tema svolto da Pericle poco dopo (‘Atene maestra dell’Ellade’), che mal si accorderebbe con le proclamazioni di solidarietà e uguaglianza tra gli Stati – epicentro del ‘preambolo’ europeo – e che invece ben corrisponde alla «Aussenpolitik der tyrannischen Großpolis Athen» (alla politica estera della tirannica metropoli ateniese). Walter mise bene in luce il molto ricercato modo di esprimersi del Pericle tucidideo mirante a ridimensionare il più possibile l’impatto della parola democrazia e del concetto di dominio della ‘maggioranza’ (donde il duttile oijkei’n ej~, funzionare in rapporto a). Perciò – concluse – «Giscard und seine Truppe» (Giscard e la sua banda) sono del tutto indifferenti all’esatta interpretazione di quelle parole, utili, per loro, soltanto come «wohlklingende Garnierung» (ornamento dal suono dilettevole) del loro progetto costituzionale.
Bastava in verità rifarsi all’acuta, ampia nota esegetica di Jacqueline de Romilly, eccellente interprete tucididea, a quel passo per capire quanto esso fosse inadatto a un tale strumentale utilizzo. Dinanzi alla difficoltà che la traduzione di quel passo presenta, la de Romilly osservò che esso è costruito attraverso l’abile successione di varie rettifiche che via via incrinano il cauto assunto di partenza: «le nom démo-cratie pourrait suggérer l’autorité d’une partie de la population sur le reste: cette idée est corrigée par l’analyse du régime […] c’est qui explique le tour pris par la phrase suivante et l’adverbe ejleuqevrw~ qui l’introduit» (il nome demo-cratia potrebbe suggerire l’autorità di una parte della popolazione sulla restante parte: questa idea subisce perciò una correzione grazie all’analisi del tipo di regime […] ecco perché, subito dopo, viene adottato quel giro di frase nonché l’avverbio liberamente posto subito in apertura; Thucydide, texte et traduction par J. de Romilly, 1962, 2° vol., p. 96). La de Romilly coglieva perfettamente la tensione, per non dire polarità, che vi è in quel celebre passo tra de-mocrazia e libertà. Una tensione che all’alba del nuovo secolo si sta manifestando in forme ancora più acute che per il passato e – quel che qui più mette conto rilevare – nel generale riconoscimento, superate le ‘necessità’ propagandistiche del tempo della guerra fredda, di ammettere apertamente tale drammatica polarità. Non è superfluo far capo a un lettore come Platone, in grado come pochi di apprezzare il vero significato di questa tortuosa e limitante definizione della democrazia. Nel dialogo intitolato Menesseno, dove Platone attribuisce alla dotta etera Aspasia una dettagliata parodia dell’epitafio del suo grande amante Pericle, si giunge, a un certo punto, alla definizione della politeia ateniese. Aspasia dice: «C’è chi la chiama democrazia, chi altrimenti a suo piacimento; è, in realtà, una aristocrazia con il consenso del popolo» (238 CD: kalei’ de; oJ me;n aujth;n dhmokrativan oJ de; a[llo w/| a]n caivrh/, e[sti de; th/’ ajlhqeiva/ met’ eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa, traduce Louis Méridier, Platon. Oeuvres complètes, 1949, «mais c’est en réalité le gouvernement de l’élite avec l’approbation de la foule»). Kalei’ de; oJ me;n aujth;n dhmokrativan è diretta allusione al tucidideo o[noma me;n dhmokrativa kevklhtai. Quello di Platone-Aspasia è il miglior disvelamento di ciò che la lunga e contorta definizione periclea intende suggerire.
Nei primi giorni dopo la divulgazione della bozza di Costituzione europea – forse anche in seguito a una segnalazione apparsa in Italia («Corriere della sera», 29 maggio 2003) fu precipitosamente corretto l’erroneo «il potere è nelle mani del popolo intero». Più tardi «il potere» diventò «der Staat» (lo Stato). Ma il disastro era più profondo e non sanabile se non ammettendo che il vero Tucidide diceva il contrario di ciò che si pretendeva da lui. Perciò successivamente la frase scomparve. E poi la Costituzione stessa fu affossata dal referendum francese e da quello olandese (maggio-giugno 2005).
Resta il fatto che quella gaffe racchiudeva alcuni elementi di notevole interesse e rilievo. L’uso di Tucidide e più in generale di un presunto modello ateniese non era tanto un «ornamento eufonico» (U. Walter) quanto un modo piuttosto abile, anche se mal riuscito, di occupare uno spazio. Se avessero trovato di meglio, «Giscard und seine Truppe», vi si sarebbero appigliati. Ma la tradizione greca non offre che critiche della democrazia (a parte testi dialetticamente ‘aperti’ alle opposte soluzioni come Erodoto III, 80-83 ed Euripide, Supplici, 399-435). Sgomenti probabilmente e certo non inclini a chiedersi il perché di un così inquietante fenomeno, essi ripiegarono sull’epitafio tucidideo, oggetto, oltre che di importanti analisi scientifiche, anche di una diffusa interpretazione estatica dura a morire (il ‘manifesto della democrazia’!). E in questa accezione più ‘popolare’ essi lo adottarono, come riempitivo necessario: il richiamo al ‘classico’ avrebbe, così, dovuto soppiantare, con il suo primato espresso attraverso un’unica autorevole citazione anteposta in forma di motto, tutte le altre ‘radici’.
Una considerazione a margine va però fatta. Quella formulazione tucididea, piena di distinguo e di limitazioni rispetto alla drastica parola demokratía, ben si sarebbe accordata (ove presentata in forma esatta) con l’ormai prevalente senso comune ‘occidentale’ consistente nel dare per acquisito che la democrazia non può sussistere se letteralmente tale, ma solo come ‘regime misto’, innervata di poteri oligarchici e/o fondati su criteri di merito.
Un paradigma non greco per la democrazia
Ma prima di affrontare le ragioni e le implicazioni del contrasto con le altre ‘radici’ conviene dedicare attenzione a un’altra domanda strettamente pertinente alla pretesa peculiarità europea della ‘democrazia’ in quanto prodotto greco. Anche qui abbiamo assistito al riaprirsi di una discussione antica in termini di scottante attualità. Pochi giorni dopo l’affondamento della Costituzione europea, alla metà del giugno 2005, Amartya Sen, indiano e premio Nobel per l’economia nel 1998, oltre che attento studioso dell’attualità del pensiero di Aristotele come fonte di ispirazione a fronte della crisi mondiale innescata dal dilagare inarrestabile (finito il socialismo) del capitalismo selvaggio, pubblicò un importante saggio, ripreso in prima pagina dal «Corriere della sera» (16 giugno) con il titolo Democrazia, l’Occidente non ha il monopolio: «La democrazia è considerata per lo più una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico […]. Il voto è, in prospettiva, solo un elemento in un quadro molto più ampio. La democrazia ha origine assai prima dell’affiorare di pratiche rigidamente definite e precisamente collocate […]. La convinzione che la democrazia sia un’idea intrinsecamente occidentale è spesso ancorata alla pratica del voto nell’antica Grecia, in particolare ad Atene. [Qui l’allusione all’infelice preambolo di Giscard è evidente]. Questo è certo un primato ma il salto logico che porta a sostenere la natura tipicamente occidentale o europea della de-mocrazia genera solo confusione». Ironicamente soggiungeva che, posta l’antica Grecia come «parte in-tegrante ed esclusiva di una tradizione europea riconoscibile», vengono considerati, per es., i Goti o i Visigoti «legittimi eredi della tradizione greca» in quanto ‘europei’, «mentre si fa fatica a prendere atto dei legami intellettuali tra greci e antichi egizi, iraniani, indiani [basti pensare alla cattiva accoglienza riservata al libro di M. Bernal, Black Athena], malgrado l’interesse che gli stessi antichi greci mostrarono nei confronti di questi ultimi (piuttosto che dei Visigoti!)». «Il confronto pubblico fiorì sì nell’antica Grecia ma lo stesso accadde anche in altre civiltà antiche» concludeva Sen. Ed evoca, a titolo di esempio, i cosiddetti consigli buddhisti testimoniati in India sin dal 6° secolo.
Senza forse rendersene conto, Sen rinnova, all’alba del 21° sec., la discussione che si svolse tra Erodoto, greco d’Asia, e il pubblico ateniese, quando Erodoto lesse, ad Atene, il resoconto del dibattito svoltosi alla corte persiana nell’anno 522 a.C. (cioè ben prima della riforma di Clistene): dibattito nel corso del quale un notabile, Otanes, avrebbe proposto l’instaurazione della democrazia in Persia. Gli Ateniesi – lamentava Erodoto – non gli credettero. Ma lui ribadisce, due volte, la sua poco ‘occidentale’ verità. Così Sen; le cui osservazioni, quantunque espresse con il consueto garbo, scardinano il pregiudizio eurocentrico e occidentalistico di un rapporto privilegiato tra Grecia, dunque Europa, dunque Occidente, e ‘democrazia’.
È un pregiudizio che determina errori di prospettiva tipici del nostro mondo. Un altro notevolissimo osservatore di origine e cultura indiana ma molto esperto di Occidente, Raimon Panikkar, così felicemente lo analizza, in uno scritto apparso sul finire del 20° sec.: «L’occidentalcentrismo. Il termine democrazia ha avuto tre brevi secoli di vita, peraltro molto marginale, nella Grecia antica, dal 500 al 200 a.C., scomparendo poi di fatto dal mondo occidentale per un lunghissimo periodo, ed è risorto lentamente molto più tardi, fino alla sua consacrazione a partire dalla Rivoluzione francese (almeno in quello che gli inglesi chiamano il Continente). Nelle Isole britanniche ha conservato un senso piuttosto peggiorativo sino alla fine dell’Ottocento. E ancora due secoli fa, Kant scriveva nel suo libro La pace perpetua (Zum ewigen Frieden, 1795) che la democrazia è la via che porta al dispotismo. Il monoculturalismo che ancora caratterizza il mondo occidentale è la causa della mancanza di seri studi su altre forme di comprensione e di esercizio della politica (nel senso classico del termine) in civiltà diverse dalla nostra, il che ci fa cadere spesso nel falso dilemma democrazia o dittatura» (1996; trad. it. 2000, p. 5).
Confronto con l’Islam
Radici islamiche per l’Europa?
Si sono dunque affrontati, all’incirca negli anni in cui è nato ed è poi andato in crisi il tentativo di Costituzione europea, due opposti e forti richiami al ‘classico’, al modello della Grecia classica, come ancoraggio e come pietra di paragone delle trasformazioni e soprattutto dei conflitti presenti. Il conflitto più intenso e gravido di conseguenze, anch’esso giocato in una consapevole circolarità passato/presente, è però di sicuro quello tra Occidente (Europa) e Islam (mondo arabo). Anche qui la questione delle cosiddette radici ha giocato un ruolo di detonatore. Si poteva ignorare che l’Europa fosse ‘figlia’ anche della riappropriazione, dovuta in non piccola misura al contributo arabo, del pensiero filosofico e scientifico greco? Persosi in Occidente, esso ritornò in Europa, tra l’altro grazie alla presenza, feconda e tuttora potentemente testimoniata, della cultura araba in terra di Spagna. Il filtro delle traduzioni dal greco al siriaco, dal siriaco all’arabo, dall’arabo al latino aveva agevolato il ritorno di Aristotele in Occidente.
Era forse difficile, in anni di conflitto planetario tra l’Occidente e settori non marginali del mondo islamico, affrontare questa domanda con serenità. Quasi mai le domande con cui si cimentano gli storici sono neutre o indolori. Questa lo è meno di molte altre. Non è dunque un caso che un contributo apparentemente dotto e molto settoriale relativo alle traduzioni da Aristotele realizzate a Mont-Saint-Michel nel 12° sec. sia diventato di recente motivo di battaglia anche oltre l’ambito universitario francese dove la questione era sorta. Si tratta del saggio di Sylvain Gouguenheim (2008), rumorosamente lanciato dall’editore Le Seuil (e da «Le Monde»), con eloquente sottotitolo Les racines grecques de l’Europe chrétienne.
Il tono con cui «Le Monde» (4 apr. 2008) ha lanciato il volume non può certo definirsi neutrale. I titoli sono appena un po’ problematici – Et si l’Europe ne devait pas ses savoirs á l’Islam? –, ma il testo dell’articolo-recensione è sin dall’inizio uno squillo di battaglia: «Strabiliante rettifica dei pregiudizi correnti questo studio di Sylvain Gouguenheim». Il lato positivo di questo saggio del brillante e dotto medievalista dell’École normale de Lyon consiste nella ricostruzione dell’attività svolta, dapprima a Costantinopoli, poi nell’eremo di Mont-Saint-Michel (1127-1150), dal monaco greco Giacomo detto da Venezia. A questo greco si deve la traduzione in latino di Metafisica, De Anima, Secondi analitici, Fisica. Di queste ultime due traduzioni – nota Gouguenheim – si sono conservati molti manoscritti: il che vuol dire che si trattò di opere di larga circolazione. Il punto debole invece è il tentativo di trasformare con fragore polemico questo fatto in una specie di leva in grado di capovolgere l’interpretazione di un’intera epoca della storia della tradizione dei testi greci. Ecco perché l’autore ha bisogno di enfatizzare la conoscenza del greco in Occidente. Ma lo fa mescolando dati e date: il che non è buon metodo. La notizia della richiesta, rivolta al pa-pa Paolo I da parte di Pipino il Breve, di un esemplare della Retorica di Aristotele, negli anni 758-760, non cambia certo il dato della progressiva scomparsa in Occidente dei testi greci e delle persone in grado di leggerli. Non si dimenticherà che, circa un secolo più tardi, al tempo di Niccolò I e Adriano II, in tutto l’Occidente ‘latino’ una sola personalità legge e traduce il greco: Anastasio bibliotecario, inviato proprio perciò a Costantinopoli come osservatore dei lavori del drammatico nonché controverso Concilio ecumenico VIII (Costantinopolitano IV, 869-870), per fortunose e fortuite circostanze traduttore molto autocritico di quegli ‘atti’ conciliari.
Ancor più colpisce per l’ingenuità polemica, la seguente precisazione, cui in questo libro viene dato spazio: Ḥunayn ibn Isḥāq (809-873), siriano probabilmente cristiano, attivo ad Alessandria sotto sovranità araba come leader di una scuola di traduttori e commentatori di Galeno non era musulmano. Con questo genere di osservazioni la questione si sposta su di un altro piano: non si tratta più di dimostrare la permanenza dei filosofi e degli scienziati greci in Occidente (visto che Ḥunayn fu attivo ad Alessandria e lì esercitò il suo importante influsso) ma di rivendicare, alquanto buffamente, che non abbiamo debiti verso un musulmano ma, comunque, verso un cristiano!
È facile capire quale sia la carica polemica sottintesa di questo ‘assalto’ revisionistico alla storia della tradizione dei testi greci, in pieno ‘conflitto di civiltà Occidente/Islam’ acuitosi ed esasperatosi dal 2001. Contro questa impennata c’è stata una reazione vivace. Dopo venti giorni «Le Monde» (25 apr.) ha dovuto intervistare Gouguenheim, per consentirgli di fare marcia indietro («mi si attribuiscono intenzioni che non ho, non nego l’esistenza della trasmissione araba all’Occidente dei testi greci, segnalo però anche il caso di Giacomo da Venezia»), e ha dovuto dare la parola ai suoi critici, i quali hanno parlato di «dimostrazione sospetta». La realtà dei fatti viene, così, ripristinata: «Nelle scienze del quadrivio» essi scrivono «soprattutto in matematica e astronomia, la produzione dotta del mondo islamico, tra IX e XIII secolo, è infinitamente più importante di quella del mondo bizantino. Nel suo tentativo di demistificare l’ellenizzazione dell’Islam, Sylvain Gouguenheim confonde musulmano e islamico». E viene fuori anche un dettaglio che dà bene l’idea del carattere engagé di questa aspra vicenda, il ‘ringraziamento’ dell’autore a René Marchand, autore di violenti pamphlets antislamici.
Chi distrusse la Grande Biblioteca?
Non minore l’engagement da parte araba. Un esempio interessante è dato dagli studi egiziani che si ergono a difensori retroattivi della cultura classica, nella vexata quaestio, sempre ritornante, delle ‘responsabilità’ nella distruzione della Grande Biblioteca di Alessandria, creata e potenziata dai primi Tolomei. Non è soltanto una questione di rivalsa tra culture, c’è di mezzo un problema storico, centrale in tutta la storia intellettuale del mondo classico. Stabilire infatti quando effettivamente quella grandissima raccolta libraria andò in fumo significa anche tratteggiare in un modo o in un altro (a seconda delle soluzioni) le vicissitudini della più completa e meglio curata raccolta della letteratura classica. Immaginarne la scomparsa nel 1° sec. a.C. o invece quasi quattro secoli dopo, alla fine del 3° sec. d.C., o addirittura del 7°, significa cambiare di conseguenza il nostro apprezzamento sulla qualità della tradizione greca giunta a noi. Se il mondo classico fu così precocemente orbato della Grande Biblioteca questo sarebbe un fattore decisivo in rapporto alla qualità della superstite tradizione greca.
La distruzione della Biblioteca di Alessandria è comunque una delle ferite più grandi patite dalla civiltà, non solo occidentale. È questa la ragione per cui se ne discute ancora, con passione e spirito di parte. Ciclicamente si ripresentano due ipotesi: la catastrofe fu dovuta a Giulio Cesare ovvero la distruzione fu dovuta al fanatismo degli arabi (in particolare del conquistatore di Alessandria, nel 642 d.C., ῾Amr ibn al-῾Asi).
In questa vicenda si possono distinguere ben tre momenti: 1) l’incendio cesariano (48/47 a.C.), che determinò danni marginali; 2) la guerra di Aureliano (270-275 d.C.) contro Zenobia, nel corso della quale fu raso al suolo il quartiere alessandrino detto del Bruchion dove era la reggia e dunque, all’interno della reggia, la antica e gloriosa Biblioteca dei Tolomei (Ammiano Marcellino, XXII, 16, 15); 3) la conquista araba di Alessandria (642 d.C.) e la conseguente distruzione della nuova biblioteca, che si era formata nel corso del 4° sec. intorno alla scuola filosofico-matematica di Alessandria.
Da parte araba il tema è stato ripreso ancora una volta assai di recente, con un volume collettivo, coordinato dall’attuale direttore della ‘nuova’ Bibliotheca Alexandrina, Ismail Serageldin (What happened to the ancient library of Alexandria?, 2008). Gli altri curatori sono Mostafa El-Abbadi, già autore vent’anni fa di un saggio sullo stesso tema tutto rivolto a riversare sull’incendio cesariano di Alessandria (48 a.C.) la responsabilità della distruzione, e Omnia Fathallah, anch’ella docente in Egitto. Il libro è sintomatico dal punto di vista della sottile manipolazione dei dati.
Tra i saggi compresi nel volume, quello sull’incendio del 48/47 a.C. è dovuto a uno studioso statunitense, William J. Cherf (Earth, wind, and fire: the alexandrian fire-storm of 48 B.C.). Egli cerca di barcamenarsi. Mostra di credere, per es., che nel frammento di Livio, nel quale si parla dei libri distrutti nel 48 a.C., sia possibile leggere tanto 400.000 quanto 40.000, mentre è noto che 400.000 è erronea congettura umanistica dovuta a Don Fernando Nuñes de Guzman, detto Nonnius Pincianus (Cherf pensa che Pincianus sia un manoscritto!). Ma in ogni caso l’inutile congettura è confutata dal passo parallelo di Orosio (VI, 15, 31), il quale dipende anche lui da Livio e dà la cifra 40.000. Cherf ammette che nessuna fonte contemporanea parla dell’incendio dei libri. Riconosce che su base archeologica Jean-Yves Empereur (l’intervento del quale figura subito dopo nello stesso volume: The destruction of the library of Alexandria: an archaeological viewpoint) ha rilevato che la distruzione dovrebbe porsi nel 2°-3° sec. dopo Cristo. Per estrema prudenza si attesta, in conclusione, su questa formula: «In definitiva, fin dove si sia spinto il fuoco [nel 48 a.C.] e se esso abbia distrutto o quanto meno danneggiato in parte la Grande Biblioteca, rimane incerto» (p. 71) e ammette (nota 67) che prima di Plutarco (vissuto 150 anni dopo i fatti) nessuno parla di distruzione cesariana dei libri di Alessandria. Quindi, registra un pensiero di Peter Marshall Fraser, il quale nel famoso Ptolemaic Alexandria (1972) aveva affermato (a torto!) che «in epoca imperiale» quando si parla di biblioteca alessandrina ci si riferisce in realtà al Serapeo e aveva perciò dedotto che la Biblioteca Regia fosse «per lo meno gravemente compromessa nell’incendio del 48 a.C.». Cherf sembra prudentemente allinearsi («l’autore ritiene che l’affermazione di Fraser sia difficilmente confutabile», p. 72), ma poi soggiunge, in un divertente zig-zag, «in conclusione, se la Grande Biblioteca sia sopravvissuta o no alla violenza del Bellum Alexandrinum del 48 a.C. non può essere dimostrato» (p. 72). Dunque alla fine si discosta dalle conclusioni di Fraser.
Nell’introduzione generale al volume, Serageldin scrive: «Dr. Cherf (USA), dopo un’approfondita analisi del Bellum Alexandrinum di Cesare del 48 a.C., conclude avallando l’affermazione di Peter Fraser: “noi siamo legittimati a supporre che il contenuto della Biblioteca Regia, se non andò completamente distrutto, per lo meno fu gravemente compromesso nell’incendio del 48 a.C.”» (pp. VII-VIII). Questo significa forzare la mano a un autore. Cherf si era sforzato di restare in equilibrio nella posizione del non liquet, e invece il direttore Serageldin lo spinge tutto da una parte. Oltre tutto, lo fa sulla base di un argomento errato. Basti ricordare che il papiro Merton 19 (documento datato 31 marzo del 173 d.C.) parla di un «Valerio Diodoro sotto-bibliotecario del Museo». E c’è comunque la classica testimonianza di Strabone (XVII, pp. 793-94), il quale descrive il «Museo» e i «filologi» che lo abitano, oltre venti anni dopo la guerra alessandrina. Il che dimostra l’infondatezza dell’affermazione di Fraser evocata e tuttavia superata dal pur trepidante Cherf, ma imposta a Cherf come ‘conclusione’ da Serageldin. Il bello è che queste fonti, le quali smentiscono l’affermazione di Fraser, erano state segnalate e commentate quasi un quarto di secolo fa da Bertrand Hemmerdinger nell’articolo più importante scritto, in tempi recenti, sull’argomento: Que César n’a pas brûlé la Bibliothèque d’Alexandrie («Bollettino dei classici», 1985, 6, pp. 76-77; cit. nella bibliografia del tomo diretto da Serageldin, p. 230).
Questa storia è istruttiva. Dimostra che ancora oggi, anno di grazia 2009, in area araba o filoaraba, è sconsigliato dubitare della distruttività dell’incendio cesariano per quanto attiene alla Biblioteca alessandrina; e che se per caso qualcuno adombra la verità, gli può ugualmente andar male: ciò che pur timidamente scrive gli viene modificato d’autorità.
Che il tema sia considerato ‘delicato’ e suscettibile di reazioni vivaci si era già notato fin dai primi anni Novanta del Novecento, quando La biblioteca scomparsa, opera di Luciano Canfora del 1986, fu oggetto di attacchi addirittura da parte del quotidiano cairota «al-Ahrām»: anche quel libro, pur collocando la fine della grande Biblioteca al tempo di Aurelia no, era ‘colpevole’ di parlare delle distruzioni che erano avvenute nel 642 d.C.
La distruzione araba di quel che restava nel 7° sec. della Biblioteca alessandrina è narrata da fonti arabe tarde, la più importante è Abū ’l-Faraǧ/Bar Hebraeus. Sulla qualità dell’informazione discuteva già Edward Gibbon. Nel ricordato, recentissimo, volume sulla Biblioteca alessandrina prefato da Serageldin il capitolo conclusivo affidato al noto arabista filoarabo Bernard Lewis (The arab destruction of the library of Alexandria: anatomy of a myth) è particolarmente aspro nel tentativo di togliere ogni valore a quella tradizione. Può essere utile ai lettori sapere che tale capitolo altro non è che la copia quasi integrale di un intervento già pubblicato dallo stesso Lewis, ossia The vanished library («New York review of books», 1990, 37, p. 14) con una singolare e anche un po’ furbesca integrazione di un paio di periodi nei quali si istituisce un improbabile paragone tra la tradizione nota a Bar Hebraeus e i malfamati Protocolli dei Savi di Sion. Una trovata per zittire eventuali critici ebrei? Comunque un evidente ‘ammiccamento’ attualizzante.
Nel trattare materia di questo genere ogni nervosismo è sospetto, oltre che inutile. Meglio sarebbe soffermarsi sulle pacate pagine di Edward Alexander Parsons (The Alexandrian library, glory of the Hellenic world, 1952; cap. XVIII e appendici), dove la materia è bene ordinata e soppesata. È ben difficile negare che quanto sopravviveva ad Alessandria delle antiche raccolte librarie greche sia stato distrutto in epoca araba. L’interrompersi, con la fine del 7° sec., di materiale scritto in greco proveniente dall’Egitto costituisce di per sé una prova oggettiva. È un dato che denota una cesura, dovuta appunto alla novità della conquista e del dominio arabo. Che in un secondo momento (dal 9° sec. in avanti) gli arabi abbiano recuperato un rapporto positivo con la cultura greca, soprattutto scientifica e filosofica, non fa che confermare lo iato di cui stiamo parlando. Ma è poi tanto arduo ammettere che anche i musulmani, al pari dei cristiani, siano entrati nella storia in nome di una drastica e iconoclastica ‘rivoluzione culturale’ mirante a fare del passato table rase? Entrambi misero del tempo a ravvedersi, come prima o poi è accaduto, per fortuna, a ogni rivoluzione.
Attualizzazioni narrative
Storia e narrazione
La fruizione letterario-narrativa dell’antichità – altro aspetto della vitalità del ‘classico’ – non ha avuto soste, e ogni volta il narratore ha ritagliato la parte di antichità giovevole al suo disegno ideologico-letterario attuale. Questo vale già per la moda innescata dal grande modello delle Lettres Persanes di Montesquieu (1721), con le loro numerose imitazioni: una spia persiana nell’antica Atene durante la guerra peloponnesiaca (Ph. Yorke, Ch. Yorke, Athenian letters, or the epistolary correspondence of an agent of the king of Persia, 1741), un viaggiatore gallico nella Roma di Augusto (L.Ch. Dezobry, Rome au siècle d’Auguste, ou Voyage d’un gaulois à Rome, 1835). E vale per il 19° sec.: dal romanzone edificante-cattolico del polacco Henryk Sienkiewicz (Nobel 1905), autore dell’indigesto Quo vadis? (trad. ingl. 1896; trad. it. 1899) al torrenziale romanzo völkisch largamente antiromano di Felix Dahn, Ein Kampf um Rom (1876) in sintonia con la rinascita dell’impero tedesco. Ma il filo conduttore di questo interessante genere letterario ‘parassitario’ è molto più lungo, e prosegue nel secolo successivo ben oltre il ‘romanzo professorale’ (Professoren-Roman), di cui Ein Kampf um Rom fu considerato l’esempio più riuscito. Nonostante il carattere caduco di numerosi tra questi prodotti, è giusto riconoscere che il ‘romanzo su materiale classico’ è stato, e continua a essere, un rivelatore diagnostico di notevole efficacia: era un modo di far emergere aspetti della realtà antica non ignoti certo al sapere accademico ma lasciati ai margini di una visione troppo armoniosa – per non dire, in certi casi, arbitrariamente selettiva e retorica, in fondo ‘classicistica’ – del mondo antico. Questo avviene, come sempre, attraverso una circolarità tra progressi del sapere scientifico, correnti di pensiero, spinte ideologiche e capacità creativa. Se si considera poi che Theodor Mommsen considerava ‘romanzesco’ il tono e la stessa trama narrativa di The history of the decline and fall of the Roman Empire di Edward Gibbon (1776-1788), non sarà male osservare, di passata, che sin dalle origini erodotee il diaframma tra storia e narrativa è stato alquanto debole se non incerto.
La schiavitù sotto la lente del narratore
Esempio significativo della circolarità ora ricordata e delle reciproche interferenze che essa determina è la visione della schiavitù di età classica quale si manifesta nel cristiano polacco Sienkiewicz alla fine dell’Ottocento e alla metà del Novecento nel comunista americano Howard Fast, autore del celebre Spartacus (1951; trad. it. 1954), da cui trasse ispirazione Stanley Kubrick (Spartacus, 1960). Che il Novecento, nella sua seconda parte, sia stato dominato dalla questione sociale e dalla proposta comunista di soluzione dell’inesausto problema è cosa nota. Non sfuggirà che negli anni Cinquanta-Settanta del Novecento non solo si estende l’influenza culturale e pratica del comunismo come movimento politico e come potenza nello scenario internazionale ma anche, al suo interno, si favoriscono, in contrapposizione consapevole al tradizionale sapere accademico, nuovi studi sulla schiavitù di età classica. Tema non assente certo dal panorama degli studi e anzi ritornato d’attualità soprattutto intorno al 1848 grazie all’abrogazionismo in lotta contro la sopravvivenza moderna della schiavitù – Henri Wallon, Victor Schoelcher –, ma ora ripreso, nonostante tutti gli ammonimenti a diffidare di analogie e cortocircuiti, con rinnovato e pugnace vigore. L’idea sottesa era che si trattasse del prodromo ovvero sfortunato modello del grande conflitto di classe in atto, percepito, a torto o a ragione, come il ‘conflitto principale’ di tutta la realtà contemporanea. È questo contesto che fa diverso lo Spartacus di Fast rispetto a libri precedenti di analogo soggetto. Non dimenticherà, però, lo studioso che cerchi di ricostruire questa vicenda intellettuale, che la produzione scientifica realizzata su questa materia, in quei decenni, dall’Europa dell’Est aveva suscitato anche un’utile (anch’essa unilaterale) risposta da parte dell’antichistica occidentale, soprattutto tedesco-occidentale e statunitense, volta a far emergere altri aspetti della realtà schiavistica antica: non solo la ferocia e la lotta ma anche la via ‘umanistica’ (J. Vogt, Sklaverei und Humanität im klassischen Griechenland, 1953; trad. it. in L’uomo e lo schiavo nel mondo antico, 1969), derisa forse a Est ma non inesistente, anche se minoritaria, in quel coacervo contraddittorio che fu la realtà antica.
L’irruzione dell’irrazionale
Il più anticlassico, o ‘dionisiaco’ nel senso di Die Geburt der Tragödie di Friedrich Nietzsche, dei libri che hanno segnato lo studio dell’antichità nella secon-da parte del Novecento è stato The Greeks and the ir-rational di Eric Dodds, apparso a Oxford esattamente a metà del 20° sec. (1951; trad. it. 1959). Non è qui il luogo per indicarne le fonti di pensiero, ma è certo che quel libro ha disperso definitivamente la lettura rasserenante del mondo greco (e forse più in generale del mondo classico). Si può dire che tutta la rinnovata attenzione all’Es in antitesi rispetto alla limpidezza olimpica si coagula in quel libro. Orbene, il rinnovamento che ne derivò ha influenzato – forse senza diretta consapevolezza – la nuova narrativa su materiale classico che si è vista fiorire alla fine del Novecento e in questi inizi del nuovo secolo. L’anello intermedio, ammesso che si possano azzardare ipotesi genealogiche in un campo così poco studiato è stato il cinema: l’Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini e il Fellini Satyricon (1969) di Federico Fellini, film diversissimi ma pervasi da un’inquietudine connessa al sacro e da una pulsione irrazionale descritta con la forza delle immagini, la più efficace nel sortire effetti di lunga durata sulla narrativa. L’intuizione dei due grandi artisti ha svolto un ruolo ben preciso: le loro letture classiche non erano eccelse, eppure hanno colto l’essenziale che veniva maturando altrove, nei luoghi perlopiù appartati della ricerca. Dove, peraltro, un filone mai esauritosi, quello delle cosiddette antichità, aveva affrontato più da vicino i Realien (i dati fattuali) delle società antiche senza preclusioni o selettività ‘classicistiche’: da Cane del popolo: uomini e cose del mondo antico di Ugo Enrico Paoli (1947) a Les bas-fonds de l’antiquité di Catherine Salles (1982; trad. it. 1983), fino al recente saggio di Umberto Albini, Atene segreta (2002).
Nella massa sterminata di produzione narrativa di consumo si vogliono in questa trattazione trascegliere due esempi: El ojo Dindymenio (1993; trad. it. L’occhio di Cibele, 1997) di Daniel Chavarría e Pompeii di Robert Harris (2003).
In particolare Chavarría, uomo avventuroso e genialmente caotico, prese le mosse da un’epigrafe trovata in Attica, dunque da una singola testimonianza per quanto preziosa, per approdare a una rappresentazione della società intellettuale politica artistica dell’Atene del 430 a.C. dove il culto di Cibele e le persone invasate dalla dea e attive nel suo culto appaiono davvero onnipresenti. Delicata questione che anche qui si ripresenta (come a suo tempo di fronte al fenomeno schiavitù) se sia legittimo – più per il narratore che per lo storico – ricostruire un intero da un frammento di testimonianza: questo ci restituirà un pezzo sommerso della realtà antica o rischierà di forzarla con l’aiuto della fantasia? Certo l’Atene dell’epitafio pericleo che «filosofeggia senza mollezza» è un’invenzione. Proprio ad Atene invece il mondo dei misteri e della violenza innescata dal raptus religioso traspare da molti altri dati: dalle vicende dell’anno ‘scandaloso’ (415 a.C.) alle Baccanti di Euripide.
Il moderno narratore si prende molte libertà, mette insieme fonti disparate e cronologicamente distanti, interpreta e supplisce, colma i ‘vuoti’ con l’immaginazione sorretta dalla fantasia. Ma le procedure dello storico del mondo classico alle prese con la frammentaria e largamente carente documentazione non sono qualitativamente tanto diverse. Chavarría, attraverso l’intreccio romanzesco ruotante intorno ad Alcibiade, ha inteso mettere in luce un fenomeno storico importante: la diffusione del culto asiatico (orgiastico e misterico) di Cibele, la grande Madre degli dei, nel mondo classico, in Grecia in ispecie. Perciò rende noti in apertura i due testi che lo hanno suggestionato: il lancio nel ‘baratro’ di un sacerdote di Cibele (430 a.C.) colpevole di aver iniziato donne attiche ai misteri della ‘Gran Madre degli dei’, il rinvenimento di un frammento epigrafico di epoca romana proveniente dalle miniere del Laurion, dove uno schiavo-minatore aveva inciso queste parole: «Io Xanto il Licio, schiavo di Caio Orbo, ho costruito un tempio di Men Tyrannos, per ordine del Dio» (Men Tyrannos è una divinità lunare della Frigia).
Cittadinanza ed esclusione
Schiavi, donne e culti misterici. Nonostante tutta la storia e le suggestioni torbide di varia provenienza che il rigoglioso narratore uruguaiano immette nel torrenziale racconto, c’è alla base un’intuizione storiografica che non è stata sempre presente nella storiografia ‘alta’: la consapevolezza cioè di un fermento costante del mondo degli esclusi dalla città ufficiale ancorata alla ristretta gestione del bene prezioso della cittadinanza e ‘cantata’ negli oleografici epitafi degli oratori ufficiali ateniesi e dagli storici moderni meno avveduti. I culti non ufficiali, anzi malvisti e temuti e se del caso repressi, sono il cemento e il presupposto di una solidarietà quasi settaria tra gli esclusi dalla città ufficiale. È un’esperienza che vediamo affiorare nella Roma repubblicana nella vicenda culminata nel Senatoconsulto sui Baccanali, il cui presupposto è che dietro l’immissione e propagazione nel mondo femminile e schiavile dei nuovi culti ci fosse una congiura con finalità politiche. Ossessione del ‘complotto’ che nasce quando si contrappongono mondi che non solo non comunicano ma, appunto, si fronteggiano. Anche i moderni storici ogni tanto ne sono vittime, se solo si considera che negli anni Venti del Novecento parve plausibile ipotizzare, sulla base di un cenno di Ateneo alla rivolta dei minatori del Laurion nel 133 a.C., che una ‘internazionale rossa’ ante litteram collegasse, in quanto cronologicamente concomitanti, la ribellione di Aristonico in Asia, la rivolta dei minatori dell’Attica e la rivolta, lunghissima e ardua da reprimere, degli schiavi in Sicilia.
L’altra interessante intuizione di Chavarría è la sua raffigurazione di Alcibiade frequentatore del mondo ‘basso’ del culto di Cibele e delle sue orgiastiche adepte, ma alla fine arroccato nella difesa del culto poliade di Atena. Alla base c’è la solida ma ferocemente ostile tradizione contemporanea (Antifonte, fr. 4 Gernet; Lisia, fr. 8 Carey) sull’iniziazione sessuale di Alcibiade nella città asiatica di Abido, che non può non suggerire l’accostamento con il legame fortissimo di Pericle, archetipo politico del più giovane suo congiunto Alcibia-de, con la celebre etera di Mileto, Aspasia (tenacemente accusata dalle fonti di ‘allevare prostitute’ e anche di ‘ateismo’ dal bigotto ‘ateniese medio’ Ermippo).
Diversamente dall’ex guerrigliero e ‘irregolare’ Chavarría, Harris, autore del fortunatissimo Pompeii, grande fabbricante di narrativa di successo, ci dà un prodotto tecnico: basti pensare ai suoi precedenti successi, Fatherland (1992; trad. it. 1992), ma anche Selling Hitler (1986; trad. it. I diari di Hitler, 2001), il libro-inchiesta che smascherò i falsi diari di Hitler – purtroppo presi per buoni e avallati da uno storico professionale di tutto rispetto come Hugh Trevor-Roper. Pompeii è tecnicamente impeccabile, sufficientemente felliniano nella ricostruzione della deriva morale del mondo romano del 1° sec. d.C., non in-denne dal grande modello di Robert Graves (Claudius, the god and his wife Messalina, 1934; trad. it. Il divo Claudio e sua moglie Messalina, 1974), originale nella trovata di un complotto – travolto dalla catastrofe naturale – fondato sul lucroso commercio dell’acqua. In sostanza però il tutto è ancorato al banale presupposto della storia che si ripete. È ovvio che la corruzione politica, con tutte le sue diramazioni (personali, estetiche ecc.), è un campo che si presta molto all’eterna e rassicurante voglia di tautologia; ma non è quello del nihil sub sole novi il senso e il vantaggio del ritorno del ‘classico’.
Bibliografia
M. Bernal, Black Athena, 3 voll., New Brunswick (N.J.)-London 1987-2006.
R. Panikkar, Fondaments de la democràcia: força i feblesa, in Els límits de la democràcia, XIII Universitat d’Estiu, Andorra 1996 (trad. it. I fondamenti della democrazia: forza, debolezza, limite, Roma 2000).
F. Millar, The crowd in Rome in the late Republic, Ann Arbor 1998.
M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.) 2000 (trad. it. Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, Milano 2000).
R. Harris, Pompeii, London 2003 (trad. it. Milano 2003).
E.J. Hobsbawm, Imperialismi, Milano 2007.
L. Fezzi, La corda rossa: la democrazia ateniese e il Deliberative Polling di James S. Fishkin, «Comunicazione politica», 2008, 9, 1, pp. 49-60.
S. Gouguenheim, Aristote au Mont-Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne, Paris 2008.
What happened to the ancient library of Alexandria?, ed. M. El-Abbadi, O. Fathallah, preface by I. Serageldin, Leiden-Boston 2008.